La seconda chance fuori dal carcere di Patricia Tagliaferri Il Giornale, 18 luglio 2023 I detenuti a fine pena cercano la loro nuova occasione per ricominciare e non sbagliare più. Sgravi fiscali per chi li assume ma la legge Smuraglia, in vigore da 23 anni, non è applicata ovunque. Le porte sono aperte, durante il giorno i detenuti possono girare liberamente, parlare nei corridoi, fare varie attività per rendere meno alienante la loro pena. Lo prevede la cosiddetta “sorveglianza dinamica” consentita nel Nuovo Complesso del carcere di Rebibbia ai “definitivi”, che hanno condanne passate in giudicato. Sgarrare qui vuol dire essere trasferiti: uno sbaglio e addio al G8, il reparto più ambito, dove non si sta tutto il tempo in cella ad aspettare l’ora d’aria, ma c’è la sala musica, quella del bricolage, la biblioteca, la falegnameria, si può giocare a tennis, a calcetto o studiare. Oggi è giornata di colloqui e i detenuti sono in fibrillazione. Aspettano fuori da una porta, pieni di speranza, ben sapendo che lì dentro, in cinque minuti, si giocano il futuro. Il futuro, sì. Perché da quando “Seconda Chance” - l’associazione della giornalista di La7 Flavia Filippi - entra nelle carceri per promuovere la poco conosciuta legge Smuraglia, i detenuti possono pensare che, una volta fuori, anche loro potranno avere una seconda possibilità. E per ripartire, per non ricascarci, per cercare di diventare persone diverse, serve prima di ogni altra cosa un lavoro che gli restituisca dignità e autonomia. E le statistiche dimostrano che dando alle persone la possibilità di ricominciare, il tasso di recidiva crolla dal 68% al 19%. Ma non è cosa facile trovare qualcuno disposto ad assumere chi è stato dentro. È questa la missione di “Seconda Chance”: mettere in contatto imprenditori senza pregiudizi, ma anche enti pubblici e aziende, con i detenuti ammessi al lavoro esterno (una possibilità prevista dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario), come consente questa legge dimenticata e soffocata dalla burocrazia. Obiettivo di Seconda Chance è - grazie alla collaborazione con l’amministrazione penitenziaria - smuovere le montagne pur di “piazzare” i detenuti che hanno i requisiti per lavorare e poi tornare in cella la sera, “preparando” così il terreno per il proprio rientro in società. Nella convinzione che tutti, anche chi nella vita è inciampato, meritano una possibilità di riscatto. Perché una terza chance, poi, non te la dà nessuno. E per quanto da dietro le sbarre si sogni un “dopo” diverso, senza un aiuto spesso ci si scontra con la realtà. Vicino alla sala dei colloqui c’è una bacheca con le offerte di lavoro, per lo più si tratta di impieghi nel settore della ristorazione e dell’edilizia, ma non solo: cuochi, camerieri, lavapiatti, manovali, magazzinieri, pittori, falegnami, elettricisti. Chi assume non fa solo un’azione di alto valore sociale ed etico, ma ottiene importanti incentivi fiscali (un risparmio di circa 520 euro al mese tra contributi e tasse). Entriamo a Rebibbia Nuovo complesso, diretto da Rosella Santoro, con “Seconda Chance” e con un imprenditore disposto ad offrire un lavoro. Oggi è il turno del titolare di un bar-ristorante nel centro della capitale. Non è qui per gli sgravi fiscali ma perché gli piace poter aiutare chi sta cercando di riprendersi in mano la vita. Un agente della penitenziaria ci viene incontro per accompagnarci ai colloqui, dove ci aspetta l’ispettore Cinzia Silvano, caporeparto del G8. È lei che seleziona i detenuti. Di quelli del suo reparto conosce non solo il curriculum criminale e il percorso di riabilitazione, ma anche le storie personali, il carattere, i difetti e le virtù. Entra per primo Fabio, 45 anni, di Ostia, dove per 15 anni, prima di essere arrestato, ha fatto il falegname al cantiere nautico della Canados. Ha già fatto il cameriere qualche volta. E se c’è da aiutare in cucina, nessun problema, sa fare anche quello. È quasi a fine pena e ha una figlia di 13 anni, non può deluderla. Poi tocca ad Alessandro, 50 anni, pronto a fare l’aiuto chef. Non l’ha mai fatto, ma in cella prepara le fettuccine per gli altri. A volte gli gnocchi alla carbonara. È il turno di Daniele, 42 anni, pieno di tatuaggi, fine pena nel 2026, romano del Prenestino, moglie e tre figlie. L’ispettrice ha solo parole buone per lui. “Ho tanta buona volontà, non vi deluderò”. L’imprenditore ascolta tutti con attenzione, fa domande, cerca di inquadrare i personaggi. Non ha preclusioni, ma si informa sui reati commessi dai vari detenuti, che per lo più sono di droga. Traffico di stupefacenti, ma anche truffe, estorsioni e associazioni a delinquere. Chiede se hanno recidive, perché è facile che chi ha sbagliato più di una volta ci ricaschi. Alla fine sceglie Daniele. “Mi ha colpito quella frase, “non vi deluderò”. Sono decine le storie di reinserimento avviate da “Seconda Chance”, che finora ha procurato il lavoro a circa 180 detenuti in tutta Italia. Una delle tante arriva dal carcere di Civitavecchia, dove dal 2019 è recluso Massimiliano, 27 anni, romano, di buona famiglia, fine pena 2029. Da quando è stato assunto come magazziniere insieme ad un altro italiano da Jouele, un’azienda che fa logistica per Conad Nord Ovest, è come rinato. Nessuna preclusione da parte di Serafini: “Il nome del progetto parla chiaro: si tratta di dare una seconda possibilità a persone che hanno sbagliato ma stanno intraprendendo