Altri tre suicidi nelle carceri: sono già 39 dall’inizio dell’anno di Francesco De Felice Il Dubbio, 20 luglio 2023 La tragica lista dei morti in carcere continua ad allungarsi e il caldo di queste settimane acuisce una situazione già molto compromessa. Domenica è deceduto Paolo Ledda, farmacista di Alghero di 57 anni, nel carcere di Cagliari-Uta, dove era stato trasferito da Sassari perché solo nel penitenziario del capoluogo c’è il Servizio di assistenza intensiva. Maria Grazia Caligaris, la presidente di Sdr, Socialismo diritti riforme, nel dare la notizia denuncia le condizioni dei detenuti che hanno problemi psichiatrici come Ledda “tenuti inermi nelle celle con psicofarmaci”. Nell’ultima settimana, poi, si sono registrati altri tre suicidi. Sempre domenica un detenuto di 25 anni, originario di Noto, si è suicidato nel penitenziario di Ragusa. Subito dopo avere appreso la notizia, gli altri reclusi dei tre piani del reparto penale hanno inscenato una protesta battendo e lanciando oggetti nei corridoi. Venerdì è stata la volta di un detenuto marocchino di 47 anni che si è tolto la vita a Sollicciano, mentre il giorno prima a Parma sarebbero stati vani i tentativi del compagno di cella per salvare un uomo di 42 anni che aveva inalato il gas del fornelletto. E così dall’inizio dell’anno, secondo le statistiche di Ristretti Orizzonti aggiornate al 17 luglio, sono 39 i suicidi, per un totale di 81 decessi in carcere. I garanti continuano a denunciare le condizioni di invivibilità delle nostre carceri, dovute soprattutto al sovraffollamento e alle precarie condizioni igienico- sanitarie dei penitenziari. Il Garante del Lazio, Stefano Anastasìa, ricorda che le condizioni metereologiche “rasentano i limiti della sopportabilità umana negli istituti penitenziari che presentano condizioni di sovraffollamento. Inoltre, bisogna considerare che i tassi di affollamento calcolati in base alla “capienza regolamentare” dei singoli istituti già comunque superiori al 100% in due strutture su tre nel nostro Paese, non sono sufficienti da soli a rendere conto con precisione della situazione effettivamente presente”. Infatti, come più volte ribadito da Il Dubbio, bisogna considerare i posti effettivamente disponibili. A questo proposito il Garante Anastasìa ricorda che “alla data del 30 giugno, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono oltre 3.600 i posti complessivamente non disponibili negli istituti penitenziari a causa di degrado, lavori di ristrutturazione e riammodernamento in corso, esigenze di sicurezza, igienico sanitarie o logistiche. I tassi di affollamento andrebbero calcolanti conseguentemente e con più attinenza alla realtà in base al numero effettivo di posti disponibili e in tal caso il dato medio nazionale passa dal 112% al 121%. Infatti, laddove si analizzano con maggiore approfondimento e articolazione le singole situazioni emerge che in poco meno della metà degli istituti penitenziari i tassi di affollamento effettivi superano il 125% e sono ben 32 quelli in cui i valori superano il 150%. In particolare, ve ne sono alcuni, come San Vittore a Milano, Foggia, Busto Arsizio (2), Monbello di Brescia, Como, Bari, Pesaro e Verziano di Brescia dove centinaia di persone sono stipate in strutture che presentano tassi di affollamento superiori al 170%”. E a proposito dell’ondata di caldo il Garante calabrese, Luca Muglia, ha inviato una nota al Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, ai Direttori degli istituti penitenziari, al Capo del Dap e ai Presidenti dei Tribunali di sorveglianza. Il Garante Muglia ha chiesto di “adottare una serie di misure per alleviare la sofferenza dei detenuti come la sospensione delle ore d’aria dalle 13.00 alle 15.00 e il loro spostamento nel tardo pomeriggio; la rimodulazione degli orari di permanenza all’aria aperta, evitando le ore più calde e valutando lo slittamento in avanti delle ore d’aria pomeridiane; l’apertura delle porte blindate delle camere detentive nelle ore notturne per implementare la circolazione dell’aria ed ottenere maggior refrigerio; l’eliminazione di schermature e pannelli in plexiglass sulle porte di accesso delle camere detentive o sulle sbarre delle finestre esterne; il collocamento e/ o il potenziamento, nei cortili di passeggio, di punti idrici a getto o di nebulizzatori; la possibilità di acquistare, tramite l’impresa di mantenimento o la lista della spesa, ventilatori a batteria di dimensioni ridotte; la possibilità di fare la doccia anche durante le ore notturne; la previsione di interventi suppletivi per la carenza di acqua; la presenza di menù giornalieri che contemplino alimenti più adeguati alla stagione estiva; l’ampliamento della possibilità di utilizzare frigoriferi nei reparti detentivi; l’incremento della corrispondenza telefonica quale forma di prevenzione a fronte di situazioni di rischio legate al maggiore disagio psicologico; la disinfestazione dei luoghi e la verifica del corretto funzionamento della rete fognaria laddove siano state segnalate o ravvisate problematiche specifiche”. “La Sfida creativa” apre ai detenuti con “Racconti dietro le sbarre” Il Dubbio, 20 luglio 2023 Il concorso letterario multimediale della comunità online “Il piacere di raccontare”. “La Sfida creativa” è il concorso letterario multimediale promosso da “Il piacere di raccontare”, la community online - fondata da Elena Salem nel 2015 - e che ora conta oltre 300mila persone che condividono la passione per lettura, scrittura, arte, viaggi, cultura e solidarietà. La novità dell’edizione 2023 de “La Sfida creativa” è l’estensione della partecipazione a tutti i detenuti, grazie a una autorizzazione del ministero della Giustizia. “Siamo molto soddisfatti di questa opportunità, molto impegnativa sul piano organizzativo e della valutazione” dichiara Elena Salem, “ma è l’espressione della filosofia che ispira la nostra community. La solidarietà innanzitutto. L’errore è umano, ma il riscatto è sempre possibile. Tutti noi possiamo cambiare. Raccontare è un bisogno umano. Uno dei modi attraverso cui pensiamo, sperimentiamo e costruiamo la nostra identità. Le storie ci forniscono una mappa di navigazione per affrontare i problemi della vita e immaginare scenari alternativi” La Sfida creativa è aperta a tutti e volta a premiare autori italiani e stranieri per opere di narrativa edite e inedite in lingua italiana; fotografie e video che abbiano una storia da raccontare. I premi sono rappresentati da magnifiche esperienze di viaggio e/ o di degustazione. Le categorie in concorso sono: romanzi editi, racconti inediti, racconto a tema libero, racconto autobiografico, racconto “arcobaleno”, sezione multimediale fotografie e/ o video a tema libero, racconti illustrati, fotografie e/ o video raccontati di viaggio, racconto illustrato, fotografie e/ o video ambientale. E per finire “Racconti dietro le sbarre”. Le opere possono essere inviate fino al 30 settembre, mentre il regolamento di partecipazione è scaricabile sul sito: www. ilpiacerediraccontare.it/sfida-creativa/. Altissimo livello per la giuria al cui insindacabile giudizio saranno sottoposte le opere d’ingegno: presidente è Giancarlo Lacchin, docente di Estetica presso la Facoltà di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Milano e responsabile delle attività culturali della Fondazione delle Università Milanesi. La “Sfida Creativa” 2022 ha avuto un grandissimo successo di pubblico e di visualizzazioni. Alla prima edizione si sono iscritte 1.441 persone, per un totale di 577 racconti e 387 fotografie pervenute. Il piacere di raccontare è su Facebook (con una pagina e il gruppo di lettura “Booklover”) su Instagram e sul sito www.ilpiacerediraccontare.it. La sua attività comprende un fitto calendario di iniziative lungo l’intero anno solare: lezioni di scrittura, incontri con scrittori e personaggi della cultura, laboratori di scrittura e la Sfida creativa. Giustizia, cosa manca ai magistrati di Alessandro De Nicola La Stampa, 20 luglio 2023 Nel confuso dibattito sulla giustizia in corso nel nostro paese si tende a parlare per tesi precostituite sulle pagine dei giornali o nei talk show televisivi in modo inconcludente e spesso apodittico. Su queste colonne, Vladimiro Zagrebelsky ha argomentato che il vero problema della giustizia italiana non è di abrogare il concorso esterno nelle associazioni mafiose o di separare le carriere ma l’intollerabile durata dei processi penali dovuta alle infinite possibilità “di appelli e ricorsi in Cassazione” e la difformità delle decisioni giudiziarie che provocano danni a vittime e imputati. Forse vale la pena approfondire ulteriormente il discorso per constatare che il dramma della lentezza dei procedimenti e dell’imprevedibilità dei giudizi attanaglia tutto il sistema giudiziario italiano, civile, penale, amministrativo e tributario, per di più con differenze territoriali eclatanti tra Nord e Sud. Pur essendo il dato in lieve miglioramento, l’Italia è ancora al penultimo posto in Europa (prima della solita Grecia) per la durata dei giudizi civili e il quadro delineato dallo studio di ottobre del 2022 della Banca d’Italia è certamente sconsolante. Parlando dei giudizi d’appello penali, secondo il Consiglio d’Europa durano 1167 giorni, quasi 10 (dieci!) volte in più la media europea (Cepej, 2022). La causa non è addebitabile solo a una carenza di risorse: il Belpaese spende per la giustizia una percentuale del Pil in media con il resto dell’Europa, gli stipendi dei giudici sono migliori e - grazie al Pnrr - sono stati stanziati fondi ingenti che hanno già portato all’assunzione fino ad aprile del 2023 di 8.200 funzionari e 3.240 profili tecnici. Ma allora qual è il nodo gordiano? Uno vistoso, sebbene non l’unico, è la mancanza di managerialità nell’amministrazione del sistema e dell’assenza di criteri di premialità e riconoscimento del merito per il personale. I palazzi di giustizia dovrebbero essere gestiti non dal magistrato presidente del Tribunale, ma da direttori generali che applichino sistemi gestionali e possano adeguatamente premiare e promuovere il personale che opera sotto la loro direzione e che oggi è perennemente incollato agli scatti d’anzianità. Nonostante la loro preziosa funzione, oggi i cancellieri entrano in un percorso di carriera che definire sovietico è riduttivo, perché almeno nella vecchia Urss Stakanov era additato come esempio per il popolo. I magistrati, peraltro, operano praticamente legibus soluti, in un regime di semi irresponsabilità. Come è noto ogni quadriennio i togati italiani devono passare un giudizio di idoneità e l’ultima volta il 99,3% ha ottenuto una valutazione positiva, lo 0,2% una “non positiva” e lo 0,5% “negativa”, un risultato così ridicolo che non vale nemmeno la pena di commentare. La riforma Cartabia ha cercato di introdurre dei correttivi per rendere un po’ più oggettivi e legati a parametri quantitativi i giudizi. Vedremo l’attuazione e i risultati, dato che il ministro Nordio si è preso un po’ di tempo ulteriore rispetto al previsto per emanare i decreti delegati, affidando il tutto a una commissione composta per il 70%... da magistrati. Né va meglio coi procedimenti disciplinari avanti al Csm. Negli anni dal 2019 al 2021 i magistrati ordinari colpiti da provvedimenti disciplinari sono stati in media 31 l’anno, circa lo 0,35% degli 8.500-9.000 in servizio (di cui 200 fuori ruolo nei ministeri, altra strana anomalia). L’altro lato della medaglia è che quelli bravi oltre a essere stati sottoposti al metodo Palamara per le assegnazioni degli uffici più importanti, non godono di nessun beneficio. Infine, la formazione dei giudici non prevede materie gestionali, come organizzazione aziendale o delle risorse umane, né economiche. Insomma, se è vero che nel 2021 sono stati aperti 5418 procedimenti per abuso d’ufficio, reato che il governo vuole abolire, e nello stesso anno solo 62 si sono chiusi con condanna o patteggiamento, forse se i pm sapessero che, se non richiedono subito l’archiviazione e poi i loro casi finiscono sempre nel nulla, potrebbero esserci conseguenze sulla loro carriera, i numeri di questo spreco di risorse sarebbero ben diversi. Giustizia, a Palermo Meloni completa l’inversione di marcia di Andrea Colombo Il Manifesto, 20 luglio 2023 Antimafia. La premier ricorda Borsellino e mette a tacere il guardasigilli Nordio: eviti di parlare di quello che non è nel programma. Nel giorno in cui la premier completa l’inversione di marcia sulla giustizia, il capo dello Stato firma il disegno di legge sulla giustizia, che passa così alle camere. A nessuno è sfuggito il ritardo con cui è arrivata la firma. Nel codice quirinalizio è un segnale preciso: conferma che Sergio Mattarella si aspetta quelle modifiche al testo sull’abuso d’ufficio che qualche giorno fa ha chiesto in modo molto esplicito e che la premier si è impegnata ad apportare. Proprio perché ha già ricevuto le rassicurazioni del caso, il capo dello Stato ha evitato di aggiungere anche una sola parola. Nel messaggio in ricordo della strage di via D’Amelio, invece, Mattarella ha fatto in modo di inserire un riferimento preciso a eventuali e residue tentazioni di mettere mano al concorso esterno in associazione mafiosa: “L’esempio di Falcone e Borsellino ci invita a combattere le zone grigie della complicità con la stessa fermezza con cui si contrasta l’illegalità”. Papale e definitivo. Anche sugli altri capitoli del disegno di legge, intercettazioni e traffico di influenze, il Colle auspica modifiche. In ogni caso il percorso della legge, nelle previsioni del Quirinale, sarà molto lungo, se non proprio un anno poco meno. In questo lasso di tempo, con l’Europa che probabilmente non si accontenterà dei ritocchi, potrebbe succedere di tutto: anche un incidente tale da costare il ministero della Giustizia a Carlo Nordio. Sotto sotto all’interno di FdI non manca chi lo auspica. Il ministro Nordio, la riforma della giustizia, gli impegni presi con un leader di Forza Italia che non c’è più per Giorgia Meloni sono oggi zavorra. L’anniversario della strage di via D’Amelio è stata l’occasione per iniziare a scaricare quel peso morto. La premier ha inaugurato la giornata con l’ormai abituale lettera al Corriere della Sera, una missiva breve adoperata per ribadire la fedeltà assoluta agli insegnamenti di Paolo Borsellino: “Il suo coraggio e la sua integrità sono doni che tanti giovani hanno deciso di raccogliere per affermare due valori imprescindibili: la legalità e la giustizia”. Da Palermo, dopo aver deposto la corona in omaggio al magistrato e alla scorta trucidati 31 anni fa, prima di presiedere il Comitato per l’ordine e la sicurezza, Meloni torna sul capitolo concorso esterno e non si limita ad assicurare che non sarà sfiorato. Chiarisce anche in qual conto, anzi in qual poco conto vadano tenute le parole del ministro della Giustizia: “Ha solo risposto a una domanda ma ha anche detto che l’intervento sul concorso esterno non è nel programma e infatti non c’è”. Nulla di grave, certo però Nordio “dovrebbe forse essere più politico”, dovrebbe capire che “le cose che si vogliono fare si fanno e del resto si può evitare di parlare”. Muto sarebbe anche meglio. A Salvatore Borsellino l’indietro tutta non basta: “Nordio dovrebbe riconoscere di essere stato inopportuno e dire che abbandona questo progetto”. Detto fatto. Nel question time alla Camera il ministro conferma che nessuno ha mai voluto toccare il concorso esterno e lui, che nelle inchieste sulle Br venete degli anni ‘80 dispensava l’accusa a raffica, meno di chiunque altro. Le sue “considerazioni” miravano casomai a rendere lo strumento “anche più efficiente”. Capitolo sepolto. Messo così a posto una volta per tutte il ciarliero guardasigilli la premier usa toni a dir poco ruvidi anche commentando la lettera di Marina Berlusconi, quell’esortazione esplicita ad andare avanti come bulldozer sulla riforma della giustizia. “Con tutto il rispetto non posso considerarla un soggetto della coalizione: non è un soggetto politico”, taglia corto Meloni. Parole forse incaute. Pur senza essere un soggetto politico, Marina Berlusconi pesa più di chiunque altro su Forza Italia, che invece è un soggetto politico essenziale per la vita del governo. Dai toni usati in quella lettera la figlia di Silvio Berlusconi sembrerebbe decisa a ricordare alla presidente del consiglio gli impegni presi con suo padre proprio sul fronte della giustizia. Sulle polemiche che continuano a fiorire per la decisione di non partecipare alla fiaccolata della sera Meloni prova a tagliare corto. Ma figurarsi se proprio lei diserta l’appuntamento per paura delle contestazioni e non, come da copione, per precedenti impegni: “Poi chi mi dovrebbe contestare? Solo la mafia potrebbe contestarmi”. E comunque “ci sono giorni in cui non si dovrebbero fare polemiche sterili e inventate che fanno bene solo a chi stiamo combattendo”. A celebrazioni concluse, la retromarcia del governo sulla giustizia è completa. Forza Italia e primogenita del Cavaliere permettendo. Ddl Nordio, Mattarella autorizza la presentazione alle Camere di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2023 Critici i magistrati, si erano invece espressi favorevolmente gli avvocati. Il testo era stato approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 15 giugno e approderà ora in Senato. