Carcere, cresce il disagio e l’uso dei farmaci. “Servono lavoro e laboratori” di Chiara Daina Corriere della Sera, 1 luglio 2023 Il rapporto dell’associazione Antigone fotografa la situazione carceraria in Italia, realizzata su 97 istituti penitenziari. Allarme suicidi nel 2022 con 85 casi. La denuncia: “Troppe pillole, pochi progetti”. In carcere spesso e volentieri la soluzione contro il disagio dei detenuti è una pillola. Anche se non c’è una malattia mentale da curare e il farmaco serve a ben poco. Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni detentive, riferito al 2022, nei 97 istituti penitenziari (circa la metà del totale) visitati dagli osservatori della onlus il 20% dei detenuti assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi e il 40% sedativi o ipnotici. Ma quelli con una diagnosi psichiatrica sono meno del 10%. “Si ricerca nella terapia farmacologica il rimedio salvifico per gestire uno stato di malessere e disadattamento che invece avrebbe bisogno di interventi educativi e di strumenti socializzanti, dalla possibilità di avere un lavoro a quella di frequentare attività di laboratorio, di formazione o sportive e di sentire al telefono i propri cari più dei dieci minuti concessi a settimana. La pena non deve essere solo punitiva, ma deve anche mettere il detenuto nelle condizioni di non delinquere più una volta fuori di lì” commenta Michele Miravalle, tra gli autori del rapporto e coordinatore dell’Osservatorio sulle carceri per adulti della onlus. Il problema, rileva Antigone nel documento, è che negli istituti penitenziari “manca il lavoro, soprattutto quello qualificato”: solo il 35% dei detenuti ha un impiego e di questi la maggioranza (87%) è impegnata in piccole mansioni interne, alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, non spendibili all’esterno. Anche la formazione professionale è quasi assente: alla fine dello scorso anno riguardava appena il 4% dei detenuti. Gli educatori - si legge nel report - sono 803, oltre cento in meno di quelli previsti, in media 1 ogni 71 carcerati anziché 1 ogni 65. Mentre nel campione di istituti visitati direttamente dai volontari di Antigone emerge che lo psicologo è a disposizione mediamente per 11 minuti a testa a settimana. “C’è talmente carenza di risorse che il diritto alla rieducazione si riduce a un premio per i più collaborativi e meritevoli e chi sta male sul serio, che non è in grado di chiedere aiuto, rischia di non essere intercettato. È anche così che cresce il numero di suicidi, che nel 2022 con 85 casi è stato il più alto di sempre” denuncia Miravalle. C’è poi una categoria di persone detenute con comportamenti intolleranti e aggressivi verso gli operatori, i compagni di cella e se stessi, che si tende a delegare alla psichiatria e a trattare con gli psicofarmaci senza alcun risultato. “Perché i farmaci non hanno una vera efficacia in questi casi. Li passivizzano e basta. Queste persone, infatti, non hanno una malattia psichiatrica ma un disturbo antisociale e più spesso un disagio psicologico, un’insoddisfazione rispetto al rifiuto o mancanza di risposta ai loro bisogni che si manifesta attraverso la trasgressione delle regole, la manipolazione e la violenza contro sé, gli altri e le cose. Ma se il carcere psichiatrizza queste persone fa loro un danno, esentandole da ogni responsabilità e non occupandosi del loro recupero sociale” sottolinea Giuseppe Nese, psichiatra e coordinatore del gruppo sulla salute mentale in carcere della Regione Campania. In una circolare del luglio 2022 l’ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ricordava che comportamenti di questo tipo sono “spesso confusi con patologie della sfera psichica” e indicava una modalità di intervento integrata socio-sanitaria, che porti a una graduale partecipazione alle attività proposte dall’istituto. Programma Demetra - Una strategia del genere la sta sperimentando la casa circondariale “Rucci” di Bari con il progetto Demetra, avviato a febbraio dall’unità di medicina penitenziaria dell’asl cittadina. Un’equipe multidisciplinare formata da psicoterapeuti, psicologi, educatori, assistenti sociali e psichiatra, segue una trentina di detenuti “disturbanti” a cui si è evitato di attribuire impropriamente una diagnosi di disturbo psichiatrico. “Definiamo insieme alla persona un piano di riabilitazione individuale che tenga conto dei suoi interessi, bisogni e preoccupazioni. Il trattamento si basa su un percorso di psicoterapia giornaliera o settimanale. L’obiettivo è costruire una relazione di ascolto e fiducia reciproci con le autorità” spiega la psicoterapeuta Cinzia De Giglio. Paolo (nome di fantasia), cinquantenne, in galera da oltre 10 anni, è uno degli utenti del progetto. “I farmaci in tutti questi anni sono stati inutili. Paolo ha bisogno di sentirsi sempre impegnato, è molto rigido, ossessivo, prevaricatore e provocatorio nei confronti degli agenti e degli altri reclusi - racconta De Giglio -. Da quando lo seguiamo ha ridotto l’ansia e abbassato le difese. Ha iniziato a dare forma ai suoi pensieri attraverso la scrittura. Ha chiesto e ottenuto che la biblioteca fosse aperta per più ore e sta lavorando a un progetto sulla legalità”. Ragazzo psichiatrico in isolamento ogni 2 giorni. Carceri nuovi manicomi? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 luglio 2023 La situazione di un giovane detenuto di 19 anni, M.N., algerino, nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta, ha sollevato crescente preoccupazione. Nonostante sia sottoposto a terapia farmacologica, il ragazzo manifesta un comportamento aggressivo nei confronti del personale penitenziario e delle persone che gli si avvicinano. Questa situazione ha portato al suo isolamento in cella ogni 2/ 3 giorni, un ciclo che crea ansia sia per il personale di sicurezza che per quello sanitario. Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme ODV denuncia questa vicenda, evidenziando la necessità di trovare un’alternativa alla semplice custodia, considerando la giovane età e i disturbi psichici del detenuto. La rappresentante dell’associazione Socialismo Diritti Riforme ODV, sottolinea che il giovane detenuto affronta molte difficoltà a causa della sua giovane età e dei suoi problemi psichiatrici. La sua vita risulta particolarmente complicata, e sorgono problemi riguardo all’efficacia della terapia farmacologica, soprattutto in un ambiente carcerario che non è adatto alle esigenze di una persona con fragilità evidenti. Pertanto, si auspica un intervento del giudice per garantire che il ragazzo, che è anche in attesa di giudizio, possa essere trasferito in una struttura o in una comunità terapeutica in cui possa ricevere l’adeguato supporto farmacologico, psicologico ed educativo. Secondo Maria Grazia Caligaris, la permanenza del giovane detenuto in isolamento potrebbe aumentare la sua frustrazione e i sentimenti di rivalsa e aggressività. I continui rapporti disciplinari conseguenti ai suoi atti aggressivi, fisici o verbali, porteranno a un prolungamento della sua permanenza in carcere, con conseguenze ancora più negative per lui e per il personale carcerario. Pertanto, la soluzione migliore non sarebbe solamente il trasferimento in un’altra struttura penitenziaria, ma l’individuazione di un’alternativa che possa fornire una risposta meno afflittiva, ma più efficace, per rendere il periodo di privazione della libertà più costruttivo. La Casa Circondariale di Cagliari- Uta sembra essere diventata un luogo sempre più ricorrente per l’accoglienza di persone con gravi problemi socio- economici, comportamentali e psichici. Oltre ai detenuti affetti da disturbi psichiatrici e con doppia diagnosi, si stanno aggiungendo anche giovani appena maggiorenni come il ragazzo in questione. Questa situazione rappresenta un problema che richiede l’attenzione delle autorità, nel rispetto dell’ordinamento penitenziario. È evidente che il sistema carcerario attuale non è in grado di fornire una risposta adeguata alle complesse esigenze dei detenuti con problemi psichici, in particolare dei giovani. È fondamentale rivedere l’approccio nei confronti di questi individui, mettendo al centro la loro riabilitazione e il trattamento delle loro condizioni psichiche. Non possiamo permettere che il carcere diventi un luogo in cui vengono semplicemente ‘ nascosti’ coloro che necessitano di cure adeguate. È necessario che il sistema giudiziario e le autorità competenti collaborino strettamente per individuare alternative alla detenzione tradizionale per questi giovani con problemi psichici. Strutture specializzate e comunità terapeutiche possono offrire un ambiente più idoneo, in cui il detenuto possa essere gestito in modo mirato, fornendo un supporto multidisciplinare che includa la terapia farmacologica, il sostegno psicologico e l’educazione. Inoltre, è indispensabile investire maggiormente nelle risorse umane e nella formazione del personale penitenziario per affrontare le sfide specifiche legate alla gestione dei detenuti con disturbi psichici. I professionisti del settore devono essere adeguatamente preparati per comprendere e interagire con queste persone, al fine di garantire un ambiente sicuro per