un percorso di ricostruzione della propria vita”. Poi c’è Francesco, del 2001, che per mesi ha fatto il cameriere da Porto, un fish&chips nel quartiere Prati, a Roma. La mattina usciva, seguendo un percorso obbligato, poi la sera tornava in cella. “Grazie a questa esperienza ho ricominciato a credere in me stesso”, racconta l’ex detenuto che a gennaio ha finito di scontare la pena ed è tornato dalla madre in un paese in provincia di Latina. Filippi spiega in poche parole il senso e il valore sociale del suo progetto: “È cominciato come una passione, è diventato una missione, talvolta un’ossessione, compatibilmente con il mio impegno di inviata per il Tg di La7. So che se mi strutturo bene e riesco ad avere un nostro referente in ogni regione e un domani in ogni città dove c’è un carcere, potrà funzionare sempre meglio. Parteciperemo a bandi pubblici, cercheremo sostenitori e finanziatori. Non è una cosa che si può fare alla leggera, perché i detenuti ci affidano la loro disperazione, spesso siamo gli unici che gli rispondono. E non possiamo deluderli”. Che fatica farsi assumere dopo i 50 anni: il 70% dei disoccupati ci rinuncia Una seconda chance non serve solo ai detenuti, ma anche a tutti quelli che a 40-50 anni sono costretti a cambiare vita perché da un giorno all’altro rimangono senza lavoro. E non sono pochi. Anche se si parla sempre di disoccupazione giovanile, quello delle persone in età matura che si ritrovano catapultati in una realtà che mai avrebbero immaginato di vivere, alla disperata ricerca di un impiego quando si sentivano ormai “tranquilli” nella loro posizione professionale, è un fenomeno sociale ed economico di cui si parla poco e di cui nessuno si cura, anche a livello legislativo, lasciando questa categoria da sola ad affrontare un vero e proprio tsunami pratico ed emotivo. È più facile che si parli di chi molla tutto per cambiare vita, magari aprendo il classico chiringuito sulla spiaggia, che di quanti sono costretti a doversi reinventare quando spesso hanno i figli ancora piccoli e magari genitori anziani da accudire, in una fascia di età in cui ricollocarsi non è per niente facile. In cui ci si sente una zavorra, discriminati perché troppo vecchi o troppo qualificati, umiliati dalle aziende che preferiscono i giovani, che costano meno, sono più flessibili e hanno maggiore dimestichezza con la tecnologia. Stereotipi spesso difficili da combattere. Seppur i social siano pieni di consigli pratici di come trovare lavoro a 50 anni e propongano racconti quasi epici di chi ha avuto una seconda possibilità in età matura, nei fatti si dimostra una missione tutt’altro che facile. Nella maggior parte dei casi prevalgono storie di persone che si scoraggiano anche solo a leggere le inserzioni di lavoro, di porte sbattute in faccia, di discriminazioni per età, di crolli emotivi quando non si è abbastanza strutturati per accettare di essere troppo vecchi per lavorare e troppo giovani per la pensione. Al punto che oltre il 70% dei disoccupati maturi ha perso ogni speranza di ricollocarsi. Il motivo per il quale si parla tanto di disoccupazione giovanile è che in termini percentuali (28,8% nel 2022 con 464mila under 24 senza un impiego) è molto elevata, tanto che la politica si dà giustamente da fare per aiutare il loro inserimento lavorativo. Anche se in realtà la dimensione numerica reale della classe giovanile è inferiore di circa il 30% rispetto ad altre fasce e che a soffrire maggiormente dello stato di disoccupazione sono i cosiddetti lavoratori “maturi” (over 40-50-60), quelli che vengono definiti “longennials”. Nel 2022 le persone tra i 45 e i 54 anni senza lavoro erano 773mila (il 10%), mentre quelle tra i 55 e i 64 anni erano 545mila (il 10,2%). Ma nonostante contino le persone fisiche, non le percentuali, la politica tende a decidere in base a queste ultime. Il risultato è che le fasce di età più avanzate, spesso target privilegiato delle ristrutturazioni aziendali, vengono praticamente lasciate a se stesse con professionisti che non riescono a rimettersi in gioco perché considerati un fardello, non una risorsa, costretti a inventarsi una nuova attività. Si tratta di un problema sottaciuto, quello della disoccupazione senior, che però ha molti risvolti economici e sociali. Oltre a devastanti effetti personali di perdita di dignità e di identità. “C’è lo stereotipo che l’over 50 è un peso e quindi le aziende non lo prendono neanche in considerazione. E non esistono politiche di sostegno dal punto di vista istituzionale”, spiega Giuseppe Zafferano, presidente dell’associazione Lavoro over 40, che si occupa di valorizzare questa categoria di lavoratori “dimenticata”. “Non ci sono incentivi, o ce ne sono pochi, e comunque gli incentivi - continua Zafferano - tendono a drogare il mercato, mentre bisognerebbe cambiare cultura e fare come nei Paesi anglosassoni dove si seleziona in base alla “qualità”, non all’età, come da noi”. Le aziende dovrebbero essere messe in condizione di scegliere per meritocrazia, senza badare alla data di nascita: se sei un buon professionista, lo sei a 50 anni come a 30. Costituito il Comitato scientifico della Conferenza dei Garanti territoriali garantedetenutilazio.it, 18 luglio 2023 Il Portavoce Anastasìa: “Quest’anno festeggiamo il ventesimo anniversario dei garanti dei detenuti”. Giovedì 13 luglio a Napoli, nella sede del Comando Forze difesa interregionale Sud in Palazzo Salerno, la