Le alternative alla cella hanno successo, ma il numero di detenuti in espiazione aumenta di Daniele Livreri* Il Dubbio, 19 luglio 2023 Nel 2016 le Ss.Uu. rilevavano che il nostro sistema sanzionatorio “gravita tolemaicamente intorno alla detenzione muraria” (Ss. Uu. 36272/ 2016), rilevando però l’opera riformatrice di tale sistema che si stava perseguendo attraverso l’istituto della messa alla prova. Tuttavia, per quanto possa apparire paradossale, i dati sembrano indicare che all’epoca la detenzione muraria avesse meno forza gravitazionale di quanto ne abbia oggi, e ciò sebbene da allora sia la Corte costituzionale (41/18) che il legislatore hanno posto in essere ulteriori interventi volti ad ampliare gli istituiti alternativi al carcere. Sembra invero che le soluzioni offerte più che costituire un’alternativa alla detenzione muraria abbiano finito per integrare un universo parallelo a quello carcerario, le cui dimensioni non si riducono. Al riguardo un magistrato assai sensibile al tema ha considerato che i numeri della detenzione intramuraria, nonostante l’aumento delle persone ammesse a misure di comunità, non accennano a diminuire e, anzi, tornano a crescere dopo la flessione della pandemia (R. De Vito, “Relazione al Parlamento 2023: i “sette anni in Tibet” del Garante nazionale delle persone private della libertà personale”, in Qg). Cerchiamo di cogliere il significato di quanto affermato con l’ausilio di alcuni numeri, con una precisazione: ai fini del presente scritto si farà riferimento ai soli detenuti in espiazione definitiva. A giugno 2014 i condannati in carcere erano pari a 36.926, l’ultimo dato di maggio 2023 ci indica un numero pari a 42.050. Eppure i soggetti che beneficiano della messa alla messa alla prova sono 25.970. È evidente che la messa alla prova, istituto di sicuro successo, non abbia dispiegato alcun effetto sul numero dei detenuti. Analoghe considerazioni riguardano le misure alternative al carcere. Infatti al 15.06.2023 i soggetti in carico agli Uffici per esecuzione penale esterna con riguardo alle sole misure alternative risultano pari a 40.075. Il dato ascende a 81.515 se si considera ogni tipo di misura, compresa la messa alla prova. Si potrebbe ritenere che i diversi istituti che consentono un’alternativa alla detenzione non riescano ad erodere i numeri della popolazione carceraria perché essi afferiscono reati puniti meno gravemente, lì dove invece i condannati a titolo definitivo in esecuzione muraria sarebbero in espiazione di reati puniti assai gravemente. Si tratterebbe tuttavia di una replica non fondata. Una tabella contenuta nella relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (pag. 215) consente di verificare che a marzo 2023 ben 8.579 detenuti stavano scontando una pena da tre anni in giù. Attenzione, una pena inflitta ab origine e non residua. Ciò significa che circa il 20,68 % dei detenuti è entrato in carcere per eseguire una pena non superiore a 3 anni. Confrontando questa tabella con quella dispensata nella relazione dell’anno precedente si nota che il numero di ingressi per pene contenute è cresciuto in termini assoluti. Procedendo poi al raffronto in termini percentuali si può rilevare che anche in termini relativi la presenza di persone in espiazione di pene brevi è cresciuta (dal 19,29 % del 28.04.22 al 20,68 % del 30.03. u. s.). Purtroppo non si dispone del dato dei soggetti privati della libertà condannati ad una pena fino 4 anni e quindi ammissibili all’affidamento in prova. Ad ulteriore smentita della tesi secondo cui il numero dei condannati in detenzione stia aumentando perché aumentano i reati più gravi si può rilevare che secondo i dati diffusi dal Garante rispetto al 2016 si è registrata una consistente diminuzione di reati gravi (omicidi volontari: - 25 percento; associazione mafiosa: - 36 percento, rapine: - 33 percento). Ricapitoliamo: diminuiscono i reati più gravi, ma il numero di condannati in esecuzione muraria, anche di pene brevi, si sta incrementando, eppure le misure in esecuzione esterna negli anni sono notevolmente aumentate. Ed allora ci pare opportuno concludere con le parole di un Giudice del Tribunale di Nuoro: “Si corre il serio rischio di vedere associata all’area della pena carceraria - i cui movimenti di espansione o contrazione tendono sempre di più a rimanere indifferenti alle riforme normative - una sempre più vasta zona di repressione penale extra- penitenziaria (o semi- penitenziaria), con il risultato globale di un aumento complessivo del controllo sociale. È un pronostico facilitato dalla vicenda storica del nostro come di altri sistemi penitenziari: l’implementazione del ventaglio normativo di strumenti alternativi al carcere è stata accompagnata da un logico aumento dei numeri dei soggetti in esecuzione esterna, ma da nessuna significativa riduzione dei tassi di incarcerazione” (R. De Vito “Fuori dal carcere? La “riforma Cartabia”, le sanzioni sostitutive e il ripensamento del sistema sanzionatorio” in Qg). *Avvocato, testo pubblicato su forogiurisprudenzacptp.blogspot.com “Nove minuti e 40 secondi: si può riassumere una settimana in così poco tempo?” a cura di Rossella Grasso L’Unità, 19 luglio 2023 Nell’epoca delle connessioni iper - veloci e iper - ovunque, garantite, gratis e a portata di mano, il carcere resta fuori dal mondo. Fermo a un telefono e a una linea telefonica. Uno di numero, si intende. Come una di numero è la telefonata a settimana che ogni detenuto può fare con i suoi cari. Parliamo di nove minuti e 40 secondi in cui dover condensare tutto quel che c’è da dire. E capita che quello sia l’unico modo per entrare in contatto con i familiari che “stanno e stiamo sempre tutti bene”, come racconta L.C., familiare di un detenuto. Anche lei aspetta con trepidazione quel momento della settimana che a volte può non succedere, scrive: “Perché nessuno ti avvisa se la linea non funziona, se il telefono della sezione è guasto, se tuo marito, tuo figlio, tuo fratello, tuo cugino o chiunque sia è stato trasferito. Nessuno ti dice niente. Perché nessuno gode del diritto di sapere dove si trova un pezzo del proprio cuore. E se chiami perché sei preoccupato o preoccupata, ti dicono che devi attendere, che chiamerà anche se non è vero perché è stato dislocato a 1400km. Succede”. Nell’epoca dell’essere raggiungibili ovunque come diritto insindacabile dell’essere umano, quasi come prerogativa dello stare al mondo, perché non consentire telefonate in più? L.C. racconta come si ci sente a stare lontani migliaia di chilometri da qualcuno che si ama e poter avere come contatto solo quei nove minuti e 40 secondi a settimana. Ci chiediamo: come possono pei pochi secondi rinsaldare i rapporti umani e garantire un reale reinserimento della persona nella società? L.C. da familiare racconta cosa significa tutto questo in una lettera a Sbarre di Zucchero. Riportiamo di seguito le sue parole. Aspetti per una settimana quel momento. Dal momento in cui riagganci, aspetti che ritorni quel momento. Che tu sia lontana geograficamente o vicina, poco cambia. Quello diventa il giorno della telefonata, avvisi parenti ed amici che non si devono assolutamente permettere di chiamare per non tenere la linea occupata, 24 ore concentrate e focalizzate su 9 minuti e 40 secondi di cronometro. Si può riassumere una settimana in così poco tempo? Impossibile. E devi lasciargli spazio di parlare, perché è più quello che vorresti sentire che dire. Prepararsi qualcosa è sconsigliassimo, rischi sempre che la conversazione prenda una piega che poi per questioni di tempo non puoi gestire. Sono più funzionali le frasi a spot. Intanto, stanno e stiamo sempre tutti bene. Nel frattempo tu parente, puoi anche avere 40 di febbre, una polmonite, o un braccio rotto… lui o lei devono sapere che va sempre tutto bene. Io sono logorroica. Personalmente per me ogni chiamata si è sempre conclusa con me mi collegavo al sito delle poste per fare un telegramma. Ho investito molto denaro nei telegrammi. Erano veloci e la telefonata della domenica al lunedì era già cosa chiusa. Per quanto si abbiano molte cose da dire, entrambe le parti fanno un’accurata selezione, e se si è molto abili in questo, ci possono essere anche frazioni di secondo di silenzio. “Adesso si stacca, ricordati che mi manchi”. Un classico. Il vero problema per chi “aspetta” la chiamata su cui potrei dire molto è quando la chiamata non arriva. Solitamente della telefonata, sai il giorno e all’incirca la fascia oraria. Ma ci sono giorni in cui quella chiamata non arriva. Ci sono giorni in cui aspetti invano, quel giorno e quelli a venire. Perché nessuno ti avvisa se la linea non funziona, se il telefono della sezione è guasto, se tuo marito, tuo figlio, tuo fratello, tuo cugino o chiunque sia è stato trasferito. Nessuno ti dice niente. Perché nessuno gode del diritto di sapere dove si trova un pezzo del proprio cuore. E se chiami perché sei preoccupato o preoccupata, ti dicono che devi attendere, che chiamerà anche se non è vero perché è stato dislocato a 1400km. Succede. Succede davvero che quella chiamata non arriva. Succede che se la aspetti di domenica, il giorno dopo la settimana inizia per tutti, e tu devi imparare a far finta di niente. Perché adesso si possono usare i cellulari, e quindi teoricamente posso anche aspettare ovunque, ma fino a poco tempo fa le chiamate venivano autorizzate solo sulla linea fissa. Solo sulla linea fissa. Nel dubbio la linea fissa non l’ho mai disattivata. Non mi serve a molto, anzi a niente. Ma per molto tempo mi ha dato aria, e mi ha permesso di respirare, e adesso che non mi serve più non mi sento di buttarla via come una scarpa dismessa. La conservo come una reliquia piuttosto, perché se siamo quelli che siamo adesso è anche grazie a quel dannato telefono. Non discuto da famigliare solo la quantità di chiamate. Discuto il diritto di chiamare e ricevere chiamate, quando chiunque avrebbe diritto di dire o sentirsi dire le cose a voce. Per umanità. Per puro e semplice senso di umanità. Giustizia, il governo ora punta sulla prescrizione di Francesco Olivo La Stampa, 19 luglio 2023 L’obiettivo del ministero è cancellare del tutto la riforma Bonafede. Magistrati sulle barricate: “Saltano i processi”. La riforma della Giustizia procede a strappi secchi, poi si ferma e riparte. Mentre al Senato tutto è pronto per cominciare l’iter della contestatissima abolizione dell’abuso d’ufficio, in via Arenula si pensa alle prossime tappe. In una riunione al ministero della Giustizia della settimana scorsa sono state fissate le priorità per l’autunno. Una delle prime sarà la riforma della prescrizione, un ddl con l’obiettivo di superare del tutto la legge che porta la firma dell’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede, la cosiddetta “spazza-corrotti”, che bloccava la prescrizione dopo il processo di primo grado. La legge voluta dal governo gialloverde era poi stata modificata dalla riforma Cartabia. L’intento del centrodestra è quindi tornare al testo di Andrea Orlando, che prevede una sospensione di 18 mesi in appello e 18 in Cassazione per chi ha perso il processo in primo grado. I partiti di maggioranza concordano su questo punto, Carlo Nordio ha dato il suo via libera. Ma non i magistrati, che in commissione Giustizia hanno sparato a zero contro le tre proposte di legge che, con qualche differenza, vanno in questo senso, presentate da Pietro Pittalis di Forza Italia, Ciro Maschio di FdI ed Enrico Costa di Azione. Altre critiche durissime sono arrivate dal M5S, in particolare dal deputato ed ex procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho, che aveva accusato la destra di “voler far naufragare i processi”. Mentre il Partito democratico è più prudente, anche per non sconfessare la riforma del “suo” ministro Orlando. Il governo pensa di poter portare il provvedimento in aula già a settembre, alla ripresa dei lavori parlamentari. Il viceministro Francesco Paolo Sisto, Forza Italia, nei giorni scorsi, in un’intervista all’Huffington Post aveva evocato “eventuali proposte ministeriali e governative che potranno essere inserite nell’ambito dei lavori parlamentari”. Costa, ex ministro degli Affari regionali, oggi deputato di Azione e coordinatore dell’intergruppo dei “garantisti”, spiega le tappe: “La prossima settimana approveremo il testo base, poi verrà assegnato un termine per gli emendamenti. C’è un’ampia maggioranza favorevole al ripristino della prescrizione sostanziale”. Costa, con un emendamento alla manovra di bilancio, aveva già gettato le basi per questo intervento. Pittalis aggiunge: “Ogni persona sottoposta ad indagine e che deve affrontare il processo non può vivere in balia della pretesa punitiva dello Stato per inefficienze della macchina organizzativa della Giustizia. Bisogna superare la logica del fine processo mai. Per questo si impone una riforma della prescrizione, senza trascurare le cause che impediscono la celere celebrazione dei processi”. Fonti di governo sottolineano che non verrà toccata l’”improcedibilità”, il principio introdotto dalla Riforma Cartabia, secondo il quale il reato viene prescritto ma non si estingue (al contrario della “prescrizione sostanziale”). Intanto al Senato dovrebbe partire a giorni l’iter del decreto legge che il Consiglio dei ministri ha varato ormai più di un mese fa. A palazzo Madama si attende la firma del Presidente della Repubblica che, come spiegato ieri su La Stampa, tarda ad arrivare perché Sergio Mattarella ha voluto prendersi del tempo per studiare il provvedimento, sul quale restano dei dubbi, in particolare nella parte che prevede l’abolizione totale del reato di abuso d’ufficio e delle possibili contraddizioni che si potrebbero verificare con le norme europee. Nordio però ha intenzione di andare avanti, ieri alla Camera il ministro ha evitato di rilasciare dichiarazioni, ma ai parlamentari della maggioranza sono arrivati dei segnali chiari: le obiezioni del Colle verranno di fatto ignorate. Anche se un ministro confida nel fatto che “Giorgia abbia spiegato a Nordio come stanno le cose”. Nel frattempo, il ministro della Giustizia ha deciso di non inviare gli ispettori ai pm di Firenze che indagano sulle stragi mafiose del 1993. La richiesta era arrivata con un’interrogazione di Pittalis, sottoscritta da diversi deputati della maggioranza, che criticava la pubblicazione delle notizie sulla perquisizione e sui sequestri nei confronti di Marcello Dell’Utri. Secondo fonti di via Arenula, il ministro ha preso in considerazione questa ipotesi, ma ha preferito evitare un altro fronte con la magistratura. Sulla giustizia la premier equilibrista torna a sterzare a destra di Andrea Colombo Il Manifesto, 19 luglio 2023 Il tentativo di cambiare rotta dopo le incaute dichiarazioni del ministro Nordio. No, la fiaccolata no. Troppo pericolosa, troppo alto il rischio di contestazioni e se dovessero arrivare da Maria Falcone e Salvatore Borsellino il danno d’immagine sarebbe ai confini dell’irrecuperabile. Per Giorgia Meloni il trentunesimo anniversario della strage di via D’Amelio è una faccenda delicata. Deve provare a conciliare l’inconciliabile, l’inflessibilità che è sempre stata propria delle tradizioni missine e il garantismo che Berlusconi le ha lasciato come scomoda eredità. Le incaute dichiarazioni del ministro Nordio hanno peggiorato di molto la situazione: il concorso esterno che aveva messo nel mirino nel momento peggiore non è l’abuso d’ufficio, reato che anche sindaci e amministratori di sinistra vorrebbero veder cancellato. È un pilastro nella strategia antimafia ispirata dal lavoro proprio di Borsellino e Falcone. La rapidissima retromarcia imposta a Nordio non basta a restituire a Meloni la patina di strenua guerriera antimafia di cui ha sempre cercato di dotarsi. La premier sa che oggi avrà tutti gli occhi puntati addosso. Ogni sua parola sarà pesata col bilancino. Per parare l’accusa di aver tradito l’eredità del magistrato missino che lei stessa ha sempre indicato come suo principale punto di riferimento non le basterà evitare affermazioni che autorizzino il sospetto di aver abbassato la guardia. Dovrà di fatto smentire l’impostazione complessiva del suo guardasigilli e probabilmente, nella sostanza, è pronta a farlo. L’annuncio di un decreto a breve per bloccare le conseguenze della sentenza di Cassazione 34895 del marzo 2022 è da questo punto di vista indicativo e Meloni potrebbe riprenderlo nel corso della giornata di oggi a Palermo. Quella sentenza, che accoglieva il ricorso contro l’uso indebito delle intercettazioni ambientali nel caso di un imputato esterno all’organizzazione criminale, non è un pronunciamento isolato, in discontinuità con l’approccio della Suprema Corte al reato