tutti, senza compromettere la dignità e i diritti dei detenuti. La vicenda denunciata dall’esponente di Socialismo Diritti Riforme, riguardante il detenuto di 19 anni con gravi problemi psichici recluso in isolamento evidenzia le criticità del sistema carcerario attuale. D’altronde nel carcere di Uta stesso, un uomo con problemi psichici si è dato fuoco. E proprio quattro giorni fa, la garante regionale delle persone private della libertà, Irene Testa, dopo un sopralluogo in un altro carcere sardo, quello di massima sicurezza di Bancali, parlando della situazione disastrosa ha detto: “A Bancali ci sono 17 detenuti in terapia antidepressiva, 66 in terapia con ansiolitici, 55 in terapia neuro antidepressiva, 10 in terapia con fiale e 18 tossicodipendenti in terapia sostitutiva”. E ha aggiunto: “Tanti altri senza patologia conclamata ma con tratti disturbanti. E poi esci dal carcere e pensi alle situazioni più gravi. Al detenuto che dice di aver scoperto le piramidi ma in carcere nessuno gli crede o il detenuto autolesionista che mi mostra i segni nelle braccia e nel petto completamente affettato. E poi ancora un altro che non sa che fine ha fatto il cane dopo il suo arresto e mi chiede di chiamare il padre per recuperare il cane dal canile. Di soggetti con personalità borderline e bipolari sono piene le celle”. La Garante Testa chiede che il governo, il ministro della Giustizia devono affrontare con urgenza il problema dei malati psichiatrici in carcere. “Si devono individuare strutture filtro che non siano carceri. Non serve a niente e a nessuno tenere questi malati nelle celle. Occorrono cure e strutture dedicate”, ha concluso. Il rapporto dello scorso anno dell’associazione Antigone, raccogliendo i dati direttamente dagli operatori sanitari delle singole carceri visitate nell’ultimo anno, ha rilevato che il 13% del totale della popolazione detenuta ha una diagnosi psichiatrica grave, in numeri assoluti significa oltre 7 mila persone. Solo per una piccola parte, dalla diagnosi è seguita una misura di tipo giudiziario. Una rilevazione statistica relativa alla sola Toscana presenta numeri ancora più significativi, sottolineando come su 1.744 persone sottoposte a visita medica in un anno, 610 avessero almeno un disturbo psichiatrico, pari al 34,5% delle persone sottoposte a controllo medico. I numeri continuano a fotografare il carcere come “psico- patogeno” dove il disagio psichico, diagnosticato e non, è diffuso, capillare e omogeneo sul territorio nazionale. I “disturbi psichici” rappresentano la metà delle patologie rilevate nella popolazione detenuta. Per avere un’idea della consistenza di questo dato, basti pensare che gli altri due gruppi di patologie più diagnosticate in carcere, che sono quelle del sistema cardiocircolatorio e delle malattie endocrine, del metabolismo e immunitarie, sono entrambi al 15% del totale delle patologie rilevate. Dunque il disturbo psichico è di gran lunga la prima categoria diagnostica nelle carceri italiane. Si era detto “Mai più bambini in carcere”: ce ne sono ancora 23 dietro le sbarre di Francesca Sabella Il Riformista, 1 luglio 2023 Prima il suono delle chiavi che incessantemente aprono e chiudono le celle. Poi, il passo felpato e svelto degli agenti penitenziari, poi la campanella che indica la fine e l’inizio dell’ora d’aria. Sono i primi suoni che imparano a conoscere e a distinguere i bambini che vivono dietro le sbarre. Detenuti anche loro, come le madri. Sono in prigione, esattamente come i grandi. Ma loro sono piccoli e non dovrebbero conoscere il male, il grigio, il vuoto, le sbarre fredde e l’odore dell’aria di un penitenziario. Eppure, oggi in Italia ci sono ancora 23 bambini in carcere con le proprie madri. Si era detto mai più bambini dietro le sbarre. E invece… E invece ci sono, vivono in prigione, imparano le regole del carcere, conoscono la privazione fin da subito. È questo accettabile in un Paese che si definisce civile? È possibile che i figli debbano pagare le “colpe” delle madri? No. E non si risentano i giustizialisti sempre pronti a sventolare le manette e a dire la solita frasetta: la prossima volta, la madre ci pensava due volte prima di sbagliare. Bene. La madre. E i bambini che colpa hanno? Mica hanno scelto loro dove nascere e mica hanno scelto loro di vivere in una cella senza i colori alle pareti e i peluche sul letto. E così dalla Campania è partita una proposta per modificare il codice di procedura penale per consentire alle mamme detenute, che hanno figli con un’età massima di 10 anni, di scontare la pena in case di accoglienza. L’altro giorno il Consiglio regionale della Campania, presieduto da Gennaro Oliviero, ha approvato all’unanimità una proposta di legge. “I bambini che cresceranno dietro le sbarre - ha detto il garante campano per i diritti delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello - non dimenticheranno mai questa esperienza. Le parole che usano maggiormente sono: apri e chiudi”. Chiudiamo il sipario su una condizione che non può essere propria di un Paese Civile. Giustizia, le mille capriole del governo tra bastone e carota di Michele Ainis La Repubblica, 1 luglio 2023 Due modi contrari d’intendere il ruolo dei giudici, dei reati e delle pene ci piovono addosso simultaneamente, come una doccia scozzese. Giustizialismo o garantismo, mani libere o manette. Due concezioni opposte del rapporto fra lo Stato e i cittadini, due modi contrari d’intendere il ruolo dei giudici, dei reati, delle pene. Negli ultimi decenni ne abbiamo fatto un’esperienza alterna, dalla santificazione del potere giudiziario dopo Tangentopoli, alla sua maledizione durante i governi Berlusconi. Ora non più: ci piovono addosso entrambe, simultaneamente, come una doccia scozzese. Da parte del governo, ma spesso e volentieri anche dalle opposizioni. Sicché non sappiamo come regolarci, non conosciamo più la regola, pur essendo inquilini della Patria del diritto. Mentre gli episodi sono ormai più numerosi dei grani d’un rosario, in questi primi nove mesi della XIX legislatura. I rave party: pollice verso. Il primo decreto legge del governo Meloni (31 ottobre 2022) li criminalizza, castigandoli con una pena perfino superiore all’omicidio colposo. E per sovrapprezzo la applica a ogni “raduno pericoloso”, categoria in cui può facilmente iscriversi anche una riunione di condominio, per chiunque ne abbia fatto l’esperienza. Tuttavia lo stesso provvedimento interviene sull’ergastolo ostativo, temperandone gli effetti: pollice in su. Le intercettazioni: pollice biforcuto. Il decreto sui rave, ispirato dal ministro Piantedosi, permetteva le intercettazioni a strascico, quelle disposte in un procedimento diverso rispetto al procedimento in cui verranno utilizzate. Viceversa la riforma presentata a metà giugno dal ministro Nordio ne restringe l’uso, o quantomeno la pubblicazione, preannunciando in futuro limitazioni ancora più radicali. L’evasione fiscale: pollice in su. Risuonano difatti le parole pronunziate dalla presidente del Consiglio a Catania, alla vigilia delle amministrative: far pagare le tasse ai piccoli commercianti è “pizzo di Stato”. Cui ha fatto eco il ministro della Giustizia: nemmeno il più onesto degli imprenditori è al riparo dall’illecito fiscale, ergo bisogna tagliare subito i processi. Insomma, liberi tutti. Delitti e delinquenti: pollice verso. Fioccano infatti le nuove fattispecie di reato, mentre s’induriscono le pene sui reati già esistenti. È il caso della maternità surrogata: un disegno di legge sostenuto a mani giunte dalla maggioranza di governo (e da un pezzo dell’opposizione) la trasforma in “reato universale”. È il caso del decreto Cutro sull’immigrazione, con il nuovo reato di morte o lesioni per responsabilità degli scafisti, e con pene fino a 30 anni. È il caso delle droghe leggere, su cui Meloni ha appena promesso “tolleranza zero”, né più né meno delle droghe letali. È il caso, infine, dell’annunciata stretta sugli youtuber, dopo la tragedia di Casal Palocco: fino a 5 anni per istigazione sul web. O del danneggiamento di opere d’arte (qui il bersaglio sono i ragazzi di Ultima generazione): in aprile un disegno di legge governativo ha previsto multe di 60 mila euro. Delitti e delinquenti bis: pollice in su. Ne è prova la riforma Nordio che cancella l’abuso d’ufficio (contrari i vertici Pd, favorevoli i sindaci Pd). La riformulazione del traffico di influenze illecite, reso perseguibile soltanto in casi eccezionali. La controriforma della prescrizione, per spazzare via la Spazzacorrotti dell’ex ministro Bonafede: a dicembre il governo ha dato parere favorevole a un ordine del giorno presentato dal Terzo Polo. L’appello dei pm contro le sentenze d’assoluzione: via anche quello, in nome d’un garantismo a giorni alterni. A questo punto noi, confusi, ci domandiamo cosa fare. Sarà meglio rispettare ogni codicillo, oppure infrangerne una mezza dozzina, perché tanto la faremo franca? E qual è l’emblema dell’esecutivo, il bastone o la carota? Vorremmo saperlo, giusto per metterci in riga. Ma poi ci attraversa le meningi un’illuminazione. Pensiamo agli imputati eccellenti, sull’uno o l’altro lato della barricata. Donzelli e Delmastro - deputati di