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha autorizzato la presentazione alle Camere del disegno di legge recante ‘Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare’. Il testo era stato approvato dal Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della giustizia Carlo Nordio, lo scorso 15 giugno e approderà ora in Senato. Il Governo aveva chiesto alle Camere una “sollecita calendarizzazione”. L’intervento prevede tra l’altro l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio (articolo 323 c.p.) e una maggior tipizzazione del delitto di traffico di influenze (articolo 346 bis c.p.); cancella l’appello del Pm contro le sentenze di assoluzione e impone una stretta alla stampa sulla pubblicazione delle intercettazioni, previste anche maggiori garanzie per gli indagati in materia di custodia cautelare, con l’introduzione del principio del contraddittorio preventivo. Novità anche per i concorsi in magistratura: ridotti i tempi delle procedure, per consentire una più rapida entrata in servizio dei nuovi magistrati. Si era espressa criticamente l’Anm soprattutto sulla eliminazione dell’abuso ufficio. Il presidente Giuseppe Santalucia aveva così commentato: “Il ministro Nordio sembra dimenticare che la riforma del 2020 punisce la violazione dolosa della legge, non di altre norme, quando la legge non consente alcuna valutazione discrezionale: cioè dice al pubblico ufficiale ‘deve fare questo o devi omettere di fare quest’altro’. Come si può pensare - dice intervistato - che un comportamento di questo tipo in palese violazione di legge, fatta per avvantaggiare se stesso o i propri amici o danneggiare altri, possa sfuggire alla norma penale, io sinceramente non capisco”. Positivo invece il giudizio degli avvocati. Per il Consiglio nazionale forense, l’Organismo congressuale forense e l’Associazone giovani avvocati “Il pacchetto di norme rappresenta un importante passo avanti sul terreno delle garanzie, ma di strada da fare ce n’è ancora. Soprattutto occorre rimuovere i limiti alla possibilità di accedere alle impugnazioni determinati dalla necessità di rilascio di ulteriore procura e dichiarazione di elezione di domicilio dopo il provvedimento contro il quale si intende proporre ricorso”. Secondo i penalisti ad una prima lettura del disegno di legge si possono “apprezzare alcuni primi passi importanti di riforma in tema di impugnazioni del pm, di misure cautelari e di reati contro la Pubblica Amministrazione”. “Del tutto deludente, invece - proseguivano - l’intervento in tema di intercettazioni, ed il mancato intervento, sul quale il ministro Nordio si era pubblicamente impegnato con noi, in tema di condizioni di ammissibilità delle impugnazioni del difensore”. Così in una nota la Giunta delle Camere Penali. Ddl penale, c’è l’ok del Colle ma restano le insidie di Errico Novi Il Dubbio, 20 luglio 2023 I siluri dell’antimafia rischiano di ingabbiare le riforme. Ci sono pure segnali di “coerenza garantista”: altolà di centrodestra e Terzo polo all’editto Ue “anticorrotti”. Mercoledì 5 luglio: il ddl Nordio ottiene il via libera del Mef, dopo 20 giorni di rincorse alle coperture. Sembra fatta. È già data per certa la destinazione dell’articolato: Palazzo Madama. La firma di Sergio Mattarella sembra un passaggio senza incognite. E invece il secondo e decisivo via libera, quello del presidente della Repubblica, arriva solo ieri. Dopo altre due settimane esatte di attesa. E di valutazioni preoccupate da parte degli uffici giuridici del Colle, perplessi per l’abrogazione dell’abuso d’ufficio prevista proprio mentre l’Italia è chiamata a valutare la proposta di direttiva Ue sull’anticorruzione, orientata in senso opposto su quel genere di reati. È l’istantanea di un percorso accidentato sulla giustizia, sempre più segnato da un’ambivalenza. Che non riguarda solo l’arcinota aporia di una maggioranza in cui ci sono forze più intransigenti, Fratelli d’Italia e Lega, ma anche l’ala moderata di Forza Italia e delle piccole enclave centriste, pronta a giocare di sponda col Terzo polo in chiave garantista. Non si tratta solo di questo. La contraddizione, nel centrodestra, vede da una parte la difesa della riforma Nordio, attestata dal parere critico approvato ieri commissione Politiche Ue a Montecitorio proprio sulla direttiva Ue anticorruzione. Ma dall’altro versante, le convulsioni dell’ultima settimana dimostrano quanto l’Esecutivo di Giorgia Meloni possa scoprirsi terribilmente fragile, sul piano mediatico, non appena si incrocia il moloch dell’antimafia. È bastato che Carlo Nordio osasse denunciare, in chiave accademica, “l’ossimoro” del concorso esterno perché la premier si sentisse improvvisamente accerchiata sulla giustizia. Fino a dover richiamare, con un tono assai più severo di quanto avvenuto sul caso Cospito, il proprio guardasigilli, fino a dirgli con una certa insofferenza che sarebbe meglio parlare meno e, comunque, ricordarsi di parlare da politico e non da “semplice” giurista. Però esiste anche l’alto volto del centrodestra, la coerenza del parere approvato in commissione ieri, proposto da un relatore, Antonio Giordano, deputato proprio di FdI. Con la maggioranza ha votato anche il Terzo polo, a riprova che su molti temi di giustizia le idee di Nordio, del meloniano Andrea Delmastro o del calendiano Enrico Costa sono tutt’altro che distanti. Il lungo documento sulla “proposta di direttiva Ue” (messa a punto tra Bruxelles e Strasburgo ma non ancora formalmente emanata) segnala diversi passaggi critici, relativi anche all’abuso d’ufficio: su reati come quello che Nordio propone di abrogare, Europarlamento e Consiglio Ue reclamano una tassatività che non trova riscontro nella Convenzione Onu sul contrasto della corruzione. Non solo, perché la direttiva arriva a sollecitare gli Stati membri affinché rendano perseguibili gli abusi e l’arbitrio di chi ha funzioni di vertice non solo nel pubblico ma addirittura nel privato. Un’eccentricità che si accompagna ad altri paradossi, come “alcuni allungamenti significativi di termini di prescrizione”, segnala il relatore Giordano, “con ricaduta sulla lunghezza dei tempi della giustizia, elemento in contraddizione con le politiche Ue di efficientamento”. La proposta europea prefigura norme più stringenti persino sull’incandidabilità, che per le ipotesi di corruzione dovrebbe colpire addirittura i semplici indagati. Ora, è chiaro che il voto di ieri alla Camera sembra dimostrare anche la convinzione con cui il centrodestra, e Fratelli d’Italia innanzitutto, intendono difendere la prima riforma penale di Nordio. Ma è vero anche che nei giorni scorsi sono arrivati segnali molto diversi sulle questioni legate all’antimafia. Intanto l’ipotesi, avanzata da Meloni e ieri “avallata” dallo stesso Nordio, di un decreto che individui con certezza i reati associativi di stampo mafioso e superi le incertezze che deriverebbero da una sentenza della Cassazione, la 34895 del 2022, secondo cui non basta che di un determinato delitto si avvantaggi una cosca per accertare il carattere mafioso del reato. Una pronuncia finora ignorata dal dibattito e che la presidente del Consiglio ha improvvisamente tirato fuori, su suggerimento del sottosegretario alla Presidenza, e magistrato, Alfredo Mantovano. Il tutto alla vigilia delle commemorazioni per via d’Amelio, rispetto alle quali la premier era preoccupa di dover scontare le parole di Nordio sul concorso esterno. Domani sempre a Palermo FdI organizza un convegno sulle nuove forme di contrasto della mafia, al quale Meloni interverrà con un videomessaggio, senza che si sia ipotizzata analoga partecipazione per il guardasigilli. Sugli strumenti per contrastare la mafia, FdI e Forza Italia hanno idee diverse, in particolare sulla necessità di rivedere le misure di prevenzione, che spesso travolgono innocenti, necessità avvertita dagli azzurri ma sconfessata apertamente dai meloniani (basti vedere le dichiarazioni del capogruppo alla Camera Tommaso Foti). E il tabù dell’antimafia è tutt’altro che una questione circoscritta: rischia di condizionare ancora Meloni e i rapporti della premier con Nordio, portato a esprimersi con candore (al netto delle puntualizzazioni fatte ieri al question time, come riferito in altro servizio) anche su un tema così delicato. Se si impugna l’arma dell’insufficiente durezza contro i mafiosi, qualsiasi riforma penale è sotto minaccia: dall’abuso d’ufficio alla prescrizione, per non parlare delle intercettazioni. Se il governo, a cominciare dalla premier, continuerà a essere atterrito dalla sola idea che si possa modificare lo sclerotico codice antimafia, la sconfessione subita ieri da Nordio non sarà l’ultima. E tutte le riforme, anche le più “insospettabili”, avanzate dall’Esecutivo in materia di giustizia rischieranno di finire nel tritacarne mediatico da un momento all’altro. Giustizia, schiaffo al Quirinale di Ugo Magri La Stampa, 20 luglio 2023 Mattarella firma il ddl sull’abuso d’ufficio. Subito dopo la destra boccia la direttiva Ue sulla corruzione. La firma di Sergio Mattarella è arrivata dopo dieci giorni di approfondimenti e di riflessioni: il che già la dice lunga su quanto sia stato laborioso questo via libera alla mini-riforma della giustizia targata Nordio. Era sì un atto dovuto (il presidente si limita semplicemente ad autorizzare che il disegno di legge venga presentato alle Camere); ma nella lettura del testo il Quirinale aveva colto varie criticità, in particolare sull’abuso d’ufficio. Cancellare completamente il reato, secondo i giuristi del Colle, ci metterebbe in conflitto con la direttiva che l’Ue si prepara a emanare sull’onda del cosiddetto “Qatargate” dove, tra parentesi, come Paese non abbiamo fatto una gran figura. Qualcuno in Europa potrebbe sospettare che vogliamo sottrarci agli impegni contro la corruzione. Ecco perché giovedì scorso il presidente ne aveva voluto ragionare direttamente con Giorgia Meloni; la quale, durante quell’ora di cordialissimo colloquio, aveva promesso di farsene personalmente carico attraverso correzioni del ddl che sarebbero intervenute durante l’esame parlamentare. Cosicché alla fine il disco verde è arrivato, ieri intorno all’ora di pranzo. Caso chiuso? Niente affatto. Anzi, s’è creato un nuovo pasticcio che rischia di pesare negativamente sul terreno delicato dei rapporti istituzionali. Proprio mentre Mattarella stava vergando il suo sofferto autografo in calce al ddl Nordio, quasi negli stessi minuti la Commissione sulle politiche Ue di Montecitorio bocciava a maggioranza la proposta di direttiva europea: proprio quella che ci imporrà di mantenere l’abuso d’ufficio tra i reati contro la pubblica amministrazione. Già, perché non sarà certo l’Italia, mettendosi di traverso, a rovesciare un orientamento largamente condiviso tra gli Stati membri; semmai finirà per rafforzarlo. Col risultato che durante l’iter parlamentare, oppure subito dopo, sulla mini-riforma Nordio calerà la mannaia europea. E quando le direttive Ue collidono con le leggi nazionali, si sa come va a finire: sono le prime a prevalere. Al Quirinale non hanno dubbi al riguardo nonostante qualcuno, nella maggioranza di governo allargata nell’occasione ai renziani, sostenga il contrario appellandosi a una presunta “sussidiarietà”. Se Mattarella se ne preoccupa, d’altra parte, ci sarà pure un perché; la premier, durante il faccia a faccia col presidente, era sembrata disposta a riconoscerlo; ma il primo atto parlamentare va in direzione diametralmente opposta alle intese intercorse col capo dello Stato. Che ci sia un cortocircuito, dunque, è fuori discussione. Come l’abbia presa Mattarella al momento non si sa. Sul Colle sono sempre piuttosto riservati circa le reazioni del presidente. Qualunque aggettivazione al riguardo rischierebbe di venire smentita. Quanti frequentano il Colle, tuttavia, un po’ di domande se le sono fatte, e si sono dati pure delle risposte. Nessuno ammette, nemmeno in ipotesi, che Giorgia possa rimangiarsi la parola data; la parola d’ordine è un prudentissimo “wait and see” per dirla nella lingua di Shakespeare, traducibile con “staremo a vedere” nel momento in cui l’esame dell’articolato entrerà nel vivo, come minimo dopo l’estate. Il primo segnale non è quello atteso, ma siamo all’inizio di un tira-e-molla che andrà avanti chissà per quanto. Mattarella ha la coscienza a posto, assicurano intorno a lui. S’è preoccupato di segnalare in anticipo i problemi di costituzionalità (a quanto pare ne sono emersi più d’uno in un ddl che, oltre all’abuso d’ufficio, riguarda materie altrettanto delicate come le intercettazioni o il cosiddetto “traffico di influenze”). La volontà di dialogo è confermata dalla voce molto attendibile secondo cui, nelle ultime ore, il presidente si sarebbe confrontato proprio con Nordio, cioè col personaggio forse più esposto in questa vicenda, che rischia alla fine di ritrovarsi nella parte scomoda del San Sebastiano o, se si preferisce, con il cerino in mano a rischio di scottarsi. Dopodiché una domanda si pone, tanto scomoda quanto inevitabile: cosa farebbe Mattarella nel caso in cui, incuranti dei suoi rilievi e in barba all’Europa, questo Parlamento controllato dal centrodestra cancellasse tout court il reato di abuso d’ufficio? Promulgherebbe lo stesso una riforma probabilmente incostituzionale? La risposta non può prescindere dai poteri del presidente. Il quale, se nutre fondate riserve, ha davanti a sé due strade. La prima consiste nel rinvio della legge alle Camere, vale a dire nella richiesta (motivata attraverso un apposito messaggio) di riconsiderarne gli aspetti più discutibili; il Parlamento sarebbe libero di dargli ascolto e di correggere il testo; ma volendo potrebbe respingere l’appello del presidente che, a quel punto, sarebbe costretto a promulgare la legge così com’è stata approvata o, nei casi più estremi, a presentare le dimissioni. In quel caso drammatico sarebbe davvero “game over”. C’è poi la seconda strada, ben collaudata, di un via libera presidenziale accompagnato però da qualche pubblica spiegazione, per esempio una lettera dove Mattarella metterebbe in fila tutte le sue riserve. In pratica, dal Colle si accenderebbe un potente faro sulle sospette incostituzionalità della mini-riforma, agevolando il successivo lavoro della Consulta, che se la vedrebbe lei come in fondo è giusto. Ma ancora non siamo a questo, e la speranza di Mattarella è che non ce ne sia bisogno. Meloni ignora i dubbi del Quirinale sulla riforma: “Modifiche al ddl Nordio? Non credo” di Emanuele Lauria La Repubblica, 20 luglio 2023 La premier non mostra cedimenti nonostante le preoccupazioni di Mattarella, forte dei numeri in Parlamento. Non escluso un nuovo confronto col Quirinale. La scelta è quella di non mostrare cedimenti, almeno per ora. Giorgia Meloni ha ascoltato, venerdì scorso, le preoccupazioni consegnatele dal capo dello Stato Sergio Mattarella. Ha garantito che rifletterà sui punti controversi della riforma della giustizia. Ma la premier decide di tenere il punto sull’abolizione dell’abuso d’ufficio: “Modifiche? Non credo”, fa sapere. Il governo, si apprende, non promuoverà alcun emendamento a questa parte della riforma. “Mica stiamo giocando: abbiamo presentato una proposta che va incontro alle richieste della quasi totalità dei sindaci e non cambiamo idea dopo un minuto”, dice un esponente dell’esecutivo. Meloni deve tener conto delle pressioni per l’abolizione del reato che arrivano dalla sua maggioranza, in particolare da Forza Italia: “Andiamo avanti anche sulla questione dell’abuso d’ufficio - dice il segretario di Fi Antonio Tajani - che è un reato che crea danni enormi a tante amministrazioni pubbliche. Non è uno strumento fondamentale e utile per la lotta alla corruzione. A volte troppa burocrazia, troppi ostacoli agevolano la corruzione”. E in parlamento il governo può contare su una maggioranza ampia, che comprende pure Italia Viva e Azione. Allineati e compatti, in questa partita, senza particolari distinguo fra i due leader litigiosi. Ce n’è abbastanza per consentire a Meloni di segnare una linea rigida, di forzare la mano malgrado i