associativo e alla criminalità organizzata. Al contrario è omogenea e conseguente a altre sentenze, tutte concordi nell’affermare che si possano considerare fenomeni di criminalità organizzata, e applicare pertanto gli strumenti investigativi permessi esclusivamente in quel caso, “solo fattispecie criminose associative”. Proprio perché in realtà non diceva nulla di nuovo, la sentenza in questione non suscitò alcun clamore quando fu emessa, quasi un anno e mezzo fa. La premier ha deciso dunque di smontare per decreto l’intero approccio al fenomeno della Corte di Cassazione per dimostrare, con un gesto eclatante, la sua determinazione nel combattere il crimine organizzato, rovesciando così l’immagine titubante derivata dall’annuncio di Nordio. Si spiega così, del resto, anche l’anomalia di un discorso pronunciato in consiglio dei ministri e fatto poi pervenire parola per parola a giornali e agenzie di stampa. Se proverà davvero a dar seguito all’impegno, però, l’ambiguo equilibrio grazie al quale Meloni tiene insieme la sua maggioranza in materia di giustizia sarà scosso nelle fondamenta. Il magico incontro tra rigorismo “galerista” e garantismo consiste infatti, nella formula da lei più volte illustrata, in una giustizia che protegge i diritti dell’imputato nel processo ma diventa inflessibile dopo la condanna. Ma i princìpi affermati dalla Cassazione riguardano invece proprio i diritti nel processo e in particolare la facoltà di usare strumenti investigativi eccezionali, non consentiti senza l’appartenenza a un’associazione criminale. Per questo oggi la premier dovrà scegliere e tutto lascia pensare che deciderà di scrollarsi di dosso l’abito posticcio di garantista, nel quale del resto non si è mai trovata a proprio agio. Lotta alla mafia, decreti “golpisti” di Donatella Stasio La Stampa, 19 luglio 2023 Nel marzo del 1991, il governo Andreotti varò un decreto legge di interpretazione autentica delle norme sul calcolo della custodia cautelare per riportare subito in carcere 24 boss mafiosi scarcerati in base a una sentenza sbagliata della Cassazione. Sedici anni dopo, nel 2007, ripensando a quel decreto, Giulio Andreotti ammise: “Ormai posso dirlo: quel decreto era una specie di golpe, un vero sopruso”. Inaccettabile la sentenza ma pericoloso il rimedio del governo. Oggi come allora (ma nel mezzo ci sono stati altri casi, sia pure rari), un nuovo “decreto legge di interpretazione autentica” per correggere una sentenza della Cassazione potrebbe essere emanato per evitare che alcuni processi finiscano in fumo perché il reato contestato non è di “criminalità organizzata”. Questo, almeno, secondo gli annunci che la Presidente del Consiglio ha fatto mercoledì in Consiglio dei ministri e che ha lasciato trapelare. Il condizionale, però, è d’obbligo non perché il problema non esista, ma per lo strumento evocato dalla premier, e pubblicizzato forse anche per recuperare terreno sul fronte del contrasto alla mafia dopo la polemica sul concorso esterno, inopinatamente aperta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. La propaganda politica, a volte, fa brutti scherzi. È infatti difficile immaginare - a maggior ragione in un momento di tensione con la magistratura come quello attuale, tenuto a bada a fatica dal Quirinale - che il governo ricorra a uno strumento - l’interpretazione autentica di una norma - che definire bordeline è un eufemismo, come dimostra la postuma ammissione di Giulio Andreotti e, soprattutto, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e della Corte costituzionale. L’interpretazione autentica si giustifica quando c’è davvero un’incertezza nella lettera della legge o c’è un contrasto interpretativo in Cassazione, ma non quando non si condivide una sentenza. Altrimenti il legislatore invade il campo riservato al giudice. Inoltre, l’interpretazione autentica ha effetti retroattivi e quindi cambia le carte in tavola mentre si sta giocando. Quel che invece il governo può fare è una nuova norma che dica chiaramente quando un delitto è di “criminalità organizzata” ai fini degli strumenti di indagine e processuali (senza rischiare l’annullamento postumo del procedimento). Tutto nasce dalla sentenza n. 34.895 del 21 settembre 2022 che ha dato un’interpretazione più “garantista” dei reati di criminalità organizzata. Sono tali, secondo la prima sezione della Cassazione presieduta da Angela Tardio, quelli contestati fin dall’inizio come reati associativi, comuni e non. Non sono tali, invece, i reati non associativi - dall’omicidio all’abuso d’ufficio - pur se contestati con l’aggravante del finalismo mafioso. Il tallone d’Achille sarebbe l’eccessiva rigidità con cui la Corte - richiamando un precedente delle sezioni unite del 2016, di cui però sembra dare una lettura più restrittiva - esclude dall’ambito della criminalità organizzata i cosiddetti “reati scopo” dell’associazione mafiosa. La sentenza dice infatti che per qualificare un delitto di criminalità organizzata è necessaria la contestuale contestazione del reato di associazione, mafiosa o semplice, laddove si è sempre ritenuta sufficiente la chiara riconducibilità del singolo “reato scopo” al contesto associativo mafioso. Mentre in Cassazione non si sono ancora presentati casi analoghi, tra i giudici di merito la sentenza ha creato fibrillazioni e il loro allarme non si può certo ignorare. Gli uffici tecnici di via Arenula sono al lavoro e sul tavolo c’è anche un intervento legislativo che definisca con chiarezza i delitti di criminalità organizzata. Una norma nuova, insomma. Che si potrebbe applicare anche ai processi in corso. A meno di lasciare la soluzione alle dinamiche giurisdizionali, dando alla Cassazione il tempo e il modo di adeguare la sua interpretazione. Un decreto legge di interpretazione autentica sarebbe eccessivo e rischia di essere percepito come uno schiaffo alla Cassazione. Questo è invece uno di quei casi in cui la leale collaborazione istituzionale ben potrebbe portare a soluzioni equilibrate e condivise, rispettose delle reciproche competenze, delle esigenze di contrasto alla criminalità organizzata e delle garanzie degli indagati. La sentenza della Cassazione che palazzo Chigi vuole “annullare” di Mario Di Vito Il Manifesto, 19 luglio 2023 Criminalità organizzata. Annunciato un decreto per la “corretta interpretazione”. L’intenzione di stringere le maglie con è una revisione piuttosto dura del codice penale. Che cos’è la criminalità organizzata? È a questa domanda che intende rispondere il governo Meloni con la sua annunciata interpretazione autentica della sentenza numero 34895 emessa dalla prima sezione penale della Cassazione il 30 marzo 2022, improvvisamente divenuta centrale all’ultimo Consiglio dei ministri. La sentenza che secondo Meloni metterebbe a rischio un numero enorme di processi riguarda un’eccezione sollevata dall’avvocato sulle intercettazioni ambientali a carico di una sua cliente autorizzate dal gip del tribunale di Napoli per un caso di omicidio aggravato dalle finalità mafiose. Secondo il legale l’ok del giudice era in contrasto con le leggi ordinarie, che andavano applicate al posto di quelle specifiche sulla criminalità organizzata perché i gravi indizi di colpevolezza della donna provenivano da fonti confidenziali. La Corte d’Appello di Napoli, rifacendosi a sua volta a due sentenze della Cassazione, aveva respinto l’obiezione dell’avvocato. La prima sezione penale, però, un anno e mezzo fa ha cambiato le cose, citando le stesse due sentenze alla base della decisione della Corte d’Appello di Napoli. Secondo i giudici, per quello che riguarda i due pronunciamenti precedenti, “si può individuare il loro denominatore comune, costituito dalla tendenza a ricondurre nel perimetro della nozione di delitti di criminalità organizzata non solo i reati di criminalità mafiosa, ma tutte le fattispecie criminose di tipo associativo” e particolarmente l’associazione a delinquere. Dunque per parlare di criminalità organizzata è necessaria “la contestazione di una fattispecie associativa, anche comune”. Negli altri casi bisogna rifarsi alle leggi ordinarie, anche quando si tratta di reati commessi con modalità mafiose o con l’obiettivo di agevolare una qualche organizzazione criminale. Da qui il nuovo rinvio alla Corte d’Appello di Napoli che dovrà valutare un’altra volta il caso tenendo conto di questa nuova interpretazione. L’idea di Meloni è di stringere le maglie della nozione di criminalità organizzata, di cui si potrà dunque parlare anche in assenza di associazioni riconoscibili. In altre parole, agire come un mafioso o come un terrorista vorrà dire prendersi un’accusa di mafia o di terrorismo, anche se non si fa parte di organizzazioni mafiose o terroristiche. Sembra un dettaglio astratto, ma in realtà è una revisione piuttosto dura del codice penale, l’esatto contrario del garantismo che la destra italiana sbandiera come suo tratto distintivo. Il principio, comunque, era stato in qualche modo preannunciato da Antonio Tajani durante il suo discorso d’insediamento alla segreteria di Forza Italia, quando, per difendere le uscite di Nordio sul concorso esterno, ha fatto l’esempio del fiancheggiatore delle Brigate Rosse che, secondo lui, è un brigatista a tutti gli effetti. Sarebbe la cancellazione dell’affectio societatis scelerum, la cui esistenza è un elemento essenziale per contestare il reato di associazione a delinquere. A livello tecnico possiamo presumere che l’intervento si farà sull’articolo 416 del codice penale, andando a rivedere l’elemento soggettivo del reato. Perché sussista il dolo, infatti, è necessaria non solo la volontà di associarsi ma anche la consapevolezza di averlo fatto con almeno altre due persone per commettere una serie di delitti. Sin qui l’associazione a delinquere è sempre stata considerata un dolo specifico, che si esclude in caso di ignoranza del carattere delittuoso dei fatti che rientrano nello scopo comune. Lo stesso discorso si applica al 416/bis, l’associazione a delinquere di tipo mafioso, che, seguendo quanto scritto nella legge Rognoni-La Torre del 1982, pone pure una serie di condizioni ricorrenti perché se ne possa parlare: forza di intimidazione, condizione di assoggettamento, omertà. La giurisprudenza, in realtà abbastanza chiara, è stata più volte piegata dagli investigatori per costruire i propri teoremi. Senza dover tornare a quarant’anni fa e alla stagione delle emergenze, basti citare il processo Mafia Capitale (alla fine del quale cadde l’aggravante mafiosa) o la recente inchiesta della procura di Padova su Ultima Generazione, definita associazione a delinquere. La questione, in sostanza, si presenta quasi sempre nella forma opposta rispetto a quella che tanto preoccupa Meloni. Mafia, il nodo sollevato dalla Cassazione di Patrizia Maciocchi e Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2023 Bilanciare le polemiche sul concorso esterno, con un rilancio delle misure antimafia. Partendo da un presupposto però tutto da verificare, il rischio che una pluralità di procedimenti contro la criminalità organizzata possa andare in fumo per le ricadute di una linea interpretativa della Cassazione che è però almeno risalente nel tempo. La decisione (la 34895 del 2022), citata a valle del Consiglio dei ministri lunedì dalla premier Giorgia Meloni, è infatti solo l’ultima in ordine di tempo ad affermare una tesi che ha trovato l’avallo delle Sezioni unite ormai sette anni fa, nel 2016 con la sentenza Scurato. In quell’occasione la Corte aveva ristretto la nozione di criminalità organizzata ai soli reati associativi, anche non di mafia, con l’esclusione del concorso di persone nel reato anche se aggravato. Determinante la prova del vincolo associativo e con una forza tale da rendere arduo ricondurre al perimetro della criminalità organizzata gli autori di reati anche gravi, ma rispetto ai quali l’appartenenza associativa era tutta da dimostrare. La Cassazione poi, nel 2022, aveva solo ripercorso le tappe della dottrina e della giurisprudenza, ricordando come le Sezioni unite arrivarono a una conclusione che subordina la possibilità di contestare la criminalità organizzata alla condizione che a commettere il reato siano più soggetti che per delinquere costituiscano un’organizzazione ad hoc “la cui struttura assume un ruolo preminente rispetto ai singoli partecipanti”. Con il che rendendo problematico l’utilizzo di strumenti investigativi come le intercettazioni, che, se utilizzate nel contesto mafioso, possono godere di modi più incisivi, come i trojan, e tempi più estesi. Per la Corte è una decisione presa in linea con le norme sovranazionali e con la giurisprudenza europea, cogliendo l’essenza del delitto di “criminalità organizzata” in tutti i suoi molteplici aspetti. Questo, nel rispetto dell’obiettivo del legislatore di contrastare nel modo più efficace i reati di maggiore pericolosità sociale. “Assoluzione = vergogna”: l’assurda equazione che da anni distorce il senso del processo penale di Guido Stampanoni Bassi* Il Dubbio, 19 luglio 2023 Capita ormai con regolarità, per lo più nell’ambito di vicende di cronaca particolarmente sentite, che sentenze che si discostino - magari anche solo leggermente - dalle aspettative dell’opinione pubblica vengano definite “choc” o “vergognose”. Il fenomeno non è nuovo e, negli ultimi anni, si trovano decine di casi: sentenze magari impeccabili da un punto di vista giuridico, che vengono però trasmesse all’opinione pubblica come inaccettabili. Uno dei casi più noti degli ultimi anni è quello della strage di Viareggio, con riferimento alla quale la pronuncia della Cassazione - laddove ha escluso l’aggravante delle norme antinfortunistiche (con conseguente prescrizione di alcuni reati) - ha suscitato grandi polemiche al grido di “Viareggio senza colpevoli”. Oppure pensiamo alla sentenza che, nel processo sulla strage di Rigopiano, ha assolto 25 dei 30 imputati. Anche qui solito copione: “Rigopiano, strage senza colpevoli” con ministri che hanno twittato: “Questa non è “giustizia”, questa è una vergogna”. Complice una narrazione giornalistica che spesso alimenta aspettative di condanna - facendo circolare il messaggio secondo cui gli indagati devono certamente essere colpevoli - ogni provvedimento che osi poi discostarsi da tale narrazione finisce con lo scatenare polemiche. Il semplice fatto che vi possano essere delle assoluzioni non viene tollerato. Celebre, ancora, la vicenda dell’uomo assolto a Brescia per aver ucciso la moglie in preda a un “delirio di gelosia”. Anche in quel caso, aspre polemiche nei confronti dei giudici accusati di aver derubricato un femminicidio in un effetto collaterale da malattia mentale e di aver fatto tornare il nostro paese ad una situazione peggiore di quando esisteva il delitto d’onore. Eppure, il presidente della Corte - il magistrato che ha recentemente condannato Davigo - aveva scritto una cosa tanto elementare, quanto illuminante: non si vuole riservare all’imputato un salvacondotto, ma semplicemente applicare un elementare principio di civiltà giuridica, quello della funzione rieducativa della pena, secondo cui non può esservi punizione laddove l’infermità mentale abbia obnubilato la capacità di comprendere il significato del proprio comportamento. In questi giorni oggetto di critiche sono state due pronunce molto diverse tra loro: quella del bidello accusato di aver toccato i glutei di una studentessa e quella dell’omicidio di Carol Maltesi. Sebbene gli esiti siano stati diametralmente opposti (assoluzione nel primo grado e condanna a 30 anni nel secondo), il trattamento è stato il medesimo: vergogna. La colpa? Sempre la stessa: essersi discostati dalle aspettative dell’opinione pubblica, la quale si aspettava (anzi, pretendeva) una condanna nel primo grado e l’ergastolo nel secondo. Nel primo caso, le polemiche sono state alimentate da quella che è a tutti gli effetti una fake news, ossia quella secondo cui la palpata breve - sotto i 10 secondi - non sarebbero reato. La sentenza non ha mai affermato tale principio, avendo assolto l’imputato perché non vi era prova del fatto che lo stesso avesse effettivamente sfiorato volontariamente la studentessa. La possibilità che un Tribunale, in presenza di dubbi sulla colpevolezza dell’imputato, possa assolverlo ha mandato in cortocircuito il circo mediatico-giudiziario, facendo passare un messaggio esattamente opposto a quello su cui si fonda il nostro processo: ossia quello secondo cui, nel dubbio, il Tribunale deve (e non può) assolvere. Infine, nella vicenda di Carol Maltesi, la Corte è stata accusata di aver emesso una sentenza “vergognosa” che “offende le donne”. Leggendo le motivazioni, ci si accorge però che sulle aggravanti che tanto