FdI - al centro d’uno scandalo per aver diffuso intercettazioni coperte da segreto, ma difesi da Nordio in Parlamento. L’ex magistrato Davigo, a sua volta condannato per rivelazione del segreto d’ufficio, con l’esultanza della destra. Il ministro Salvini, processato a Milano per gli insulti a Carola Rackete, che il Senato ha invece dichiarato insindacabile. E via via, l’elenco è lungo. Dunque una linea c’è, sia pure fra mille capriole: lorsignori sono garantisti con gli amici, giustizialisti con i propri nemici. Piemonte. Carceri decapitate, in 9 istituti su 14 mancano sia il direttore che il comandante degli agenti di Lodovico Poletto La Stampa, 1 luglio 2023 Situazione ingestibile mentre le inchieste travolgono vertici e poliziotti della penitenziaria. Senza continuità mancano struttura e progetti, crescono aggressioni e suicidi, entrano droga e cellulari. Il carcere di Aosta è un cubo di cemento che vedi dall’autostrada. Struttura piccola, che quasi si confonde con il passaggio della prima periferia. Qui non ci sono detenuti in regime di 41 bis. Non c’è nessuno neppure in massima sicurezza (cioè detenuti per questioni di mafia o criminalità organizzata), ma ci sono i collaboratori di giustizia. Pochi guai. Pochissime polemiche. Eppure vanta un record negativo: da quasi 7 anni la struttura non ha un direttore e neppure un comandante del personale di polizia penitenziaria. Cioè, non è che nessuno diriga quella casa circondariale ma da 7 anni chi si occupa di mandare avanti questo presidio viene mandato in Valle d’Aosta in missione. Tradotto significa che resta qualche mese - talvolta più di qualche mese -, poi se ne va e torna all’incarico precedente. Niente progetti complessivi. Nessun piano strutturato. Aosta, da 7 anni aspetta che i vertici dell’Amministrazione penitenziaria assegnino una catena di comando a tempo pieno e che duri più di una stagione. La questione non è ignota agli addetti ai lavori. L’ultimo - in ordine di tempo - ad essere stato informato è il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Del Mastro, al quale qualche mese fa (era il 30 gennaio) il sindacato di polizia penitenziaria Osapp ha inviato una lettera nella quale, tra i tanti problemi segnalati, c’era anche il “caso Aosta”: una delle priorità da risolvere al più presto. Compreso il fatto che a comandare il personale di polizia c’è un sostituto commissario. E dal punto di vista normativo neanche lo potrebbe fare. Il panorama generale delle strutture di reclusione di Piemonte e Valle d’Aosta sembra addirittura peggiorato negli ultimi tempi. I numeri tracciano la cornice di questo quadro disastroso. In 10 carceri su 14 manca il direttore. In 7 non c’è il comandante della Polizia penitenziaria. Con picchi di assurdità che hanno dell’incredibile. Il “Cerialdo” è la casa circondariale di Cuneo. Struttura di massima sicurezza, una delle poche in Piemonte attrezzata per accogliere i detenuti in regime di 41 bis. Il direttore è stato assegnato da poco e secondo i sindacati c’è stata finalmente una svolta. Il carcere di Saluzzo, invece, non ha il comandante. L’uomo che ricopriva quell’incarico è stato “distaccato in via continuativa” al Provveditorato di Torino. Tante parole per dire che è andato a svolgere un lavoro d’ufficio nella struttura che coordina il sistema penitenziario delle due regioni del Nord Ovest. E a fare il comandante è stato mandato “in missione” quello di Fossano che così ricopre due incarichi. Basta? Assolutamente no. Il carcere di Ivrea, negli ultimi anni, è stato travolto da una raffica di inchieste, con agenti sospesi, molti indagati e altri fascicoli aperti di recente dalla Procura. Ecco, anche qui non ci sono né il direttore né il comandante della polizia penitenziaria. Entrambi gli incarchi sono svolti “a scavalco” da dirigenti che lavorano altrove. La situazione di Ivrea (dove l’ex comandante Mara Lupi è indagata per tortura, ma presta servizio al carcere di Torino talvolta anche come comandante) è praticamente identica a quella Biella dove 23 agenti, erano stati sospesi dal servizio per una storia dai contorni ancora una da chiarire. E quella è soltanto ultima tranche di un’indagine che va avanti da mesi. Ultimo dato su questo carcere: il comandante della polizia è un funzionario “in missione” che arriva dalla Sicilia. “Se analizzassimo nel dettaglio lo stato di salute delle strutture di reclusione del Paese, la situazione del Piemonte troverebbe repliche in diverse altre parti d’Italia. L’assurdità ulteriore è che nonostante i nostri appelli, le nostre richieste, i documenti che abbiamo prodotto in questi anni, non è mai cambiato nulla” s’indignano i sindacalisti dell’Osapp. Che parlano di temi ampiamente noti a tutti: dal sovraffollamento, ai pochi progetti, alla mancanza di continuità di interventi. Oltre che di carceri come “isole di illegalità, dove accade tutto ciò che in realtà non dovrebbe capitare in quei luoghi”. Fiumi di droga che entrano (è di qualche tempo fa la notizia che 13 giocatori della squadra di rugby del carcere di Torino erano risultati positivi all’uso sostanze stupefacenti) e smartphone adoperati liberamente nelle celle. “E non è neanche possibile effettuare perquisizioni senza il via libera dall’esterno” accusano adesso gli agenti. Motivo? Una vecchia circolare ministeriale fissa paletti molto rigidi per le “perquisizioni generali straordinarie”. Quindi come fare? “Banale: non le facciamo più, a meno che non si abbia la certezza che nelle celle si stiano commettendo illeciti”. Nell’ultimo documento dell’Osapp però va anche oltre e scrive chiaramente: “Chiediamo che venga dichiarato lo stato di emergenza per le carceri. In queste condizioni non è più possibile lavorare, facendo sì che il carcere sia davvero un luogo dal quale si può uscire migliori”. Un ultimo dato: nel 2022 nel carcere di Torino ci sono state 39 aggressioni, 66 agenti feriti. Nei primi sei mesi del 2023 i feriti sono già 21 e le aggressioni 19. Milano. Morto in carcere Rosario Curcio, killer di Lea Garofalo: la Procura indaga per istigazione al suicidio di Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 1 luglio 2023 Il 46enne si è impiccato nel carcere di Opera (Milano). Nelle stesse ore è morto anche Giovanni Battaglia, 75enne, esponente di Cosa Nostra: partecipò alle riunioni operative per la strage di Capaci. Era in cella da solo. Lavorava nelle cucine del carcere e finora (l’ultima visita con lo psicologo tre giorni prima) non erano mai stati segnalati rischi autolesivi. Ma mercoledì Rosario Curcio, 46 anni, s’è impiccato usando le lenzuola nel carcere di Opera. È morto giovedì dopo ore di agonia all’ospedale Policlinico. Curcio era uno dei killer di Lea Garofalo, la testimone di giustizia uccisa il 24 novembre 2009 a Milano. Negli ultimi tempi si era sempre più distaccato dal gruppo guidato da Carlo Cosco, l’ex compagno di Lea, tanto da far pensare che stesse meditando di collaborare con gli inquirenti. Invece il suo era probabilmente il segno di un malessere interiore, non intercettato. Non ha lasciato biglietti o messaggi. In carcere Curcio aveva iniziato a collaborare alle iniziative del “Gruppo della trasgressione”. Il pm Nicola Rossato, coordinato dal procuratore Marcello Viola, ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio contro ignoti per procedere agli esami scientifici e all’autopsia sul corpo del 46enne. Sembra però che non ci siano dubbi sul gesto autolesivo. Curcio era stato arrestato nel 2010 su ordine del gip Giuseppe Gennari, insieme a Carlo Cosco, Giuseppe Cosco detto “Smith”, Vito Cosco detto “Sergio”, Massimo Sabatino e all’ex fidanzato della figlia di Lea Garofalo, Carmine Venturino poi diventato collaboratore di giustizia e la cui testimonianza era stata fondamentale per ritrovare i resti del corpo della vittima. I processi hanno poi portato a quattro ergastoli (Carlo e Vito Cosco, Curcio e Sabatino), alla condanna a 25 anni per Venturino e all’assoluzione per “Smith”. Curcio, originario della frazione Camellino di Petilia Policastro (Crostone) era soprannominato “patatino”, e aveva parentele di livello nella ‘ndrangheta, come l’omonimo cugino detto “pilurussu”. La sera del 24 novembre 2009, giorno del delitto, avrebbe partecipato alle fasi di distruzione del cadavere. Le indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo, coordinati dall’allora pm della Dda di Milano Marcello Tatangelo, hanno infatti documentato che la notte dell’omicidio Curcio era insieme a Vito Cosco e a Carmine Venturino nel magazzino di San Fruttuoso a Monza in cui è stato tenuto e bruciato il cadavere della testimone di giustizia. Nelle stesse ore è morto anche il boss di Cosa Nostra, Giovanni Battaglia. Era ai domiciliari nel “repartino” 41 bis del San Paolo per le conseguenze di una grave forma di diabete. Era stato condannato all’ergastolo per la strage di Capaci. Battaglia aveva partecipato alle riunioni operative della strage del 23 maggio 1992 in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. In ospedale aveva più volte rifiutato le cure dei medici. Venezia. Suicidio in carcere, acquisiti tabulati e video. Il piano: meno tensioni con le telefonate a casa di Monica Zicchiero Corriere del