Conferenza delle persone private della libertà ha costituito il Comitato scientifico, previsto dal proprio regolamento, al quale vi possono aderire coloro che hanno ha svolto la funzione di garante delle persone private della libertà ed esperti del settore nominati dall’Assemblea. Ha aperto i lavori Samuele Ciambriello, Garante della Campania. A salutare i convenuti è intervenuto il presidente del Consiglio regionale della Campania, Gennaro Oliviero, coordinatore per la difesa civica e gli organi di garanzia della Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome. “In questa occasione - ha spiegato il Portavoce della Conferenza e Garante del Lazio, Stefano Anastasìa - abbiamo voluto costituire finalmente questo comitato raccogliendo le prime adesioni tra personalità della politica e della cultura che si sono impegnati negli anni passati e svolgeva questo ruolo molto importante”. “Quest’ anno - ha proseguito Anastasìa nel suo intervento a Palazzo Salerno - festeggiamo il ventesimo anniversario della costituzione dei garanti dei detenuti a livello locale: il primo garante istituito a livello locale è stato il garante del Comune di Roma nel 2003. È dello stesso anno la prima legge regionale, quella del Lazio, istitutiva dei garanti. Pensiamo che in questi venti anni questa esperienza si sia avvalsa di competenze conoscenze ed esperienze molto importanti. Credo che sia importante valorizzarle insieme con la valorizzazione del ruolo stesso dei garanti dei garanti territoriali che certamente condividono con il Garante nazionale importanti funzioni di monitoraggio delle condizioni dei luoghi di privazione di libertà ma hanno dei tratti specifici che derivano dall’essere espressione degli enti territoriali. Sappiamo tutti che il processo di reinserimento sociale delle persone detenute e l’obiettivo della rieducazione della pena così come è scritta sulla Costituzione è difficile se non impossibile da perseguire senza il concorso degli enti territoriali e delle risorse civiche, solidaristiche e imprenditoriali che il territorio esprime. È quindi fondamentale che gli enti territoriali possano avvalersi di figure come quelle dei garanti territoriali che hanno maturato esperienze e competenze nel campo della privazione della libertà. Il comitato scientifico che oggi costituiamo - ha concluso Anastasìa - è fatto di persone di grande spessore, avrà una sua vita e una sua programmazione di attività di lavoro Del neocostituito comitato scientifico fanno parte 18 membri, tra i quali, oltre allo stesso Anastasìa, sono intervenuti nel corso dei lavori il presidente emerito della Corte costituzionale e già ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, Franco Corleone, già deputato, senatore e sottosegretario alla Giustizia e già Garante della toscana e di Firenze, oggi Garante di Udine, Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale all’Università di Palermo, già Garante della Sicilia, Davide Petrini, già ordinario di diritto penale nell’Università di Torino e garante per il comune di Alessandria, e Franco Maisto, già presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna e attualmente garante a Milano. Presenti, tra gli altri anche il direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Giancarlo De Gesu, e la Garante di Roma Capitale, Valentina Calderone, sono intervenute anche le componenti del collegio del Garante nazionale Daniela De Robert ed Emilia Rossi. I lavori della Conferenza sono proseguiti il giorno dopo nel Centro di studi europei di Nisida, con l’assemblea nel corso della quale sono stati esposte le relazioni relative ai lavori di gruppo, in materia di minori, immigrati, sanità penitenziaria, scuola. Approvato il documento sugli stranieri in carcere, elaborato dal gruppo di lavoro coordinato dalla Garante del Comune di Brescia, Luisa Ravagnani, che sarà mandato al Capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo. L’assemblea è stata aggiornata a settembre, per le deliberazioni sulle modifiche regolamentari e sulle procedure elettorali per il rinnovo della carica di Portavoce della Conferenza. Per riformare la giustizia serve autocritica di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 18 luglio 2023 È la strada che consentirebbe alla politica di recuperare prestigio e alla magistratura, la cui crisi di legittimazione ne annebbia la funzione giurisdizionale, di ritornare ad essere l’elemento essenziale della democrazia. Con il disegno di legge di modifica di alcune disposizioni del Codice penale, di Procedura penale e dell’Ordinamento giudiziario recentemente approvato dal Consiglio dei ministri, si propone l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, la riformulazione di quello di traffico di influenze illecite, la riduzione delle possibilità di appellare da parte del pubblico ministero, la limitazione per i giornali di pubblicare le intercettazioni, l’istituzione di un Collegio di tre giudici per decidere sull’applicazione della custodia cautelare in carcere, l’obbligo di descrivere sommariamente il fatto nelle informazioni di garanzia e, infine, per evitare che delle sentenze possano essere travolte da nullità, viene stabilito che il limite di 65 anni per i giudici popolari è valido soltanto ai fini della nomina, cosicché nulla rileva se detto requisito dovesse venir meno durante il periodo di mandato. Senza dubbio si tratta di tematiche importanti a partire dalla