dubbi del Quirinale. Con il messaggio chiaro lanciato da Giovanni Donzelli, uno dei fedelissimi della presidenza del Consiglio: “Abbiamo la legge anticorruzione più all’avanguardia d’Europa, anche togliendo l’abuso d’ufficio restano altri strumenti normativi a tutela della pubblica amministrazione”. Un messaggio che, più concretamente, è arrivato ieri anche attraverso il no della maggioranza, a Montecitorio, alla proposta di direttiva europea che prevede l’abuso d’ufficio, anche nel privato. Il voto della commissione Politiche Ue è motivato da un parere che fa riferimento alla convenzione di Merida, che stabilisce l’autonomia dei singoli Stati in questa materia. Come dire: anche in Italia il governo ha il diritto di agire in autonomia. Un modo con cui Palazzo Chigi sgombra pubblicamente il campo dagli equivoci. Dall’altro lato, il governo non si preclude la strada di interventi correttivi, anche parziali. L’iter in Parlamento non sarà breve, c’è chi pensa che la riforma possa arrivare alla fase decisiva non prima dell’anno prossimo. Ci sarà margine per verificare cosa accadrà anche in Europa, che volto assumerà la proposta di direttiva anti-corruzione, che in questo momento è affidata alla valutazione dei parlamenti degli Stati membri. Nessuno può escludere un nuovo confronto con il Quirinale, e un cambio di rotta dell’esecutivo di fronte alla moral suasion, già cominciata, del Colle. Che non è intervenuto formalmente adesso ma ha sempre lo strumento del rinvio del testo alle Camere, qualora questo fosse approvato con profili di incostituzionalità. Sul piano politico la partita è tripla. I rapporti con Mattarella, quelli con Bruxelles, il confronto interno. Con l’opposizione e con i magistrati sul piede di guerra. Ma l’impressione, in ambienti parlamentari, è che il confronto con l’Anm sull’abuso d’ufficio possa divenire meno aspro con un ammorbidimento di altre norme della riforma Nordio, dalla separazione delle carriere alle intercettazioni. Uno dei passaggi più importanti del percorso del governo Meloni è appena agli inizi. Ma eventuali modifiche all’abolizione dell’abuso d’ufficio, per ora difeso dai colonnelli della premier, arriverebbero contro la volontà di Nordio, e darebbero un segno profondo nei rapporti con il ministro, che vivono una fase non proprio esaltante, dopo le ultime pubbliche bacchettate della prima ministra contro le esternazioni del Guardasigilli sul concorso esterno in associazione mafiosa. A quel punto, a tutti gli effetti, si profilerebbe un commissariamento. Che l’ex magistrato non digerirebbe. Abuso d’ufficio, la destra boccia la direttiva europea di Mario Di Vito Il Manifesto, 20 luglio 2023 Camera. Protestano Pd e 5 Stelle: “Segnale di lassismo”. Votano invece a favore Azione e Iv. A poco o nulla sono valse le raccomandazioni di Meloni, le precisazioni di Nordio, i toni distensivi fatti filtrare, sia pure col contagocce, da alcuni parlamentari della maggioranza. Per la destra la giustizia resta il principale campo di battaglia e così, proprio mentre il presidente Mattarella firmava il ddl approvato in consiglio dei ministri lo scorso 15 giugno, in Commissione per le politiche Ue della Camera il centrodestra (con l’aiuto dei terzopolisti) ha respinto la direttiva del parlamento europeo sulla lotta alla corruzione. Secondo il relatore Antonio Giordano (FdI) il provvedimento sarebbe stato “palesemente in contrasto con il principio di sussidiarietà e con quello di proporzionalità”, aggiungendo poi che l’Ue non ha alcuna competenza in materia di armonizzazione delle legislazioni nazionali. Un colpo rumoroso, anche perché, giusto la settimana scorsa, quando la premier era salita al Colle, tra i consigli arrivati da Mattarella, il più importante riguardava proprio l’apertura agli emendamenti sull’abuso d’ufficio: un dettaglio non da poco soprattutto perché la partita del Pnrr è ancora apertissima e l’Europa guarda con molta attenzione alle leggi sulla corruzione. Eppure dalla maggioranza è arrivato un vero e proprio schiaffo, un no deciso che di certo avrà compiaciuto il ministro Nordio ma che, assai probabilmente, non aiuta una Giorgia Meloni che non vorrebbe combattere alcuna guerra sulla giustizia e che, infatti, aveva caldamente invitato tutti ad abbassare i toni. Durissime le reazioni delle opposizioni. “Nel giorno della commemorazione di Paolo Borsellino, vittima della strage di via D’Amelio insieme agli agenti della scorta, la destra vota un parere motivato in cui contesta la necessità, l’opportunità, il valore aggiunto e le scelte di merito elaborate dalla commissione, lanciando un segnale devastante di lassismo e indebolimento degli strumenti di contrasto alla criminalità in Italia e in Europa”, dice il capogruppo del Pd in commissione Politiche Ue, Piero De Luca. Il M5S va anche oltre: “La direttiva europea ribadisce che l’abuso d’ufficio è un reato fondamentale nella lotta alla corruzione e non può essere abolito come vorrebbe fare Nordio”. Dal cosiddetto terzo polo, invece, non solo arrivano sostegno e aperture (per il deputato Enrico Costa la direttiva europea è “follia pura” perché prevede “sanzioni penali non solo per l’abuso d’ufficio nel settore pubblico, ma anche nel privato”) ma anche dichiarazioni da ultras a sostegno di Nordio, “gentiluomo garantista” (sempre parole di Costa) la cui riforma sarà sostenuta senza se e senza ma. Entusiasmo e tanti sinceri in bocca al lupo arrivano anche dall’ormai extraparlamentare Andrea Marcucci, fresco di fuoriuscita dal Pd e presidente dei Libdem europei: “Liberali e riformisti fanno il tifo per Nordio”. La questione dell’abuso d’ufficio, comunque, è solo l’antipasto dell’annunciata riforma della giustizia del governo Meloni: il piatto forte resta evidentemente un altro, ovvero la separazione delle carriere di giudici e pm, argomento esplosivo che porterebbe alla guerra senza quartiere tra politica e magistratura. La settimana scorsa Nordio aveva annunciato un apposito vertice di maggioranza prima delle vacanze estive, ma l’accelerazione sulla prima tranche della riforma lascia supporre che del tema grosso se ne tornerà a parlare sul serio solo in autunno. L’affare, comunque, resta delicato: la separazione è nel programma di governo della destra e riguarda una questione di politica interna, dunque non ci saranno appigli europei a cui aggrapparsi per le opposizioni. Come se servissero a qualcosa: con il voto di ieri la maggioranza ha chiarito di essere impermeabile alle pressioni di questo genere. Nordio: “Sconcerto e sdegno per chi mi definisce favoreggiatore della mafia” di Guido Tortorelli Corriere della Sera, 20 luglio 2023 Il ministro risponde alle accuse nel question time alla Camera: “Nel programma di riforme non vi è traccia di modifiche alla disciplina del concorso esterno in associazione mafiosa” “Sconcerto e sdegno”. Sono queste le sensazioni provate dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, il quale ha replicato alle ultime accuse ricevute da “qualcuno che mi ha definito favoreggiatore della delinquenza mafiosa”. Il ministro è tornato così sulle ipotesi di modifica al reato di concorso esterno in associazione mafiosa rispondendo oggi a una interrogazione presentata dal Movimento 5 Stelle. “Il problema è sorto a causa dell’incertezza applicativa del concorso esterno, tanto che la Cassazione a suo tempo ha cambiato indirizzo”, ha ricordato Nordio in relazione alle sue recenti dichiarazioni rilasciate alla vigilia delle celebrazioni per la ricorrenza della morte di Paolo Borsellino. Il Guardasigilli ha poi aggiunto come le sue considerazioni sulla necessità di una normativa ad hoc sul concorso esterno “miravano di conseguenza ad eliminare incertezze future - ha detto ancora- costruendo uno strumento anche più efficace di quello attuale nella repressione delle associazioni criminose e di chi, in un modo nell’altro, vi fa parte”. L’idea di Nordio di rivedere il reato di concorso esterno in associazione mafiosa ha visto divisioni nella maggioranza, con Forza Italia schierata a favore e la Lega che, con Matteo Salvini, frenava. Anche il sottosegretario Mantovano aveva espresso cautela (“non è il momento”). Linea confermata nei giorni scorsi anche dalla premier Meloni, la quale aveva ribadito: “Capisco molto bene sia le valutazioni che fa il ministro Nordio, che sono sempre molto precise, sia le critiche che possono arrivare. Mi concentrerei su altre priorità”. Oggi, dunque, l’ulteriore precisazione dell’esponente di governo: “Nel programma di riforme annunciato da questo governo non vi è traccia, ne avrebbe potuto esserci, di modifiche della disciplina del concorso esterno in associazione mafiosa. Non fa parte del programma governativo: non c’è, non esiste e non sarà fatto”. Ma per il ministro non vi è alcun affievolimento nel contrasto alla criminalità organizzata, “non potrebbe essere altrimenti, principalmente da parte di un ministro che vi ha dedicato la parte più importante della propria funzione di magistrato”. Da qui il suo augurio finale: “È con questo sentimento di commossa rievocazione del collega Paolo, e delle altre vittime della violenza stragista, che auspico che questa polemica sterile oggi si chiuda”, ha terminato Nordio. La reazione - Immediata la risposta del leader del M5S, Giuseppe Conte: “Mi dicono che Nordio si è rimangiato tutto - ha esordito il pentastellato. Aveva detto che voleva rivedere il concorso esterno in associazione mafiosa, Meloni aveva dichiarato semplicemente che non era tra le priorità ma non l’aveva affatto escluso, poi lei aveva ritrattato dicendo che non è nel programma di governo. Oggi anche Nordio è costretto a farlo. Hanno chiarito che non è nel programma. Su questo punto possiamo ritenerci soddisfatti - ha concluso Conte - perché è un tema che non è soggetto a discussione”. Solo la magistratura può fermare il quarto potere delle procure di Giuliano Cazzola Il Dubbio, 20 luglio 2023 Per riformare la giustizia in Italia non ci sarebbe molto da fare, anche se fino ad ora (?) è risultata una missione impossibile: riportare nell’alveo della Costituzione, Il settore deviato della magistratura delle procure ovvero della magistratura inquirente perché quella giudicante è certamente più equilibrata - anche se arriva con troppo ritardo - come si vede osservando le sentenze che demoliscono i teoremi delle procure. Ma questa “terziarietà” deve essere garantita dalla separazione delle carriere. “Solo l’ordine giudiziario e solo a mezzo di un processo può dichiarare un accusato colpevole. Questo principio - ha scritto Sabino Cassese - è stato travolto in Italia dall’affermazione di quello che può chiamarsi un vero e proprio quarto potere, le procure”. Secondo il giurista, quindi, i pm non si limitano a costruire l’accusa, ma giudicano prima del processo. Vogliamo approfondire come avviene quest’ abuso di potere? Ce lo spiega Luciano Violante, una personalità al di sopra di ogni sospetto, in una intervista al Foglio sulla finzione dell’obbligatorietà dell’azione penale, che a suo avviso “offre ai magistrati la possibilità di concentrarsi su reati evanescenti per concentrarsi più sulle persone da indagare che sui reati da dimostrare”. “Si usa un’ipotesi di reato non ben limitata - ha proseguito l’ex presidente della Camera - si apre un’indagine sulla persona, si cerca tutto ciò che in una persona possa essere considerato rilevante dal punto di vista della morale oltre che del penale e si usa il circo mediatico per dare legittimità alla propria azione”. Non a caso le misure proposte da Carlo Nordio riguardano essenzialmente la condotta delle procure e tendono a colpire quegli abusi evidenti che esulano dall’esigenza di “fare giustizia”. Nessun ufficio giudiziario ha mai indagato sul traffico di veline tra le procure e i cronisti giudiziari, perché è un passaggio fondamentale dello sputtanamento pre-giudiziale che è di per sé una condanna che dura per l’intero calvario dell’iter processuale. Basta leggere un ordine di custodia preventiva che di solito consiste nella descrizione di un teorema, di tanto in tanto corredata dalla citazione tra virgolette di una frase carpita da un’intercettazione telefonica, il cui contenuto diventa una prova di reato, a prescindere dal contesto in cui è stata detta. C’è poi la vicenda del concorso esterno in associazione mafiosa, un reato che non si potrebbe abolire per legge perché nessuna legge lo ha mai previsto e che come ha scritto Filippo Sgubbi “l’imputato potrà apprendere solo dal dispositivo della sentenza - e quindi ex post - se la propria condotta rientra o meno in tale figura”, perché la giurisprudenza - che dovrebbe limitarsi a decidere sul caso concreto - è divenuta, impropriamente, non solo fonte del diritto, ma persino creatrice della norma, al posto e in sostituzione del potere legislativo. Eppure, appena Carlo Nordio ha sfiorato incautamente questa perversione giuridica si è assistito ad un fuggi fuggi disordinato e trasversale, perché tutti i partiti temono il potere delle procure, maligne e vendicative. Perché non si prova a seguire un’altra strada? Piercamillo Davigo era solito invitare la politica a fare pulizia in casa propria prima dell’intervento della magistratura perché - sosteneva a ragione - i comportamenti illeciti che avvengono nel proprio ambiente sono noti. La stessa cosa potrebbe dirsi anche nel caso della magistratura inquirente. I magistrati sono dove esistono dei problemi, dove i loro colleghi costruiscono di proposito indagini che non hanno fondamento, dove arrestano una persona poi vanno alla ricerca di un reato da poter applicare. Era così difficile rendersi conto del fatto che la ‘‘ trattativa Stato Mafia’’ era una bufala, fondata su di un pregiudizio ideologico, per affermare il quale non c’è mai bisogno di prove? Siamo sempre lì, a quanto scriveva Pier Paolo Pasolini: “Io so, ma non ho le prove”. Che ci siano collusioni tra pezzi di Stato e la malavita, che ci siano infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici sono cose risapute, ma non possono essere date per certa in ogni caso. È stato Davigo a proclamare in tv la sua dottrina: “Un innocente è solo un colpevole che l’ha fatta franca”. E ancora: “Non è più semplice mandare un ufficiale di polizia giudiziaria sotto copertura a partecipare a una gara d’appalto e quando qualcuno la vincerà, dicendo “tu questa gara non la devi vincere” lo arresta così facciamo prima?”. Se un sostituto procuratore perseguita un rivale in amore, commette un reato perseguibile d’ufficio. Che differenza c’è con una procura che usa i poteri illimitati di cui dispone per realizzare un disegno politico? Si dirà: come si può provare una siffatta linea di condotta? Ma quando la Suprema Corte di Cassazione, in via definitiva, fa a pezzi una sentenza di merito e stabilisce che i fatti addirittura non sussistevano, gli uffici che hanno indagato saranno pure responsabili di colpa grave se non persino di dolo? Come in politica, anche nell’ordine giudiziario (divenuto illegittimamente un potere) le cose si sanno. La stessa magistratura potrebbe “fare pulizia’’ al proprio interno, se, in questi casi montati ad arte e sconfessati, la Cassazione trasmettesse gli atti alla Procura generale per l’avvio dell’azione disciplinare o per indagare su di un eventuale reato. Il caso ENI è un esempio di manipolazione delle prove su cui indaga la stessa magistratura. Ma è una eccezione che confermala regola dell’impunità. Gli italiani non apprezzano i magistrati: il 70% pensa che utilizzano i loro poteri per danneggiare i politici di Iuri Maria Prado L’Unità, 20 luglio 2023 Il dato vero è che il 70% degli intervistati pensa che le toghe utilizzano in modo improprio i loro poteri per danneggiare partiti e politici. Quanto fa 21 + 32 + 18? Pressappoco dovrebbe fare 70 (71, dicono i precisi). C’è caso però che il numero sia spiacevole per eccesso, e allora si taglia: via quel 18, ed ecco un più confortevole 53. Aspetta che spieghiamo. L’altra sera, a La7, trasmettono i risultati di un sondaggio, commissionato dal Tg di Enrico Mentana, sul giudizio degli italiani a proposito di “magistratura e politica”. La domanda rivolta agli intervistati è questa: “Ritiene che in Italia capiti che la magistratura utilizzi in modo improprio i suoi poteri per danneggiare qualche politico o qualche partito?”