Veneto, 1 luglio 2023 Il pm vuole ricostruire l’ora prima della morte. Un’ora di buco dall’ultima telefonata disperata alla moglie Silvia Padoan fino al ritrovamento del corpo senza vita in cella del marito Bassem Degachi. L’inchiesta sul suicidio in carcere del 39enne di origini tunisine è passata al pm Roberto Terzo, che ha disposto approfondimenti. La squadra Mobile ha sentito il compagno di cella dell’uomo cui il 6 giugno era stata revocata la semilibertà con una ordinanza d’arresto per un’inchiesta del 2018 su un traffico di droga. Da tempo lavorava al cantiere di Sant’Alvise per la coop il Cerchio e dopo la notifica della misura si era tolto la vita. La Mobile ha acquisito anche i filmati delle telecamere e i tabulati telefonici. Due settimane dopo, sempre a Santa Maria Maggiore, si era suicidato Alexandru Ianosi, 36 anni, in attesa di processo per l’omicidio della moglie. Non c’è inchiesta su questo caso, ma c’è un problema suicidi a Santa Maria Maggiore, per questo la direttrice Immacolata Mannarella ha tenuto un vertice con le associazioni di volontariato, i responsabili delle aree educative e sanitarie della struttura, il garante dei detenuti Marco Foffano, il consiglio dell’Ordine degli avvocati e l’avvocato Massimiliano Cristofoli Prat per la commissione carceri della Camera Penale veneziana, per sollecitare proposte per evitare che la pena detentiva finisca in una condanna a morte autoinflitta. Due le proposte emerse “di pronto impiego”: fornire ai reclusi la carta dei diritti e dei doveri, prevista dall’ordinamento penitenziario, e il calendario delle attività (scuola, biblioteca, lavoro), che attualmente non sono consegnati. Centrale il ruolo delle associazioni: i detenuti non si confidano con i propri avvocati, tantomeno con la polizia penitenziaria; problemi e disperazione li raccontano ai volontari. “E loro possono veicolare i diritti e i doveri dei reclusi”, lancia Foffano, che ieri ha ascoltato i detenuti per cinque ore. Nella bozza di protocollo di intesa in materia di prevenzione del rischio suicidario e autolesivo proposto dalla Camera Penale, è prevista una mail dedicata per segnalare con urgenza a direzione, polizia penitenziaria, sanitari ed educatori i segnali preoccupanti. Più telefonate e videochiamate a casa per alleviare la pressione, più colloqui con i familiari, più attività e progetti individualizzati integrano la bozza. “Una proposta di lavoro sulla quale discutere, una base di lavoro dal quale partire - spiega Cristofoli Prat - Con l’auspicio che il vertice di questi giorni diventi una prassi”. Ravenna. I detenuti avviano lo sciopero della fame per protesta Corriere della Romagna, 1 luglio 2023 Sciopero della fame in carcere da parte dei detenuti con pena inferiore ai 4 anni, attualmente ristretti nella casa circondariale di Ravenna per scontare condanne divenute definitive. La protesta, iniziata ieri, contesta la decisione del Tribunale di sorveglianza di Bologna di non concedere la detenzione domiciliare entro i 4 anni di condanna definitiva. Tramite i rispettivi familiari, già da ieri, hanno deciso di rendere noto oltre le mura di Port’Aurea il gesto di protesta, in vista di una nota ufficiale che potrebbe giungere nella giornata di domani. Fra le voci, quella della moglie di un carcerato, che preferisce non fare il nome del coniuge. “E’ giusto che chi ha sbagliato paghi, compreso mio marito. Ma se la legge prevede che sotto i 4 anni e a fronte di condotte positive si possano scontare pene definitive ai domiciliari, non vedo perché la scelta intrapresa vada nella direzione opposta, più oppressiva”. Nel caso specifico, racconta, “mio marito aveva il braccialetto elettronico e scontava ai domiciliari un residuo pena di 8 mesi, sottoponendosi a regolari controlli delle forze dell’ordine. La dottoressa che lo stava seguendo ci aveva confortato dicendoci che stava intraprendendo un ottimo percorso. Invece a fine marzo è dovuto tornare in carcere”. Le ragioni - La protesta coinvolge circa una quarantina di persone all’interno del penitenziario. “Non hanno nulla contro la casa circondariale - puntualizza la donna, divenuta una sorta di portavoce del marito e di altri compagni di cella. Sono trattati bene, va tutto bene. Si stanno ribellando contro questa decisione e chiedono di far sapere che hanno iniziato lo sciopero della fame contro quella che ritengono essere un’ingiustizia”. Ravenna. “Celle piccole e buie, troppi detenuti e grave carenza di medici e poliziotti” di Chiara Tadini ravennatoday.it, 1 luglio 2023 È la difficile situazione riscontrata nella casa circondariale di Ravenna dall’associazione Antigone (che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario) e fotografata nel Rapporto regionale Emilia-Romagna sulle condizioni di detenzione 2023. Spazi piccoli, celle buie, pochi poliziotti e ancor meno medici e infermieri. È la difficile situazione riscontrata nella casa circondariale di Ravenna dall’associazione Antigone (nata per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario) e fotografata nel Rapporto regionale Emilia-Romagna sulle condizioni di detenzione 2023, a cinque anni dalla precedente edizione. La nostra regione, si legge nel report, si conferma essere uno dei territori - quantomeno del nord Italia - con il più alto numero di presenze nelle carceri: al 31 dicembre 2022 erano 3.407 i detenuti presenti, di cui 153 donne distribuite all’interno delle cinque sezioni femminili di Bologna, Modena, Piacenza, Reggio Emilia e Forlì, e 1.660 stranieri. E se il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri, come affermava Voltaire già nel diciottesimo secolo, sicuramente c’è ancora molta strada da fare. Celle piccole e buie: “I detenuti si lamentano del freddo” Analizzando nello specifico la situazione del nostro carcere (o meglio, casa circondariale), la struttura al 31 maggio 2023 ospitava 74 detenuti, quando la capienza massima è di appena 49 persone, facendo registrare un sovraffollamento del 151%. Bisogna specificare che la capienza di 49 persone, riportata anche sul sito del ministero, si riferisce all’ipotesi di un solo detenuto per cella, mentre secondo lo standard di due detenuti per cella la struttura ravennate risulterebbe avere una capienza di 85 persone. L’edificio di via Port’Aurea, spiegano da Antigone, presenta storicamente delle criticità a livello strutturale legate alla ristrettezza degli spazi: “Le celle visitate si presentano in condizioni inadeguate, gli spazi risultano angusti e poco luminosi, anche perché le finestre (schermate) sono poste molto in alto. Il wc è separato dalla zona notte, tuttavia nelle celle visitate l’unico spazio disponibile per cucinare è proprio su un piccolo tavolino nello stesso ambiente dove è collocato il wc. Le porte di accesso sono piccole e basse. Le condizioni della pavimentazione del piano terra risultano particolarmente deteriorate. Nel corso della visita un detenuto si è lamentato del freddo nella sua cella, mostrandoci un infisso che non si chiude correttamente. Le celle destinate ad accogliere i nuovi giunti (due con due letti ciascuna) versano in cattive condizioni. Inoltre è presente un ballatoio al secondo piano in cui la mobilità risulta decisamente limitata”. Le visite effettuate confermano l’assenza, spesso, di significative opere di ristrutturazione o, quantomeno, di manutenzione o ritinteggiatura, continua il report: “Le celle, pur garantendo i 3 metri quadri calpestabili per ogni persona, sono spesso caratterizzate da mobilio vetusto o danneggiato. I bagni spesso presentano evidenti problemi di umidità. Nelle celle visitate il più delle volte non è presente la doccia: è questo il caso del carcere di Ravenna. Le docce comuni si presentano spesso in condizioni indecorose, gravate da importanti danni dovuti a muffa diffusa”. Modena: Rivolta in carcere, il legale Sebastiani non ci sta: “Ci opponiamo alla richiesta di archiviazione” Gazzetta di Modena, 1 luglio 2023 L’avvocato assiste i parenti di due dei nove detenuti morti durante il tragico 8 marzo 2020- “Faremo opposizione”. L’avvocato Luca Sebastiani annuncia battaglia legale contro la Procura. Sebastiani assiste i parenti di due dei nove detenuti morti dopo la rivolta in carcere dell’8 marzo 2020. La Procura di Modena ha chiesto di archiviare le accuse nei confronti di agenti e dirigenti del Sant’Anna. La Procura giudica “oltremodo inverosimile” che vi possano essere stati pestaggi a danno dei detenuti da parte del personale di Polizia penitenziaria, tanto più durante “una rivolta dalle dimensioni “epocali”. “Leggeremo attentamente tutti gli atti di indagini ma, quanto meno per quanto riguarda le posizioni dei miei assistiti, riteniamo doveroso e necessario che ci sia un vaglio processuale per chiarire questa delicata vicenda - commenta il legale - dunque faremo opposizione. Parliamo di due ex detenuti, che erano a Modena l’8 marzo, che nei giorni successivi hanno denunciato le violenze e torture subite durante quella maledetta giornata, nonostante fossero ancora detenuti e quindi esponendosi in prima persona senza alcun timore, individuando, sia pure a distanza di mesi, anche alcuni dei responsabili”. L’avvocato pone l’attenzione su un