cancellazione del reato di abuso d’ufficio, dichiaratamente voluto per limitare l’effetto della “paura della firma” da parte dei pubblici funzionari che, come è ormai noto, ha notevolmente rallentato l’attività decisionale, anche se la scelta dell’abolizione dell’illecito non può costituire un indebolimento delle rigorose verifiche del rispetto delle procedure. Tuttavia, trattandosi di un progetto di legge al quale nel corso del dibattito che ne seguirà potranno essere apportate delle modifiche, sorprende l’eco che lo stesso ha avuto, salvo non si voglia ritenere, con un pizzico di malizia, che le marcate espressioni di dissenso abbiano una funzione preventiva di contrasto all’altro segmento di riforma più temuto, già annunciato dal ministro della Giustizia, ovvero la separazione delle carriere tra pm e giudici. Un intervento ineludibile per chi lo ritiene necessario alla effettiva modernizzazione dell’Ordinamento giudiziario e al conseguimento di maggiori garanzie per il cittadino. Un vero e proprio vulnus per l’indipendenza e l’imparzialità del pm, secondo gli oppositori. Una contrapposizione anacronisticamente declinata come “scontro tra magistratura e politica” benché dalle dichiarazioni rese da un importante ex magistrato, già presidente dell’Anm, sia emerso che piuttosto che “scontri” tra giudici e politici, semmai vi erano degli accordi per le nomine in Uffici giudiziari strategici. Ma venendo al punto della questione, per non alimentare il contrasto tra poteri dello Stato, la sola possibilità è quella dell’autocritica da parte degli interessati. Una strada che consentirebbe alla politica di recuperare prestigio e alla magistratura, la cui crisi di legittimazione ne annebbia la funzione giurisdizionale, di ritornare ad essere l’elemento essenziale della democrazia. D’altra parte è un dato incontrovertibile che a distanza di oltre tre decenni di conflitto tra la politica e magistratura, quest’ultima sia passata da una condizione di massimo consenso, ai bassifondi della credibilità. Una delle cause più rilevanti è l’autodifesa a oltranza che pur essendo talvolta legittima in quanto protesa a respingere generalizzate e ingiustificate accuse di politicizzazione, ha colpevolmente indotto la magistratura a rinunciare a ogni critica anche laddove non vi erano dubbi vi fosse stata una impropria interferenza nell’area di discrezionalità della politica. La quale, a sua volta, ha frequentemente abdicato a rivendicare la propria indipendenza anche nei settori dove costituzionalmente le viene riconosciuta, così dando l’impressione di volersi posizionare al di sopra delle regole. Al populismo politico, non giustificabile ma astrattamente comprensibile per la ricerca del consenso, si è contrapposto quello giudiziario attraverso il protagonismo di alcuni magistrati, soprattutto pubblici ministeri. L’unico vero rimedio è il ritorno alla Costituzione e quindi a una corretta interpretazione delle disposizioni che definiscono il potere giudiziario, preservandone l’autonomia, l’indipendenza e la pari dignità rispetto a quello legislativo ed esecutivo, regolamentando al contempo e correttamente la funzione giurisdizionale nella consapevolezza che, a proposito di separazione delle carriere tra giudici e pm, il principio secondo il quale i magistrati si distinguono solo per la diversità di funzioni, non ha trovato una giusta attuazione neanche da parte dell’Organo di autogoverno della magistratura, che troppo spesso ha dato prevalenza a criteri formalistici, rinunciando di assegnare le funzioni a coloro che oggettivamente avevano maggiori capacità e attitudini. Meloni: “Urgente chiarire reati di criminalità organizzata, presto un dl” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 18 luglio 2023 “Un omicidio commesso avvalendosi di modalità mafiose o commesso al fine di agevolare un’associazione criminale non sarebbe un delitto di criminalità organizzata, secondo la Cassazione”. Lo afferma la premier Giorgia Meloni parlando in Consiglio dei ministri, in rifermento a una sentenza della Corte. “Appare evidente come questa decisione si presti a produrre effetti dirompenti su processi in corso per reati gravissimi”. Da qui la decisione del governo di una norma di interpretazione autentica, “L’intenzione, d’intesa col ministro della Giustizia, è di inserire questa norma in un decreto legge di prossima approvazione”. “Il nostro sistema giudiziario penale - ha ricordato Meloni - prevede una distinzione tra reati di criminalità organizzata e altri reati. Per i reati di criminalità organizzata è consentito un uso più esteso e incisivo degli strumenti di indagine, considerata la difficoltà di rintracciarne le prove. È inoltre previsto un maggior rigore nella concessione dei benefici penitenziari, considerata la loro pericolosità e pervasività sociale. Se fino a poco tempo fa l’interpretazione del concetto di criminalità organizzata era chiaro, questa recente sentenza della Corte di Cassazione (la n. 34895 del 2022) lo ha posto seriamente in dubbio. La Cassazione ha infatti affermato - cito testualmente - che possono “farsi rientrare nella nozione di delitti di “criminalità organizzata” solo fattispecie criminose associative, comuni e non”, con la conseguenza che devono escludersi dal regime per essi previsti i reati di per sé non associativi, come un omicidio, “per quanto commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dal suddetto