. Il 21% dice sì, spesso. Il 32% dice sì, a volte. E siamo a quel 53. Poi c’è un 18% che dice che la magistratura fa quella roba lì, cioè utilizza in modo improprio i suoi poteri per fottere esponenti e partiti politici, ma “raramente”. Siccome il dato è fortino (per sette su dieci l’attività politica è più o meno frequentemente sotto schiaffo giudiziario), allora sposti quel 18% e lo metti insieme ai “no”, il risicato 29% rappresentato da quelli per cui la magistratura non fa mai nulla del genere. E fai a quel punto due gruppi, a rappresentare un’opinione pubblica pressoché equamente suddivisa tra quelli che ritengono esistente l’abuso giudiziario in campo politico (53%) e quelli di orientamento diverso (47%): col dettaglio, appunto, che quest’altro gruppo comprende il 18% convinto che la magistratura usi in modo indebito i propri poteri, per quanto “raramente”. Ora, d’accordo che i numeri sono come il tegumento di quelle parti innominabili, che giri e rivolti un po’ come vuoi: ma si ammetterà che considerare “raro” l’abuso politico-giudiziario denuncia un convincimento poco compatibile con quello di chi ritiene che invece non succeda “mai”. Per dire: se faccio un sondaggio sulle partite truccate e un 18% mi risponde che gli arbitri sono corrotti, la precisazione che il fenomeno è “raro” non dovrebbe tranquillizzarmi, né dovei essere indotto a usare il dato per rimpolpare quello complessivamente piccino costituito dai pochi convinti che le partite sono sempre regolari. Dice: vabbè, ma tutto questo pippone per quattro numeri rimaneggiati? Sì, perché quella rappresentazione sghemba serviva a confezionare il risultato di una società pressoché equilibratamente “divisa sui rapporti tra politica e magistratura” (così l’impassibile conduttrice, Marianna Aprile, che si è ciucciata l’adulterazione di quel 47% con un 18% che in realtà stava dall’altra parte, cioè tra quelli che ritengono che i magistrati, sia pur raramente, attentano al sistema democratico rappresentativo). Che uno dice ancora: ma è solo una trasmissione televisiva, che casino stai montandoci sopra! Eh no: perché dietro, sotto e sopra quel sondaggio c’è un fatto grosso come una casa. E cioè che gli italiani, che pure non amano “la politica”, sono tuttavia convinti in stragrande maggioranza (settanta per cento, appunto) che la magistratura abbia in modo illegittimo molestato rappresentanti e partiti politici. Un settanta per cento che, gioco forza, non sta tutto a destra né tutto a sinistra: e che trasversalmente sottoscriverebbe le riforme dell’amministrazione della giustizia che “la politica” esita a mettere in campo e che la reazione giudiziaria ostacola con pervicacia. Risarcimento alle vittime dei nazisti, la parola torna alla Consulta di Andrea Pugiotto L’Unità, 20 luglio 2023 C’è attesa per la decisione dei giudici costituzionali sul fondo istituito dal governo Draghi per il ristoro dei danni causati da crimini del Terzo Reich in Italia. Al di là della questione specifica, la Corte dovrà fare i conti con dilemmi formidabili. 1. Il 12 luglio ricorreva il 79° anniversario dell’eccidio di Fossoli: nel 1944, per ordine della Gestapo, 67 internati politici furono prelevati dal locale campo di concentramento, condotti al poligono di tiro di Cibeno, allineati lungo una fossa comune e fucilati, come rappresaglia per un attentato a Genova contro militari tedeschi. Fossoli è tra i tanti luoghi simbolo di analoghi episodi avvenuti tra il 1943 e il 1945: l’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia ne censisce oltre 5.000. Pochi giorni prima, il 4 luglio, si è svolta a Palazzo della Consulta un’udienza che ha molto a che vedere con tutto ciò. La decisione presa dai giudici costituzionali, non ancora nota, è molto attesa perché ritorna su una questione davvero vertiginosa. Quale? Per rispondere, serve fare un passo indietro. 2. Rendere giustizia alle vittime (e ai loro eredi) di crimini nazisti è una storia molto tormentata che dura ancora oggi. La via della responsabilità penale, in quanto personale, arranca tra difficoltà investigative, prescrizioni, irreperibilità e decessi degli imputati. Sono esiti agevolati dall’”armadio della vergogna”, scoperto nel novembre 1994 in uno sgabuzzino della Procura generale militare di Roma, con i suoi oltre 695 fascicoli occultati per “situazioni di ragion di Stato” svelate dall’apposita Commissione parlamentare d’inchiesta (XIV Legislatura, relazione finale approvata l’8 febbraio 2006). Quanto alla via della responsabilità civile, a lungo è stata sbarrata. Da un lato, la legislazione risarcitoria tedesca dei danni per simili crimini non include le vittime italiane. Dall’altro, una consuetudine internazionale riconosce l’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile per atti compiuti nell’esercizio di poteri sovrani (acta iure imperii). Non si può condannare uno Stato a pagare per quanto fatto da suoi funzionari, anche in caso di crimini di guerra. Non si può e basta: nella logica stato-centrica del diritto internazionale, ogni nazione si guarda allo specchio e si autoassolve. Questa grammatica giuridica chiude le vittime in un labirinto senza uscite. Uno stallo inaccettabile in uno Stato costituzionale nato a tutela dei diritti umani fondamentali. Un vero e proprio crimine di pace. 3. Ignorare un’ingiustizia equivale a perpetrarla. A ciò la Corte costituzionale italiana si è opposta, introducendo un’eccezione umanitaria: nel nostro ordinamento l’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile non opera per condotte palesemente criminali (sent. n. 238/2014). Ostano al suo ingresso i principi supremi, “inestricabilmente connessi”, della dignità della persona e del diritto di accedere alla giustizia iscritti nel genoma della nostra Costituzione (artt. 2 e 24). L’inedito giudicato costituzionale ha segnato così la ripresa di numerosi processi civili contro la Germania, giunti a condanne di cui ora si chiede l’esecuzione attraverso pignoramenti di beni tedeschi in Italia. Forte della consuetudine tutt’ora operante nei rapporti interstatali, nel 2022 la Germania ha perciò chiamato a giudizio l’Italia davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU (CIG), che già nel 2012 le diede ragione invitando allora le due parti a trovare una soluzione diplomatica alla controversia. Allo scopo di ricomporre definitivamente il contenzioso giurisdizionale in atto, è intervenuto il governo Draghi con una norma ad hoc (art. 43, decreto-legge n. 36 del 2022), istituendo un “fondo di ristoro per danni derivanti da crimini di guerra e contro l’umanità per la lesione di diritti fondamentali della persona compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani da parte di forze del III Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945”. 4. La misura introdotta è ad enorme potenziale simbolico. Riconosce finalmente soggettività alle vittime. Provvede a una riparazione forfettaria con risorse statali (oltre 55 milioni di euro in 4 anni), secondo una procedura di accesso normata, senza troppa fretta, da un decreto ministeriale pubblicato pochi giorni fa (G.U. 1° luglio 2023, n. 152). Dà una soluzione pacifica, dunque costituzionalmente orientata, a una dirompente controversia internazionale. Disinnesca la causa pendente contro l’Italia davanti alla CIG. Eppure, è contestata sotto molti profili: l’insufficienza del fondo; la non fungibilità tra ristoro e diritto al risarcimento; la ghigliottina caduta sui procedimenti in corso e a venire; il differente trattamento tra vittime italiane e tra queste e le vittime straniere; la disparità tra le parti processuali a vantaggio esclusivo della Germania. Davanti a crimini così atroci, abbastanza non è mai abbastanza, né è accettabile ricevere come generosa concessione ciò che spetterebbe per diritto (e in misura più adeguata). Sensibile a tali critiche, il Tribunale di Roma (sez. IV civile) ha eccepito l’incostituzionalità della norma perché priverebbe di effettività il “diritto al giudice” riconosciuto dalla sent. n. 238/2014. È così che si è ritornati a Palazzo della Consulta. 5. Non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. È dunque un compito difficile quello svolto dai giudici costituzionali, chiamati a decidere secondo diritto (spesso contorto), non ad andare là dove li porta il cuore. Va riconosciuto che l’ordinanza del tribunale romano è avvitata male. Pone una quaestio che è quasi la stessa del 2014, ma quel quasi fa una grande differenza: allora il giudice remittente chiedeva di avviare un giudizio di cognizione, mentre ora si discute dell’esecuzione di una pretesa risarcitoria. E il diritto internazionale sancisce l’immunità degli Stati (anche) dall’esecuzione forzata, in base a una norma consuetudinaria che il giudice romano, erroneamente, non ha impugnato. Stretta tra le ragioni della Costituzione e quelle degli obblighi internazionali (che per Costituzione vanno rispettati), la Consulta potrebbe trovare rinnovati equilibri: ad esempio, riconoscendo che il soddisfacimento effettivo dei diritti violati non esclude modalità alternative all’esecuzione forzata. L’estremismo nell’esercizio dei diritti, del resto, è la negazione del bilanciamento tra principi, che è la cifra del costituzionalismo delle libertà. Né può escludersi che il collegio costituzionale (interamente rinnovato rispetto a dieci anni fa) muti orientamento rispetto al recente passato. La sent. n. 238/2014 ambiva alla formazione di una nuova regola internazionale ispirata alla prevalenza della tutela dei diritti umani nei suoi riflessi civilistici. A distanza di un decennio, la novità stenta a imporsi mentre la fine della vecchia consuetudine tarda ad arrivare. Non potendo cambiare la realtà, la Consulta potrebbe allora cambiare spartito. 6. Oltre la quaestio specifica, la Corte costituzionale dovrà fare i conti con formidabili dilemmi di portata più generale. Il tema dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile riguarda tutti i crimini di guerra e contro l’umanità ovunque consumati, perché ciò che è accaduto continua ad accadere. Il passato e il presente dei tanti eccidi che la Storia conosce, ravvivati nelle aule di tribunale, potrebbero incendiare pericolosi scontri d’identità. Caduta quell’immunità, anche l’Italia potrà essere chiamata a rispondere delle atrocità commesse dal regime fascista (in Etiopia e in Libia, nei Balcani e in Grecia o in Spagna). Sono tutti fattori che possono aver indotto alla cautela i giudici costituzionali. All’opposto, la battaglia omerica ingaggiata dalla Consulta nel 2014 per un diritto internazionale umano-centrico è coerente con le ragioni di fondo della giustizia costituzionale, nata per limitare la sovranità statale a garanzia dei diritti della persona e della sua dignità. In simili questioni, poi, è proprio la matrice antifascista della Costituzione ad entrare plasticamente in gioco. Come saranno stati sciolti questi nodi? I pronostici sono per gli allibratori. A noi non resta che attendere di conoscere la decisione presa. Cartabia, l’aggravante che determinava la procedibilità d’ufficio non rileva in assenza di querela entro marzo 2023 di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2023 La retroattività dei nuovi presupposti dell’azione penale è stata mitigata da una finestra temporale per presentare l’atto della parte offesa. La mancata presentazione della querela nel periodo che va dal 1°gennaio 2023 a marzo scorso fa scattare la causa di improcedibilità dei reati che prima della Riforma Cartabia erano, invece, procedibili d’ufficio. Ciò vale in base alle disposizioni transitorie sull’entrata in vigore del Dlgs 10/2022. E, la Cassazione penale - con la sentenza n. 31483/2023 - ha affermato la rilevabilità della mancanza della condizione di procedibilità. Annullando di conseguenza, il decreto di sequestro preventivo senza rinvio. La necessità della querela non è superata neanche nel caso il reato sia stato contestato ante riforma all’indagato nella sua forma aggravata dalla rilevante quantità. Il caso concreto riguardava l’imputazione per appropriazione indebita aggravata per il danno di rilevante gravità/quantità. Aggravante prevista per i reati contro il patrimonio dall’articolo 649 bis del Codice penale e da cui conseguiva la procedibilità d’ufficio, ora non più sussistente per lo specifico reato di appropriazione indebita. L’annullamento deriva dal fatto che medio tempore è intervenuta la riforma, che ha trasformato molti reati anche aggravati imputabili in base a querela, ed è applicabile ai casi pendenti. Da cui deriva l’annullamento degli stessi se non è stata integrata - nel periodo indicato dal Legislatore - la condizione di procedibilità, cioè la querela. In difetto di quest’ultima di conseguenza i procedimenti vanno incontro all’annullamento, compresi quelli ancora in fase cautelare. Brescia. La Garante: “Canton Mombello, impossibile vivere in celle che hanno cento anni” di Mario Pari bresciaoggi.it, 20 luglio 2023 Diversi i problemi strutturali e sociali del Nerio Fischione. Da un punto di vista quantitativo, quindi di sovraffollamento, la situazione è sempre quella degli anni passati ma con una sola eccezione: il periodo del Covid, quando il numero dei detenuti all’interno del “Nerio Fischione” si ridusse. I problemi principali, al momento, sembrano essere piuttosto altri. I nuovi detenuti - “Cambia la tipologia dei detenuti presenti in istituto - spiega Luisa Ravagnani, garante, per il comune di Brescia, dei diritti delle persone private della libertà personale. Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono stati sostituiti con le Rems, ma il numero di queste strutture è molto ridotto e le persone stazionano in carcere più di quanto dovrebbero”. Il tema, quindi, è sempre più quello della salute mentale nella popolazione carceraria. Una fetta di loro non ha una diagnosi psichiatrica ma presenta dei disturbi derivanti dall’adattamento al carcere. Disturbi però “che non possono configurare una patologia specifica, ma che creano difficoltà per il personale penitenziario”. Una risposta, in tal senso, sembra poter venire dall’etnopsichiatria, di cui si è parlato recentemente alla conferenza dei garanti. “Si tratta - spiega Ravagnani - di un approccio psichiatrico che tiene conto delle variabili culturali, considerando che è sempre più presente l’esigenza di considerare gli stranieri da questo punto di vista”. Gli stranieri - I numeri del “Nerio Fischione”, in merito, non lasciano dubbi: “I detenuti stranieri sono il 70%, provenienti da 40 nazionalità. La convivenza è tra persone che provengono da numerosissimi Paesi e si pone un problema linguistico. A partire dai termini che si usano per dire cosa si mangia, fino a quelli di un colloquio psicologico”. Tutto ciò “incide sul percorso di recupero che deve tenere conto di standard comportamentali diversi” Questa “non è una questione di cattiveria, semplicemente non ci sono strumenti; i mediatori culturali sono pochissimi, ma anche la polizia penitenziaria è sotto organico. Dal mio punto di vista gli educatori dovrebbero essere dieci volte tanto”. La conclusione è che “non c’è volontà politica, il sovraffollamento è una buona scusa”. Le criticità - Ma il problema principale al Nerio Fischione risale a quando, come del resto adesso, tutti lo conoscevano come Canton Mombello. Bisogna risalire a un secolo fa. Perché di fatto “Cantone” è ancora lo stesso e la questione principale è assolutamente strutturale. “Non è possibile - conferma la garante - vivere in celle che hanno cento anni e del resto quella del carcere nuovo a Brescia è un tema che fa ridere. Nella questione strutturale si innescano diverse problematiche: ci sono i tossicodipendenti che non dovrebbero stare in carcere, la convivenza difficile tra i detenuti e chi poi c’è chi sbotta”. Dalla questione strutturale, quindi, ai problemi di comunicazione, fino a quelli di convivenza con detenuti tossicodipendenti: in attesa della prossima visita parlamentare. Torino. Carcere “Lorusso e Cutugno”, una situazione ormai insostenibile di Claudio Raffaelli comune.torino.it, 20 luglio 2023 Il carcere di Torino? Permanentemente sovraffollato, in condizioni strutturali e igieniche assolutamente inadeguate, carente di personale di custodia e di servizi sanitari, con attività interne di formazione culturale e professionale rivolte ai detenuti che risultano discontinue e insufficienti. Dietro i luoghi comuni del “chiudere in cella e buttare la chiave” o dello “stare in albergo a cinque stelle a spese dei contribuenti”, c’è una realtà che è stata descritta oggi nel corso di una riunione della commissione Legalità, presieduta da Luca Pidello, la quale si occupa anche delle condizioni delle persone in stato di detenzione. Ci sono degli elementari diritti costituzionali che oggi sono di fatto negati alle persone imprigionate, come hanno evidenziato le ricercatrici universitarie Perla Allegri e Rosalba Altopiedi, a nome di quell’associazione Antigone che fin dagli anni Ottanta del secolo scorso monitora la situazione delle carceri italiane. Una situazione pessima, hanno spiegato, nella quale il carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino non fa eccezione, a cominciare dal sovraffollamento: secondo dati ufficiali del Ministero della Giustizia, al 30 giugno risultavano presenti 1425 detenuti (per il 54% italiani) comprese 126 donne, a fronte di una capienza regolamentare di 1118. Un indice di sovraffollamento pari al 127% (superiore alla media nazionale che si attesta al 111%) che riguarda soprattutto i due padiglioni B e C. A peggiorare il quadro, le carenze strutturali delle celle e degli spazi comuni. Da sinistra, il vicepresidente Enzo Liardo, il presidente Luca Pidello, la ricercatrice universitaria Perla Allegri (Ass. Antigone) e Monica C. Gallo, Garante dei detenuti della Città di Torino Secondo un rapporto del Comitato di Prevenzione della Tortura (CPT), risalente all’anno scorso e citato dalle rappresentanti di Antigone, erano stati riscontrati vari casi di persone prive da settimane di abiti puliti e prodotti per l’igiene personale. Inoltre, segnalava il rapporto CPT, nell’ala destinata ai detenuti nuovi arrivati, sono collocate anche persone vulnerabili, con disturbi mentali, apparentemente a rischio suicidio (due i tragici casi verificatisi nelle ultime settimane): e questo in un contesto, segnalava il già citato report, assolutamente inadeguato per le persone fragili, con il mancato rispetto della loro dignità umana. Quello della fragilità delle persone detenute, o almeno di gran parte di esse, è un tema che è stato ulteriormente approfondito, a partire dagli aspetti legati al disagio psichico, con un 78% dei carcerati e carcerate che fanno uso regolare di sedativi e ipnotici. Sono inoltre in aumento eventi critici, dagli atti di autolesionismo sino a gesti estremi e drammatici come il suicidio. La carenza di personale incide pesantemente sulla qualità di vita dei detenuti e di chi nel carcere ci lavora: gli effettivi della Polizia Penitenziaria sono del 19% al di sotto della pianta organica, percentuale che si impenna al 28% per i funzionari giuridico-pedagogici. Secondo le rappresentanti di Antigone, poi, c’è anche un fattore di cultura giuridica locale, che vede la magistratura di sorveglianza poco propensa a entrare nel carcere. Un quadro confermato anche dall’intervento di Monica Cristina Gallo, la Garante dei diritti delle persone private della libertà della Città di Torino, che ha definito il carcere torinese “fuori dalla legalità”, in preda a una situazione non più gestibile per i detenuti come per il personale, sottolineando anche come nel corso delle loro pur frequenti visite, lei e i sui collaboratori e collaboratrici solitamente non incontrino personale sanitario e stigmatizzando l’assenza di assistenza psichiatrica. Gallo ha anche definito come imbarazzante la situazione del Ferrante Aporti, l’istituto minorile nel quale sono rinchiusi 44 ragazzi, che ha definito come abbandonato e sporco. Insomma, un quadro nel quale è difficile intravedere messo in atto quel concetto di finalità rieducativa della pena prevista del nostro ordinamento costituzionale. Del resto, anche l’Europa ha denunciato il nostro Paese per il trattamento disumano e degradante della popolazione carceraria. Nel dibattito seguito all’illustrazione della situazione, sono intervenuti, oltre al presidente Pidello, vari consiglieri e consigliere: Greco, Viale, Diena, Liardo, Conticelli, Tosto. Noto (Sr). La famiglia del detenuto morto in carcere: “Cosa è successo in quella cella?” siracusanews.it, 20 luglio 2023 Un testo forte, in cui si chiede anche l’intervento dell’onorevole Totò Cuffaro che, nei giorni scorsi, aveva rivolto un pensiero alla famiglia. Riceviamo e pubblichiamo per intero il testo della lettera scritta dalla mamma del detenuto 26enne originario di Noto deceduto in carcere a Ragusa e firmata dalla tutta la sua famiglia. “Ho solo una domanda da chiedere a chi ha visto e vissuto gli ultimi momenti di vita di mio figlio. Che cosa è successo in carcere a Ragusa in quella cella. Mio figlio mi diceva: mamma qui non sto bene. Mamma ho sempre un chiodo fisso in testa, non mi trovo bene, non mi trattano come a Cavadonna. Mamma e papà non lasciatemi solo, ho voglia di tenervi vicino, non vi voglio deludere con le cose che faccio o dico. Ma qui ho la sensazione che non mi vogliono, per loro sono un peso. Non vedevi l’ora di uscire per stare con i tuoi figli a casa là dove ti aspettava tua moglie. Non pensavi ad altro che incominciare a lavorare con papà. Sempre con il sorriso, con la battuta pronta, un ragazzo pieno di vita ma soprattutto con tanta voglia di viverla. Ora non voglio dilulgarmi troppo. Penso alle parole dell’onorevole Cuffaro che ha notato nel sorriso di mio figlio quella grande voglia di vivere che aveva. Che il carcere è un’esperienza dall’odore incancellabile. 25 anni sono pochi, troppo pochi. Chiedo e sollecito anche l’onorevole Cuffaro di aiutarmi, di aiutare chi come Salvo in carcere, viene abbandonato dalle istituzioni, da chi dovrebbe integrare e aiutare persone che vivono un disagio sociale, a chi è abbandonato a sé stesso. Basta o basterebbe ascoltare i detenuti e le loro esperienze. Ho gli occhi lucidi dalle lacrime versate, ho il cuore spezzato dal dolore. Ho solo la speranza e la voglia di sapere cosa sia successo nelle ultime ore della morte di mio figlio Salvo. Perché non si trovava nessuno nella cella di mio figlio. Ci sono alcune lacune che mi lasciano presumere che sia successo altro. Non crederò mai che quel sorriso si sia spento solo. Che un ragazzo pieno di vita se la sia spezzata. Io voglio sapere, sapere il perché! Perché è successo tutto ciò. Ci siamo visti e dati appuntamento per il nostro colloquio…quel giorno che non è arrivato! perché il giorno dopo il sorriso di mio figlio si è spento, senza dare nessun avviso alla famiglia. Solo una chiamata anonima di un detenuto che mi diceva signora Salvo non c’è più è morto. Mi sono incamminata incredula a Ragusa non sapendo se la notizia era vera o no. Ma non appena arrivata ho trovato tanta confusione - forze dell’ordine, dottori, scientifica, senza essere stata avvisata da nessuno della casa circondariale. Mi sembra strano, tante cose non mi coincidono. Se è vero che esiste la giustizia, io chiedo aiuto e giustizia per mio figlio che aveva tanta coglia di vivere e che amava tanto la famiglia. Salvo, vita mia, non mi fermerò qua. Voglio tutta la verità e se qualcuno ti ha fatto del male io combatterò fino a che verrà fuori la verità. Amore mio, tu mi dicevi sempre mamma non preoccuparti io uscirò da questo inferno. Si lo chiamava inferno perché era quello che gli hanno fatto vedere. Vita mia te l’ho promesso e le promesse si mantengono. Ti amiamo e ti amerò per sempre. La tua famiglia”. Alghero. “Ho commesso un reato, ma da due anni attendo di essere curato” sardiniapost.it, 20 luglio 2023 M.R. è un detenuto napoletano in un carcere della Sardegna. Ha 54 anni. È rinchiuso in una cella nel penitenziario di Alghero. Dopo il caso del farmacista morto domenica a Cagliari, l’uomo ha trovato il coraggio di scrivere all’associazione Socialismo Diritti Riforme (Sdr) che si occupa proprio di tutele dietro le sbarre. “Ho commesso un reato. Sono stato condannato. Sto espiando la mia pena. Ma a questa mi sono state aggiunte pene accessorie di natura fisica, per i continui dolori che ho quotidianamente all’addome e altri sintomi, e psicologica”. Il testo lo ha diffuso Maria Grazia Caligaris, socia fondatrice di Sdr. Affetto dal 2017 da “laparocele addominale”, trasferito in Sardegna nel 2021, M.R. attende, ormai da due anni, un intervento chirurgico dichiarato urgente, per le gravi conseguenze derivanti da una cavità nell’addome. “A dilatare i tempi dell’intervento - racconta la Caligaris - sono stati prima la pandemia, a causa della quale per ben tre volte si è sentito negare la possibilità di risolvere il problema sanitario, poi una serie di intoppi burocratici. Infine, grazie anche al personale impegno del Presidente del Tribunale di sorveglianza di Sassari, ha ottenuto un mese fa di poter effettuare un pre-ricovero all’Ospedale marino di Alghero ma da allora, nonostante gli avessero anticipato che nell’arco di una settimana avrebbe risolto finalmente il problema, la sua situazione non è cambiata. Sono trascorsi oltre 40 giorni di assoluto silenzio”. Nella sua lettera, il detenuto ha scritto: “Se il personale dell’ospedale aveva deciso di intervenire con urgenza perché di questo si tratta - si chiede ancora M.R. - come mai a distanza di oltre un mese non ho saputo più nulla? Che cosa è cambiato?”. Dice ancora la Caligaris: “La vicenda del detenuto napoletano è un’ulteriore dimostrazione delle oggettive difficoltà da parte dei cittadini, in particolare di quelli privati della libertà, di poter fruire del diritto alle cure in tempi adeguati ai bisogni. La sanità penitenziaria, che ha saputo far fronte alla pandemia, non riesce invece a garantire ai detenuti e alle detenute un diritto costituzionalmente riconosciuto. È diventato improcrastinabile dotare gli ospedali di appositi reparti per i ricoveri ma anche effettuare un serio monitoraggio della situazione sanitaria dentro le celle, dove si concentrano le patologie”. Ancora dalle parole della socia fondatrice di Sdr: “Pur in una situazione di emergenza per tutti, occorre ripensare alla riorganizzazione delle liste d’attesa. Non si può accettare che, come in questo caso, la programmazione di un intervento chirurgico diventi uno stillicidio. Auspichiamo una soluzione immediata per questo paziente detenuto e un intervento dell’assessore regionale della Sanità affinché la sanità penitenziaria abbia uno peso specifico nella programmazione”. Viterbo. “Mio figlio detenuto psichiatrico, da tre mesi a Belcolle aspettando un posto in Rems” di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 20 luglio 2023 Appello del padre di un figlio detenuto psichiatrico, ricoverato da aprile nel reparto di medicina protetta dell’ospedale di Belcolle in attesa che si liberi un posto in una Rems, una delle strutture riabilitative sparse per l’Italia dove i pochi posti disponibili, meno di cento nel Lazio, sono sempre più richiesti e riuscire a entrare è sempre più una chimera. Il figlio, un trentenne arrestato dai carabinieri il 10 marzo per rapina a mano armata, avrebbe fatto irruzione in un supermercato di Civita Castellana domenica 19 febbraio, in pieno giorno, armato di machete, durante il corso di gala del carnevale. Condotto a Mammagialla, in carcere è rimasto per circa un mese e mezzo dopo di che è stato trasferito presso il reparto di medicina protetta di Belcolle in seguito all’esito della perizia psichiatrica, secondo cui sarebbe incapace di intendere e di volere e socialmente pericoloso. Motivi per cui il giudice ne ha disposto il ricovero in Rems, in attesa del quale, essendo incompatibile col carcere ma sottoposto a misura di custodia cautelare, è stato portato in ospedale. “Sarebbe dovuto rimanere nel reparto solo alcuni giorni, al massimo due settimane, in attesa di essere inserito in una struttura idonea. Invece dopo tre mesi è sempre lì, mentre le sue condizioni psicofisiche hanno subito un repentino peggioramento e si stanno aggravando di giorno in giorno, con difficoltà nella deambulazione, aumento smisurato del peso e riduzione della capacità visiva”, spiega il genitore. “Dopo tre mesi mio figlio è sempre a Belcolle, costretto a vivere 24 ore su 24 chiuso in una stanza di due metri per due con un bagno, senza alcuna possibilità di uscire a prendere una boccata d’aria, come viene concesso a tutti i detenuti”. prosegue il padre. “È autorizzato a fare una videochiamata al giorno e io vado a trovarlo tutti i giorni, ma sta sempre peggio, sia a livello mentale che fisico. Ha le gambe atrofizzate per la mancanza di movimento e sta mettendo su peso in maniera preoccupante”, dice ancora. “Un giorno si è scagliato contro la porta blindata, tanto per rendere l’idea delle sue condizioni sempre più preoccupanti”, sottolinea il genitore, la cui unica speranza al momento è che il figlio possa essere sottoposto al più presto a un percorso di recupero presso una Rems. “Sembrava si stesse per liberare un posto a Savona, invece niente. Dicono che non sia facile trovare una struttura con funzioni riabilitative adeguata al suo caso, anche perché è in misura. Noi siamo disposti ad andare ovunque, dal Trentino alla Sicilia, purché venga curato. Il percorso dovrebbe durare uno o due anni, ma se non si parte, non si arriva. Mio figlio ha sbagliato, è vero. Ha un passato difficile, è vero. Ma con il ricovero in Rems disposto dal giudice gli è stata data un’occasione per provare a rimettere le cose a posto. Invece si sta distruggendo in ospedale”. Treviso. Riapre il carcere minorile. Ostellari: “Sarà luogo di educazione e lavoro” di Denis Barea Corriere del Veneto, 20 luglio 2023 “Rispetta la nuova visione per minorenni”. Ma i sindacati: “Rinviare l’apertura”. Dopo una chiusura forzata di oltre un anno il penitenziario minorile di Santa Bona riapre lunedì prossimo. La struttura era stata chiusa dopo alcune rivolte scatenate da detenuti nell’aprile del 2022, diventando in gran parte inservibile a causa di un incendio appiccato dai più facinorosi. Ora a fronte di una capienza di 12 posti, ne saranno utilizzati dieci per aumentare lo spazio pro capite. “La nuova visione del trattamento dei detenuti soprattutto minori - spiega il leghista Andrea Ostellari, sottosegretario alla giustizia - punta ad assicurare educazione, formazione e lavoro. Insegnare oggi una professione a un detenuto minorenne, significa domani avere un criminale maggiorenne in meno. Lo dicono i dati: il 98% dei carcerati che affrontano un percorso lavorativo poi smettono di delinquere”. Tornano quindi a Treviso i ragazzi che erano stati spostati nel carcere di Airola, in provincia di Benevento, e in quello napoletano di Nisida proprio in seguito alla sommossa scoppiata nella primavera dell’anno scorso. Il penitenziario, dove sono stati richiamati in servizio tutti gli agenti che vi erano originariamente impiegati, diventerà l’unico centro di detenzione per minori in Veneto in attesa che entro la fine del 2024 apra la nuova struttura di Rovigo nello stabile (rinnovato e modernizzato) del vecchio carcere per adulti. A quel punto Treviso si trasformerà in un centro di prima accoglienza per chi si trova in attesa di giudizio. Il carcere minorile di Treviso è stato però l’altro ieri oggetto di una visita da parte di una delegazione della Funzione Pubblica della Cgil di Treviso, che, in vista dell’apertura, non ha mancato di segnalare alcune criticità. “L’unico accesso alla sezione detentiva - spiega una nota del sindacato - risulta essere angusto e non consente di accedere in sicurezza in caso di necessità con proprie attrezzature di soccorso nella sezione di pronto intervento e d’aiuto. In caso di emergenza abbiamo notato che l’entrata e l’uscita dalla sezione detentiva, al percorso d’uscita, presenta una larghezza non conforme ai parametri stabiliti dalla Legge”. In realtà l’accesso alla sezione detentiva non è stato oggetto di ristrutturazione ed è lo stesso che era stato approvato prima dei lavori. Per i sindacati però mancherebbero le certificazioni dell’impianto antincendio e di quello elettrico. “Non si conoscono le modalità di certificazione da parte di chi li ha installati e se i lavori sono stati eseguiti correttamente utilizzando materiali certificati come previsto dalle norme”. Per questo, i sindacati hanno inviato una nota all’amministrazione della giustizia minorile di Treviso chiedendo di rinviare l’apertura del penitenziario e rinviare il trasferimento del personale carcerario in attesa della messa in sicurezza della struttura. “Non si può procedere senza prima garantire la sicurezza di tutte le persone che lavorano all’interno della struttura come anche dei detenuti minorenni - conclude la Fp Cgil abbiamo diffidato l’amministrazione della giustizia minorile nel caso in cui non provveda a mettere in sicurezza i locali”. Genova. Volontariato con i detenuti, Cristina Ercolani racconta la sua esperienza di Michela De Leo ilcittadino.ge.it, 20 luglio 2023 Cristina Ercolani da tanti anni presta servizio nella Veneranda Compagnia di Misericordia, in particolare con le visite ai detenuti nel carcere di Pontedecimo e con il supporto alla Casa Famiglia femminile in Centro Storico. Ecco la sua esperienza. La Veneranda Compagnia di Misericordia è un’antichissima istituzione che, sostenuta dall’8xmille alla Chiesa Cattolica, da cinque secoli opera a Genova in favore dei carcerati e dei loro famigliari. Si fregia del titolo Veneranda in quanto veniva già citata nel 1464 nella medesima attuale opera, che è quella di assistere con impegno cristiano detenuti e persone con problemi di giustizia. Una realtà