hanno fatto discutere (premeditazione, futili motivi e crudeltà), la Corte ha richiamato principi affermati dalla Cassazione. Per quanto possa lasciare l’amaro in bocca, si deve accettare l’idea che esistano concetti che non hanno, sul piano giuridico, lo stesso significato che hanno nella vita di tutti i giorni. Pensiamo alla aggravante della crudeltà, su cui i giudici, dopo aver ricordato che una certa quota di crudeltà è inevitabilmente insita in qualunque delitto cruento (quale omicidio volontario non è crudele?) e che la prova della crudeltà non può essere ricavata dalle condotte successive sul cadavere, ha applicato i principi secondo cui è crudele, da un punto di vista tecnico- giuridico, quel comportamento eccedente rispetto alla normalità, che sia finalizzato a determinare sofferenze aggiuntive alla vittima. Per quanto certe decisioni possano essere difficili da accettare, occorre tenere a mente che i Tribunali sono chiamati ad applicare le leggi e non a soddisfare le aspettative dell’opinione pubblica. *Avvocato, direttore della rivista Giurisprudenza Penale Io pm dico sì alla separazione delle carriere: l’Anm sia laica di Gaetano Bono* Il Dubbio, 19 luglio 2023 Non c’è alcun automatismo fatale tra la riforma e la sottoposizione delle Procure all’esecutivo. Non sono certo nuove le posizioni di netta contrarietà dell’Anm sulla separazione delle carriere, ma mi hanno sorpreso le parole del presidente Santalucia, che ha parlato di pericolo per la democrazia, come se l’Italia fosse l’unico Paese al mondo in cui occorrerebbe tenere unite le carriere tra giudici e pubblici ministeri per garantire l’assetto democratico. Io, al contrario, credo che la separazione delle carriere, se realizzata secondo certi criteri e se inserita in un più ampio contesto di riforma e modernizzazione della magistratura, possa non solo essere accettata senza preoccupazione alcuna, ma addirittura migliorare il sistema giustizia, a beneficio sia dei cittadini sia degli stessi magistrati. Purtroppo, però, l’intervento dell’Anm nel pubblico dibattito si connota per posizioni del tipo “dopo la separazione, il diluvio”, che chiudono a ogni possibile soluzione alternativa al mantenimento dello status quo. Comprendo le critiche mosse dalla magistratura e ritengo fondati i pericoli sul versante del ridimensionamento delle garanzie costituzionali attualmente in vigore. Ma il punto è che non si può sostenere che ogni tipo di proposta di separazione porterà inevitabilmente alla sottoposizione del pm all’Esecutivo, alla discrezionalità dell’azione penale, alla scomparsa della comune cultura della giurisdizione, alla trasformazione del pm in un superpoliziotto e chi più ne ha, più ne metta. In altre parole, io mi oppongo ai dogmatismi e sostengo che non c’è alcun automatismo tra separazione delle carriere dei magistrati e assoggettamento al potere politico, poiché tutto dipende da come la riforma verrà realizzata. E ritengo che sia ben possibile prevedere una separazione delle carriere coerente con l’assetto costituzionale. Il discorso è complesso e mi limito a indicare alcuni requisiti irrinunciabili che il pubblico ministero dovrebbe continuare ad avere, come l’indipendenza dall’Esecutivo, l’obbligatorietà dell’azione penale, la terzietà e imparzialità rispetto alla polizia giudiziaria, la cultura della giurisdizione, l’inamovibilità, il governo autonomo (magari istituendo due Csm. l’uno per i giudici e l’altro per i pm), la distinzione tra magistrati solo per diversità di funzioni, ossia lasciare integralmente intatte tutte le garanzie attualmente in vigore che sono - e devono restare - baluardo irrinunciabile per la libertà e i diritti del cittadino. Se non fossero rispettate tali condizioni, allora meglio rinunciare alla separazione e tenersi il sistema attuale, perché diventerebbe inevitabile la sottoposizione del pm all’influenza del potere politico, con tutti i rischi che ne deriverebbero per la tenuta dell’assetto democratico e per la stessa pace sociale. Non solo, ma da una buona riforma della separazione potrebbe derivare un miglioramento in efficienza e specializzazione di giudici e pubblici ministeri, una maggiore coerenza con la riforma del 1988, una valenza simbolica in favore dell’immagine di terzietà del giudice rispetto al pubblico ministero. Ecco perché ritengo che un’interlocuzione più laica e serena da parte dell’Anm dovrebbe portare a considerare la possibilità di avere la separazione delle carriere, dando anzi un contributo di tipo tecnico-giuridico in ordine alla salvaguardia di quelle garanzie che servono a preservare l’equilibrio tra i poteri dello Stato, l’indipendenza della magistratura e, in definitiva, la libertà dei cittadini. *Sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta Io avvocato dico no all’abolizione dell’abuso d’ufficio: non si può restare esposti all’arbitrio del potere di Gaetano Viciconte* Il Dubbio, 19 luglio 2023 In Francia e in Ue si stringono i controlli sull’amministrazione, da noi si fa l’opposto. Salvo vedersi costretti a un dietrofront. Il tema della giustizia non caratterizza attualmente soltanto il dibattito politico in Italia, giacché se si rivolge lo sguardo al di fuori delle nostre vicende interne ci si accorge che è al centro di grande interesse anche in Francia e nell’Unione Europea. In Francia è molto serrato il confronto parlamentare fra i diversi schieramenti politici sull’approvazione di una legge di modifica del codice di procedura penale che consentirà, tra l’altro, previa autorizzazione del giudice, di attivare nel corso delle indagini per reati punibili con almeno cinque anni di reclusione, meccanismi a distanza di geolocalizzazione dei dispositivi elettronici. Inoltre, si prevede anche l’utilizzo di strumenti di captazione di conversazioni e di immagini nell’ambito delle inchieste per reati di terrorismo o di criminalità organizzata. Sull’uso di tali tecniche, nello svolgimento del dibattito parlamentare l’opposizione di sinistra ha parlato di tecniche orwelliane, evocando distopie da “1984”. Sul versante dell’Unione Europea, deve annoverarsi, in primo luogo, la recente pronuncia della Grande Sezione della Corte di Giustizia del 5 giugno 2023, nella causa C-204/21, promossa dalla Commissione europea nei confronti della Polonia, concernente l’indipendenza, l’imparzialità e la vita privata dei giudici, con cui la Corte ha dichiarato che le nuove disposizioni polacche pregiudicano l’indipendenza dei giudici e che la raccolta e la pubblicazione online dei dati relativi all’appartenenza dei giudici ad associazioni e partiti violano il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla tutela dei dati personali. L’obiettivo che ha determinato la Commissione a promuovere l’azione contro la Polonia dinanzi alla Corte di Giustizia è quello della tutela dello stato di diritto, che è l’oggetto del rapporto che la stessa Commissione ha pubblicato il 5 luglio scorso denominato “The rule of law situation in the European Union 2023”. È da qui che proviamo a riannodare i fili con la situazione italiana. Nel paragrafo di tale Rapporto sul rafforzamento delle misure di prevenzione della corruzione e sulla promozione dell’integrità nella vita pubblica, si legge espressamente che in Italia non ci sono regole “comprensive” sui conflitti di interesse, e che un nuovo disegno di legge è in discussione in Parlamento. Il Rapporto si chiude con un invito formale della Commissione agli Stati membri ad attenersi alle raccomandazioni impartite e al Consiglio e al Parlamento europeo a sorvegliare che ciò accada. La stessa Commissione europea il 3 maggio ha presentato una proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla lotta alla corruzione con gli strumenti del diritto penale, in cui è previsto, sulla scia della Convenzione Onu contro la corruzione ratificata anche dall’Italia, l’obbligo per gli Stati membri di introdurre alcune figure di reato, tra le quali si annoverano il trading of influence e l’abuse of functions che, pur non essendo perfettamente aderenti al nostro abuso d’ufficio di prossima abrogazione e a quello che rimarrà del traffico di influenze illecite dopo la riforma, fanno presagire la necessità di un successivo intervento legislativo di reintroduzione delle medesime figure di reato nelle forme volute dall’Ue. In Italia, contrariamente a quanto sta avvenendo in Francia e nelle istituzioni della Ue, si tende a favorire una restrizione degli strumenti di controllo del giudice penale sull’esercizio del potere pubblico. La riforma legislativa che si preannuncia deve essere necessariamente affinata mediante un opportuno coordinamento con quanto sta accadendo a livello sovranazionale. Il rischio concreto da evitare è quello di lasciare senza effettiva tutela il principio di imparzialità della pubblica amministrazione, depotenziando in modo significativo gli strumenti di lotta al favoritismo, all’arbitrarietà, al conflitto di interessi. Non si può far finta di ignorare che la preannunciata riforma italiana potrebbe determinare un fenomeno di eterogenesi dei fini, lasciando aperta la strada all’intervento giurisdizionale dell’ampliamento dell’ambito di applicabilità di altre norme esistenti, come ad esempio la corruzione e la turbativa d’asta, al fine di colmare il vuoto di tutela che si verrebbe a creare. Soprattutto, occorre evitare che si determini la crisi della fiducia sia delle istituzioni europee rispetto all’Italia, scongiurando il riprodursi di un similare caso Polonia, sia dei cittadini e delle imprese rispetto all’effettività della repressione penale nei confronti dei fenomeni corruttivi latamente intesi. Nel contempo, per tentare di rimuovere l’endemico problema della paura della firma da parte dei pubblici funzionari, si potrebbe porre mente a un efficace sistema di controlli in ambito amministrativo, che non metta a repentaglio le esigenze di semplificazione, ma che consenta ai pubblici funzionari di operare nella prospettiva di non incorrere anche inconsapevolmente in violazioni che potrebbero accendere i riflettori della giustizia penale o della non meno temibile giustizia contabile. *Vicepresidente del Coa di Firenze Il metodo dell’antimafia dei veleni. Così si costruiscono teoremi capaci di scavalcare qualsiasi sentenza di Giuseppe Sottile Il Foglio, 19 luglio 2023 La Cassazione ha detto che lo stato non è mai sceso a patti con i boss di Cosa Nostra per sovvertire l’ordine democratico, ma i magistrati della famigerata trattativa ha preferito non ascoltarla. La Repubblica fondata sul losco comparaggio del potere politico con le stragi è una grande boiata. “La luce taglia le tenebre ma le tenebre non l’afferrano”, annotava l’apostolo Giovanni in apertura del suo Vangelo. Si riferiva ai misteri dell’universo, all’eterna lotta tra bene e male, al difficile cammino della ragione per afferrare la verità. Un’annotazione terribilmente attuale per chiunque voglia capire che cosa è successo, da trent’anni a questa parte, attorno al mistero delle stragi. Mysterium iniquitatis, per dirla ancora una volta con le Sacre Scritture. La luce della Cassazione, con una sentenza che non si presta né ad equivoci né a interpretazioni, ha tagliato le tenebre di un processo durato quasi dodici anni, ha smontato le elucubrazioni di una boiata pazzesca e ha detto chiaro e tondo che lo stato non è mai sceso a patti con i boss di Cosa Nostra per sovvertire l’ordine democratico. Ma la confraternita di magistrati che avevano teorizzato la famigerata trattativa, ha preferito non ascoltare le parole della Cassazione e ha ripreso a vagare tra le nebbie e le tenebre del vecchio teorema secondo il quale dietro le stragi mafiose del 1992 - quelle dove morirono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino - ci sarebbe stata la regia occulta di alcuni settori deviati dello stato. Un teorema fosco che si compiace ancora di immaginare un tavolo ovale dove accanto ai boss di grosso calibro, come Totò Riina, sanguinario capo dei corleonesi, o come Giovanni Brusca, il killer dei cento omicidi, sedevano uomini delle istituzioni, generali dei carabinieri, investigatori venduti e felloni, riuniti insieme per spargere sangue e terrore. Lo scellerato teorema dello Stato-Mafia finirà per avvelenare anche oggi, 19 luglio, la cerimonia in ricordo di Paolo Borsellino, trucidato con la sua scorta in via D’Amelio, mentre di domenica andava a fare visita alla mamma. Un filone dell’antimafia chiodata, quella delle Agende Rosse, da sempre fiancheggiatrice dei magistrati che hanno costruito l’inchiesta sulla Trattativa, lascia intravedere uno scontro frontale con l’altra antimafia, quella delle cerimonie, delle corone di fiori e della liturgia commemorativa. Ci saranno cortei e controcortei e, molto probabilmente, finirà pure a botte con la polizia, come il 23 maggio scorso per l’anniversario della strage di Capaci e dell’assassinio di Giovanni Falcone, saltato in aria assieme alla moglie, Francesca Morvillo e ai ragazzi della scorta. Il modulo, per gli oltranzisti dell’antimafia, è sempre lo stesso. Le sentenze non contano più nulla: “La verità viene e va, cambia solo l’errore”, annotava Fernando Pessoa. Contano sempre più i teoremi. Perché i teoremi non hanno bisogno di prove: si annunciano, si danno in pasto ai giornali, si ci costruiscono sopra folgoranti carriere, si sputtanano tutti quelli che devono essere sputtanati, e se poi le indagini, come succede quasi sempre, non approdano a nulla, chi se ne frega: se ne inventano altri. Gli esempi non mancano. Prendete Silvio Berlusconi, pace all’anima sua. Non c’è procura altamente titolata - da Palermo a Caltanissetta - che non abbia apparecchiato un’inchiesta, che non abbia consultato i pentiti di ogni ordine e grado, che non abbia disposto perquisizioni e accertamenti patrimoniali, che non abbia istallato cimici e ordinato intercettazioni per disegnare una sua responsabilità, diretta o indiretta, nel romanzo maledetto delle stragi. Inquirenti e inquisitori, come sanno pure i bambini, non hanno cavato un ragno dal buco; intanto però hanno tenuto sulla graticola per almeno vent’anni un uomo potente e altrettanto decisivo per la politica italiana. E la gogna non è ancora finita: dopo Palermo e Caltanissetta, come si ricorderà, è scesa in campo Firenze e il gioco - il tragico gioco - è tornato alla casella di partenza. Morto un teorema, se ne fa un altro. Il filo conduttore è sempre quello: lo Stato-Mafia. Il cui volto cambia a seconda dei pubblici ministeri che si incaricano di rivelarlo. Per i coraggiosi magistrati palermitani - da Antonio Ingroia a Nino Di Matteo - che hanno messo in piedi il processo sulla Trattativa, i volti erano quelli di Mario Mori e Antonio Subranni, generali del Ros, il reparto d’eccellenza dei carabinieri: due alti ufficiali traditori che, in combutta con i boss della mafia, volevano costringere i poteri dello stato a revocare il carcere duro, l’insopportabile 41 bis, ai condannati per mafia. Per Luca Turco e Luca Tescaroli, magistrati di Firenze, le facce dello Stato-Mafia sarebbero invece quelle di Berlusconi e di Marcello Dell’Utri, interrogato, manco a dirlo, proprio ieri: secondo l’ipotesi di reato, formulata dalla procura, i due avrebbero spinto i terribili boss di Brancaccio, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, a compiere stragi su stragi al solo scopo di creare scompiglio, da Milano a Reggio Calabria, e avere la strada spianata per lanciare il partito di Forza Italia e impadronirsi delle principali leve di potere esistenti nel paese. A Mario Mori e ad Antonio Subranni la Cassazione ha comunque restituito, dopo dodici anni di sofferenze e umiliazioni, l’onore delle armi. E non poteva essere diversamente: erano stati gli uomini del Ros, comandati da Mori, a catturare il 15 gennaio del ‘93 alla Circonvallazione di Palermo, Totò Riina, feroce capo dei picciotti che avevano collocato il tritolo prima sotto l’autostrada di Capaci e poi in una vecchia Fiat 126 posteggiata in via D’Amelio. E sono stati sempre gli uomini del Ros a segnare, retata dopo retata, la sconfitta dell’ala militare di Cosa Nostra, fino al clamoroso arresto di Matteo Messina Denaro, ultimo boss stragista ancora latitante, caduto nella rete il 16 gennaio di quest’anno. Ma all’antimafia militante - quella che tiene insieme i più coraggiosi tra i magistrati coraggiosi, alcuni familiari delle vittime e i più vivaci esponenti del circo mediatico - questi dettagli, chiamiamoli così, non interessano poi tanto. Per questa puntuta confraternita della lotta alla mafia, l’obiettivo non è la verità giudiziaria, sancita da un verdetto del Tribunale, di una Corte di appello o della Cassazione, ma la criminalizzazione dello stato, dei suoi servizi di sicurezza