articolo”, continua la premier. “La sentenza ha ad oggetto il regime delle intercettazioni ambientali, ma afferma principi di carattere generale. E principi del genere si prestano a provocare ricadute molto pesanti per il nostro sistema e per la pubblica sicurezza. Lasciando da parte ogni considerazione di merito, appare evidente come questa decisione si presti a produrre effetti dirompenti su processi in corso per reati gravissimi. Infatti, adottando questo orientamento, per i fatti già commessi verrebbe a cadere tutto il materiale probatorio acquisito sulla base dell’interpretazione precedente, che consentiva l’utilizzo degli strumenti previsti per la lotta alla criminalità organizzata anche in assenza della contestazione del reato associativo. Così, rischiano di andare impuniti per un supposto vizio procedurale delitti della massima gravità. Manifestazioni d’allarme in tal senso iniziano già a pervenire da alcuni tribunali”. Meloni: “Reati di mafia, presto un decreto”. Nordio di nuovo “isolato” di Errico Novi Il Dubbio, 18 luglio 2023 Domani si commemora Paolo Borsellino, la strage che lo assassinò con la scorta. Giorgia Meloni ci sarà. “Ricordate come ho cominciato a fare politica?”, aveva chiesto con tono retorico domenica, subito dopo aver “frenato” il guardasigilli Carlo Nordio sul concorso esterno. Ora, dopo le fibrillazioni scatenate dal ministro e dalla sua frase sul “reato non reato”, l’approccio sulla criminalità organizzata è la faglia che può riallontanare, forse in modo irrimediabile, il ministro della Giustizia e Fratelli d’Italia. Può sembrare una conclusione prematura ma ci sono segni che vano interpretati. A cominciare dalla lunga nota diffusa ieri dalla premier a Consiglio dei ministri in corso, con la quale si annuncia una stretta sui reati di mafia, per “rimediare” a una “recente sentenza della Cassazione”. È insolito che il capo del governo faccia circolare, su una questione giuridica, dichiarazioni così ampie e dettagliate introdotte dalla formula semiufficiale “a quanto si apprende”. È ancora più insolito che una misura in materia penale venga sì presentata come iniziatica assunta “d’intesa col ministro della Giustizia”, senza però che il ministro stesso ne avesse mai lontanamente fatto cenno. Certo, si tratta di una mossa dal peso e significato innanzitutto mediatici: in vista della commemorazione di via d’Amelio, a Meloni serve uno scudo preventivo che la protegga da eventuali contestazioni. Ma dopo le frasi di Nordio sul concorso esterno, e nonostante il loro carattere assai più accademico che progettuale, è forte il rischio che l’esigenza di mostrarsi duri sulla mafia spinga il governo e il suo vertice a ulteriori iniziative “autonome” da via Arenula, fino a indebolire il guardasigilli anche rispetto ai dossier dei quali è diretto titolare, come il ddl penale tuttora al vaglio del Colle. Meloni cita, nella nota semiufficiale, la sentenza 34895 emessa dalla Suprema corte nel 2022. E spiega: “Si rende necessaria e urgente l’adozione da parte del governo di una norma di interpretazione autentica, che chiarisca una volta per tutte cosa debba intendersi per ‘ reati di criminalità organizzata’ ed eviti che gravi reati vadano impuniti per effetto dell’interpretazione di recente avanzata dalla Cassazione. L’intenzione, d’intesa col ministro della Giustizia”, puntualizza la presidente del Consiglio, “è di inserire questa norma in un decreto legge di prossima approvazione”. Nello specifico, gli ermellini avevano sancito, riguardo la possibilità di avvalersi delle intercettazioni, che, come ricorda la nota di Palazzo Chigi, “possono farsi rientrare nella nozione di delitti di ‘ criminalità organizzata’ solo fattispecie associative, comuni e non”. Con la conseguenza che “devono escludersi dal regime per essi previsti i reati di per sé non associativi, come un omicidio, ‘ per quanto commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416- bis c. p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dal suddetto articolo”. Secondo Meloni, la sentenza afferma “principi di carattere generale”, che “si prestano a ricadute molto pesanti per il nostro sistema e per la pubblica sicurezza”. Sulla giustizia, insomma, l’azione del governo, anziché partire dal ministro competente, pare concepita per smorzare le “pericolose” riflessioni di quest’ultimo. E che gli strumenti per contrastare la mafia rappresentino un nodo critico nei rapporti fa la premier, il suo partito e via Arenula, è suggerito anche da un altro episodio. Dopo le commemorazioni di via D’Amelio previste per domani ci sarà venerdì prossimo, sempre a Palermo, un evento organizzato direttamente da FdI: un convegno dal titolo “Parlare di mafia”, che trae ispirazione da una frase di Borsellino, al quale interverranno il primo consigliere giuridico di Meloni, ossia il sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano, il capogruppo di FdI alla Camera Tommaso Foti, il presidente dei senatori forzisti Lucio Malan e, con un videomessaggio, la stessa presidente del Consiglio. Non ci sarà Nordio. Del guardasigilli non è previsto neppure un intervento a distanza. Come se sull’argomento la visione del ministro fosse troppo eccentrica. È assolutamente plausibile che altri impegni avrebbero comunque impedito al titolare della Giustizia di essere nel capoluogo siciliano il prossimo 21 luglio. Ma c’è una sequenza di fatti che complicano di nuovo la relazione fra