quasi sconosciuta, ma che, attraverso il lavoro dei Soci (confratelli e consorelle) e dei volontari, opera per il recupero morale e per il reinserimento sociale, lavorativo e famigliare dei loro assistiti con spirito di servizio e di fratellanza. Il rapporto con gli assistiti non si limita al semplice ascolto e all’offerta di aiuti immediati, ma intende anche stimolarli al processo di recupero, attraverso un’assistenza di carattere morale educativo e spirituale, il ripristino dei rapporti con la società, la ricerca di un lavoro da assumere con il dovuto impegno. Per conoscere meglio questa realtà, Cristina Ercolani, che da tanti anni presta servizio nella Veneranda, in particolare con le visite ai detenuti nel carcere di Pontedecimo e con il supporto alla Casa Famiglia femminile in Centro Storico, racconta la sua esperienza. Cristina, dove nasce il desiderio di fare volontariato con i detenuti? Perché dedicarsi a persone che tutto sommato hanno sbagliato e devono pagare? “Questo è esattamente quello che il più delle volte mi sento dire, ma vorrei spezzare una lancia, nel senso che sicuramente il marchio di una condanna del carcere crea un pregiudizio per queste persone. Però se noi partiamo dal presupposto che il fine della pena deve essere la rieducazione, aiutare ad evitare la recidiva, è giusto che vi siano delle associazioni come la nostra che aiutano quella che è l’istituzione penitenziaria, che non può arrivare a tutto. Io sono assistente volontaria da 10 anni nella casa circondariale di Pontedecimo e mi reco in carcere almeno due volte alla settimana. E ho la possibilità in carcere di fare colloqui e di conoscere di maturare la conoscenza con le detenute che incontro”. Qual è il servizio che offrite? “Innanzitutto le visite in carcere nelle due Case circondariali di Marassi e Pontedecimo: i volontari prestano ai carcerati che lo richiedono assistenza morale e materiale. Vengono effettuati più di 4.000 colloqui all’anno. I colloqui effettuati nel carcere femminile di Pontedecimo permettono di maturare la conoscenza di alcune detenute che, giunte a scontare almeno metà della pena, possono usufruire delle misure alternative al carcere. In questi casi la Compagnia è in grado di offrire due strutture di riferimento: la Casa Famiglia femminile, che accoglie fino a 8 detenute. L’accoglienza è continuativa 24 ore su 24, gratuita e prevede vitto e alloggio. Uno degli scopi dell’ospitalità è la preparazione al reinserimento sociale al fine pena. Da pochi mesi è attiva anche una Casa Famiglia maschile che accoglie fino a tre posti i detenuti provenienti dal carcere di Marassi in misura alternativa. Nei primi tempi di inserimento in Casa Famiglia fino a quando non trovano un lavoro - prosegue - le ospiti partecipano nelle ore pomeridiane a un laboratorio di cucito femminile che accoglie fino a 12 persone. Il Centro Colloqui, inoltre, aiuta a svolgere le complesse pratiche burocratiche legate alla situazione di reclusione, prepara insieme al soggetto un progetto di reinserimento graduale sociale e lavorativo che tenga conto delle competenze già acquisite, della preparazione scolastica, dei condizionamenti di salute. Per il carcere di Marassi c’è Casa Mandela che offre ospitalità ai detenuti in permesso premio. Infine, è attiva la lavanderia industriale, situata nei locali a piano terra della nostra sede, svolge attività per enti pubblici e privati con servizio di raccolta porta e riconsegna. Vi lavorano le detenute in affidamento ospitate presso la Casa Famiglia”. Quali sono i frutti del vostro lavoro? “È stato constatato che la persona che esce dal carcere e che è assistita da strutture di accompagnamento come la nostra è più difficile che reiteri: chi rimane abbandonato a se stesso è più facile che ‘ci ricada’ e che torni a commettere gli errori del passato. Due persone su tre rischiano così di rientrare in carcere, ma se sono assistiti, affidati a servizi sociali e in strutture come la nostra, dove veramente ci occupiamo della persona 24 ore su 24, direi che è meno probabile che poi riprendano le brutte strade”. In che modo si mantiene l’associazione? “Abbiamo due sovvenzioni molto importanti, uno deriva dall’otto per mille alla Chiesa cattolica. E l’altro è il Comune di Genova. Sono queste, diciamo, le due entrate principali che noi riceviamo, oltre a offerte da privati. Una volta si facevano anche delle questue nelle parrocchie, però ormai i bisogni a cui fare fronte sono tanti… cerchiamo tutti di aiutarci come possibile”. Chieti. Giornalismo dal carcere, lo stato dell’arte vocididentro.it, 20 luglio 2023 “Il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo Stefano Pallotta è intervenuto al Foyer del Teatro Marrucino a Chieti alla presentazione in pubblico del nuovo Numero 48 di ???????? ???? ????????????, il periodico nato dall’idea di creare una libera informazione su problemi e attualità, dalla guerra al carcere. Anche la guerra, come molti altri temi, non più affrontati dai media - soprattutto on line - in modo critico e approfondito, sono diventati “invisibili”. Perché la società è distratta. “??? ?????????? ????’?????????????????? ?????????????? ???????????? ?????? ?????? ?????? ?? ????????????????” - ha detto Pallotta, sottolineando come l’informazione sia scaduta appiattendosi on line su contenuti leggeri, di uso e consumo veloce, ma perdendo la caratteristica non tanto di fare pedagogia sociale quanto di accompagnare i fatti con l’indagine sociologica. Indagine che la carta stampata conserva, mentre subisce una progressiva e consistente diminuzione di lettori. Ma i lettori - ha commentato Antonella La Morgia, Vicedirettore di Voci di dentro - interessano a noi, che continuiamo a credere nel vero giornalismo. Gli altri celebrano i follower. Ma quanti follower sono veramente “lettori”? Francesco Lo Piccolo Direttore di Voci di dentro, ha ripercorso nascita e missione operativa della Rivista, che intende rimanere ancorata ai suoi capisaldi: fonti e documenti delle notizie, testimonianze dirette, le voci, insomma, di chi non ha voce. Un giornalismo plurale per una società senza muri. Ecco, dunque, emergere un carcere che - ha osservato Stefania Basilisco, funzionario giuridico pedagogico della Casa Circondariale di Chieti - può e deve dialogare con il territorio in un rapporto di reciproca conoscenza e scambio che la società si deve mostrare preparata a fare, e deve essere aiutata a fare. Un presidio, quello di Voci di dentro, ma anche un attore fondamentale per promuovere quella che può essere una learning city, una città che apprende da tutti, progetto e speranza di crescita culturale, inclusione e civiltà”. Andrea Purgatori, il giornalismo come missione di Loredana Lipperini La Stampa, 20 luglio 2023 È morto ieri a 70 anni dopo una fulminante malattia. Scavare nei fatti con ostinazione è stata la sua magnifica ossessione. Forse la prima immagine di Andrea Purgatori che mi viene in mente è confusa e sfocata dal fumo dei lacrimogeni. È il 12 maggio 1977, Purgatori è un ragazzo di 24 anni, perché a quell’epoca ci si buttava presto nelle strade e sui tasti della macchina da scrivere. È cronista - parola che amava molto - per il Corriere della Sera, e come altri colleghi sta seguendo la mattanza che è in pieno svolgimento nel centro di Roma. C’è la polizia che spara lacrimogeni e colpi di pistola ad altezza d’uomo. E molti agenti in borghese, moltissimi. Purgatori prende nota. Poco dopo le 21, si sparge la notizia della morte di una ragazza, che si rivelerà essere Giorgiana Masi. Purgatori va a chiedere conferma al dirigente dell’ufficio politico Umberto Improta, che dichiara: “Non mi risulta nulla. La radio non ha comunicato niente. L’ospedale non ha detto nulla. La polizia non ha sparato”. Ma grazie a lui e a quanti sfidarono la versione ufficiale con le cronache e con le fotografie, divenne chiaro che la verità era un’altra. E adesso che la vita di Andrea Purgatori si è conclusa, troppo presto, a 70 anni, non si può che immaginarlo per il resto della sua esistenza nello stesso atteggiamento del ragazzo di allora: un uomo con l’esigenza di continuare a chiedere, continuare a cercare. Non fece mai la scelta del protagonista di Una storia semplice di Leonardo Sciascia, di cui Purgatori firmò la prefazione nel 2003: “Pensò di tornare indietro, alla questura. Ma un momento dopo: “E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?”. Riprese cantando la strada verso casa”. Cacciarsi nei guai, o meglio scavare nei fatti con ostinazione e senza mai smettere è stata la magnifica, coraggiosa ossessione di Purgatori. A partire, certo, da Ustica. È il pomeriggio del 27 giugno 1980. A Bologna, ci sono forse bambini che stanno comprando un costume da bagno e delle pinne. C’è tempo: l’aereo partirà con 113 minuti di ritardo. Quelle pinne verranno chiuse in un bagaglio a mano. Saranno riunite, dopo molti anni, a un’agenda Snam del 1980, un libretto di assegni, diverse schedine del totocalcio, un manuale di saldatura, la biografia di Enzo Ferrari scritta da Enzo Biagi, crema da barba, sapone neutro, una sveglia da viaggio, uno spray per l’alito, un sandalo da donna, deformato. Sono, ora, in una delle nove casse nere del Museo per la Memoria di Ustica. Quando l’aereo cade, Andrea Purgatori ha 27 anni. Quella sera, raccontò, aveva mangiato salato e nella notte si alzò per bere. Era ancora davanti al frigorifero quando squillò il telefono: era un suo contatto, che gli disse che l’aereo era caduto. Non ti far fregare, l’hanno colpito, gli disse. Non ti far fregare, ribadì, prima di riattaccare. Partì da quella telefonata la lunga inchiesta di Purgatori che, passo dopo passo, ancora una volta, confutava le verità ufficiali. Nessuna bomba, fu un missile. Ci si dedicò per anni (ha forse mai smesso di farlo?), lavorando con i familiari delle vittime. Nel 1991 lavorò alla sceneggiatura del film di Marco Risi, Il muro di gomma. A rileggere oggi le parole conclusive si capisce che Andrea Purgatori era tutto là, in quei perché: “Perché chi sapeva è stato zitto? Perché chi poteva scoprire non si è mosso? Perché questa verità era così inconfessabile da richiedere il silenzio, l’omertà, l’occultamento delle prove? C’era la guerra quella notte del 27 giugno 1980: c’erano 69 adulti e 12 bambini che tornavano a casa, che andavano in vacanza, che leggevano il giornale, o giocavano con una bambola. Quelli che sapevano hanno deciso che i cittadini, la gente, noi non dovevamo sapere: hanno manomesso le registrazioni, cancellato i tracciati radar, bruciato i registri, hanno inventato esercitazioni che non sono mai avvenute, intimidito i giudici, colpevolizzato i periti. E poi, hanno fatto la cosa più grave di tutte: hanno costretto i deboli a partecipare alla menzogna, trasformando l’onestà in viltà, la difesa disperata del piccolo privilegio del posto di lavoro in mediocrità, in bassezza. Ora, finalmente, mentre fuori da questo palazzo, dove lo Stato interroga lo Stato, piove, a molti sembra di vedere un po’ di sole. Aspetta. Queste ultime tre righe non mi piacciono. Aggiungi soltanto... Perché?”. Ci fu molto altro, intanto e dopo, e prima. Il caso Moro, e gli anni delle stragi, i delitti di mafia. Le sceneggiature, tante. Quella de Il giudice ragazzino, che nel 1994 racconta la storia di Rosario Livatino, contiene un’altra frase esemplare: “Se egli rimarrà sempre libero ed indipendente si mostrerà degno della sua funzione, se si manterrà integro ed imparziale non tradirà mai il suo mandato”. Purgatori non lo ha mai tradito. Ha seguito fino alla fine il caso di Emanuela Orlandi, su Atlantide, il suo programma su La7, e partecipando alla docuserie di Netflix Vatican Girl. Sempre su Atlantide, è tornato sull’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Ha scritto la sceneggiatura di Fortapàsc su Giancarlo Siani, un altro “ragazzino” che pagò morendo la ricerca della verità. E poi? E poi c’è una vita intera, come reporter di guerra (in Libano, in Iran, nel Golfo), come saggista, come oratore, conduttore, attore. Fu il “camerata Fecchia” in Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti, con cui ha giocato ne Il caso Scafroglia e anche in Aniene, e si è persino divertito ad apparire più volte nella serie di culto Boris, e a scrivere un romanzo con spie e misteri, Quattro piccole ostriche. E poi, e ancora? È stato presidente di Greenpeace Italia tra il 2014 e il 2020, perché, immagino, faceva parte di quella generazione che ha visto nascere l’ambientalismo. Non ha mai smesso di appassionarsi, e questa, in un’epoca di passioni spente o fievoli, è la cosa più importante che lascia. Allora, volevamo essere come lui, o almeno lo volevo io, in quegli anni in cui si era ventenni e si sognava di non mollare mai la ricerca della verità. Lui non ha mai smesso. È sempre stato con lo sguardo fisso nel buco nero degli ultimi decenni del Novecento, e che ancora grava sul nostro, perché verità non è stata fatta. Perché non succede da noi? La rabbia dei giovani ha una dimensione più privata di Antonio Polito Corriere della Sera, 20 luglio 2023 Nelle differenze tra Italia e Francia, che hanno radici storiche, c’è un sottofondo comune: il nichilismo dei teenager. Anche se non sono fenomeni accostabili da noi la violenza dei giovani si esprime in forme che risultano più difficili da comprendere. Mentre tutti guardavano con sgomento alla rivolta nelle strade di Francia, qualcuno si chiedeva: “Perché non succede anche da noi?”. C’è infatti un consistente filone di pensiero che considera disperata la nostra situazione sociale, vede grandi masse di giovani impoveriti e diseredati, lamenta il dilagare del razzismo, denuncia forme di governo autoritarie. E dunque non si spiega come mai questo stato di cose non produca una sollevazione, se non una rivoluzione. Per chi la pensa così, le notti di fuoco dei teenagers d’oltralpe sono dunque quantomeno un monito (Giuseppe Conte ha profetizzato un “incendio sociale”), se non un modello. Pur senza lanciarsi in paragoni azzardati, perché ogni Paese fa storia a sé, il parallelo con Parigi potrebbe invece indurci a una riflessione ottimistica. Nel senso che i nostri innegabili problemi forse non sono così gravi come sembrano, e comunque non così gravi come in altri Paesi europei. Per esempio, l’immigrazione. È vero che da noi il fenomeno è troppo recente per poter già dare un giudizio sul grado di integrazione raggiunto dai cosiddetti “newcomers”: sappiamo ormai per esperienza che sono le terze e quarte generazioni a mostrare una rabbia che genitori e nonni non avevano nei confronti del Paese ospitante. Riscoprono l’orgoglio delle origini, si ribellano a ogni forma di discriminazione. E finiscono per odiare il posto dove vivono. Non siamo ancora in grado di capire se questo accadrà un giorno qui come in Francia. Però è sicuramente vero che il modo, perfino la distribuzione geografica, con cui si è stratificata la presenza degli stranieri che vivono stabilmente in Italia è molto diverso da quello francese e anche da quello inglese. Ghetti da noi, con qualche riprovevole eccezione, non ce ne sono. E anche i quartieri delle nostre città a più forte concentrazione di immigrati non presentano certo le caratteristiche sociali e culturali delle banlieue parigine. Il vero problema italiano semmai, è quello dei cosiddetti “clandestini”, di chi è costretto a una vita fuorilegge. Quel serbatoio di illegalità va perciò prosciugato il più possibile, anche attraverso l’accoglienza e l’integrazione, non solo provando a rallentare il traffico di esseri umani nel Mediterraneo. C’è però un aspetto della condizione giovanile in Italia che non va sottovalutato. Mentre in Francia i ragazzi facevano notizie per gli scontri con la polizia, da noi le cronache raccontavano gli scontri stradali di super-car guidati da giovanissimi ebbri di velocità o di stupefacenti. Oppure ancora di delitti atroci per un po’ di droga, di pestaggi mortali a barboni, di sfide tra bande, di accoltellamenti del sabato sera per una ragazza, di femminicidi. Lungi da me voler accostare i due fenomeni. Ma quel sottofondo di nichilismo, di perdita di senso della vita, che certamente c’è sotto la pelle della questione razziale nella rivolta dei teenager francesi, agisce eccome anche da noi nel corrompere l’animo dei nostri figli, anche se assume forme per così dire più “private”. E proprio per questo perfino più incomprensibili. Migranti. Caos accoglienza: tornano le tendopoli di Laura Berlinghieri La Stampa, 20 luglio 2023 Tre tende allestite dall’Esercito all’esterno del centro di accoglienza. In un piazzale verde, sotto il caldo torrido che da giorni brucia il Veneto. Da una settimana, una ventina di richiedenti asilo vive lì dentro. Perché i posti nella vicina struttura