e dei suoi apparati investigativi: sempre e comunque impegnati in congiure e depistaggi, in coperture e sabotaggi. Alla confraternita serve una perenne non-verità, come lo Stato-Mafia. Perché la non-verità offre la possibilità ai magistrati coraggiosi - a quelli più astuti o a quelli più politicizzati - di costruire teoremi capaci di scavalcare qualsiasi sentenza e di imbastire sempre nuovi processi; e dà al circo mediatico che li supporta l’opportunità di “rivelare”, a getto continuo, una fitta serie di trame oscure, mandanti esterni, registi occulti e tutto l’armamentario da fiction che, sullo sfascio generale della giustizia, consente ad attori e comparse di rilasciare un’intervista dietro l’altra, di conquistare audience in tv, di pubblicare libri che reclamizzano le loro tesi, di saltellare da un convegno all’altro, di tenere lezioni nelle scuole, di collezionare cittadinanze onorarie, di essere a ogni passo protetti da scorte imponenti e incomprensibili. E, quando si avvicina l’età della pensione, di conquistare pure un seggio alla Camera o al Senato della Repubblica. Di quella Repubblica fondata - stando ai teoremi che hanno tenacemente cavalcato - sul losco comparaggio del potere politico con la mafia, col malaffare, con la corruzione. E, perché no, anche con le stragi. Grasso: “Chi aiuta la mafia per Nordio conta meno di chi va a ballare a un rave” di Liana Milella La Repubblica, 19 luglio 2023 “Presto a separarsi sarà Nordio dal ministero della Giustizia”. L’ex procuratore Piero Grasso parla così del Guardasigilli e ricorda come, giusto un anno fa, i meloniani dicessero a Palermo “parole di fuoco contro mafiosi e corrotti”. Oggi, 31 anni dalla morte di Borsellino. Perché attaccare adesso i magistrati di Firenze che cercano di fare luce su tutte le stragi? “Evidentemente, ancora una volta, quando i pm toccano i politici diventano scomodi. È accaduto sempre così. Sono gli unici che stanno cercando ancora la verità, che dovrebbe stare a cuore a tutti, politica compresa. Bloccare le indagini significherebbe offendere la memoria delle vittime e il dovere stesso di fare giustizia”. Marina Berlusconi chiede proprio questo nella sua lettera, evitare la “damnatio memoriae”... “Comprendo il suo dolore, ma nessuno può dire “basta indagini” sulle stragi. Proprio su via d’Amelio ci sono voluti anni per ribaltare addirittura sentenze definitive, e ci sono ancora troppi misteri da risolvere. Ne ricordo solo alcuni: la presenza dei servizi segreti qualche minuto dopo l’esplosione, la tuttora misteriosa sparizione dell’agenda rossa, di cui certamente non si è impossessata la mafia. E ancora, la presenza di un estraneo a Cosa nostra giusto nel momento dell’innesco dell’autobomba”. Sono i misteri che la politica vuole mantenere tali... “Certo. Come la centralità dei Graviano in questa strage e in quelle successive fino al loro arresto a Milano, dopo il fallito attentato all’Olimpico. Si deve cercare sempre la verità. Lo dobbiamo alle vittime, ai loro familiari, a tutti i cittadini. Si deve esorcizzare l’incubo di indicibili partecipazioni esterne rimaste occulte”. Stavolta l’attacco di tutti è più duro e colpisce la stampa... “Lo giudico feroce e scomposto, tende a sopprimere le voci critiche. O addirittura a relegare i giornalisti nei vagoni dei treni lontani da quello presidenziale per non correre il rischio di domande non concordate. La delegittimazione continua della magistratura e della stampa è un brutto segnale, non vorrei che a forza di ribadire il sostegno ad Orban si guardasse con invidia a quel modello che va contro i principi costituzionali”. Meloni oggi non andrà alla fiaccolata. FdI ha cambiato registro contro la mafia? “Per tutta la scorsa legislatura, in commissione Antimafia e in commissione Giustizia al Senato sui temi della criminalità organizzata le mie proposte hanno sempre avuto il voto di FdI, pur se eravamo ai lati opposti dell’aula. Un anno fa sono stato invitato a Palermo a commemorare Borsellino a un convegno di FdI, e lì ho sentito parole di fuoco contro mafiosi e corrotti. C’è un corto circuito generale sui temi della giustizia anche nel governo”. Eh già, tant’è che erano pronti a cambiare il concorso esterno… “Io mi chiedo, è mai possibile che si crei un reato per chi va ai rave e poi si voglia cancellare il concorso esterno in associazione mafiosa? Per incastrare i professionisti che per la criminalità riciclano il denaro o truccano gli appalti dobbiamo aspettare che vadano a ballare o lancino la vernice sui muri del Senato?”. Nordio ormai ha l’appoggio di Forza Italia, nonché di Costa e Renzi, per separare le carriere... “Mi chiedo piuttosto quanto tempo passerà prima che a separarsi sia la carriera di Nordio da quella di ministro. Quante volte si può sopportare di essere sconfessati prima di gettare la spugna? In questi mesi, contraddicendo la sua storia e i suoi dotti editoriali, tutto quello che è stato fatto sulla giustizia si è risolto nel creare nuovi e risibili reati o inutili inasprimenti di pene a seguito di eclatanti casi di cronaca, dai rave all’imbrattamento dei monumenti, mentre sulle cose importanti o non sono stati fatti passi o si preannunciano passi indietro. Sembra un garantismo a senso unico, verso i potenti e contro i deboli. Mentre non si è fatto nulla per accorciare di un solo giorno i tempi della giustizia. Questa sì che sarebbe una riforma epocale”. Invece lui vuole togliere l’imputazione coatta... “È un doveroso controllo del pm da parte del giudice. È un esempio chiaro di quanto non serva separare le carriere perché già ora non c’è appiattimento dei giudici sulle richieste dei pm”. Invece Nordio persegue le fughe di notizie e potrebbe mandare gli ispettori a Firenze... “Già, tranne quando a parlare in modo, diciamo leggero, è il suo sottosegretario Delmastro. Allora diventa sofista e lo difende in aula: due pesi e due misure”. Ormai Chigi e Arenula usano le fonti anonime contro la magistratura... “Strano perché la politica chiede in genere alle toghe di buttare nel cestino gli anonimi nei loro confronti. E comunque io non vedo complotti: sia il caso Santanchè che il caso Delmastro sono stati gestiti con misura e riservatezza, da magistrati attenti e da procuratori che, al pari di Nordio, non possono certo essere definiti toghe rosse”. Strage di Erba, azione disciplinare contro il magistrato che vuole riaprire il processo di Errico Novi Il Dubbio, 19 luglio 2023 La procura generale della Cassazione ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti di Cuno Tarfusser, che avrebbe agito di propria iniziativa senza informare la pg di Milano Francesca Nanni. La procura generale della Cassazione ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti di Cuno Tarfusser, il sostituto procuratore generale di Milano che vuole riaprire il processo sulla strage di Erba. L’azione disciplinare scaturisce da una denuncia della procuratrice generale di Milano Francesca Nanni, che contesterebbe al magistrato le modalità con le quali ha messo in dubbio la sentenza di condanna definitiva all’ergastolo per i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, accusati dell’omicidio dell’11 dicembre del 2006 di Raffaella Castagna, Paola Galli, Youssef Marzouk Raffaella Cherubini e del tentato omicidio di Mario Frigerio. Lo scorso aprile Tarfusser aveva presentato un’istanza di revisione del processo, depositando una “relazione” conclusiva affidata al procuratore Nanni e all’avvocato generale Lucilla Tontodonati per le valutazioni di competenza. La richiesta dovrà comunque essere valutata dai giudici prima di un eventuale nuovo processo, ma la trasmissione alla Corte d’Appello di Brescia non è ancora avvenuta. Secondo il magistrato, le prove per cui sono stati condannati Rosa e Olindo sarebbero maturate in “un contesto che definire malato sarebbe un esercizio di eufemismo”. A convincere il pg della necessità di una revisione sono state anche due consulenze che gli hanno sottoposto gli avvocati Fabio Schembri e Paolo Sevesi il 14 febbraio scorso, “alla cui stesura hanno contribuito diversi accademici, tutti luminari della rispettiva materia tecnica e scientifica, le quali, alla luce delle più moderne e recenti tecniche e metodologie, comunque successive alla fine della prima decade del secolo, e quindi dei fatti oggetto del processo, hanno analizzato le due prove dichiarative, ovvero il riconoscimento e le confessioni dei due condannati e una consulenza Tecnica biologico-genetica forense che, ad oltre 16 anni di distanza, ha riesaminato e rivalutato alla luce dell’enorme sviluppo tecnologico e metodologico che ha avuto la materia in questi anni, la tecnologia e la metodologia utilizzata allora per il repertamento”. “Le dichiarazioni auto accusatorie di Olindo Romano e Rosa Bazzi sono da considerarsi false confessioni acquiescenti”, ha spiegato Tartufesser, secondo cui questo è “il risultato cui giungono i consulenti” sulla base dei “più recenti ed avanzati dati scientifici che corrispondono ai criteri che, se mancanti, rendono le confessioni, false confessioni”. Ma ora la procura generale contesta a Tarfusser proprio i contatti con i difensori Schembri e Sevesi, avvenuti senza delega da parte di Nanni. Che non sarebbe stata informata dell’iniziativa. L’accusa è di aver “violato i doveri di correttezza, riserbo ed equilibrio”, depositando l’istanza di propria iniziativa “in palese violazione del documento organizzativo dell’ufficio che assegna all’Avvocato generale e al Procuratore generale” la facoltà di richiedere la revisione di sentenze. Una contestazione mossa anche dal procuratore di Como Massimo Astori, che nel processo di primo grado rappresentò l’accusa. Per Astori l’iniziativa di Tarfusser “stupisce” per i tempi, visto che è stata “rapidamente e integralmente divulgata prima della sua trasmissione alle autorità”. Da parte sua Tarfusser sostiene di aver scritto via mail alla pg Nanni per parlargliene in un incontro urgente, senza ottenere risposta. Mail nelle quali, replica Nanni, non vi era alcun riferimento esplicito alla strage di Erba. Calabria. Misure “anti caldo” a tutela dei detenuti: la richiesta del Garante reggiotoday.it, 19 luglio 2023 Il Garante regionale ha inoltrato una nota alle autorità. “Interventi volti a ridurre gli effetti del caldo record in carcere e ad alleviare il pesante disagio delle persone ristrette. Il versante della tutela dei diritti fondamentali sempre aperto”. Le raccomandazioni a firma del garante regionale, indirizzate al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, ai direttori degli istituti penitenziari, al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ed ai presidenti dei tribunali di sorveglianza, evidenziano l’ondata di caldo con temperature record che sta attraversando il Paese e la necessità di intervenire con urgenza a tutela della popolazione detenuta in Calabria. “Si tratta - afferma il garante - di interventi volti a ridurre gli effetti del caldo record in carcere e ad alleviare il pesante disagio delle persone ristrette, tenuto conto anche dell’assenza di docce nelle camere detentive di alcuni reparti e/o istituti calabresi e dei recenti lavori di ristrutturazione che hanno generato maggiore sovraffollamento”. “Ho chiesto - continua il garante Muglia - che venga favorita l’attuazione di misure specifiche: la sospensione delle ore d’aria dalle 13.00 alle 15.00 e il loro spostamento nel tardo pomeriggio; la rimodulazione degli orari di permanenza all’aria aperta, evitando le ore più calde e valutando lo slittamento in avanti delle ore d’aria pomeridiane; l’apertura delle porte blindate delle camere detentive nelle ore notturne per implementare la circolazione dell’aria ed ottenere maggior refrigerio; l’eliminazione di schermature e pannelli in plexiglass sulle porte di accesso delle camere detentive o sulle sbarre delle finestre esterne; il collocamento e/o il potenziamento, nei cortili di passeggio, di punti idrici a getto o di nebulizzatori; la possibilità di acquistare, tramite l’impresa di mantenimento o la lista della spesa, ventilatori a batteria di dimensioni ridotte; la possibilità di fare la doccia anche durante le ore notturne; la previsione di interventi suppletivi per la carenza di acqua; la presenza di menù giornalieri che contemplino alimenti più adeguati alla stagione estiva; l’ampliamento della possibilità di utilizzare frigoriferi nei reparti detentivi; l’incremento della corrispondenza telefonica quale forma di prevenzione a fronte di situazioni di rischio legate al maggiore disagio psicologico; la disinfestazione dei luoghi e la verifica del corretto funzionamento della rete fognaria laddove siano state segnalate o ravvisate problematiche specifiche”. Il garante regionale Luca Muglia si augura “che la sensibilità delle istituzioni preposte possa condurre in tempi rapidi all’attuazione degli interventi richiesti dal mio ufficio. Evidenzio, in proposito, che nei giorni scorsi una iniziativa analoga è stata assunta, con risultati apprezzabili, in Emilia Romagna dal garante regionale delle persone sottoposte a misure limitative o restrittive della libertà personale, Roberto Cavalieri, unitamente ai garanti di Piacenza, Parma, Bologna e Rimini. Il versante della tutela dei diritti fondamentali rimane sempre aperto”. Cagliari. Giallo sulla morte del detenuto Paolo Ledda sardegnalive.net, 19 luglio 2023 Il farmacista di Alghero era in carcere per avere tentato di far esplodere la sede della Unipol di Alghero con una bombola nel 2019. È giallo sulla morte in carcere a Cagliari di Paolo Ledda, il farmacista algherese condannato in appello a 9 anni per avere tentato di far esplodere la sede della Unipol di Alghero con una bombola a gas nel 2019. A darne notizia è Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” riferendo che l’uomo è stato trovato morto in una cella del servizio assistenza intensiva della casa circondariale di Uta. “La morte dietro le sbarre di una prigione genera sgomento e suscita interrogativi che vanno aldilà di un’inchiesta della Magistratura. Al dolore dei familiari e degli operatori penitenziari per la scomparsa di una persona ci si chiede, purtroppo, ancora una volta, che cosa si può fare per evitare fatti così traumatici”, afferma. “Questo episodio, i cui contorni saranno chiariti anche attraverso una eventuale perizia necroscopica disposta dal magistrato, richiama l’urgenza di una sanità penitenziaria adeguata ai bisogni di donne e uomini privati della libertà”. “È vero che l’intero sistema sanitario regionale sta mostrando tutte le manchevolezze accumulatesi negli anni - osserva Caligaris - ma è altrettanto vero che le carenze sono diventate urgenze e manca una vera e propria integrazione tra il Reparto diagnostico terapeutico della casa circondariale, strutturato e gestito da Asl e Areus, con quello degli analoghi reparti degli ospedali”. “Il direttore sanitario di Cagliari-Uta ha lo stesso grado di competenze e responsabilità di un collega dirigente ma per disporre un ricovero deve chiedere il permesso e così anche per un qualunque intervento chirurgico, a meno che il paziente-detenuto non sia in punto di morte. Per non parlare delle condizioni di vita di chi soffre di disturbi psichiatrici. Persone che, se non sono in isolamento, sostano nelle celle inermi con psicofarmaci”. “Nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta (con 575 detenuti oltre il limite regolamentare di 561 posti), dove il caldo scioglie perfino gli abiti addosso e limita la respirazione, mancano da gennaio gli specialisti di oculistica e dermatologia, ginecologia e neurologia. Non è possibile - osserva ancora l’esponente di Sdr - continuare a ignorare questa situazione pensando che si può sopperire con le visite ospedaliere”.? Milano. Il tempo vuoto delle carceri, il Coa si riunisce a San Vittore Il Dubbio, 19 luglio 2023 Caldo, sovraffollamento, rischio sanitario e suicidario: gli avvocati milanesi puntano i fari sugli istituti penitenziari. La Lumia: “Il nostro sguardo lì dove gli altri lo distolgono”. I racconti dell’estate rovente di questi giorni stanno lasciando fuori un grande assente: il carcere. Gli istituti penitenziari italiani, al collasso non da oggi, affrontano questa estate dalle temperature eccezionali in una condizione di estrema difficoltà, con rischi altissimi per la salute dei detenuti e di tutti coloro che in carcere ci lavorano. Ha valore di testimonianza e di impegno la decisione di voler tenere la prossima seduta del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano - convocata per oggi, 19 luglio - presso il Carcere di Milano “S. Vittore”. Alla seduta del Consiglio interverranno anche la dottoressa Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, il dottor