Nordio e il partito di maggioranza relativa, in particolare sul terreno dell’antimafia. Col rischio di consegnare sempre più l’ex procuratore aggiunto di Venezia al ruolo di guardasigilli “adottato” non dall’intera coalizione ma da un singolo partito di governo, Forza Italia, da enclaves centriste come Noi Moderati e Udc, che continuano a difenderlo su tutto, concorso esterno incluso, e dal Terzo Polo. Basta mettere a confronto altre dichiarazioni di ieri. Da una parte il meloniano Foti che, nel presentare il convegno di venerdì, scandisce: “Come abbiamo detto in tutte le lingue e in tutte le salse, non c’è alcuna previsione di modificare la legislazione antimafia se non in modo più punitivo di quanto oggi non già sia”. Non è esattamente quello che Nordio pensa del codice antimafia, e lascia ipotizzare, in materia, iniziative parlamentari non condivise con via Arenula. Dall’altra parte, nelle ore segnate dalla lettera di Marina Berlusconi sul Giornale, con il garantismo di FI scosso da un’emozione identitaria, non si possono trascurare né le frasi pro- Nordio di Antonio Tajani (riportate anche nell’intervista pubblicata su questo numero del Dubbio) né quelle del vicepresidente azzurro della Camera Giorgio Mulè, secondo il quale “tutta l’antimafia andrebbe revisionata”. Obiettivo opposto a quello dichiarato dal capogruppo di FdI Foti ma assai in sintonia con la visione di Nordio. A completare il quadro si può citare Raffaella Paita, coordinatrice di Italia viva e presidente del Terzo polo al Senato, che a proposito della lettera di Marina Berlusconi ribadisce: “È il momento di riformare davvero la giustizia, senza timidezze: Italia viva andrà avanti, ci assumeremo la piena responsabilità e ci metteremo il coraggio che ad altri sembra mancare”. E l’altra primissima linea di Iv Ettore Rosato rincara: “Nel programma del Terzo Polo ci sono le cose che sta dicendo Nordio da inizio legislatura”. Chiarissimo: è il disegno di uno scacchiere in cui Nordio finisce arruolato in un campo del quale né Meloni, né FdI né la Lega farebbero parte. Giustizia, Meloni annuncia un dl per placare le polemiche di Andrea Colombo Il Manifesto, 18 luglio 2023 La premier: una norma per chiarire cosa sono i reati di criminalità organizzata. Facile che, a sentirsi accusare ogni giorno di “ipergarantismo”, la premier in privato s’imbizzarisca. Nel consiglio dei ministri di ieri Giorgia meloni ha affrontato il capitolo giustizia, pur non all’ordine del giorno, ma solo per evitare che la recente sentenza della Cassazione sulla criminalità organizzata allenti le maglie in nome appunto delle garanzie. La premier è papale: “Si rende necessaria e urgente da parte del governo una norma che chiarisca cosa debba intendersi per ‘reati di criminalità organizzata’ e che eviti che gravi reati vadano impuniti per effetto dell’interpretazione della Cassazione”. In “accordo” con Nordio la materia sarà oggetto di un decreto a stretto giro. La sentenza in questione, pur riguardando solo le intercettazioni, ha valore globale e stabilisce che rientrano “nella nozione di delitti di ‘criminalità organizzata’ solo fattispecie criminose associative, comuni e non”. Traduzione: non c’è reato associativo senza un’associazione, né reato di criminalità organizzata senza appartenenza a un’organizzazione criminale. Anche qualora un’organizzazione possa avvalersi di quel crimine. Alla sedicente garantista di palazzo Chigi la sentenza pare un’enormità, sia in linea di principio sia per gli effetti che avrebbe sui processi in corso, nei quali il materiale probatorio è stato raccolto grazie all’uso molto estensivo degli strumenti di indagine consentito solo per la criminalità organizzata. Urge dunque un decreto che renda perseguibili anche i non associati e non organizzati. Altrimenti “rischiano di andare impuniti per un supposto vizio procedurale delitti della massima gravità”. Di sfuggita la presidente segnala anche che sulla base della sentenza verrebbe meno “il maggior rigore nella concessione dei benefici penitenziari”. Per lei, come per tutto il governo di destra, l’importante è che in galera si entri più facilmente e se ne esca molto difficilmente, non il contrario. C’è da scommettere che nessuno, dall’opposizione, stavolta la criticherà. C’è il caso anzi che ci scappi qualche applauso. Senza dubbio nell’urgenza con la quale il governo ha deciso di cancellare d’autorità una sentenza della Cassazione pesa l’imminente anniversario della strage di via D’Amelio. La premier ricorderà Paolo Borsellino partecipando al corteo organizzato da Fdi e vuole usare la commemorazione per far piazza pulita di ogni dubbio sulla sua passione per il massimo rigore. Certamente incidono anche le polemiche dei giorni scorsi, quelle che lei stessa ha in parte sedato spiegando a Nordio e al mondo che intervenire sul concorso esterno in associazione mafiosa non è necessario: “Mi concentrerei su altre urgenze”. Ma più di ogni altra cosa agiscono la sua naturale propensione e la sua visione politica, che per il garantismo possono nutrire solo massimo disprezzo. Su queste basi è molto difficile credere che miri davvero a una riforma di immensa portata come la separazione delle carriere. Probabilmente, fosse per lei, quel punto del programma Meloni lo lascerebbe parcheggiato ai box di partenza per l’eternità. Il problema è Forza Italia. Antonio Tajani, nella sua prima intervista da segretario del partito