deputata a ospitare i profughi - l’ex palazzina Nato, a Verona, nella zona delle Torricelle - sono tutti esauriti. E così, venerdì l’Esercito ha dovuto montare le tre tende, rispolverando un’immagine che sembrava relegata alla storia. È l’esempio plastico dell’emergenza migranti in Italia e in Veneto, dove nelle prossime settimane sono attesi quattromila profughi. Ma nella Regione amministrata da Luca Zaia la temperatura è particolarmente calda. La situazione è deflagrata l’11 luglio, quando Zaia presentava il nuovo protocollo regionale di “accoglienza diffusa” dei migranti, e contemporaneamente il prefetto di Vicenza Salvatore Caccamo “abbandonava” venti richiedenti asilo tra le strade di sei Comuni della provincia, per comunicare nella maniera più dura e drastica che il sistema era saltato. “Scaricati come pacchi davanti ai municipi” la protesta unanime degli amministratori vicentini. E allora, martedì Paolo Lanaro, sindaco di Cornedo, uno dei sei Comuni che erano stati individuati da Caccamo, ha riportato in prefettura i tre profughi che gli erano stati consegnati. Prelevati con un pullmino e riportati indietro. Tra loro c’era anche un tunisino di 15 anni, poi ricollocato in una comunità protetta. Mentre gli altri due, tra cui il fratello maggiore del ragazzo, sono stati riportati a Cornedo: alla fine, li ha ospitati il parroco. Il sindaco continua a dire: “Non ho spazio per loro”. Il prefetto di Vicenza è stato anche richiamato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Ma la situazione non è cambiata, perché in Veneto il sistema è saltato. Quella di Cornedo è solo una storia, tra le tante che si sommano in questi giorni. E se ne aggiungeranno ancora, immaginando l’impatto dei nuovi arrivi. Per questo, la settimana scorsa, a Verona sono spuntate le tre tende. Proprio come era successo a Pelago, nel verde della provincia di Firenze. Secondo la questura, dal 1° aprile a oggi nella provincia scaligera sono arrivati 117 profughi, tanti almeno sono stati censiti dall’ufficio immigrazione. Ma è un dato certamente al ribasso. I migranti ospitati alle Torricelle, il quartiere che sovrasta il centro storico, sono arrivati lì da Marghera, e a Marghera erano arrivati dopo gli sbarchi sulle coste della Sicilia. La sistemazione nelle tre tende è “provvisoria” assicura il prefetto Donato Cafagna, “una prima tenda è già stata rimossa e gli altri venti immigrati saranno tutti trasferiti entro lunedì in una struttura già individuata in provincia, non appena questa sarà disponibile”. Intanto rimangono lì dentro, a un passo dal centro di accoglienza ormai saturo. È gestito da anni dalla cooperativa Milonga, ha esaurito tutti i posti a disposizione. “Gli ospiti accolti nelle tende possono usufruire degli spazi e dei servizi comuni presenti all’interno della struttura” assicura ancora il prefetto, “e le tende sono dotate di impianti di raffrescamento dell’aria”. Non è così a Oderzo. Sempre Veneto, provincia di Treviso. Qui la “tendopoli” esiste dal 2016. Avrebbe dovuto essere smantellata nel 2018, con Matteo Salvini ministro dell’Interno. Sono passati cinque anni, ma la tendopoli è sempre lì. Oggi ospita 260 migranti, il massimo consentito, ma in passato era arrivata ad accoglierne anche più di 500. Anche loro arrivano dall’Africa: il giorno lavorano tra i campi e le fabbriche della provincia, la sera tornano nel centro, con coprifuoco alle 20. In queste notti di aria irrespirabile, raccolgono le lenzuola e si gettano sull’asfalto: in tanti dormono lì, per terra, fuori dalle grosse tende. A poca distanza da qui, tra Treviso e il piccolo Comune di Casier, c’è poi il più grande centro di accoglienza del Veneto: l’ex caserma Serena. Anche questa aperta nel 2016, è gestita dalla società Nova Facility e ospita circa 450 profughi. Sei bagni per gli uomini, sei bagni per le donne e camerate da otto persone, che però arrivano a ospitarne fino a dodici. Ma è il racconto di chi vive lì dentro, perché la struttura è impermeabile all’esterno e raccontarla non è possibile, se non affidandosi alle parole di chi ci abita. Tornando a Oderzo, quando la tendopoli fu aperta, nel 2016, in 300 scesero in piazza, per una fiaccolata contro il centro. Da un lato i residenti, dall’altro i migranti: lo stesso copione a Cona (Venezia) e a Bagnoli di Sopra (Padova), le cittadine venete dove all’epoca furono allestiti due tra i principali hub della Regione. A Oderzo, a guidare il corteo contro la struttura c’era Luca Zaia, presidente allora e presidente adesso. Ora predica “l’accoglienza diffusa” dei migranti, andando contro la schiera dei sindaci della Lega che nel 2016 alzò le barricate contro i migranti, ed è pronta a farlo ancora. Alberto Stefani, neosegretario veneto della Lega, deputato e sindaco di Borgoricco (Padova), è chiaro nel dire: “No all’accoglienza indiscriminata dei richiedenti asilo nei Comuni”. Ed è una linea condivisa dalla maggior parte dei colleghi amministratori. Intanto i migranti di Verona restano nelle tende, in attesa di scoprire dove li porterà il loro prossimo viaggio. L’impegno di Papa Francesco per fermare “l’inutile strage” di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 20 luglio 2023 Il cardinale Zuppi in visita a Kyiv, a Mosca e a Washington per cercare di riallacciare il filo di un dialogo che permetta finalmente di porre fine al conflitto in Ucraina. Papa Francesco è da tempo convinto che i conflitti in corso siano connessi tra loro. Spesso ha parlato di “guerra mondiale a pezzi”. Nel mondo globale, le crisi si comunicano con intensità: basta guardare alla vicenda del grano russo e ucraino, la cui mancanza rischia di affamare tanti Paesi. Del resto, con l’aggressione della Russia all’Ucraina, si è profilato un conflitto tutt’altro che locale, il primo in Europa dopo il 1945 (diverso dalle guerre a seguito della dissoluzione della Jugoslavia), con vasti coinvolgimenti e ampie ricadute. La posizione di Francesco è stata partecipe del dramma della popolazione ucraina, perché la guerra si combatte solo in territorio ucraino e sono gli ucraini a pagarne il prezzo. La Santa Sede e i suoi rappresentanti hanno presente chi è aggredito e aggressore. Bergoglio, di fronte al conflitto, esprime un sentire analogo ai papi del Novecento verso le guerre, specie mondiali. La Santa Sede considera la guerra come “inutile strage”. Lo disse Benedetto XV, nel 1917, e gli valse l’accusa di minare il morale dei combattenti contro gli austro-tedeschi (tanto che gli fu attribuita una responsabilità sulla sconfitta di Caporetto). Pio XII, nel 1939, alla vigilia della guerra, di fronte a un Terzo Reich che stava per invadere la Polonia, si appellò al mondo per radio: “Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare”. La visione di Francesco sulla guerra si trova nella Fratelli tutti: “Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male”. Nel cuore della guerra, la Santa Sede cerca vie di pace, certo una pace giusta, e persegue l’aiuto umanitario per alleviare i colpi della guerra sulla gente e sui combattenti. Lo fa sistematicamente nei conflitti. In questa visione, s’inquadra la missione del cardinale Zuppi, iniziata a Kyiv, dove ha toccato il dramma umanitario del Paese, oltre che incontrare il presidente Zelensky. L’importante aiuto umanitario della Chiesa è un sostegno alla resistenza della popolazione ucraina. Il cardinale Krajewski, “ministro della solidarietà” del Papa, è stato sei volte in Ucraina con carichi e aiuti: “il Papa vuole essere vicino a chi soffre”“, ha detto. Poi Zuppi si è recato a Mosca, prima personalità “occidentale” in visita nella capitale russa. È stato ricevuto dal consigliere per le questioni internazionali, Ushakov, non da Putin. Il problema umanitario ucraino è stato al centro dei colloqui, anche su richiesta del governo di Kyiv. Mancava da tempo un confronto di livello tra governo russo e Santa Sede. Il “viaggio” del cardinale, in nome del Papa e assistito dalla Segreteria di Stato e dalle nunziature, non si è fermato. La tappa a Washington non poteva mancare, anche per i rapporti storici tra Santa Sede e Stati Uniti, a partire dalla Seconda guerra mondiale e poi nel superamento della guerra fredda (nonostante la divergenza sulle guerre in Iraq). Gli Stati Uniti sono il capofila dell’aiuto all’Ucraina, ma hanno anche vigilato perché il conflitto non si allargasse, coinvolgendo il territorio russo e le armi atomiche. La prospettiva degli americani è sostenere il contenimento ucraino dell’attacco russo. La Santa Sede tende a ridurre i danni umani e a cercare percorsi di pace (non ancora individuati) per coniugare fine dei combattimenti, giustizia e sicurezza. Gli Stati Uniti, per il loro sguardo mondiale, sentono l’importanza della “global leadership” di Francesco e della Santa Sede. Lo ha mostrato il lungo e cordiale colloquio tra il presidente Biden e l’inviato del Papa. Anche durante la Seconda guerra mondiale, gli Usa erano molto interessati a essere a contatto con il sentire della Santa Sede, più che a spingerla a schierarsi con loro, come invece facevano gli altri alleati. Come mostra la missione di Zuppi, la Santa Sede non è omologata agli altri attori internazionali, ma nemmeno neutrale: per questo ha la capacità di rappresentare un punto di vista, che all’inizio forse può sembrare un po’ distaccato da chi è coinvolto nel conflitto (anche settori cattolici), ma che ha un suo valore particolare. Lo dimostra l’interesse a ricevere l’inviato del Papa da parte dei Paesi visitati e da altri. Lo evidenzia il fatto che i governi interpellano su questa problematica la diplomazia vaticana. Sul lungo periodo, le visioni dei papi si sono mostrate di rilevante interesse, anche per la ricostruzione di rapporti fondati sulla fiducia e la sicurezza tra i governi. L’Egitto grazia Zaki, Meloni: “Oggi sarà in Italia” di Marta Serafini Corriere della Sera, 20 luglio 2023 Il presidente egiziano Al Sisi ha concesso la grazia al ricercatore egiziano condannato ieri a 3 anni. La premier italiana: “Gli auguro una vita di serenità e successo”. A rendere noto della grazia sono state le autorità egiziane, secondo quanto confermano Reuters e Ansa. Concessa la grazia anche a Mohamed al-Baqer, l’avvocato di Alaa Abdel Fattah, il più famoso detenuto politico egiziano che si trova ancora in carcere, riferisce il quotidiano di Stato al- Ahram. “Patrick Zaki ha ricevuto la grazia dal presidente della Repubblica egiziana. Io voglio ringraziare il presidente Al Sisi per questo gesto molto importante. Fin dal nostro primo incontro a novembre io ho posto la questione e ho sempre riscontrato da parte sua ascolto e disponibilità. Voglio ringraziare l’intelligence, i diplomatici, sia italiani che egiziani. Zaki domani (oggi) tornerà in Italia e io gli auguro dal profondo del cuore una vita di serenità e successi”, ha dichiarato la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio. Zaki era stato condannato ieri a tre anni, per diffusioni di notizie false, sulla base di un articolo scritto nel 2019 sulla minoranza copta, un verdetto che ha spinto diversi esponenti dei diritti umani ad abbandonare il “dialogo nazionale” lanciato dal governo per dare voce a tutti. La sentenza della corte speciale non era appellabile e ieri Zaki era stato arrestato immediatamente nell’aula del tribunale e condotto in un commissariato di polizia a Mansoura New City dove aveva potuto incontrare solo la madre Hala. Dei 3 anni, avrebbe dovuto scontare ancora 14 mesi, dopo essere stato in cella per 22 dal febbraio 2020 al dicembre 2021. Secondo fonti dell’Ansa “Zaki dovrebbe essere rilasciato già oggi”, o almeno “tutte le persone che beneficiano della grazia presidenziale vengono rilasciate lo stesso giorno. Il suo avvocato può andare a prenderlo in prigione o alla stazione di polizia dove è stato trattenuto”. Sempre all’Ansa uno dei legali del giovane, Samweil Tharwat, conferma che il rilascio “è previsto nelle prossime ore. Sua madre e suo zio si sono recati alla stazione di polizia di Nuova Mansoura per attendere il rilascio. Se Dio vuole, sarà a casa già oggi”. Dopo la condanna, c’erano stati appelli per la grazia sia dal governo italiano che da quello statunitense. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha commentato su Twitter: “Grazie alla politica estera del Governo abbiamo dato un contributo decisivo per liberare questo giovane studente. Risultati concreti attraverso il lavoro ed una credibilità internazionale”. La notizia è stata accolta al Senato italiano con un lungo applauso. “Voglio esprimere la gioia di tutto il Senato per questo risultato. Voglio ringraziare tutti quelli che si sono spesi in questi anni per questo risultato. Ci tenevo ad esternarlo all’Assemblea”, ha detto il senatore del Pd Filippo Sensi interrompendo i lavori dell’Aula per comunicare all’Assemblea la notizia attesa da ieri. Un lungo applauso accompagnale sue parole. Si associa al pauso il senatore Giulio Terzi a nome di Fratelli d’Italia che intesta al governo il risultato: “grande soddisfazione - afferma Terzi - per l’importanza di un passo così decisivo”. “La grazia a Patrick Zaki è una bella notizia. In tante e tanti ci siamo mobilitati in questi anni per la sua libertà. Speriamo di riabbracciarlo presto e continueremo a lottare anche per le altre persone ingiustamente imprigionate e la piena verità e giustizia per Giulio Regeni”, ha sottolineato sempre su twitter, la segretaria nazionale del Pd Elly Schlein. “Se ieri era un giorno catastrofico oggi è un giorno di felicità. È importante che Patrick torni a essere libero. Auspichiamo, se questo provvedimento non lo contempla, anche che sia abolito il divieto di viaggio. E questa piazza che si sta riempiendo al Pantheon, se un’ora fa era preoccupata, ora è una piazza felice”, ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Un messaggio di particolare gioia è arrivato dal r ettore dell’Università di Bologna Giovanni Molari. “La notizia ci colma di gioia. Aspettiamo di conoscere i dettagli - prosegue - ma confidiamo che presto arriverà il momento che abbiamo aspettato tanto a lungo: riaccogliere Patrick a Bologna, nella sua Università, e dedicargli una grande festa di laurea che sarà idealmente una festa di tutta la città e di tutto il Paese”. Le prime reazioni sono arrivate dai familiari del ricercatore “Lode e grazie Signore per tutti i tuoi doni e per la decisione di amnistia presidenziale per Patrick mio figlio, e ringrazio anche tutti i colleghi, amici e parenti per la loro nobile e onesta poesia con noi durante la nostra crisi, e auguro a tutti buona salute e successo”, ha commentato George Zaki, padre del ragazzo. La sorella Marise invece ha postato due cuori con il nome del fratello e di Mohamed al-Baqer, l’altro attivista graziato. In una lettera, questa mattina la fidanzata Reny aveva ricordato gli sforzi fatti da entrambi, la recente laurea all’Università di Bologna e il desiderio di sposarsi in settembre. “E’ una notizia bellissima, lo meritava tantissimo, adesso lo aspetto a Bologna a braccia aperte”, ha gioito Rafael Garrido Alvarez, compagno di studi e grande amico di Patrick Zaki. Negli ultimi mesi l’Egitto, agli ultimi posti nella classifica del rispetto di libertà di parola insieme ad Arabia Saudita, Turchia e Cina, ha graziato dozzine di detenuti, dopo che la costante violazione dei diritti umani è finita sotto i riflettori in occasione della Cop27, la conferenza sul clima ospitata a Sharm el Sheik. Il governo egiziano ha incessantemente messo a tacere i dissidenti e represso le organizzazioni indipendenti per anni con arresti, detenzioni, pene detentive e altre restrizioni. Secondo le stime dei gruppi per i diritti, migliaia di prigionieri politici restano in custodia in Egitto, molti dei quali ancora senza processo. E non solo. Secondo la denuncia delle ong, a fronte della grazia concessa, sono stati migliaia i nuovi arresti e sono state inaugurate nuove carceri. Dopo la notizia della condanna di Zaki diversi avvocati per i diritti umani e leader di partiti liberali si erano ritirati dalla piattaforma di dialogo nazionale per protesta. Martedì sera, la coordinatrice del dialogo nazionale, Diaa Rashwan, capo dei servizi di comunicazione dello Stato, aveva a sua volta chiesto il “rilascio immediato” di Patrick Zaki per dimostrare ancora una volta “il continuo impegno del presidente” per “una positiva clima per il successo del dialogo nazionale”. Diverse settimane fa aveva già chiesto ai giornalisti la liberazione di Mohamed el-Baqer, anch’egli condannato a quattro anni di carcere per diffusione di notizie false. La spinta americana per la liberazione di Zaki: “Ora l’Egitto prosegua e rilasci tutti i detenuti” di Alberto Simoni La Stampa, 20 luglio 2023 Il tweet con cui martedì il