passaggio nevralgico: le telecamere. Le oltre duecento pagine della richiesta d’archiviazione contengono fotogrammi che, integrati dagli audio, permettono di “ricostruire una possibile (ma non provata in termini di certezza) manganellata sferrata da un agente della Polizia Penitenziaria” verso un detenuto, come ribadisce la Procura. Per Sebastiani invece i punti rimasti irrisolti con le telecamere non rappresentano “un elemento tale da non poter confermare quanto denunciato dai detenuti ma piuttosto come un’inspiegabile mancanza”. Il legale si richiama ai “referti sanitari del giorno dopo, quando l’infermeria del carcere dove sono stati trasferiti, ha ritenuto necessario portarli al Pronto Soccorso dove sono stati diagnosticati lesioni traumatiche importanti, tra cui la frattura di un polso o quella del naso”. Sebastiani ritiene dunque “opportuno che questa vicenda sia discussa in un processo, davanti ad un giudice terzo dove le prove siano assunte nel pieno contraddittorio tra le parti”. Matera. “Carceri colabrodo, schermare tutto”. La denuncia del procuratore Curcio di Diego Motta Avvenire, 1 luglio 2023 Dalla Festa di Avvenire di Matera, piena sintonia su 41 bis e intercettazioni tra il procuratore di Palermo, De Lucia, e quello di Potenza. Che chiede un segnale anche sul sistema penitenziario. “Dobbiamo dirci la verità - denuncia dalla Festa di Avvenire di Matera il procuratore distrettuale antimafia di Potenza, Francesco Curcio -. Ormai le carceri italiane sono un colabrodo totale. Esistono istituti in cui per ogni cella c’è un piccolo telefono: così entra di tutto e nessuno fa nulla, quando basterebbe schermare le comunicazioni per garantire il ritorno alla normalità”. Nella strategia di contrasto a Cosa nostra, occorre fare i conti col ventre molle del sistema penitenziario che, ai tanti problemi del sovraffollamento e delle condizioni disumane di detenzione, aggiunge anche secondo i magistrati in prima linea nella lotta alla criminalità, la permeabilità nei controlli. La riflessione di Curcio si è inserita giovedì sera nel più ampio dibattito sul 41 bis, innescatosi in questi mesi dopo la cattura di Matteo Messina Denaro. “Il 41 bis è una misura irrinunciabile, ma non è una pena in più. Se io ho ucciso cento persone, dovrò scontare cento ergastoli forse. Ma non è detto che mi spetti il 41 bis. Noi non abbiamo applicato ad esempio questo istituto a killer che erano bravi a sparare, ma non sapevano neppure perché lo facevano e verso di chi. L’abbiamo invece applicato a signori con più di 80 anni, ritenuti pericolosi perché in grado di mandare informazioni all’esterno anche solo abbracciando un nipote o un loro congiunto” ha spiegato il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia. “Il “carcere duro” serve a impedire che un capomafia possa comunicare con l’esterno, rispondendo a un obiettivo chiaro: evitare che i boss continuino a comandare dalla cella, dando ordini e disposizioni a chi è fuori”. La sintonia dei due magistrati è apparsa evidente anche quando si è toccato il tema delle intercettazioni. Secondo l’uomo che “si è assunto la responsabilità dell’indagine su Messina Denaro”, la possibilità di effettuare ascolti deve partire dalla constatazione che le grandi organizzazioni criminali comunicano in ogni modo ormai, anche il più tecnologico. “Resta il fatto che un delitto di corruzione, per sua natura omertoso, lo scopro solo se l’ascolto. Ogni mese trovo sacchi di soldi di funzionari corrotti nei sacchi della spazzatura”. Per Curcio, in passato, indubbiamente ci sono state “evidenti violazioni del diritto alla privacy. Ma adesso obiettivamente non vedo più i fatti provati buttati in piazza. L’ultima legge approvata in materia ha funzionato e non vedo il motivo per cambiarla, come ha annunciato di voler fare il ministro della Giustizia”. Rimini. Comunità Papa Giovanni XXIII: messa con i vescovi per i 50 anni della prima casa-famiglia agensir.it, 1 luglio 2023 Sabato 1° luglio, alle ore 16,30, a Rimini, nella parrocchia della Grotta Rossa, che fu di Don Benzi, la Comunità Papa Giovanni XXIII ricorderà i 50 anni della prima casa famiglia durante la celebrazione dell’Eucarestia, guidata dal vescovo di Cesena-Sarsina, mons. Douglas Regattieri, e dal vescovo di San Marino-Montefeltro, mons. Andrea Turazzi. Nell’estate del 1972 un panettiere si avvicinò al giovane sacerdote riminese con l’invito: “Vieni, ti porto a vedere come muore un cristiano”. Don Benzi si ritrovò a visitare il tugurio semi-abbandonato dove Mariano, nella sua estrema fragilità viveva in condizioni gravemente disumane. Aveva scontato la pena di un anno e mezzo di carcere per aver rubato una bicicletta. “Don Oreste convocò - ricorda l’allora volontaria Mirella Rossi che oggi ha 67 anni - le persone che facevano parte della sua giovane associazione; propose di avviare una sorta di “pronto soccorso sociale”, per dare una famiglia agli ultimi. Ci disse che avremmo dovuto iniziare ad amare i poveri proprio allo stesso modo in cui lo aveva fatto Gesù”. Una giovane, Ida Branducci, accettò per prima la sua proposta. Il 3 luglio del 1973 andò a vivere a Coriano, nella casa che era appena stata messa a disposizione dalla “Fondazione Madonna della Scala”. Vide così la luce quel giorno la prima di quelle realtà di accoglienza di tipo familiare che sono conosciute oggi come “case famiglia”. Anticipò la chiusura dei manicomi che sarebbe arrivata poi con la legge Basaglia 180 del ‘78. Presto si affiancò a lei don Nevio Faitanini. La seconda casa famiglia venne inaugurata dopo solo un mese e mezzo, il 15 agosto 1973 nella parrocchia della Grotta Rossa di Rimini. L’11 novembre nacque la terza casa famiglia, a Sant’Arcangelo di Romagna (Rn). Mirella Rossi, allora diciannovenne, si trasferì a vivere nella casa famiglia di Coriano, tre anni dopo l’inaugurazione, e vi è rimasta fino al 2017: “Negli anni ‘70 i malati psichiatrici venivano tenuti distanti da tutti; l’accoglienza come la intendiamo oggi proprio non esisteva. Fa mille difficoltà mi ritrovai a cercare di amare le persone accolte così come erano. È stata l’avventura più bella che mi sia mai capitata nella vita. Don Oreste era per me come un papà, con lui avevo un rapporto molto schietto”. L’intuizione delle case famiglia varcò i confini del territorio riminese giungendo prima a Bologna e poi in Piemonte, in Veneto, in Lombardia, per venire poi assimilata da altre realtà sociali e raggiungendo progressivamente tutto il territorio nazionale. Nel maggio 1986 venne inaugurata dallo stesso don Benzi la “Holy family home for children” di Ndola, in Zambia, prima casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII all’estero. Oggi le case famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII sono in totale 247, di cui 209 in Italia. Fra quelle all’estero 6 sono in Bolivia, 4 in Russia. Dal 2018 ad oggi la casa di Coriano è una comunità educante con i carcerati ed accoglie una ventina di persone, inserite nei programmi di recupero alternativi alla detenzione. Marino vive qui ancora ed è accudito da persone che nella condivisione con lui cercano un rimedio ai propri errori. Terzo settore, luci e ombre per il decreto Lavoro. “Poco contrasto alla povertà” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 1 luglio 2023 Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Terzo settore: “Il dl contiene alcune misure positive, ma non sufficienti come risposta alla crescita di povertà e disuguaglianze”. Qualche luce, ma anche ombre, soprattutto come risposta alla povertà. Così si presenta., per il Terzo settore, il decreto Lavoro che ha ottenuto il via libera dalla Camera ed è diventato legge.”Il dl approvato in via definitiva contiene alcune misure positive, ma purtroppo non sufficienti a rappresentare una risposta adeguata a povertà e disuguaglianze crescenti in maniera drammatica nel nostro Paese”, spiega Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Terzo settore. “È apprezzabile, ad esempio, l’impegno portato avanti da Governo e Parlamento per incentivare le assunzioni delle persone con disabilità nel Terzo settore e per valorizzare le attività di volontariato all’interno dei percorsi personalizzati di inclusione sociale e lavorativa”. Il testo, però, prosegue la portavoce “esclude dai benefici le famiglie in forte difficoltà economica che non abbiano a carico un minore, un anziano o una persona con disabilità, non considerando così altre tipologie di fragilità o i senza fissa dimora. Riteniamo inoltre limitante prevedere che solo gli enti di Terzo settore autorizzati all’intermediazione possano contribuire all’innovativo accompagnamento al lavoro delle persone con disabilità. E anche per quanto riguarda l’integrazione al reddito per le locazioni avremmo auspicato di più, per tutelare soprattutto le persone con disabilità”. “Pandemia e crisi energetica hanno impoverito ulteriormente il nostro Paese, approfondendo le ferite del tessuto sociale: contrastare povertà e disuguaglianze, investendo ingenti risorse in strumenti di sostegno al reddito e, più in generale, nel welfare, dovrebbe essere la priorità”, conclude Pallucchi. Il posto che manca per donne e giovani di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 