Giacinto Siciliano, direttore della Casa circondariale “Francesco Di Cataldo” (Carcere di San Vittore), la provveditrice per l’amministrazione penitenziaria della Lombardia Maria Milano Franco D’Aragona, Valentina Alberta, presidente della Camera Penale di Milano e Patrizia Pancanti, presidente Comitato pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Milano. “Il carcere sembra sia un luogo dell’altrove - dichiara Antonino La Lumia, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano -. Nonostante uno degli istituti di pena simbolo della nostra città sia inglobato nel centro cittadino, è ancora troppo lontano dalla società, dal territorio, dai tavoli istituzionali. Si fa molto, ma pur sempre mai abbastanza. In questa stagione così calda, il nostro sguardo va rivolto esattamente lì dove non si vuol vedere la pena aggiuntiva delle condizioni di vita inumane”. “Come Consiglio dell’Ordine di Milano e in particolare con la Commissione “Libertà personale e Carcere” - commenta Beatrice Saldarini, coordinatrice della Commissione libertà personale e carcere dell’Ordine degli avvocati di Milano - continueremo ad impegnarci, dialogando con tutte le parti, affinché la custodia cautelare in carcere venga riservata solo ad ipotesi eccezionali di rilevante pericolosità, come estrema ratio e non come incostituzionale anticipazione di pena. Medesimo impegno continuerà ad essere rivolto alla tutela dei principi costituzionali sulla risocializzazione del detenuto, sull’assistenza sanitaria, sul diritto all’affettività, al lavoro, all’istruzione, alla libertà di culto”. In Lombardia ad oggi, secondo la Commissione regionale “Tutela dei diritti delle persone private della libertà personale e condizioni di vita e di lavoro negli istituti penitenziari”, presieduta da Alessia Villa, i detenuti sono 8.156, dei quali 382 donne e 7.774 uomini, a fronte di una capienza massima di 6302 persone. Tra i detenuti oltre il 50 per cento è tossicodipendente, più del 40 per cento ha un’età compresa tra i 30 e i 44 anni. Circa il 13 per cento ha almeno due figli. Una popolazione mediamente giovane, in una condizione di forte disagio ed emarginazione sociale. Sono numeri che impressionano e che devono far riflettere sulla situazione di sovraffollamento perenne in cui versa il nostro sistema carcerario, spesso con intollerabili condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari che d’estate si aggravano ulteriormente. A questo quadro occorre aggiungere il numero importante dei detenuti malati psichiatrici, sempre crescente, in ragione della carenza di strutture idonee ad assicurare un trattamento medico- sanitario adeguato alle loro condizioni di salute. L’esito della situazione di emergenza è tragicamente testimoniato dal numero record di decessi in carcere nel 2022: 203 e tra questi 84 suicidi. Il bilancio 2023 ad oggi è di 32 suicidi. Condizioni di vita intollerabili e assenza di prospettive, come ha sottolineato il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma nella sua ultima relazione al Parlamento, pesano sul fenomeno dei suicidi in carcere che non può essere ricondotto solo alle condizioni materiali di degrado delle strutture degli istituti di pena o al loro sovraffollamento, ma “pesa anche la mancanza di prospettive di un effettivo reinserimento nella vita sociale, di riferimenti di sostegno, di possibilità di superamento dello stigma sociale, avvertito come presente e inalterato”. Eboli (Sa). Nel carcere laboratori di agricoltura sociale e di panificazione e pizzeria ansa.it, 19 luglio 2023 Due laboratori, uno di agricoltura sociale e l’altro di panificazione e pizzeria. Partecipanti d’eccezione i detenuti dell’Istituto a custodia attenuata per i tossicodipendenti di Eboli. Trentadue i detenuti che hanno frequentato i corsi realizzati grazie al Circolo Occhi Verdi di Legambiente e San Paolo Società Cooperativa Sociale Onlus “In Campania negli istituti penitenziari ci sono 6.074 detenuti di cui 1.329 tossicodipendenti, la metà dei quali denunciati dai familiari - ha sottolineato il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello. Credo che occorra fare investimenti educativi e riabilitativi di intesa con i Sert in alcuni istituti campani sul modello Eboli. Qui i detenuti sono liberi di lavorare, e i laboratori, gli art. 21 che ci sono, costituiscono valori di libertà anche in condizioni di detenzione. Credo che il diritto al lavoro vada intensificato in tutti gli istituti penitenziari”. Nel carcere di Eboli oggi erano presenti 46 detenuti. “Ho conosciuto in questi anni alcuni detenuti usciti dal carcere di Eboli che si sono reinseriti nella società. Sono rimasto contento nel vedere che il carcere di Eboli è una realtà molto impegnata per il reinserimento sociale dei detenuti - ha sottolineato il consigliere regionale Andrea Volpe che ha preso parte alla consegna degli attestati - Sono grato alla Regione Campania e al garante Ciambriello per le varie progettualità messe in campo nelle carceri campane e che individuano il lavoro e la formazione come elementi fondamentali del trattamento rieducativo”. Firenze. “Seconda Chance”, primo giorno di lavoro per due detenuti in un cantiere edile La Repubblica, 19 luglio 2023 L’associazione Seconda Chance fa da ponte tra le imprese e il carcere e da qualche mese è operativa in Toscana. Oggi è stato il primo giorno di lavoro per due detenuti in un cantiere nei pressi della Stazione Leopolda a Firenze. A entrambi sarà data una seconda possibilità attraverso il progetto di un’associazione che fa da ponte tra le imprese e il carcere per avviare al lavoro i detenuti. Il cantiere è stato appena aperto per la ristrutturazione di una palazzina nel quartiere fiorentino. Entrambi sono stati assunti dalla Società di edilizia Petrichella, incaricata dal Comune dell’esecuzione dei lavori, per iniziativa di Seconda Chance, l’associazione che si occupa di fare da ponte tra imprese e carcere per l’avviamento al lavoro dei detenuti e che è attiva da qualche mese anche in Toscana. I due neoassunti, ai quali l’impresa ha assicurato il necessario corso di formazione alla Scuola edile, sono in semilibertà o affidati all’esecuzione esterna della pena dopo averne scontata una parte nel carcere di Sollicciano e all’Istituto Gozzini. Il primo giorno di lavoro è stato da loro impiegato, insieme agli altri operai, alla preparazione del cantiere e alla ripulitura dell’area. “Si tratta di un esempio - afferma Seconda Chance - che confidiamo sia seguito da un sempre maggiore numero di imprese in tutta la Toscana, non solo per le eventuali facilitazioni previste dalla Legge Smuraglia del 2000, ma per lo stesso valore di poter contribuire al recupero alla vita civile e professionale di persone ormai diverse da quando sono entrate in carcere”. Avellino. “Un bus per il carcere di Sant’Angelo dei Lombardi” nuovairpinia.it, 19 luglio 2023 Lo rende noto Rosetta D’Amelio, consigliera delegata alle Pari opportunità della Regione Campania: Il servizio, utile anche per il personale, darà la possibilità ai familiari di accedere ai colloqui con i detenuti. Un bus per il carcere di Sant’Angelo dei Lombardi sarà disponibile dal primo settembre per il personale, ma soprattutto darà la possibilità ai familiari di accedere ai colloqui con i detenuti. Lo rende noto Rosetta D’Amelio, consigliera delegata alle Pari opportunità della Regione Campania, che questa mattina ha preso parte a Napoli all’incontro tra il presidente della commissione Trasporti Luca Cascone, l’amministratore delegato di Air Campania Spa Anthony Acconcia e la direttrice della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, Marianna Adanti. Rosetta D’Amelio, consigliera delegata alle Pari opportunità della Regione Campania ha preso parte a Napoli all’incontro tra il presidente della commissione Trasporti Luca Cascone, l’amministratore delegato di Air Campania Spa Anthony Acconcia e la direttrice della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, Marianna Adanti. “A partire dal primo settembre 2023 una corsa aggiuntiva dei mezzi Air collegherà la città di Avellino con il penitenziario di Sant’Angelo dei Lombardi, in orario utile a consentire la presenza dei familiari ai colloqui con i detenuti”, ha dichiarato Rosetta D’Amelio. “Il servizio, reso possibile dall’impegno congiunto di Regione Campania e Air Campania, risponde a sollecitazioni che più volte mi sono state rivolte in quanto delegata alle Pari opportunità, e rappresenta un’occasione di mobilità in più anche per il personale della Polizia penitenziaria in servizio in Alta Irpinia”. Per queste ragioni, “ringrazio il consigliere Luca Cascone per essersi fatto carico della soluzione di una problematica molto cara ai detenuti e alle loro famiglie, perlopiù provenienti da fuori provincia, e finora costretti a far fronte a grosse difficoltà per raggiungere Sant’Angelo nella finestra temporale dedicata ai colloqui”. Matera. Spazio Giallo: una buona pratica per i minorenni figli di carcerati di Carmelina Maurizio tecnicadellascuola.it, 19 luglio 2023 Il rapporto tra minori e i luoghi detenzione è in Italia complesso e articolato. Ci sono i figli dei detenuti, i reclusi minorenni, i figli e le figlie di donne recluse, che rimangono con le madri fino al compimento dei sei anni. Ai bisogni dei più giovani, che spesso intercettano loro malgrado l’universo carcerario, dedicano da tempo attenzione associazioni e organizzazioni, e il loro benessere è sotto l’attenzione dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza. In questi giorni sta per vedere la luce un nuovo spazio dedicato in questo caso ai figli dei detenuti del carcere di Matera, Spazio Giallo, un progetto che nato a Milano nel 2007 è da subito è diventato un modello adottato in diverse regioni. Il progetto, sostenuto da Enel Cuore, dal prossimo 20 luglio partirà in Basilicata e sarà a disposizione dei circa 100 minorenni che entrano ogni anno nel penitenziario lucano di Matera per incontrare il proprio padre recluso. Il percorso di accoglienza è stato creato dall’Associazione Bambini senza sbarre Ets e attualmente è attivo in rete nazionale in Lombardia, Piemonte, Marche, Toscana, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. Lo Spazio Giallo è il luogo fisico e relazionale per i bambini all’interno del carcere, dove gli operatori possono intercettarne i bisogni, accoglierli in uno spazio a loro dedicato dove si preparano all’incontro con il genitore. Spazio Giallo dovrebbe consentire ai piccoli figli dei detenuti di mantenere il legame genitoriale, attraverso un luogo strategico di connessione tra l’esterno e l’interno del carcere; inoltre coinvolge la Polizia Penitenziaria, i servizi del territorio e le famiglie. Spazio Giallo prevede il percorso TrovoPapà, una forma di accompagnamento del bambino dall’ingresso all’uscita dal carcere, passando per tutte le tappe fondamentali dall’ingresso all’uscita. Bambini e bambine con genitori detenuti - In Italia ci sono circa 56mila minorenni con un genitore detenuto: è una stima che si basa sui dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) che conta 54.134 detenuti, di cui 24.908 genitori. Ogni anno quindi decine di migliaia di bambini e ragazzi entrano in un istituto penitenziario per fare visita a un familiare detenuto: per esattezza, nel 2021 in Italia si sono svolti 280.675 colloqui tra detenuti e almeno un familiare minorenne. I diritti dei figli di genitori detenuti - Lo Spazio Giallo e la sua realizzazione rispondono all’art. 2 della Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti; la Carta venne siglata per la prima volta il 21 marzo 2014 e sempre rinnovata dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, dal ministro della Giustizia e dalla presidente di “Bambini senza sbarre”. È un documento unico che riconosce formalmente il diritto di questi bambini al mantenimento del legame affettivo con il genitore detenuto in continuità con l’art.9 della Convenzione Onu sull’infanzia e l’adolescenza e ribadisce il diritto alla genitorialità delle persone detenute, impegnando il sistema penitenziario in una cultura dell’accoglienza che riconosca e tenga in considerazione la presenza dei bambini che incontrano il carcere loro malgrado. Nella Carta, inoltre, si ribadisce il diritto del figlio del detenuto di poter incontrare il genitore recluso compatibilmente con i propri impegni scolastici. Carla Garlatti, Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, ha sottolineato come un progetto come Spazio Giallo sia portatore di benessere globale per i figli dei detenuti, garantendo tra l’altro la continuità del percorso scolastico. Bambini in carcere - Secondo gli ultimi dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, cresce il numero dei bambini dietro le sbarre, figli di detenute, presenti al seguito delle loro madri. La proposta di legge, che questa primavera è stata fermata, si prefiggeva l’obiettivo di vietare per sempre la custodia cautelare in carcere per detenute madri con prole di età inferiore ai 6 anni. Roma. Rebibbia, il campo da tennis per i detenuti si rifà il look di Beatrice Tomasini Il Messaggero, 19 luglio 2023 Oggi l’inaugurazione nel nuovo complesso su iniziativa della FITP e di Seconda Chance: lo sport come veicolo di reinserimento sociale. “Alcuni mesi fa un detenuto del nuovo complesso del carcere di Rebibbia ha inviato una lettera al Presidente Binaghi per chiedere alla Federazione di intervenire e sistemare il campo da tennis in dotazione alla struttura”, le parole stamattina in conferenza stampa nella Casa Circondariale Rebibbia N.C. ‘Raffaele Cinotti’ di Roberta Righetto, Consigliera della Federazione Italiana Tennis e Padel. È iniziato così l’iter che ha portato alla riqualificazione del campo da tennis, ridotto in condizioni fatiscenti e inaugurato oggi dopo il restyling, nel nuovo complesso del carcere di Rebibbia grazie alla collaborazione tra l’associazione ‘Seconda Chance’, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la Federazione Italiana Tennis e Padel che ha interamente sovvenzionato la ristrutturazione. Il progetto, a cui hanno dato supporto anche i detenuti stessi, è stato affidato alla GreenSet (azienda leader mondiale nell’installazione e nella pavimentazione delle superfici da gioco in resina) su iniziativa della FITP, da sempre attenta alla promozione di iniziative di rilevanza sociale. “Sono convinta che la pratica sportiva in generale, in questo caso il nostro amato tennis, contribuisca in modo fondamentale, ancor di più in un contesto difficile come quello carcerario, a far acquisire valori come il rispetto delle regole (…) Per tutti questi motivi, la riqualificazione del campo nel nuovo complesso di Rebibbia non ha avuto come fine prioritario quello dello svago ma piuttosto quello di contribuire al recupero e al reinserimento nella società dei detenuti”, ha aggiunto Righetto. Messi a disposizione dei detenuti anche materiale tecnico, come palline, racchette e abbigliamento sportivo, e la notizia che ora aspettano è che in futuro vengano organizzati corsi con istruttori federali per imparare a diventare maestri. Al momento è uno dei detenuti, A.P., a dedicarsi all’insegnamento e aiutare gli altri compagni a migliorare nel gioco. “Il magnifico risultato conseguito con la FITP, per il quale non finirò mai di ringraziare il Presidente Binaghi e i Consiglieri, soprattutto Roberta Righetto che ha mostrato una impressionante dedizione alla causa, ci piace anche perché non si limita alla nascita del nuovo campo: stiamo sviluppando un progetto di corsi tenuti da istruttori federali, ed è bello che i detenuti appassionati di tennis oggi abbiano ricevuto in dono tute, magliette, pantaloncini e tubi di palle. Sicuramente questo è solo l’inizio di una collaborazione proficua che speriamo porti anche altre Federazioni sportive a unirsi a Seconda Chance”, ha detto Flavia Filippi, giornalista, fondatrice e presidente di Seconda Chance. Nata nel 2022 su iniziativa della cronista del Tg La7, questa associazione del Terzo Settore promuove l’occupazione all’interno e all’esterno delle carceri: offre agli imprenditori l’opportunità di avviare attività economiche direttamente nelle strutture penitenziarie - dove sono disponibili capannoni o locali inutilizzati che possono essere concessi in comodato d’uso gratuito - e diffonde la legge Smuraglia (193/2000) che offre sgravi fiscali e contributivi a chi assume nella sua azienda, anche part time o a tempo determinato, detenuti in articolo 21 O.P., cioè ammessi al lavoro esterno, o detenuti in misura alternativa. “Grazie a Technogym abbiamo rifornito di macchinari e attrezzi vari le carceri di Cagliari e Reggio Calabria. Con la Federscacchi abbiamo tenuto corsi in