azzurro, ribadisce che “la priorità è la separazione delle carriere”. Cose che si dicono, certo, e del resto finché si resta alle parole anche la premier concorda. Ma a spingere Forza Italia c’è anche una voce, anzi un grido, che Tajani non può non ascoltare: quello di Marina Berlusconi, la donna che tiene Fi in vita. Ieri la primogenita di Berlusconi ha indirizzato al Giornale una lunga lettera, motivata dall’inchiesta di Firenze che ipotizza una manovra per far vincere a Forza Italia e al Polo le elezioni dopo le stragi mafiose del 1993. La difesa di suo padre contro chi avrebbe “un nuovo obiettivo chiaro: la damnatio memoriae” è appassionata ma dal punto di vista politico ancor più rilevante è l’atto d’accusa contro “un meccanismo diabolico, questa tenaglia pm-giornalisti complici, che rovina la vita ai diretti interessati ma anche condiziona, e nel caso di mio padre si è visto quanto, la vita democratica del Paese, avvelena il clima, calpesta i più sacri principi costituzionali”. Per l’erede “il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai”. Dunque, conclude Marina Berlusconi, “penso, e spero, che chi ha davvero il senso dello Stato debba fare qualche passo importante. Non dobbiamo, non possiamo rassegnarci”. È una chiamata alle armi e Forza Italia non potrà non ascoltarla. Cosa resta del vero Nordio? di Ermes Antonucci Il Foglio, 18 luglio 2023 Aveva promesso di cambiare la giustizia e invece la realtà ha fatto in modo di cambiare lui. Sono passati poco più di sette mesi da quando il Guardasigilli Carlo Nordio illustrò in Parlamento le sue linee programmatiche. Una rivoluzione garantista: riforma del processo in senso accusatorio, separazione delle carriere tra pm e giudici, rafforzamento della presunzione di innocenza, contrasto all’abuso della carcerazione preventiva, riforma delle intercettazioni, revisione dei reati contro la Pubblica amministrazione, pene alternative al carcere. Sono trascorsi sette mesi e di questo vasto programma è stato realizzato ben poco. A esser precisi nulla, se non un primo “pacchetto” di proposte. Ci riferiamo al primo pacchetto di riforme della giustizia promosso da Nordio e varato dal Consiglio dei ministri lo scorso 15 giugno, ora in attesa di essere trasmesso al Senato per la discussione parlamentare. Il termine “pacchetto” riflette il tenore delle riforme, molto limitate, contenute nel provvedimento. Cercando di essere sintetici, il testo prevede: l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, ma con la possibilità che nel corso dell’esame parlamentare, viste le resistenze della Lega e il rischio di violare alcuni obblighi internazionali, l’abolizione si trasformi nell’ennesima modifica del reato (dopo quelle del 1997 e del 2020); una maggiore tipizzazione del reato di traffico di influenze illecite; una modifica della disciplina delle intercettazioni che si limita alla sola questione della pubblicazione delle captazioni, senza intervenire sulle loro modalità di impiego e con un risultato finale comunque piuttosto deludente (ogni decisione sulla “rilevanza” delle conversazioni è rimessa alla discrezionalità di pm e giudici); la sostituzione del gip con un organo collegiale per l’adozione delle misure cautelari (l’entrata in vigore di questa misura è già posticipata - per il momento - di due anni, in attesa dell’assunzione di nuovi magistrati); il divieto per i pubblici ministeri di proporre appello contro le sentenze di assoluzione, ma solo quelle relative a reati di contenuta gravità (tecnicamente quelli per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio). Il testo nulla dice sul vero “elefante” nella stanza, vale a dire l’assenza di risorse finanziarie, umane e tecnologiche per velocizzare la macchina giudiziaria. Ora, questo pacchetto di modeste riforme non solo dovrà attraversare l’esame del Parlamento ed essere approvato, ma si colloca ben lontano dalla rivoluzione copernicana annunciata da Nordio sette mesi fa. Se questo è il passo, vien da chiedersi quale sarà il clima quando (e se) il Guardasigilli deciderà di intervenire con le riforme più radicali: la separazione delle carriere tra pm e giudici, la riforma del Csm, l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Tutte riforme che, per essere compiute, richiederanno modifiche di carattere costituzionale e quindi un consenso maggiore tra le forze politiche di maggioranza. Come se non bastasse, dopo aver riempito la struttura ministeriale di magistrati fuori ruolo, ha deciso che questi dovessero avere la preminenza anche nella commissione istituita per scrivere i decreti attuativi della riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario. La domanda sorge spontanea: dov’è il vero Nordio? Dov’è finito il Nordio di sette mesi fa, che di fronte a deputati e senatori elencava con lucidità i mali della giustizia italiana e ne illustrava una riforma a 360 gradi? L’ex magistrato sembra ormai essersi adagiato ai ritmi della politica contingente. Mal supportato dalla sua struttura tecnica - capeggiata dalla “zarina” Giusi Bartolozzi, formalmente vicecapo di gabinetto, sostanzialmente la donna dalle cui parole (e grida) tutto dipende - Nordio ha finito per ridurre il suo ruolo a quello di commentatore dell’attualità, evocando interventi e modifiche legislative, come quella sul concorso esterno in associazione mafiosa, poi puntualmente smentite dalla premier Meloni. Un ruolo non proprio all’altezza della sua