Dipartimento di Stato ha chiesto il rilancio dello studente è un messaggio che Washington ha voluto indirizzare al leader egiziano Al Sisi. C’è la spinta americana dietro la grazia che Al Sisi ha concesso a Patrick Zaki e a Mohammed El Baqer riconsegnando loro la libertà. Il tweet con cui martedì il Dipartimento di Stato ha chiesto il rilancio, immediato, dello studente copto dell’ateneo di Bologna va oltre l’auspicio ed è un messaggio che Washington ha voluto indirizzare al leader egiziano Al Sisi. Un portavoce del Dipartimento di Stato a La Stampa ha detto che “accogliamo con favore le notizie che vengono dall’Egitto della grazia presidenziale per Zaki e El-Baqer”. Quindi il diplomatico ha ricordato “che anzitutto nessuno dei due doveva essere imprigionato” e ribadito quanto in gennaio aveva detto il segretario di Stato Antony Blinken in missione proprio al Cairo, ovvero che tutti gli egiziani devono potersi esprimere liberamente senza il timore di rappresaglie. È all’interno di questa cornice che Washington ha deciso di inviare il tweet pro-Zaki e pro El-Baqer, non casuali e non estemporanei ma figli di una strategia che, se colloca Al Sisi al centro dello scacchiere africano e mediorientale elevandolo ad alleato prezioso e fondamentale sui temi economici e di sicurezza, dall’altra non lo esenta da subire le pressioni Usa sul fronte dei diritti. Nel comunicato diffuso dal Dipartimento di Stato dopo un bilaterale dello scorso dicembre, infatti, Blinken metteva l’accento su un aspetto: ovvero che le relazioni bilaterali fra Usa ed Egitto “sono rafforzate dai tangibili progressi sui diritti umani in Egitto”. Su quella parola, tangibili, ci sono state diverse puntualizzazioni e critiche, ma Washington ha comunque volute sottolineare che il rilascio di diversi detenuti politici, avvenuto in novembre, e il miglioramento delle libertà fondamentali e dei diritti umani rappresentavano un fatto importante. Ieri in una nota inviata a La Stampa, un portavoce del Dipartimento di Stato ha ribadito che Washington continuerà a fare pressioni sull’Egitto affinché rilasci tutti gli individui ancora detenuti per aver esercitato la libertà di espressione e altri diritti fondamentali. Quando a Zaki è stata martedì recapitata la sentenza di detenzione, a Washington si è acceso un faro. Di quello studente infatti - non cittadino italiano ma egiziano - Blinken ne aveva sentito parlare già dall’ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio e a lui aveva promesso che l’America di Biden non avrebbe indietreggiato di fronte a certi abusi in linea con l’iniziativa globale del Dipartimento di Stato “Without Just Cause”. Non c’era stato, e né poteva esserci un impegno diretto, ma la vicenda era ben nota fra i diplomatici Usa. Da qui la decisione di attivarsi, in primis recapitando il tweet usato come clava diplomatica per ribadire ad Al Sisi che la tenuta delle relazioni si basa anche sul progresso sul fronte dei diritti. La sottolineatura diplomatica via tweet Usa è anche indirettamente un regalo che a pochi giorni dalla visita alla Casa Bianca, Washington ha offerto alla premier Meloni che sia fra i corridoi di Foggy Bottom sia al 1600 di Pennsylvania Avenue è riuscita in pochi mesi a creare un’immagine positiva. Diversi diplomatici della cerchia di Blinken, infatti, sin dall’inizio del governo italiano a trazione sovranista hanno spinto il segretario di Stato a cercare di coinvolgere sempre più l’Italia in diverse iniziative temendo un dominio sull’Europa, sparita dai radar della Ue la Gran Bretagna, della coppia franco-tedesca. Tunisia. Macché paese sicuro. Human Rights Watch: “Sospendete i finanziamenti” di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 20 luglio 2023 Rapporto di Human Rights Watch: migranti brutalizzati dal regime di Kais Saied. Undici pagine di rapporto e una richiesta precisa: l’Unione europea deve sospendere i finanziamenti alla Tunisia per il controllo delle sue frontiere esterne. L’organizzazione internazionale Human Rights Watch (Hrw) ha documentato le condizioni di vita delle persone subsahariane e sudanesi nelle ultime settimane e ha verificato che il piccolo Stato nordafricano non può essere considerato un paese sicuro per questa comunità, in un momento in cui l’Unione europea ha appena chiuso un memorandum d’intesa da un miliardo di euro a favore del presidente della Repubblica Kais Saied. 105 milioni sono dedicati al rafforzamento della lotta all’immigrazione irregolare. 24 interviste, tra cui una donna e una ragazza, che testimoniano tutta la violenza perpetrata dalle forze di sicurezza. Negli ultimi anni la Tunisia ha vissuto un continuo aumento delle aggressioni di stampo razzista e xenofobo da parte delle autorità e di una parte della popolazione. Secondo quanto ricostruito da Hrw, dal discorso del 21 febbraio scorso di Saied, quando ha accusato la comunità subsahariana di compiere “una sostituzione etnica nel paese”, il clima di violenza diffusa è definitivamente esploso per poi toccare l’apice a inizio luglio. Nelle ultime settimane Sfax, seconda città della Tunisia e uno dei punti più strategici per la rotta lungo il Mediterraneo centrale, è stata teatro di aggressioni ed episodi che hanno spinto migliaia di persone a riversarsi per strada o cercare rifugio nelle campagne appena fuori dal contesto urbano. Contemporaneamente le forze di polizia si sono rese protagoniste di vere e proprie deportazioni di massa verso il confine libico e algerino. Circa 1200 persone hanno vissuto in zone desertiche e inaccessibili per giorni senza acqua e cibo. “Le autorità tunisine - dichiara Lauren Seibert, ricercatrice per i diritti dei rifugiati e dei migranti di Human Rights Watch - hanno maltrattato persone di origine straniera, hanno alimentato atteggiamenti razzisti e xenofobi e hanno intercettato con la forza le persone in fuga dai barconi che rischiavano persecuzioni in Tunisia. L’Unione europea condivide la responsabilità per le sofferenze di migranti, rifugiati e richiedenti asilo”. È in questo contesto che emergono le singole storie. Hrw ha verificato che alcune persone sono state arrestate solo per il colore della loro pelle. In particolare, un richiedente asilo è stato picchiato ed è stato vittima di scariche elettriche durante la sua detenzione a Tunisi. Altre cinque persone affermano di essere state derubate dalla polizia e di non essere mai rientrate in possesso dei loro beni. Non fanno eccezione le intercettazioni in mare. La Guardia costiera è sotto la lente di ingrandimento per avere effettuato manovre pericolose durante le operazioni di salvataggio e in più di un’occasione è stata accusata di avere rubato il motore delle imbarcazioni fermate e di averle abbandonate al largo delle coste tunisine. Dal 2015 al 2022 Hrw stima che l’Unione europea abbia speso dai 93 ai 178 milioni di euro per il rafforzamento delle frontiere terrestri e marittime della Tunisia. Un totale a cui va aggiunta l’ultima tranche da 105 milioni. Un’operazione di esternalizzazione delle frontiere da parte di Bruxelles che, valutando le condizioni interne del paese, viene considerata illegittima. Domenica 16 luglio la commissaria europea Ursula von der Leyen, la premier Giorgia Meloni e il primo ministro Mark Rutte hanno incontrato il presidente della Repubblica Kais Saied per chiudere un accordo tanto cercato negli ultimi mesi. Nessuno si è ancora espresso a riguardo della situazione in corso nel paese. Regno Unito. Arriva la “prigione galleggiante”: una chiatta pronta a ospitare 500 migranti di Antonello Guerrera La Repubblica, 20 luglio 2023 La decisione del primo ministro Rishi Sunak sta già scatenando le proteste di chi la ritiene un’idea disumana. Ma anche dei residenti che non vogliono i richiedenti asilo stipati a pochi metri delle loro case. C’è chi la definisce una “semi-prigione” galleggiante, chi con lo spazio a persona “come quello di uno slot di un parcheggio”, chi non la vuole nella propria circoscrizione e difatti già due porti e autorità locali nei pressi di Liverpool e Edimburgo hanno rifiutato altri battelli del genere. In effetti, a vederla fa impressione. È la chiatta “Bibby Stockholm” che ha attraccato a Portland, nell’inglese Dorset, e che nelle prossime settimane si appresterà ad accogliere almeno 500 migranti e richiedenti asilo giunti irregolarmente sulle coste britanniche del sud. La nave galleggiante con 222 stanze fornite di bagno in camera è l’ultima novità della lotta del primo ministro Rishi Sunak a quella che il governo britannico chiama “immigrazione illegale”. Tema molto sensibile al partito conservatore in vista delle elezioni del 2024. Perché il numero degli sbarchi irregolari dalla Manica è aumentato sensibilmente negli ultimi mesi (45.755 solo nel 2022, al 9 luglio 2023 eravamo a 12.722) così come quello in generale dell’arrivo di migranti (regolari inclusi) che ha fatto segnare picchi record di oltre 500mila all’anno. L’esecutivo sinora ha speso 6 milioni di sterline al giorno (circa 7 milioni di euro) per alloggiare i migranti “irregolari” e richiedenti asilo in hotel, da dove talvolta svaniscono, soprattutto i più giovani che scappano. Ma anche questa nuova soluzione sta scatenando proteste e critiche. Da parte dei residenti, come già visto proprio nell’isola di Portland (che in realtà è penisola grazie a una superstrada sull’acqua), dove l’arrivo della chiatta è stata accolta con fischi da due manifestazioni opposte: quella di coloro che considerano disumano il trattamento dei migranti sulla nave galleggiante e quella dei residenti che invece non vogliono centinaia di migranti stipati in una barca a pochi metri dalle loro case e dalle spiagge. Anche per questo, i deputati locali, come il conservatore Richard Drax, sono spesso assolutamente contrari a una soluzione del genere. Non è chiaro, inoltre, se i migranti avranno libertà di movimento. In teoria gli ospiti, da 18 a 65 anni tutti maschi adulti, non sono “detenuti”. Ma le autorità portuali di Portland hanno notificato come i migranti “non saranno liberi di circolare nel porto e che devono rimanere o sulla chiatta o in un compound di sicurezza apposito a terra”. La decisione di ricorrere alle navi galleggianti infatti pare anche simbolica, per cercare di far passare il messaggio alla popolazione che i migranti non saranno liberi di girare liberamente sul territorio. Questo perché il governo Sunak deve mostrare il pugno duro per recuperare consensi. Secondo il primo ministro, questo approccio sta funzionando visto che “nell’ultimo mese gli sbarchi sono calati di un quinto rispetto all’anno scorso”, assicura. Ma sinora i risultati sull’immigrazione sono stati complessivamente mediocri, come il clamoroso flop delle espulsioni in Ruanda per migranti e richiedenti asilo definiti “irregolari”: misure duramente criticate da Onu e altri consessi internazionali e che sono state affondate da numerose sentenze giudiziarie in Inghilterra, l’ultima quella dell’Alta Corte, e che dunque si sono rivelate impraticabili, almeno sinora. Anche la scelta delle chiatte, che in teoria dovrebbero avere cucina, ristorante e palestra, non è inedita. La stessa Bibby Stockholm è già stata utilizzata dal governo dei Paesi Bassi per lo stesso scopo all’inizio degli anni Duemila, come ricorda l’Independent, e anche allora scatenò polemiche e critiche, tra cui quelle di Amnesty International, dopo la morte di un migrante e numerosi casi di stupri e violenze sulla chiatta. L’Ong Freedom From Torture ha definito la soluzione delle chiatte “crudele” e “disumana” e ha chiesto al governo britannico di “fermarsi prima che accada una catastrofe”. America Latina e Ue. Una spinta verso la pace e il cambiamento di Massimiliano Smeriglio* Il Manifesto, 20 luglio 2023 Il summit Cumbre Ue Celac 2023 ha raccolto i leader di sessanta Paesi per ragionare su una agenda comune e su dossier importanti come il cambiamento climatico o un imponente piano di investimenti e scambi commerciali. Il primo importante risultato della Cumbre Ue Celac 2023 è stato il fatto stesso di essersi tenuta, dopo ben otto anni. Mettere insieme i leader di sessanta Paesi per ragionare su una agenda comune e su dossier importanti come il cambiamento climatico o un imponente piano di investimenti e scambi commerciali è un fatto politico di primaria importanza.In particolare un piano da 45 miliardi di euro da qui al 2027, oltre a una serie di accordi sulla cooperazione energetica, sulle materie prime, e sulla transizione digitale ed ecologica. Il Summit allude, almeno nella testa di diversi leader latinoamericani, al nuovo assetto politico mondiale in cui l’Europa dovrebbe tornare a svolgere una funzione autonoma e indipendente. Un vertice in cui i leader di grandi Paesi del subcontinente come Brasile Argentina e Messico hanno svolto un ruolo di cerniera e mediazione con i ventisette Paesi europei. In particolare il presidente Lula ha avuto una funzione centrale, per la forza del suo Paese e per il carisma personale. Ha cercato il negoziato su tutto pur ribadendo la sua posizione sulla guerra in corso contro l’Ucraina, “solo morte, distruzione e fame”. La guerra è stato il convitato di pietra del vertice, nonostante le parole del presidente dell’Argentina Alberto Fernandez, “Questo non è stato un vertice sull’Ucraina”. Alla fine si è raggiunto un accordo, un compromesso in cui sono state limate anche le virgole, “esprimiamo profonda preoccupazione per la guerra in corso contro l’Ucraina, che continua a causare immense sofferenze umane e sta aggravando le debolezze esistenti nell’economia mondiale, limitando la crescita, aumentando l’inflazione, interrompendo le catene di approvvigionamento, aumentando l’insicurezza energetica e alimentare e intensificando i rischi per la stabilità finanziaria”. Un accordo firmato da tutti, tranne che dal Nicaragua. Dunque un successo diplomatico e la possibilità di lavorare congiuntamente nonostante in Europa spiri un vento di destra determinato anche dall’agenda di guerra mentre in America latina la ola progressista sta pian piano riconquistando tutti i Paesi. Prossima tappa le elezioni in Ecuador con la sinistra fortemente indiziata per la vittoria. Il tema di fondo per i governi progressisti latino americani è quello del doppio standard che gli europei sembrano utilizzare a loro piacimento. Doppio standard nel giudicare situazioni di occupazione militare e violazione dell’autodeterminazione dei popoli. Fanno fatica a comprendere la differenza di giudizio tra l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e l’occupazione delle isole argentine Malvinas da parte della Gran Bretagna o il diverso metro di giudizio sulla sistematica occupazione di terra in Cisgiordania da parte di Israele. Doppio standard in caso di violazione dello Stato di diritto e violazioni dei diritti umani fondamentali così come della libertà di stampa e autonomia della magistratura. Questioni aperte dentro i confini dell’Unione, con i casi Polonia e Ungheria, e fuori; questioni presenti nelle relazioni che l’Unione intrattiene con Paesi come Turchia, Arabia Saudita, Egitto, Tunisia che però non determinano, sulla stampa occidentale, il medesimo sdegno che si scatena quando si tratta di puntare il dito contro un Paese latino americano. Il Summit è stato anche l’occasione per rilanciare forme di cooperazione e incontro tra i movimenti sociali e politici delle due regioni. Una presenza e un entusiasmo che non si vedeva dai tempi dei Social forum di Porto Alegre. La Cumbre de lo s pueblos, organizzata dal gruppo di the Left con il supporto di alcuni eurodeputati Socialisti e Verdi, ha risposto a questa urgenza: riprendere il filo di un discorso comune. Tantissime persone, panel, performance, musica; molto apprezzata nel panel sui flussi migratori la presenza di Don Mattia di Mediterranea saving human. Il resto lo hanno fatto i leader di Bolivia, Colombia e Cuba che hanno investito molto nel confronto con i movimenti. I Presidenti Arce, Petro e Diaz Canel hanno contribuito in maniera decisiva alla discussione, così come il leader della sinistra francese Melenchon. Veri e propri comizi, ma anche riflessioni più accurate sulla necessità di trasformare il modello di sviluppo. In particolare il Presidente Petro ha insistito molto sulla lotta radicale al cambiamento climatico come cartina di tornasole della irriformabilità del capitalismo globalizzato che si mangia ogni cosa, uomini, donne, ecosistema. Due giorni intensi, quelli della Cumbre de los pueblos, che ci lasciano con una agenda di lavoro ambiziosa: ricercare un piano negoziale di pace e rilanciare le ragioni di un nuovo internazionalismo capace di muoversi dentro il quadro geo politico multipolare profondamente mutato. *Europarlamentare di S&D