diversi istituti - ha illustrato Filippi - Con Roberto Cagliero, che già ha portato lo yoga a Torino, Verona e Oristano, abbiamo creato corsi anche a Frosinone e a Bari. Con Andrea Fassi del ‘Palazzo del Freddo’ abbiamo organizzato un corso di gelateria per 12 allievi: si sono iscritti in 25 e Fassi ha raddoppiato la sua disponibilità”. In soli dodici mesi, Seconda Chance ha fatto sapere di aver ottenuto 190 offerte di lavoro in tutto il territorio nazionale. “Ringrazio la Federazione Italiana Tennis e Padel per aver donato questo campo da tennis. Ringrazio il Presidente Angelo Binaghi, la consigliera Righetto, Flavia Filippi di Seconda Chance e tutti coloro che hanno contribuito a realizzare questo progetto. Non è facile ottenere queste attenzioni, così come non è semplice ottenere attrezzature come queste. Speriamo che questo campo sia soltanto il primo passo di una lunga collaborazione con la FITP”, ha concluso Rosella Santoro, Direttrice della Casa Circondariale Rebibbia N.C. “Raffaele Cinotti”. Ma la soddisfazione più grande è quella dei detenuti che hanno accolto con grande entusiasmo l’iniziativa e che sperano ne possano seguire altre in futuro: “Siamo contenti di questa iniziativa, e speriamo che presto ci possa arrivare anche una macchina incordatrice”, fa sapere uno di loro. L’appello è partito. Empoli. L’Ora d’Aria, le storie dei detenuti della Gorgona aprono la rassegna teatrale gonews.it, 19 luglio 2023 La trama del primo spettacolo sembra quasi ispirato dal titolo della rassegna. È infatti dedicato ai detenuti del carcere dell’isola di Gorgona “Ne vale la pena”, spettacolo interpretato dagli attori della Compagnia “Passi di Luce”, che aprirà giovedì 20 luglio - alle 21.15, con replica alle 22.15 - la rassegna di teatro all’aperto “L’Ora d’Aria” nei giardini dell’ex Arena (via XX settembre). L’ingresso è gratuito ma è gradita un’offerta). Promossa da TeatroCastello con il patrocinio del Comune di Castelfiorentino, la rassegna prende il nome dal luogo in cui si teneva prima del Covid (“L’ora d’aria” all’aperto dell’ex carcere mandamentale di Castelfiorentino, in via Tilli) e che per il secondo anno consecutivo si tiene invece nell’ex Arena estiva, che già ospita una rassegna promossa dalla Fondazione del Teatro del Popolo. “Ne vale la pena” racconta appunto le storie degli ospiti dell’isola di Gorgona, ultima isola-carcere d’Europa, impostata sul lavoro e la riabilitazione dei detenuti, le cui celle rimangono aperte dalle ore 7 alle 21, e non solo per un’ora d’aria. “L’idea - osserva Elena Verdiani, presidente di “Passi di Luce” - è nata dopo due viaggi trekking con Toscana Hiking Experience sull’isola. Ci ha colpito molto vedere i detenuti a lavoro sull’isola e ci ha fatto pensare alla diversità con la solita Ora d’aria che vivono i detenuti nelle carceri tradizionali. Il nostro spettacolo racconta le loro storie, tratte da testi scritti proprio dai detenuti, oltre che dal direttore del carcere”. “La rassegna dell’Ora d’Aria - osserva il Vicesindaco, Claudia Centi - è ormai da molti anni una certezza nel calendario degli eventi che si tengono durante il periodo estivo, grazie all’insostituibile apporto delle compagnie teatrali amatoriali che rappresentano una grande risorsa per il nostro territorio. Desidero inoltre sottolineare che questa rassegna fu ideata da Paolo Puccini, attore e regista teatrale prematuramente scomparso nove anni fa, che ha lasciato in tutti noi un ricordo bellissimo e un’eredità preziosa, da valorizzare e preservare a beneficio delle nuove generazioni, come lui avrebbe voluto”. Dopo lo spettacolo di “Passi di Luce”, Il 27 luglio sarà ospite della rassegna la Compagnia dell’Unicorno di Empoli con “L’impiccato”, Il 3 agosto la compagnia del GAT di Castelnuovo porterà in scena “I boss della parola”. Infine il 10 agosto Teatro Castello concluderà con “Mandracula”. Roma. “Arbitri oltre le sbarre”, progetto per formare direttori di gare di rugby tra i detenuti redattoresociale.it, 19 luglio 2023 Dopo le diverse esperienze pilota che avevano già introdotto i primi corsi arbitri all’interno degli istituti penitenziari e al superamento, nel 2021, di quelle parte normativa che ancora impediva il pieno riconoscimento dei neo-arbitri, oggi un Protocollo nazionale ne definisce gli obiettivi e le modalità di attivazione. In piena coerenza con il Progetto federale “Rugby Oltre le Sbarre”, che ad oggi è attivo in 12 istituti penitenziari italiani, il Consiglio Federale ha recepito il progetto “Arbitri Oltre le Sbarre”, il cui obiettivo è di formare nuovi arbitri tra i detenuti partecipanti al Progetto federale (già sugellato sin dal 2018 con il 1^ Protocollo FIR/DAP). Dopo le diverse esperienze pilota che avevano già introdotto i primi corsi arbitri all’interno degli istituti penitenziari e al superamento, nel 2021, di quelle parte normativa che ancora impediva il pieno riconoscimento dei neo-arbitri, oggi un Protocollo nazionale ne definisce gli obiettivi e le modalità di attivazione. Il Progetto “Arbitri Oltre le Sbarre”, spiega la nota della Federugby, “costituisce quindi una nuova offerta formativa che, sostenuta da una individuale assunzione di responsabilità del partecipante, sperimenta la revisione del proprio vissuto sovvertendolo: il direttore di gara è un facilitatore del gioco e del divertimento cui spetta occuparsi di garantire il rispetto delle regole, il rispetto dell’avversario, il rispetto dell’arbitro, il rispetto di quei valori a fondamento del nostro sport”. Il protocollo sarà promosso in tutte le sezioni arbitrali di quei territori dove esiste un Club impegnato in un istituto penitenziario con il Progetto “Rugby Oltre le Sbarre”, aprendo l’aula didattica a tutte le parti che contribuiscono a far girare la palla ovale tra le sbarre: polizia penitenziaria, funzionari pedagogici, amministrativi. La condivisione degli obiettivi con tutta la comunità rugbystica, permetterà a coloro che al termine del percorso otterranno la qualifica di arbitro, di poter essere impegnati sui campi da gioco sia durante la detenzione, nel caso in cui sussistano le condizioni previste dalle normative in tema di permessi di uscita, sia al termine della detenzione. Stessa opportunità sarà riservata anche ad altri eventuali partecipanti al corso istituito nell’Istituto Penitenziario coinvolto. “Il progetto ‘Arbitri oltre le sbarre’- spiega Alan Falzone, coordinatore della Commissione nazionale Arbitri della FIR - costituisce un’opportunità di rilievo che la Federazione promuove con grande passione ed entusiasmo consapevole che il rispetto delle regole di gioco, dell’avversario e dell’arbitro, l’inclusione, il sostegno e il divertimento, valori a fondamento del nostro sport, possono contribuire alla formazione di persone migliori”. “Tutto chiede salvezza”, andata e ritorno dai buchi neri della malattia mentale di Maurizio Porro Corriere della Sera, 19 luglio 2023 Su Netflix la serie coraggiosa diretta da Francesco Bruni e tratta dal romanzo di Daniele Mencarelli. Sotto questo titolo poetico si nasconde una serie coraggiosa che esamina i rapporti interpersonali di un gruppo di pazienti sottoposti al TSO, il trattamento sanitario obbligatorio. Che non vuol dire essere pazzi, ma aver bisogno urgente di una forma di equilibrio psichico che se ne è andato, un tagliando alle nostre nevrosi ma soprattutto alla nostra sensibilità. Il lavoro di Francesco Bruni, 7 puntate su Netflix tratte dal romanzo di Daniele Mencarelli che ha vinto il Premio Strega Giovani, è un ottimo lavoro di squadra, intendendo anche il cinema italiano che si è occupato del confine tra normalità e follia, partendo dai “Matti da slegare” di Bellocchio, Rulli, Agosti e Petraglia, fino all’americano top “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e alla “Pazza gioia” di Virzì, di cui Bruni è stato spesso assistente. La serie vive di una sua autonomia sentimentale e sociale soprattutto quando sta fra i sei ospiti della camerata in cui si “sconta” la pena di una settimana di ricovero per aver oltrepassato i limiti della psicopatologia della vita quotidiana. In particolare il nostro riferimento è l’emotivo, giovane Daniele (Federico Cesari lo rende in ogni minuto credibile, anche nei dubbi e nel divenire) che si trova dopo una crisi a convivere con cinque ospiti del reparto psichiatrico di una clinica dove medici e infermieri fanno rispettare regole abbastanza rigide, anche se si vedrà che è possibile aggirarle. Regista e sceneggiatore spesso detective dei giovani e del giovanilismo (uno per tutti, “Scialla!”), Bruni manovra bene il gioco delle relazioni non semplici tra persone spesso oppresse da consci o inconsci dolori e che non si conoscono. C’è Mario (Andrea Pennacchi, uno dei migliori) un maestro elementare depresso ma cui sembra bastare il nido dell’uccellino di fronte per ritrovar speranza, c’è Gianluca, gay oppresso dal padre militare (Vincenzo Crea, bravissimo) attratto da Daniele, che invece ha una scappatella con una ragazza del padiglione a fianco, Nina, influencer che ha tentato il suicidio (Fotinì Peluso), la parte meno interessante e più banale dell’intera vicenda che copre una settimana particolare di vita. E poi c’è Madonnina, con gli occhi nascosti da una nebbia nera dice il romanzo (Vincenzo Nemolato), un nevrotico mistico quasi farsesco, Alessandro (Alessandro Pacioni) che giace in stato vegetativo dopo un incidente e infine, ultimo arrivo, Giorgio, di taglia XL (Lorenzo Renzi) chiaramente il più pericoloso per la stazza e anche per lo stato confusionale della sua mente. L’andata e ritorno dai buchi neri della malattia mentale, gli ospiti si relazionano come possono, nasce una alleanza tra Daniele, che se ne andrà dopo aver rischiato una doppia pena, e Mario, purtroppo recisa da un fatto tragico, mentre nella vita “reale” le famiglie di questi pazienti vigilano, soffrono, un poco complottano per i loro cari. Il terreno della pazzia è molto scivoloso per chiunque e Bruni rischia ogni tanto di scivolare sul sentimentalismo di facciata, mentre riesce ad essere convincente nel diagramma degli impulsi di odio e amore tra queste persone che devono esorcizzare il male di vivere, convivere con i propri fantasmi e cercare anche di entrare nella privacy degli altri. Grazie al cast, la miscela riesce ad amalgamare molti dati, eccede nei momenti della suspense, quando i medici rischiano la vita, e quando si fa strada un tentativo sentimentale, mentre la banalità del vivere quotidiano in quelle condizioni è molto ben espressa o solo suggerita da piccole annotazioni di psicologia spicciola nella camerata. Anche il reparto dei tutori dell’ordine ospedaliero, che frugano ma neanche troppo nella confusione delle menti dei loro ospiti, al netto di qualche convenzione, funziona e l’infermiere di corsia Ricky Memphis si guadagna la palma per l’affettuoso impatto umano che inserisce nel buon senso del personaggio. Fedele al romanzo, la serie impone il punto di vista e di vita di Daniele, che probabilmente resterà con noi anche perché è quello giovane, che ha la forza vitale per tentare di ricominciare e promettere tutto e subito anche quando i rapporti con la famiglia si fanno complicati e generano un miscuglio di sensazioni tra dramma e commedia. Pierfrancesco Majorino: “I diritti umani non sono un capriccio” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 19 luglio 2023 “Non sono un capriccio dei buonisti, o un affare da delegare al Vaticano, il loro rispetto deve condizionare le scelte politiche”. Dal memorandum Europa-Tunisia alle sfide che investono il nuovo Pd di Elly Schlein. È un colloquio a tutto campo quello con Pierfrancesco Majorino, già europarlamentare Dem, consigliere regionale in Lombardia e membro della segreteria nazionale del Partito democratico, con la responsabilità per le Politiche migratorie e Diritto alla casa. L’Europa, con grande soddisfazione della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha “partorito” il memorandum d’intesa con la Tunisia dell’autocrate Saied. Ma c’è tanto di cui vantarsi? Io temo che siamo di fronte alla riedizione di un film già visto. Nel senso che ho paura che questa sia l’ennesima fase di esternalizzazione delle frontiere, con un’azione che sarà molto oscura sul piano del rispetto dei diritti umani. Abbiamo già dato con la Libia, in condizioni certamente diverse e comunque mossi allora dalle migliori intenzioni, come Italia. Ma il fallimento fu micidiale di quel tipo di azione, tanto che si produssero dei veri e propri campi di concentramento. Temo molto che alla fine che con la Tunisia si realizzi una intesa molto, molto simile. Intanto il Mediterraneo continua sempre di più ad essere un enorme cimitero di migranti... Siamo di fronte al Mediterraneo come grande cimitero. Un grande cimitero rimosso, aggiungerei. Si fa finta di non vedere quella che è la situazione. Addirittura non si riesce a quantificare il numero dei morti e sfuggono perfino meccanismi di identificazione delle vittime, tanto è la rimozione collettiva. Questo avviene anche perché non si punta mai su questioni assolutamente cruciali… Quali? Da un lato la realizzazione e ampliamento dei canali di accesso regolari, legali, sicuri. Ancora una volta questo aspetto mi pare scandalosamente buttato fuori dall’azione che viene sviluppata a livello italo-euro-tunisino. Dall’altro lato, non c’è un minimo rilievo sul tema, letteralmente vitale, dei servizi di ricerca e soccorso. Noi non possiamo continuare a ignorare che vi sia una grande questione che è quella di che tipo di transito tragico affrontano le persone. È un viaggio che dovremmo da una parte prevenire con canali di accesso regolari, e dall’altra dovremmo nell’immediato avere una missione europea, una “Mare nostrum europea” rilanciata da Elly Schlein a Bruxelles, di soccorso nel Mediterraneo. Tutto questo non mi pare esserci alle porte. E credo peraltro che abbiamo un problema che non è solo quello di una politica italiana che con la Meloni non ha in alcun modo a cuore il tema dei diritti umani. La rimozione del tema dei diritti umani è nel Dna di questa destra. Nel frattempo le città italiane sono totalmente abbandonate a loro stesse nella gestione dell’immigrazione da parte del governo. Ma c’è anche una politica europea non adeguata. Il nuovo Pd di Elly Schlein sul Mediterraneo, dal no al rifinanziamento nel decreto missioni alla Guardia costiera libica, alle critiche sull’atteggiamento di sudditanza del governo all’Egitto di al-Sisi, non solo sul caso Regeni, e ora le critiche al memorandum con la Tunisia, ha dato prova di discontinuità con il passato. Eppure non sono mancate critiche, anche interne ai Dem. Io credo che ci stiamo riappropriando di una categoria essenziale, che è quella dell’intransigenza sul piano del rispetto dei diritti umani... I diritti umani non possono, non devono scomparire ogni volta dal tavolo della geopolitica e delle relazioni tra Stati, a livello bilaterale e in quello multilaterale. Sembrano invece essere un capriccio dei buonisti, una categoria da delegare alle esortazioni del Vaticano. Invece sono un elemento essenziale per condizionare le scelte politiche. Queste scelte devono farsi condizionare anche dal rispetto dei diritti umani. Questo aspetto in tutti questi anni è stato completamente cancellato. A prevalere è stata una visione dell’immigrazione come un danno da ridurre, come una minaccia da combattere, fino ad arrivare a gridare a una “invasione” che non è mai esistita. Se io ritengo che con l’immigrazione debbo applicare la strategia della riduzione del danno, allora è evidente che faccio scelte assolutamente non adeguate, perché non guardano minimamente ad uno degli aspetti, che certo non è l’unico, cioè quello dei diritti umani. Che destra è quella che sta governando l’Italia? Una destra che pratica un nazionalismo un po’ sciatto. Ogni tanto alla ricerca di fatti simbolici fortemente regressivi. Azioni dal punto di vista culturale, penso alle sparate di Valditara, Lollobrigida, dello stesso Piantedosi all’inizio. C’è un’azione da questo punto di vista simbolicamente molto negativa. E dall’altra alla prova dei fatti c’è una sciatteria di fondo. Non è che siamo di fronte ad una nuova destra che fa fare grandi innovazioni, pericolose ma comunque innovazioni all’Italia. Siamo di fronte alla sciatteria di un potere che non riesce nemmeno a gestire il caso Santanché e, soprattutto, all’immobilismo su sanità, lavoro, casa che sono questioni essenziali in questo momento. Su queste grandi questioni sociali, sulla guerra, sulle migrazioni, sui diritti, sulla giustizia, sull’ambiente, scrive Piero Sansonetti in un’editoriale de l’Unità: la grande sfida di Elly Schlein è quella di dare un pensiero alla sinistra... Io