1 luglio 2023 A maggio di quest’anno l’occupazione è leggermente aumentata, di poco più di 20 mila unità, rispetto ad aprile, con un incremento di quella maschile e una diminuzione di quella femminile. E così il tasso di occupazione maschile torna al livello di maggio 2008, al 70,3%. Ci sono voluti 15 anni. Non è successa la stessa cosa per i giovani da 25 a 34 anni. Anche loro sono cresciuti da aprile a maggio e stanno recuperando la perdita di occupati avvenuta con il susseguirsi delle crisi. Dopo 15 anni non ce l’hanno, però, ancora fatta. A maggio è cresciuta anche l’occupazione degli ultracinquantenni, di 0,2 punti percentuali. Unico segmento di popolazione che ha conosciuto un incremento continuo del suo tasso di occupazione - tranne nel periodo della pandemia - guadagnando in 15 anni 16.2 punti percentuali. Tutto ciò deve farci riflettere. In 15 anni siamo cresciuti assai poco, di 2,5 punti di tasso di occupazione. Questi 2,5 punti, badate bene, sono la sintesi della diminuzione del tasso di occupazione giovanile fino a 34 anni, di un aumento impercettibile (+0.4) del tasso dei 35-49enni, e dell’incremento di 16.2 punti degli ultracinquantenni. Capite bene che questo significa che la nostra crescita di occupazione è fondamentalmente avvenuta nelle classi di età più avanzate, dovuta anche all’aumento della permanenza nel mondo del lavoro a seguito dell’elevamento dell’età pensionabile. E, infatti, il numero di occupati di 50-64 anni è cresciuto del 68% mentre quello dei giovani di 25-34 anni è diminuito del 27,7%. E ciò non è dovuto solo ad un effetto demografico, cioè alla crescita della popolazione ultracinquantenne e alla diminuzione di quella giovane. Va aggiunto anche un altro elemento. Tra aprile e maggio è aumentato il numero di lavoratori indipendenti. Ma ciò non ha certo reinvertito una tendenza di diminuzione di lungo periodo. In 15 anni i lavoratori indipendenti sono diminuiti di 805 mila unità, pari al 13,7%, mentre sono aumentati i dipendenti a tempo indeterminato ma soprattutto quelli a tempo determinato. I primi del 4%, i secondi del 17,8%. Quindi? Abbiamo faticosamente risalito la china in questi 15 anni, ma non siamo riusciti ad aggredire come servirebbe le tre criticità fondamentali, donne, giovani e Sud. Sul fronte delle donne siamo lenti. Pensate, dal 2004 al 2008, quindi, in 4 anni il numero di lavoratrici è cresciuto del 4,8%, eppure il ritmo di crescita stava rallentando, se lo confrontiamo con gli anni precedenti. Poi in 15 anni le lavoratrici sono cresciute solo del 7%! E in più è peggiorata la qualità del lavoro. I giovani non hanno recuperato ancora il livello di occupazione del 2008 e le forme precarie e di basso salario in aumento colpiscono proprio loro e le donne, mettendo a nudo la grande difficoltà a costruire percorsi di autonomia. La forbice Nord Sud nei tassi di occupazione continua ad essere elevata, 21,8 punti percentuali, 26,3 punti per le donne, 23,7 per i giovani. Insomma, reagiamo agli shock, con grande fatica risaliamo la china, ma dobbiamo fare di più, abbiamo bisogno di sfruttare al massimo tutti gli investimenti del Pnrr sul piano delle due priorità strategiche della transizione digitale ed ecologica e di un grande piano di infrastrutture sociali con il potenziamento dei servizi sociali di assistenza agli anziani e disabili, di servizi educativi per la prima infanzia, servizi sanitari. Ma soprattutto dobbiamo accelerare e aggredire le tre criticità. Vertice Ue, non c’è accordo sui migranti per il no di Polonia e Ungheria di Francesca Basso Corriere della Sera, 1 luglio 2023 I governi sovranisti di Budapest e Varsavia vogliono rimettere in discussione il testo che impone di scegliere tra accoglienza o contributo di 20.000 euro per migrante. Sei ore di discussione giovedì sulla migrazione e almeno sei opzioni di conclusioni sul tavolo non sono bastate a convincere Polonia e Ungheria. Nemmeno la mediazione di venerdì mattina prima della ripresa dei lavori del Consiglio europeo portata avanti dalla premier Giorgia Meloni, su richiesta del presidente del Consiglio europeo Charles Michel e di alcuni leader Ue data la vicinanza politica con i premier polacco Mateusz Jakub Morawiecki e ungherese Viktor Orbán, ha sbloccato lo stallo. E così le conclusioni del Consiglio europeo, nella parte “Dimensione esterna della migrazione”, presentano una dichiarazione a nome del presidente Michel e non dei Ventisette. Ma questo non cambia nulla sull’iter dell’accordo sui due regolamenti chiave del nuovo Patto per la migrazione e l’asilo raggiunto a Lussemburgo l’8 giugno scorso dai ministri degli Interni a maggioranza. Ora ci sarà il negoziato con il Parlamento Ue nel tentativo di adottare il nuovo Patto entro la fine della legislatura. L’impegno verso la Tunisia - Il consenso è stato raggiunto invece sull’impegno verso la Tunisia, molto importante per l’Italia. Questo punto è rimasto nelle conclusioni. Fondamentale averlo fatto inserire in fase di negoziato nel capitolo Relazioni esterne e non sotto il punto Migrazioni. I 27 concordano nel ritenere importanti i lavori svolti “su un pacchetto di partenariato globale reciprocamente vantaggioso con la Tunisia, basato sui pilastri dello sviluppo economico, degli investimenti e del commercio, della transizione verso l’energia verde, della migrazione e dei contatti interpersonali”. Sostengono “la ripresa del dialogo politico nel contesto dell’accordo di associazione Ue-Tunisia” e sottolineano “l’importanza di rafforzare e sviluppare partenariati strategici simili tra l’Unione europea e i partner della regione”. Che cosa vogliono Polonia e Ungheria - Polonia e Ungheria vogliono che tutte le decisioni in materia di immigrazione siano prese per consenso, “in linea con le precedenti conclusioni del Consiglio europeo di dicembre 2016, giugno 2018 e giugno 2019”.L’accordo del Lussemburgo è stato possibile invece proprio perché si è passati alla maggioranza qualificata come prevedono i Trattati per questa materia. “Comprendo la posizione di Polonia e Ungheria, che in questo caso è diversa dalla nostra”, ha detto la presidente del Consiglio Meloni al termine del summit. “Io ho tentato di spiegare dall’inizio che finché noi cerchiamo delle soluzioni su come gestire il problema dei migranti quando arrivano sul territorio europeo - ha proseguito - non troveremo mai l’unanimità perché la geografia è diversa, perché le necessità è diversa, perché le situazioni sono diverse, perché la politica è diversa. L’unico modo per affrontare la questione tutti insieme è concentrarsi sulla dimensione esterna. Ed è su questo che noi siamo riusciti a imprimere una svolta totale”. Per questo motivo l’Italia considera “la questione del Patto per la migrazione e l’asilo secondaria in questo dibattito”: “Io non chiedo i ricollocamenti, non sono la mia priorità - ha concluso -. Io chiedo, insieme, di fermare l’immigrazione illegale a monte e di farlo con un partenariato strategico con i paesi africani, che è utile anche per l’Africa”. Migranti, il nulla costruito sui morti di Luigi Manconi La Stampa, 1 luglio 2023 Il Consiglio europeo si è concluso appena poche ore fa con un nulla di fatto in materia di immigrazione, che segue altri bilanci negativi, rinvii e differimenti, impegni mancati e promesse tradite, in un rosario estenuante di annunci e frustrazioni. Questa ennesima sconfitta dell’Europa è figlia, a sua volta, di una lunghissima sequenza di errori, che chiama in causa sia i governi che le opposizioni e - fatte le debite proporzioni - ciascuno di noi. Sono passati ormai 35 anni da quando scrissi, su questo giornale, allora diretto da Gaetano Scardocchia, uno dei miei primi articoli sull’immigrazione straniera in Italia. Per misurare l’incomparabile distanza che corre tra quel periodo e la fase attuale basti un dato. Nel 1991, gli stranieri presenti in Italia erano 649 mila (meno dell’1% del totale della popolazione); nel 2022 circa 5,2 milioni (ovvero l’8,7% del totale). In questi sette lustri, tutto è cambiato. E - temo di dover dire - in peggio. Dunque, se si volesse trarre un bilancio di questa fase della storia nazionale, relativamente alla politica migratoria, si dovrebbe parlare di fallimento. Nel 1990 la legge Martelli ampliò il diritto d’asilo e introdusse la prima politica dei flussi: attraverso decreti annuali si consentiva, per motivi di lavoro, l’ingresso legale. Contemporaneamente vennero emanate misure di repressione e di espulsione per gli stranieri irregolari. Intanto, si registravano i primi consistenti sbarchi di cittadini albanesi sulle nostre coste e, in molte città italiane (specie nel Nord), si manifestavano tensioni e conflitti tra residenti e nuovi arrivati. Nel 1998, fu la legge Turco-Napolitano a tentare di regolamentare l’intera materia, ma, pur positiva per molti aspetti, produsse una acuta lesione nel sistema delle garanzie, attraverso l’introduzione della categoria di “detenzione amministrativa”. Ovvero, la possibilità di sottoporre a reclusione un individuo senza preventiva autorizzazione del magistrato e senza la commissione di un reato. Una misura disposta dagli organi di polizia ai fini dell’espulsione e che, in