credo che siamo nel pieno di grandi transizioni e quindi anche di una grande necessità di ripensare alcuni ancoraggi fondamentali. Penso che ci sia un punto essenziale che è quello di sostenere le persone in una fase d’insicurezza. Nel mondo di oggi questi salti d’epoca sono sempre più contrassegnati dal fatto che si consegna uno scenario d’insicurezza alle persone sul presente e sul futuro. La sinistra deve essere quella che sta al fianco e con risposte che non mettano gli uni contro gli altri, che non creino nuove lacerazioni tra i fragili, ad esempio, ma che scommettano molto di più sul valore dei diritti sociali, sul riscatto sociale, sulla grande questione climatica che deve essere sempre associata alla questione sociale. È per questo che credo sia importante quello che stiamo facendo sul salario minimo, a livello nazionale, sulla casa, sulla sanità pubblica. Non solo per le ricadute nel merito, ma perché sono anche un tentativo di ridefinire quelle che devono essere le priorità per il nostro campo. Perché invece di appassionarsi e nel caso anche dividersi su queste grandi questioni, il dibattito politico - anche dentro il Pd almeno come viene raccontato - sembra sempre essere legato alla questione delle alleanze? La metto giù così. Credo che ci sia un dibattito molto interno al ceto politico, ad un gruppo molto limitato di persone, riguardante, per fare un esempio, la divisione tra riformismo e radicalità cose che appartengono ad un confronto che è lontanissimo dalla dimensione reale, non dico solo dalla vita reale ma anche da quelle che dovrebbero essere le sfide politiche dell’oggi. Poi c’è la questione delle alleanze. Le alleanze sono inevitabili. Ma resto convinto che a noi faccia molto bene continuare sulla linea di questi mesi, cioè rafforzare la posizione del Partito democratico e farlo non mettendo ciò in contrapposizione, lo si è visto sul salario minimo, con la ricerca di convergenze quando questo è possibile. A proposito della dicotomia “radicali”/”riformisti”. Che senso politico ha la riunione di una parte del Pd che si definisce “riformista”? E gli altri cosa sarebbero? Sono convinto che, Bonaccini in testa, pensino di non essere gli unici riformisti. Non credo che noi siamo dei pericolosi rivoluzionari. Confido sul fatto che quello di Cesena sia un appuntamento utile per rafforzare momenti di unità e non per pompare una logica correntizia sulla base di una parola, di una categoria, quella del riformismo, che in questi anni è stata tirata da una parte e dall’altra e che spesso vuol dire tutto e il suo contrario. Su questo confido molto in Bonaccini e in diversi promotori. “Riformismo”, “europeismo”. Parole che non sostanziate politicamente restano puro esercizio retorico. Provi lei a declinarle... Il riformismo è la necessità di governare i cambiamenti, di assumersi delle responsabilità, d’indicare con molta concretezza la rotta rispetto alle scelte che si fanno. La sinistra in Germania o in Spagna - quest’ultima ci auguriamo resista nelle imminenti elezioni a questo vento di destra globale - è riformista. Lo dico venendo dall’esperienza del Parlamento europeo: la famiglia dei socialisti e democratici è totalmente attraversata dalla cultura riformista, una cultura politica che è davvero patrimonio di tutti. Credo che sia veramente artificiale l’uso interno di questo tipo categoria. Ed è il motivo per cui questo dibattito è sempre più ristretto a poche centinaia di persone. Quanto all’europeismo, è la necessità di stare dentro una scommessa politica indispensabile, irrinunciabile, sapendo che l’Europa va cambiata e difesa. Va cambiata perché spesso ha visto al suo interno il minimo comune denominatore come un compromesso al ribasso, pensiamo a cooperazione, immigrazione, diritti umani. Cosa che non è avvenuta, ed è un bene, su temi cruciali quale la transizione ecologica dove si è realizzato un grande spirito innovativo. L’Europa va difesa perché l’attacco a cui è sottoposta, come grande progetto unitario, è persistente, aggressivo. La destra periodicamente, tanto più in vista delle elezioni europee del prossimo anno, rialzerà la voce per fare vivere una sorta di Europa come patria di tutti nazionalismi che finirebbero per mortificare ancora una volta questa enorme sfida, una Europa più forte, coesa, che ancor prima che sul piano economico e finanziario, e su quello politico, deve riguardare le culture dei popoli. L’Europa e la guerra. La diplomazia sembra affidata e affidarsi solo alle armi. E la politica? Io credo che noi abbiamo fatto bene a sostenere l’invio delle armi all’Ucraina. Ho sempre votato con convinzione perché le armi erano e sono indispensabili per aumentare la capacità di difesa dell’Ucraina soprattutto nella prima fase della guerra in relazione all’aggressione sconvolgente di Putin. Questo è un punto politico, non di strategia militare. Era indispensabile garantire una tenuta della difesa ucraina perché altrimenti avrebbe vinto Putin. Altresì è evidente che serva uno sforzo negoziale più potente dell’Europa, in un passaggio che è strettissimo perché la volontà di Putin è difficile da saggiare in questo momento, anche la sua strategia. Però sono convinto del fatto che vada incoraggiato qualsiasi sforzo negoziale. Per questo ho ritenuto positivo il tentativo del presidente della Cei, il cardinale Zuppi. Vi sono necessità negoziali da rendere più evidenti. Migranti. Sul reato di favoreggiamento deciderà la Corte Ue di Giansandro Merli Il Manifesto, 19 luglio 2023 Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina finisce davanti alla Corte di giustizia Ue che dovrà stabilirne la compatibilità con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Lo ha deciso lunedì il tribunale di Bologna accogliendo la richiesta di rinvio pregiudiziale presentata dall’avvocata Francesca Cancellaro. Il giudice nazionale chiede a quello europeo di valutare validità e interpretazione del “Facilitator package” - composto da una direttiva e una decisione quadro del Consiglio entrate in vigore nel 2002 per fornire una definizione comune del reato e stabilire delle sanzioni minime - alla luce di quanto prevede la Carta. Sia rispetto ai diritti fondamentali dei presunti “favoreggiatori”, che a quelli delle persone migranti “favorite”. Si parla di diritto alla vita, all’integrità fisica, all’accesso alle procedure di asilo. Il tribunale bolognese chiede esplicitamente che dopo la valutazione della disciplina europea lo stesso avvenga per quella nazionale, analizzando così i diversi commi che compongono il famigerato articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione. “La nostra obiezione è che la disciplina europea, e di conseguenza quella italiana che ne costituisce attuazione, non prevede lo scopo di lucro come elemento costitutivo del reato e contestualmente non obbliga gli Stati membri a escludere la responsabilità di chi agisce con finalità altruistica e umanitaria”, spiega Cancellaro. È proprio tale ambiguità che negli anni ha permesso di accusare di favoreggiamento sia le organizzazioni di trafficanti, sia migranti, attivisti e volontari che aiutano semplicemente altre persone mossi da ragioni solidaristiche. Non si tratta di un caso, ma di precise scelte politiche che si sono stratificate nell’articolo 12, una norma lunga, complessa e influenzata dall’allarmismo securitario con cui sono trattate le migrazioni internazionali. Ultimo esempio in ordine di tempo è il “decreto Cutro”, che ha aumentato i massimi e i minimi delle pene già estremamente severe che colpiscono i cosiddetti “scafisti”. La legittimità di questo provvedimento bandiera del governo Meloni potrebbe essere messa in questione dalla Corte Ue. L’avvocata Cancellaro aveva chiesto un analogo rinvio pregiudiziale già durante l’udienza preliminare del procedimento contro Iuventa, Medici Senza Frontiere e Save The Children, accusate di favoreggiamento per i soccorsi in mare del 2016-2017. Il 23 giugno scorso, però, il Gup siciliano l’ha negato. L’avvocata ha avanzato nuovamente la richiesta in un processo contro una donna di origine congolese che ha già fatto giurisprudenza. Sul caso si è espressa nel 2022 la Corte costituzionale che ha cassato due circostanze aggravanti del favoreggiamento. Quelle relative all’utilizzo di “servizi internazionali di trasporto” e “documenti contraffatti o alterati”. La donna, E. K. K., era arrivata all’aeroporto di Bologna il 27 agosto 2019 con figlia e nipote usando documenti falsi. Con le aggravanti rischiava fino a 15 anni di carcere. Dopo la decisione della Consulta il reato è stato riconfigurato in favoreggiamento semplice, che prevede un massimo di cinque anni di carcere ed è dunque di competenza del giudice monocratico. Questo ha chiesto alla Corte Ue di esprimersi seguendo la procedura accelerata. Se la richiesta venisse accolta si avrebbe una decisione entro sei mesi. Altrimenti, seguendo i canali ordinari, ci vorrà circa un anno. Migranti. Cosa prevede il patto tra Tunisia e UE: già 1.200 deportati e decine di morti di Luca Casarini L’Unità, 19 luglio 2023 Uno sprazzo di verità si affaccia tra i bla bla bla del memorandum: il patto serve a “stroncare la migrazione irregolare”. Domenica è stato siglato a Tunisi l’ormai famoso “Memorandum Tunisia - Unione Europea”. Grand commis Giorgia Meloni, ritratta in tutte le pose sorridenti e stringimano possibili. Il nome “memorandum” evoca il patto siglato con le milizie libiche e fior fiore di criminali vari di quel disgraziato paese, dal governo italiano nel 2017, per volere di Minniti. Sarebbe bastato questo per suggerire a un ghost writer avveduto, di usare un altro termine. Comunque sia, lasciando da parte la propaganda e le photo opportunity, la prima cosa che salta agli occhi scorrendo il testo, al capitolo “Migrazione e mobilità”, è quel rifiuto da parte della Tunisia, scritto nero su bianco, di diventare futuro luogo di centri di detenzione per migranti respinti e deportati dall’Europa. Dei “cinque pilastri”, come li hanno definiti, che compongono il memorandum, è inutile che Giorgia Meloni, Ursula Von Der Layen e l’olandese Rutte, tentino di nascondere il fatto che proprio questo era quello portante. Gli accordi sulla “stabilità macro-economica”, sull’ “economia e il commercio”, sulla “transizione energetica verde” e sull’ “unire le persone”, altro non fanno che da contorno al piatto forte, quello di cui Italia ed Europa hanno “fame”: come bloccare le persone migranti prima che arrivino sulle coste continentali, e come far diventare la Tunisia, un paese terzo da poter utilizzare come il Regno Unito vorrebbe utilizzare il Rwanda. Un paese in grado di detenere il numero sempre più alto di respinti che si annuncia con la ulteriore restrizione del diritto di asilo, contenuto del nuovo “Patto su Migrazione e Asilo” già sottoscritto dai ministri degli interni dell’Unione e in via di approvazione definitiva a Bruxelles. L’approccio “non predatorio”, la formula “radicale” usata da Meloni per tentare di occultare l’impostazione “leggermente” neocoloniale che trasudano viaggi e tramestii nei paesi mediterranei dell’Africa, nel Memorandum è diventato “approccio olistico” sulla migrazione. Un’abbondante retorica illustra i vantaggi per lo sviluppo dei paesi, rappresentati da un rapporto corretto con il fenomeno migratorio, nello spirito migliore dei padri costituenti e bla bla bla. Come quando si tira di fioretto, i ghirigori attorno al corpo del nemico, quasi a definirne dolcemente i contorni, preparano l’affondo, dritto al cuore. E infatti, dopo questi olistici bla bla bla, uno sprazzo di verità si affaccia tra le righe: il patto serve a “stroncare la migrazione irregolare”. Per uno che voglia vedere la realtà, la stessa che ha costretto obtorto collo la “campionessa dei blocchi navali” e della “difesa dei confini a ogni costo”, a fare i conti con mille sbarchi al giorno e 75mila arrivi da inizio anno, la “migrazione illegale” è inversamente proporzionale ai canali di accesso e agli strumenti di protezione ed asilo che noi offriamo. Più si chiude la possibilità per donne, uomini e bambini, per famiglie divenute erranti per costrizione, di avere il modo di migrare dove scelgono di voler provare a vivere, e più aumenterà la “migrazione illegale”. Migrare, un diritto umano riconosciuto nella Dichiarazione Universale, non può essere “illegale”. E soprattutto, le persone che migrano non possono essere illegali. Nessun essere umano è illegale. E dunque tutto questo memorandum, la sua filosofia di fondo, rivela il vero scoglio culturale sul quale alla fine rovinano, sbattendo addosso alla realtà, tutti i condottieri a parole che il Mediterraneo ha conosciuto in questi ultimi anni. Le persone arrivano, provano, insistono, usano ogni mezzo possibile per tentare di fuggire da situazioni assurde e insostenibili, che non hanno scelto nemmeno in minima parte. Il Memorandum, così olistico, partorito una domenica di luglio a Tunisi, va letto bene: quello “stroncare” diventa fare la guerra alle persone che migrano. Il nemico, sui quali contorni il fioretto indugiava prima di puntare al cuore, alla fine sono le donne, gli uomini e i bambini. E certo, il tutto va letto in maniera assolutamente olistica: la transizione energetica “verde” di cui si blatera, andrebbe messa insieme al tema delle concessioni a favore dei colossi europei del “nero” petrolio e del gas, che pompano dal sottosuolo miliardi di extraprofitti in cambio di pochi spiccioli per li ci abita. O la “valorizzazione della società civile”, capitolo incredibile e davvero da leggere, dovrebbe essere raffrontata allo scioglimento in Tunisia di ogni cosa democraticamente eletta, all’arresto degli oppositori politici e dei giornalisti scomodi, al potere concentrato su un solo uomo, grazie a un referendum farsa celebrato senza popolo. Saied, altissimo presidente dittatore, non vuole solo milioni di euro o dollari per evitare che una guerra civile di gente affamata lo spazzi via. Bisogna nutrire anche la sua vanità, il suo ego, come quello dei molti capi di stato e di governo africani convocati a Roma domenica prossima per il loro momento di notorietà. Saied è un’autocrate che per prepararsi alla firma del Memorandum, ha fatto catturare casa per casa 1200 migranti che abitavano in Tunisia, e li ha fatti deportare in due diversi pezzi di deserto, uno al confine con la Libia e uno al confine con l’Algeria. Sono morti a decine, bambini, donne incinte, di sete, di caldo del giorno e di freddo della notte. Sorridevate per quello nelle foto con lui, cari rappresentanti della civiltà cristiana e democratica europea? Certo, perché Saied ha detto, nonostante foto e video che hanno fatto il giro del mondo, che si tratta di “fake news” delle Ong. Sempre lui, nel discorso di febbraio con il quale ha dato il via alla campagna di odio razziale contro i “neri”, parlava di un piano per la sostituzione etnica in Tunisia. Viene il dubbio che questo stretto rapporto tra Italia e Tunisia, preveda la condivisione tra i due governi anche dei responsabili della comunicazione. Ma comunque, tutto si muove nel Mediterraneo. Le navi del soccorso civile ci sono e aumentano, nonostante il tentativo di criminalizzazione e di sabotaggio con i “porti lontani”. La Geo Barents ha effettuato 11 operazioni di soccorso in sequenza, coordinata dalla Guardia Costiera italiana. La Libia, per far vedere che è cambiata, si è intestata il salvataggio alla frontiera con la Tunisia, nel deserto, di parte dei deportati abbandonati da Saied. Speriamo che ora non li “accolgano” in un lager. Il Parlamento Europeo ha votato per acclamazione una mozione in cui chiede una missione di soccorso in mare europea. Salvini parla di tasse, perché non sa come spiegare agli elettori cornuti di Pontida, che il “suo” governo ha fatto il decreto flussi per migranti in ingresso per lavoro, più grande da dieci anni, per mezzo milione di migranti. La rozza e brutale “dottrina Minniti”, a causa della quale tanti e tante sono stati uccisi e violentati nei lager in questi anni, o sono morti in mare, sembra lasciare il passo ad una più raffinata strategia “olistica” di parternariato come si deve. E nel frattempo, perché tutto si muove, non solo i giochi elettorali e geopolitici fatti sulla pelle dei più disperati, le reti dei rifugiati stanno organizzando proprio per domenica, un contro vertice a Roma. Da una parte i capi di Stato africani, dall’altra gli africani. C’è un “underdog” con cui fare i conti sempre, cara Giorgia. Tunisia-Libia pattuglie armate al confine per fermare i migranti di Marina Della Croce Il Manifesto, 19 luglio 2023 Non solo vittime della caccia al nero in corso da settimane in Tunisia, ma adesso i migranti deportati al confine con la Libia rischiano di diventare il pretesto di uno scontro tra i due paesi. Il ministro dell’Interno del Governo di unità nazionale di Tripoli ha infatti ordinato il pattugliamento della frontiera con la Tunisia per impedire che uomini, donne e bambini possano sconfinare entrando nel paese. Pattuglie armate sono state schierate in particolare nel tratto compreso tra Ras Jedir e Dehiba Wazen con il preciso compito di respingere ingressi non autorizzati. Una situazione che rende ancora più disperate le condizioni già difficili in cui sono costretti a sopravvivere centinaia di migranti, prima ammassati e poi abbandonati dalla polizia tunisina nel deserto senza cibo né acqua. E adesso anche senza più la speranza di poter trovare un minimo di assistenza dall’altra parte del confine. Con i dovuti distinguo, quanto sta accadendo in queste ore alla frontiera tra i due paesi nordafricani assomiglia molto alle scene viste due anni fa al confine tra Bielorussia e Polonia, con in mezzo i migranti respinti e sorvegliati dai militari di entrambi gli Stati. La differenza è che mentre in nord Europa si moriva di freddo, in Nordafrica a uccidere è il caldo. La ong Alarm Phone parla di diversi decessi e molte urgenze mediche, rese più gravi dal fatto che le autorità sia libiche che tunisine si rifiuterebbero di prestare soccorso ai migranti. E una situazione analoga si sta verificando anche al confine tra Tunisia e Algeria. Il paradosso è che sia la Tunisia che la Libia ricevono mezzi e finanziamenti dall’Unione europea per bloccare i migranti che tentano di arrivare in Europa attraverso il Mediterraneo. Solo domenica scorsa la presidente della commissione Ue Ursula von der Leyen insieme alla premier Giorgia Meloni e al primo ministro olandese Mark Rutte ha firmato un Memorandum d’intesa con il presidente tunisino Kais Saied il cui scopo principale è proprio quello di mettere un argine ai viaggi verso l’Italia. Per questo Bruxelles si è impegnata a versare 105 milioni di euro alla Tunisia per la gestione delle frontiere più altri 150 milioni a sostegno del bilancio tunisino. In cambio solo un generico e vago impegno al rispetto di quanto previsto dal diritto internazionale. La tensione tra i due Stati africani stava salendo già da alcuni giorni, in particolare da quando centinaia di migranti sono stati abbandonati dalla polizia tunisina nella terra di nessuno che divide i due confini. Attraverso il direttore del valico di frontiera. il generale Abdelsalam al Omrani, la Libia aveva chiesto alle autorità tunisine di “rimuovere i rifugiati che si sono infiltrati al valico libico”, mentre da Tripoli si prometteva l’invio di rinforzi per il controllo della frontiera. Sia a Ras Jadir che al confine con l’Algeria i migranti sono sorvegliati da forze armate dei vari paesi che impediscono loro ogni via di fuga. L’associazione, che da due settimane riceve richieste di aiuto da parte di quanti sono bloccati ai confini, ha anche denunciato di aver chiesto l’intervento di Unhcr e Oim - entrambe organizzazioni delle Nazioni unite - senza però ricevere alcuna risposta, mentre in alcune aree l’intervento della Mezzaluna rossa tunisina sarebbe stato subordinato all’accettazione dei rimpatri volontari. Secondo il Forum tunisino per i diritti economici e sociali tra i 100 e i 150 migranti, tra cui donne e bambini, sono ancora bloccati al confine con la Libia e altri 165 circa sono stati prelevati vicino al confine con l’Algeria. “I migranti vengono trasferiti da un luogo all’altro - ha detto il portavoce del Forum, Rondane Ben Amor - mentre altri gruppi si nascondono in condizioni catastrofiche per paura di essere scoperti e subire la stessa sorte di quelli bloccati ai confini”. Egitto. Patrick Zaki condannato a 3 anni e rispedito in carcere: dovrà scontare altri 14 mesi di Carmine Di Niro L’Unità, 19 luglio 2023 Tre anni di carcere. È questa la condanna inflitta dalla “giustizia” egiziana a Patrick Zaki, l’attivista e studente presso l’Università di Bologna arrestato al Cairo nel febbraio del 2020, come riferito da uno dei suoi quattro legali all’agenzia Ansa. “Patrick Zaki è stato arrestato in tribunale in preparazione del suo trasferimento alla stazione di polizia di Gamasa”, ha scritto su Twitter il suo avvocato Hossam Bahgat. “Urgente: Patrick George Zaki, ricercatore presso l’Egyptian Initiative for Personal Rights, è stato condannato a tre anni di carcere dal Tribunale per la sicurezza dello Stato di emergenza, sulla base di un articolo di opinione pubblicato nel 2020”, precisa il legale. “Calcolando la custodia cautelare” già scontata, “si tratta di un anno e due mesi” di carcere, ha invece sottolineato all’Ansa l’altro avvocato di Patrick, Hazem Salah: il ricercatore egiziano ha infatti già passato 22 mesi in custodia cautelare in prigione, fino al dicembre 2021. La legale principale di Patrick Zaki ha annunciato un ricorso contro la condanna a tre anni inflitta oggi al ricercatore e attivista egiziano: “Chiederemo al governatore militare di annullare la sentenza o di far rifare il processo come è avvenuto nel caso di Ahmed Samir Santawy”, ha detto Hoda Nasrallah parlando all’Ansa. “Per tutto il tempo” della procedura necessaria a fare appello al governatore militare Zaki “tornerà in carcere”, ha spiegato una fonte legale qualificata presente a Mansura e al corrente dell’andamento del caso Zaki. Zaki, 32 anni, era stato accusato di “diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese” per un articolo del 2019 a difesa dei cristiani copti. Era tornato in libertà l’8 dicembre 201 dopo 22 mesi di custodia cautelare passati in carcere: da allora però era però in attesa di giudizio, senza la possibilità di viaggiare e quindi di rientrare a Bologna. Al termine dell’udienza tenuta oggi a Mansura, in Egitto, Zaki è stato portato via dall’aula attraverso il passaggio nella gabbia degli imputati tra le grida della madre e della fidanzata Reny che attendevano all’esterno. Per Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia che in tutti questi anni è stato in prima linea nel seguire la vicenda di Zaki, quello di oggi è “il peggiore degli scenari possibili”. “Non finisce qui, ora tutte le possibilità per tirare fuori Patrick da questa situazione vanno esplorate. Il governo italiano per cortesia intervenga”, spiega Noury in un video pubblicato su Twitter. “È una notizia terribile quella che arriva dal tribunale di Mansoura, con l’immagine di Patrick che esce da quel tribunale con una condanna a tre anni di carcere, una condanna scandalosa, assurda per un reato che Patrick non ha commesso”, ha detto Noury nel breve filmato pubblicato sull’account Twitter di Amnesty Italia. “Avevamo sempre chiesto di tenere alta l’attenzione su Patrick perché, terminato il periodo di carcere, in molti avevano pensato che tutto si fosse risolto, invece noi avevamo sempre posto l’attenzione sul Patrick imputato, e in Egitto imputato è sinonimo di condannato, come abbiamo visto adesso”, ha denunciato ancora Noury. Zaki, condannato nel corso dell’11ma udienza del processo che lo vedeva imputato per diffusione di notizie false, solo due settimane fa aveva conseguito la laurea presso l’Università Alma Mater di Bologna, dove studiava prima di essere arrestato al suo rientro in Egitto. Lo studente egiziano è stato proclamato dottore lo scorso 5 luglio in videoconferenza presso il dipartimento di Lingue, Letterature e Culture moderne. “Sono stato fortunato ad essere parte dell’Università di Bologna e del comune di Bologna. Sarò per sempre grato per tutto il supporto e l’affetto che ho ricevuto da tutta l’Italia. Spero di tornare presto a Bologna per completare la mia felicità”, aveva commentato su Twitter nel giorno della sua laurea a distanza. Egitto. Patrick Zaki condannato, le carte del governo italiano per convincere Al Sisi di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 19 luglio 2023 L’Italia e la condanna di Patrick Zaki: il nostro Paese ha già fatto sapere al governo del Cairo che sarebbe pronto a far scontare da noi la pena residua (14 mesi) ottenuta dal ricercatore ed attivista egiziano. C’è una linea labilissima, in diplomazia, che è assolutamente vietato attraversare. È quella che separa un normale lavoro di moral suasion da un’ingerenza negli affari di un altro Paese. Palazzo Chigi e la Farnesina conoscono benissimo questa regola, anche se all’Egitto in diverse occasioni hanno già fatto presente quanto l’Italia “abbia a cuore” i casi di Patrick Zaki e Giulio Regeni, per il quale si chiede ancora giustizia e una punizione per i colpevoli, a più di sette anni dal suo omicidio. Queste perciò sono ore delicatissime e le parole ieri di Giorgia Meloni (“Il nostro impegno per una soluzione positiva del caso di Patrick Zaki non è mai cessato, continua, abbiamo ancora fiducia”) non sono per niente casuali. Sono parole che esprimono grande premura per Zaki, ma nello stesso tempo si guardano bene dall’invadere il campo del presidente della Repubblica egiziana, Abdel Fattah al-Sisi. Il potere di grazia risiede solo nelle sue mani. Sarà l’Egitto a decidere la sorte dello studente. Zaki è un cittadino egiziano, condannato da un tribunale egiziano con sentenza inappellabile. I rapporti con l’Italia però sono buoni, il neo-ambasciatore del Cairo a Roma, Bassam Rady, già portavoce di al-Sisi, ha presentato a marzo le sue credenziali al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e viene descritto da fonti italiane come “uomo influente e preparatissimo, molto ascoltato dal suo presidente, persona cordiale e ben disposta nei confronti del nostro Paese”. Potrebbe essere lui la persona giusta per sbrogliare l’intrico. L’Italia attraverso i suoi canali diplomatici ha già fatto sapere al governo del Cairo che sarebbe anche pronta a far scontare da noi la pena residua (14 mesi) ottenuta dall’attivista egiziano, che si è laureato in videoconferenza all’Alma Mater di Bologna appena due settimane fa. Lui ora si trova ristretto in commissariato e sarebbe già importante evitargli il trasferimento in un carcere. Di sicuro, però, le parole di ieri di Meloni stanno a significare anche un’altra esigenza: quella di abbassare subito i toni. Due settimane fa i proclami del ragazzo dopo la laurea (“Ringrazio Bologna e la stampa libera, lo studio è stata la mia resistenza”) hanno creato ulteriore irritazione: in Egitto Zaki fu arrestato tre anni fa con l’accusa di aver scritto notizie false in un articolo sulle discriminazioni contro i copti. Le sue parole, perciò, sono suonate di nuovo come propaganda ostile. Ma se davvero è la grazia l’unica soluzione per cancellare all’istante i suoi debiti con la giustizia e restituirlo agli affetti in Italia, questo potere ce l’ha solo al-Sisi. In Egitto ora stanno per arrivare due festività molto sentite: oggi, 19 luglio, è il giorno di El Amm El Hijri, l’egira di Maometto, che è anche l’inizio del calendario islamico, il capodanno musulmano; domenica 23 luglio, poi, si celebrerà il giorno della Rivoluzione del 1952. C’è chi spera in un beau geste presidenziale. Sempre domenica, a Roma, Giorgia Meloni presiederà la Conferenza sullo Sviluppo e le Migrazioni, accogliendo alla Farnesina, insieme al ministro degli Esteri Antonio Tajani, molti capi di Stato e di governo europei, africani e arabi. Sarà l’occasione per confrontarsi sui programmi e per migliorare le relazioni. In fondo, se l’Italia ha bisogno dell’Egitto, anche l’Egitto ha bisogno dell’Italia. Gran Bretagna. Un “carcere” galleggiante per i migranti: la nuova soluzione del governo La Repubblica, 19 luglio 2023 Una nave, la Bibby Stockholm, che ospiterà richiedenti asilo, è giunta alla sua destinazione finale sulla costa meridionale dell’Inghilterra. L’iniziativa fa parte degli sforzi per ridurre l’uso di costosi alberghi come soluzione temporanea durante l’elaborazione delle richieste di asilo. La nave sarà ormeggiata nel porto di Portland nel Dorset e fornirà sistemazione a 500 uomini adulti, come annunciato dal Ministero degli Interni britannico. La chiatta ha subito lavori di ristrutturazione a Falmouth, in Cornovaglia, da quando è arrivata nel Regno Unito all’inizio dell’anno. Il Primo Ministro Rishi Sunak ha posto la lotta contro l’immigrazione illegale come una delle sue principali priorità in vista delle elezioni previste per l’anno prossimo, presentando piani per ostacolare l’ingresso dei richiedenti asilo che arrivano in piccole barche attraverso la Manica. La barca è stata precedentemente impiegata per ospitare persone senza dimora e richiedenti asilo in Germania e nei Paesi Bassi. È stata oggetto di ristrutturazione dopo essere stata criticata come un “ambiente oppressivo” durante il suo utilizzo da parte del governo olandese. Secondo le informazioni fornite dai proprietari, Bibby Maritime, la nave dispone ora di 222 camere con bagno privato, una sala TV e giochi e una palestra. Lussemburgo. Cannabis legale per uso personale di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 19 luglio 2023 Con un voto a larga maggioranza (38-22), a fine giugno il Lussemburgo è diventato il secondo paese dell’Unione Europea, dopo Malta, a legalizzare la coltivazione e il consumo personale di cannabis per adulti. La legge approvata è abbastanza distante dalle iniziali idee del governo, che aveva annunciato di voler intervenire istituendo un mercato regolato riservato ai soli cittadini lussemburghesi. Seguendo il modello maltese, viene introdotta una semplice autorizzazione della coltivazione e dell’uso personale di cannabis, rigorosamente in casa. Rimangono sanzionabili tutte le altre condotte, con multe e pene detentive a seconda della gravità del fatto. Al fine di “ridurre i rischi e prevenire la criminalità”, viene quindi autorizzata la coltivazione, ma solo da seme, di quattro piante di cannabis per famiglia, e solo per i maggiorenni. Come corollario, è autorizzato il consumo personale in ambito privato. Il luogo di coltivazione deve essere la residenza abituale e le piante non devono essere visibili dalla strada. Allo stesso tempo, è introdotta una procedura penale semplificata per il consumo, il possesso, il trasporto e l’acquisizione in pubblico, per uso esclusivamente personale, di un massimo di tre grammi di cannabis da parte di adulti che verranno sanzionate con una multa da 25 a 500 euro. Oltre i 3 grammi la legge prevede una pena detentiva da otto giorni a sei mesi e una multa da 251 a 2.500 euro. La politica repressiva nei confronti delle droghe è stata “un fallimento assoluto”, ha dichiarato al termine del dibattito parlamentare il Ministro della Giustizia Sam Tanson (Déi Gréng), come riportato da RTL. Per questo motivo, “dobbiamo avere il coraggio di prendere un’altra strada” e “cercare soluzioni”. La sua collega di partito Josée Lorsché ha osservato: “Non si tratta di banalizzare o promuovere la cannabis”, ma “si tratta di combattere la criminalità legata alla droga e la vendita di cannabis sul mercato nero”. Ha aggiunto che così le persone potranno accedere a prodotti di migliore qualità, poiché quelli offerti sul mercato nero sono “più dannosi per la salute dei consumatori”. Restano però fuori dal provvedimento di nuova regolamentazione anche i Cannabis Social Club, che invece sono uno dei punti di forza della normativa maltese e uno dei perni dell’annunciata riforma tedesca. L’unica strada di accesso alla cannabis legale sarà quindi l’autocoltivazione, che però non per tutti è possibile. Non sono mancate le critiche per questo, sia dagli oppositori che dai sostenitori di una piena legalizzazione. In particolare, perché il provvedimento - in assenza di un qualsiasi canale legale per approvvigionarsi di cannabis che non sia la coltivazione in casa propria - rischia di mantenere in piedi sia il mercato nero degli spacciatori in strada, che quello grigio legato agli scambi “sociali”. La nuova legge lussemburghese appare dunque perfettamente in linea con la regolamentazione europea, che esclude espressamente l’obbligo di sanzione penale di tutte le condotte per uso personale. E anche conforme alle convenzioni internazionali che lasciano ampio spazio agli Stati membri di determinare sia i limiti della coltivazione, che il livello di sanzionabilità delle condotte, in particolare per uso personale. La via europea sulla cannabis sembra quindi definitivamente tracciata: con il deposito a inizio luglio del progetto di legge per il primo pilastro della riforma tedesca - quello della decriminalizzazione delle condotte ad uso personale e dell’apertura ai Cannabis Social Club (vedi questa rubrica del 19 aprile) - e con la Repubblica Ceca pronta a fare altrettanto, l’onda verde arriva al centro economico e politico dell’Unione Europea. E difficilmente non avrà ripercussioni altrove, Italia compresa.