genere, sanziona la mancata titolarità di documenti regolari da parte dello straniero. Allo scopo vennero creati dei centri di reclusione, prima chiamati Cpt (Centri di permanenza temporanea), poi Cie (Centri di identificazione ed espulsione), infine Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri). Un precedente drammatico, perché rappresentò l’introduzione di una eccezione giuridica ai danni di una categoria selezionata su base etnica. E perché quei centri conobbero un progressivo processo di degrado che incentivò la violazione dei diritti fondamentali della persona. In particolare, la diffusione dei Cie costituì l’inizio dello slittamento della questione dell’immigrazione da grande tematica sociale a problema di ordine pubblico. Fu anche l’occasione della mia prima cocente sconfitta parlamentare, quando il Ministro dell’interno Giorgio Napolitano pretese il voto unitario della maggioranza (della quale facevo parte) sull’intera normativa. Moltissimi anni dopo, lo stesso Napolitano, diventato Capo dello Stato, mi affidò un messaggio che Ricky Tognazzi lesse, nell’emozione generale, davanti alle persone trattenute nel CIE di Ponte Galeria, il primo gennaio del 2017. Una decina di anni fa visitai tutti i Cpr, uno per uno, arrivando a una conclusione: che queste carceri non carceri fossero, sotto ogni punto di vista, assai peggiori degli istituti di pena. Un passo indietro. Il 28 marzo 1997, Venerdì Santo, la nave Katër i Radës, che trasportava profughi albanesi verso l’Italia, si inabissò nelle acque del canale di Otranto, in seguito alla collisione con la motovedetta italiana Sibilla. I morti furono oltre cento. La Sibilla partecipava a un’operazione di pattugliamento della Marina italiana ed eseguiva un ordine che l’allora ministro della Difesa, Beniamino Andreatta, sintetizzò così: “manovrare in modo da scoraggiare”. Come affermò l’Alto Commissariato per i Rifugiati, l’operato della Marina italiana configurava un vero e proprio blocco navale, realizzato al di fuori delle acque territoriali, sia italiane sia albanesi. Il Governo di centrosinistra non volle assumersi la responsabilità di quella tragedia e sul porto di Brindisi, ad accogliere i profughi, si ritrovarono solo i rappresentanti della sinistra minoritaria e l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nel 2002 l’esecutivo di centrodestra approvò la legge Bossi-Fini, che si qualificava per il suo impianto tutto “economicistico”: lo straniero veniva considerato non come persona titolare di diritti e di doveri, bensì solo ed esclusivamente come forza lavoro. Il riferimento alla Bossi-Fini è fondamentale. Innanzitutto, perché la struttura di quella legge resiste da più di due decenni. E poi perché la sua ispirazione di fondo non ha conosciuto alcun cambiamento: l’essenziale finalità della nostra politica migratoria resta quella di contenere al minimo gli ingressi. È come se il sistema sociale ed economico italiano avesse stabilito, una volta per tutte, una soglia alla presenza di stranieri, superata la quale non si consentirebbero più ingressi per motivi di lavoro, né accoglienza per chi sbarchi sulle nostre coste. Nel 2008, poi, con il Governo di centrodestra, la condizione di irregolarità venne qualificata come reato e circostanza aggravante di ogni altro illecito penale (quest’ultima dichiarata incostituzionale dalla Consulta). La condizione soggettiva di migrante irregolare, così, è diventata penalmente rilevante, con una regressione a quel diritto penale d’autore e non del fatto che il costituzionalismo moderno aveva definitivamente superato. Questo mentre, per cause geopolitiche, aumentavano i flussi verso l’Europa e si verificavano i primi naufragi di massa. Il 3 ottobre del 2013, davanti a Lampedusa, morirono 360 migranti. Solo pochi giorni dopo vi fu quella che viene ricordata come “la strage dei bambini”. Da quelle centinaia di vittime due conseguenze. La prima appare oggi grottesca: in Parlamento ottenemmo, faticosamente, che il 3 ottobre venisse dichiarata Giornata nazionale della memoria delle vittime dell’immigrazione; e oggi sappiamo, ma è stato un peccato mortale non averlo previsto, quanto quella ricorrenza sia ridotta a frusta retorica. La seconda conseguenza è stata il varo della missione Mare Nostrum che, per un anno, ha funzionato egregiamente, salvando decine di migliaia di vite umane e, se posso dire, l’onore dei nostri mezzi di soccorso. Poi la missione venne annullata, sostanzialmente per ragioni di cassa. Ha inizio così il periodo più fosco delle stragi in mare, che ha visto l’intervento provvidenziale delle Ong del soccorso e la meschina battaglia ingaggiata contro di esse da parte di governi di più di un colore. Nel 2017, l’esecutivo di centrosinistra sottoscrisse il Memorandum con la Libia. I risultati positivi di questo accordo sono ancora tutti da dimostrare, mentre quelli negativi sono sotto i nostri occhi: un sostegno sostanziale a un regime frammentato e dispotico e l’autorizzazione al ricorso sistematico alla tortura e alla violazione dei diritti umani. Solo oggi - dopo sei anni -- il Pd denuncia quell’accordo. Ecco, ora forse si capirà, riandando indietro con la memoria e traendo un bilancio di questi ultimi decenni, quanto la tentazione di arrendersi - ovvero di accettare come ineluttabili le stragi di Cutro e di Pylos - possa essere irresistibile. L’occidente e quel vizio di sentirsi migliori di tutti di Mario Giro Il Domani, 1 luglio 2023 L’Occidente collettivo sta cadendo nell’autoreferenzialità conformista del credere che tutti la pensano alla sua stessa maniera. L’ostinazione sul proseguire la guerra non piace al resto del mondo che ne paga le conseguenze. La Cina si avvantaggia di questo clima politico promuovendo il suo modello di multilateralismo. L’Occidente non deve cadere vittima della propria autoreferenzialità: anche se vince la guerra può perdere la pace. Nella missione che va compiendo a Kiev e a Mosca il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, c’è una novità anticonformista: andare controcorrente, cioè contro i soli discorsi bellicisti come se non ci fosse alternativa e ai quali anche l’Occidente sembra essersi assuefatto. Al di là di come la si pensa, esiste un pericolo: credere che tutti la pensino come noi. Non è così: la guerra in Ucraina sta diventando insopportabile al resto del mondo. In Africa, Asia e America Latina matura una posizione equidistante che - a torto o a ragione - sta diventando maggioritaria. L’Occidente rischia di pagare un prezzo molto alto a tale “splendida solitudine”. Sappiamo bene che credersi soli al mondo e i migliori fra tutti è una malattia tipica di noi occidentali. Ci sono ottime ragioni per sostenere tale posizione: la maturità delle nostre democrazie, il rispetto dei diritti, la libertà e così via. Ma questo non basta per “stare al mondo”, nemmeno se si è più ricchi e più armati: il Global South ha il suo l’orgoglio e identità. Soprattutto non accetta più lezioni. L’Occidente deve stare attento a non isolarsi. Il prossimo vertice Brics rappresenta un campanello d’allarme, così come il dibattito (di cui non si parla) in seno alle Nazioni Unite. Cresce silenziosamente un’opposizione alle decisioni occidentali: non si comprende l’ostinazione sulla guerra e il perché dell’assenza di sforzi diplomatici. Non piace che l’Onu sia messa da parte (e con essa il multilateralismo). Soprattutto irrita il doppiopesismo occidentale che contraddice ciò che ha creato o sostenuto per decenni. L’idea che le regole servano solo per “gli altri”, infastidisce il resto del mondo. Di questo flusso di antipatia anti-occidentale Mosca si serve per coprire la propria politica imperialista, anche se è chiaro a tutti ciò a cui mira. Il Sud Globale non sceglie per la Russia ma nemmeno per l’Occidente. È soprattutto Pechino ad avvantaggiarsi di tale clima: il discorso multilateralista e anti-unipolare dei cinesi piace sempre di più perché sembra rispettoso delle identità di ciascuno. Con la globalizzazione il mondo è cresciuto ed ora molti Stati si sentono “adulti”, in grado cioè di affermare la propria individualità nel perseguire l’interesse nazionale. Gli esempi migliori sono la Turchia, l’Arabia Saudita e Israele: medie potenze che non ascoltano più l’Occidente, con cui pure erano alleate da decenni. Gli interessi non coincidono più. Così accade anche in Africa ma soprattutto in America Latina e in Asia. L’Indonesia è addirittura riuscita a fare compiere il mese scorso manovre navali congiunte a Usa, Russia e Cina, alle quali le tre grandi potenze non si sono potute sottrarre. Il mondo è cambiato: l’Occidente non può restare rinserrato solo sulle proprie ragioni, anche se giuste. Non basta più. Periferie, una deriva di paura: l’anno zero dell’altra Francia di Massimo Nava Corriere della Sera, 1 luglio 2023 Le violenze e gli scontri. Le polemiche politiche trasformano in infuocata attualità un problema endemico da decenni. È sintomatico, e abbastanza inquietante, che il problema delle periferie francesi torni d’attualità per un “casus belli” - la tragica fine di un 17enne ucciso dalla polizia - o per ricordare anniversari di precedenti episodi, come quello che innescò la più drammatica e spettacolare rivolta a metà degli anni Duemila, la morte in una cabina dell’elettricità di due ragazzi inseguiti dai poliziotti. Le violenze, i vandalismi, le proteste, gli incendi di auto e uffici pubblici, gli scontri con le forze dell’ordine e le immancabili polemiche politiche trasformano infatti in infuocata attualità quello che è da decenni un problema endemico, salvo appunto fare finta che non esista e rimanga dormiente non appena la rabbia popolare si spegne e si placa il dibattito nazionale. Un problema endemico non significa tuttavia che non sia risolvibile o almeno più contenibile. Ma per questo non basta la volontà politica dei governi che, sopratutto negli ultimi anni, hanno peraltro profuso risorse, piani di riqualificazione urbanistica, programmi d’inserimento sociale e promozione di attività economiche. I risultati sono stati modesti, poiché i progressi innegabili in termini di infrastrutture e servizi non modificano la condizione di sostanziale disparità sociale. Occorrerebbe un cambio di passo che l’”altra Francia” - la Francia dei garantiti, la Francia prevalentemente bianca, la Francia dell’establishment politico e culturale - non è ancora disposta fare, cominciando a rimettere in discussione un modello di Stato che esalta i principi di uguaglianza, integrazione e laicità, senza riuscire a risolvere un sostanziale “apartheid” sociale, culturale e persino religiosa. Al contrario, l’”altra Francia” è scivolata negli ultimi anni verso una deriva di indifferenza, paura, repulsione e persino stigmatizzazione culturale di cui sono portatori soprattutto i partiti di destra e di estrema destra e alcuni intellettuali (da Eric Zemmour a Michel Huellebeq) che hanno alimentato la teoria della sostituzione etnica e della scomparsa della Francia bianca e cristiana. Questa è la principale novità di questi anni, che, in parte contraddice la narrazione compassionevole, sociologica e solidale che da sempre accompagna le analisi sulle periferie. Le voci che hanno condannato l’operato della polizia sono quelle dei campioni dello sport, le stelle del calcio, i beniamini del Paris Saint Germain, che da queste periferie provengono. Sotto l’apparente ripetitività dei fenomeni, molte cose sono in realtà cambiate in questi anni anche fra le nuove generazioni di “banlieusards”. Le rivolte precedenti erano animate da una protesta antagonista, metapolitica. Erano un grido di dolore di decine di migliaia di giovani che chiedevano inserimento sociale, occupazione, “discriminazione positiva” negli accessi al lavoro e nelle università. Progressivamente, la periferia francese si è ritirata, racchiusa in una sorta di apartheid territoriale e fisico, spesso dominata da bande di quartiere ed esposta al proselitismo radicale islamico. Fenomeni che ovviamente alimentano all’esterno diffidenza, ostilità, razzismo. In questi territori separati dalla Republique si contestano programmi scolastici, si diffondono pratiche religiose e costumi alternativi alla laicità dello Stato, si parla persino un’altra lingua, si tifa Algeria e Marocco e si fischia la Marsigliese. Gli attentati perpetrati e sventati in questi anni hanno trovato in questo ambito un terreno di cultura e complicità. Le recenti proteste sociali dei gilet gialli e contro la riforma delle pensioni si sono dimostrate un’altra paradossale e drammatica conferma delle divisioni che attraversano la società francese. I giovani delle periferie non hanno partecipato, sono rimasti ai margini di battaglie per diritti che sembrano non riguardarli e forse non a torto, dato che le pensioni e il salario sono questioni che interessano chi una pensione o un lavoro ce l’ha. Le periferie non seguono le lotte sociali, non scioperano, non militano in un sindacato o in partito, non votano, non si sentono più nemmeno parte di questa Francia. Da Marsiglia a Parigi. Le periferie malate dove lo Stato è debole la rabbia diventa violenza di Tahar Ben Jelloun La Repubblica, 1 luglio 2023 La polizia non avrebbe mai sparato a bruciapelo in quel modo in un quartiere borghese. Nulla viene fatto per prendersi cura dei margini della società e ciclicamente accadono tragedie immani. Da tempo la Francia è malata nelle sue periferie. Abitazioni mal progettate. Aree urbane lasciate in stato di abbandono. Scuole di scarsa qualità. Crescita del comunitarismo, ovvero di uno spirito di appartenenza a comunità chiuse che si sviluppano su una condizione di povertà e di esclusione sociale. Aumento, di conseguenza, dell’insuccesso scolastico e della delinquenza. Bambini che abbandonano gli studi per diventare spacciatori. La polizia non interviene e, quel che è peggio, si rifiuta di entrare in questi quartieri diventati pericolosi. Ci sono tredicenni che guadagnano cento euro al giorno facendo le vedette all’ingresso di alcuni quartieri di Marsiglia. I soldi facili li trascinano poi in forme di delinquenza più gravi. Nelle carceri di Marsiglia, il 70 per cento dei reclusi sono giovani francesi di origine magrebina detenuti per reati minori. In carcere si radicalizzano e ne escono ancora più convinti che solo la violenza permetterà loro di trovare un posto in una società che non li riconosce e volta loro le spalle. Questa constatazione è stata fatta più volte ed è stata denunciata alle autorità responsabili sia durante i governi socialisti che durante quelli della destra tradizionale. Non è stato fatto nulla per prendersi cura di questi territori che, di tanto in tanto, sono scossi da tragedie umane insopportabili. È quanto è appena accaduto con Nahel, diciassette anni, colpito a bruciapelo da un poliziotto che gli chiedeva di scendere dall’auto. Questa “esecuzione”, termine usato dalla famiglia della vittima, ha infiammato le periferie. La polizia francese spara spesso, senza alcun preavviso, sulle persone, soprattutto se si tratta di arabi o di africani. I disordini del 2005 iniziarono a Clychy-Sous-Bois il 16 marzo, quando due adolescenti, Zyed e Bouna, rimasero folgorati da una scarica di 20.000 volt in una cabina della rete elettrica dove si erano rifugiati per sfuggire alla polizia che li stava inseguendo. Il 19 luglio 2016, Adama Traoré muore durante un fermo di polizia. Drammi come questo sono frequenti A diciotto anni di distanza, persistono gli stessi problemi e i vari governi hanno tutti distolto lo sguardo da ciò che accade in queste città. Le periferie sono un campo minato e malato. Perdere un figlio è la peggiore prova che un essere umano possa affrontare. La madre della vittima lavorava duramente per crescere il figlio da sola. Viveva per lui con la paura che potesse accadergli qualcosa. Le madri sono angosciate. Quando si vive in queste periferie dove il razzismo e la violenza sono diventati realtà ordinarie, la paura che accada qualcosa di brutto è perfettamente plausibile. La polizia non avrebbe mai sparato a bruciapelo in un quartiere borghese della capitale. In queste periferie, la polizia pensa di poter fare quello che vuole. La marcia bianca - La “marcia bianca” organizzata dagli abitanti di Nanterre è stata un’azione simbolica per denunciare una situazione che si protrae da decenni e che nessun governo ha saputo o voluto risolvere. Il fatto che dei teppisti approfittino del lutto della madre di Nahel per saccheggiare negozi e bruciare proprietà pubbliche e auto private è un classico di queste periferie. È l’espressione di una mancanza di educazione, di una rabbia a lungo repressa e di una sete di vendetta che si manifesta con furia. Nulla giustifica la brutalità di questi teppisti professionisti, delinquenti che approfittano di una tragedia per bruciare e saccheggiare. Nahel non meritava questi saccheggi e questi vandalismi. Questa è la Francia relegata in secondo piano e dimenticata fino al giorno in cui si verifica una tragedia e si manifesta il rischio di una guerra civile. La legge del 2017 - Dopo la legge del 2017 che permette alla polizia di usare le armi in determinate occasioni, ci sono state decine di abusi. Questo non ha fatto altro che esacerbare il deterioramento delle relazioni tra la polizia e la popolazione, in particolare in queste banlieue destinate a qualche disastro. Questa tragedia evidenzia, ancora una volta, la debolezza dello Stato o addirittura la sua mancanza di autorità, come avvenne durante le rivolte dei Gilets jaunes nel novembre del 2018. Il presidente Macron ha riunito i suoi ministri in un’unità di crisi, ma questo non placa la rabbia delle periferie. La malattia è grave. Non c’è un rimedio immediato. Macron lo sa. Ma non farà nulla, perché si tratta di un’impresa enorme che richiede risorse ingenti e, soprattutto, la volontà politica di cambiare radicalmente il modo in cui queste aree sono configurate, il loro tessuto e il loro modo di operare al di fuori della legge. Altrimenti, prima o poi, scoppieranno nuove rivolte e la polizia, una gran parte della quale (si stima il 60 per cento) voterebbe per l’estrema destra di Le Pen o Zemmour, si dovrò confrontare con una popolazione che vive quotidianamente in condizioni di precarietà, insicurezza e razzismo. La Francia è malata nelle sue periferie e si gira dall’altra parte come se l’incendio non la riguardasse affatto.