statura intellettuale. Nordio diventa leader di FI, è il ministro l’arma segreta della strategia di Tajani di Giulia Merlo Il Domani, 18 luglio 2023 La grande sintonia tra Forza Italia e il ministro Nordio è una strategia in vista delle europee, dove il partito deve superare il 4 per cento e per farlo deve puntare a un nuovo elettorato. Nordio, infatti, l’unico membro del governo a godere di consensi anche nell’opposizione, in particolare nel terzo polo. Quello che sembrava l’ennesimo inciampo comunicativo sta invece trasformando il ministro Carlo Nordio nel nuovo riferimento politico di Forza Italia. Una torsione forse insperata, ma le sue dichiarazioni sulla necessità di modificare il concorso esterno in associazione mafiosa, bollate come una “non priorità” da parte di Fratelli d’Italia e della premier Giorgia Meloni, stanno diventando un nuovo cavallo di battaglia per gli azzurri. Con il risultato di un doppio beneficio: non esistono proposte di legge di “tipizzazione” del reato, quindi a oggi la discussione rimane puramente teorica e senza effetti concreti che potrebbero incrinare la tenuta dell’esecutivo, ma il tema mette insieme tutte le anime di Forza Italia ed è stato benedetto indirettamente anche da Marina Berlusconi, che nella sua lettera al Giornale ha attaccato le tesi della magistratura sulle presunte collusioni del padre con la mafia stragista. Proprio questo ne fa il perfetto totem di questa delicatissima fase politica del partito che, come ha detto il neosegretario Antonio Tajani nel suo discorso di insediamento, deve ritrovare la spinta e una precisa caratterizzazione anche tematica dopo la tragica scomparsa del fondatore Silvio Berlusconi. E quale argomento migliore della tipizzazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, soprattutto se viene portato avanti dal ministro della Giustizia scelto personalmente da Giorgia Meloni e fatto eleggere nelle sule liste. E pazienza se la premier ha dovuto stoppare bruscamente ogni ipotesi di riforma, vista anche l’infelice concomitanza della polemica con la commemorazione del 19 luglio in ricordo della strage di via d’Amelio, a cui la premier, che considera Paolo Borsellino uno dei suoi principali riferimenti culturali, ha già detto che parteciperà, come ogni anno. Anzi meglio: sostenendo la proposta di Nordio Forza Italia sta riuscendo a ritagliarsi una posizione autonoma all’interno della maggioranza e a guadagnare un ruolo nel dibattito pubblico, essenziale per cercare di sopravvivere elettoralmente in vista delle europee del 2024. Basta l’abile equilibrismo di specificare sempre che la riforma “non è una priorità, ma...”. Difficile che questa strategia non sia concordata anche con Meloni, che ha in Tajani un fidato viceministro e un filo diretto con Marina Berlusconi. La premier, infatti, ha bisogno che FI rimanga in vita in ottica di dinamiche politiche europee ma anche come gruppo cuscinetto nella maggioranza e per questo serve che non scenda sotto la soglia di sbarramento del 4 per cento alle prossime elezioni. La strategia di allargamento - Del resto non è un mistero che l’ex magistrato Carlo Nordio goda di larga stima tra le file dei forzisti. Berlusconi certo gli avrebbe preferito Elisabetta Casellati, ma la linea dell’attuale guardasigilli è perfettamente compatibile con le storiche posizioni di Forza Italia in materia di giustizia, dalla lotta alle intercettazioni agli attacchi alle frange della magistratura considerate politicizzate, fino alla separazione delle carriere. Nordio stesso si è sempre definito un “liberale” e le promesse di “rivoluzione liberale” sono state parte del lessico berlusconiano. Anche il rivendicato “garantismo” del ministro si avvicina più a Forza Italia che alle posizioni di Fratelli d’Italia. Una vicinanza che al ministero, spiegano fonti interne, si traduce in una sintonia tra Nordio e il viceministro Francesco Paolo Sisto (FI). Mentre con il sottosegretario meloniano Andrea Delmastro, scelto da FdI proprio con la missione di frenare le iniziative del ministro e oggi azzoppato dopo il rinvio a giudizio per rivelazione di segreto per i verbali del Dap sull’anarchico Alfredo Cospito, il rapporto è più “freddo”. Non solo, più di una delle storiche battaglie del guardasigilli sono già diventate proposte di legge di Forza Italia: l’ultima in ordine di tempo è quella sull’introduzione del sorteggio temperato per eleggere i consiglieri togati del Csm. Tesi perorata dal Nordio giurista, oggi è un ddl in discussione in commissione Giustizia al Senato e presentato dall’azzurro Pierantonio Zanettin. Proprio questa sintonia può trasformare il ministro nella migliore arma di Forza Italia per mettere in atto la strategia di allargamento promossa da Tajani: aprirsi, rubando spazio politico e insidiando l’elettorato del centrosinistra composto da “moderati, riformisti e garantisti. Tanti elettori del Pd, ex democristiani e socialisti, che non si riconoscono più”. Nordio infatti è l’unico ministro dell’esecutivo a spaccare il fronte dell’opposizione, godendo di simpatie esplicite da parte di Azione e Italia viva, che anche sul concorso esterno sono rimasti in silenzio. “Nel programma del terzo polo ci sono le cose che sta dicendo Nordio dall’inizio della legislatura”, ha certificato ieri a La7 il renziano Ettore Rosato, che ha smentito voci di un suo imminente ingresso in Forza Italia. A dimostrazione che FI e Iv siano vicinissimi sul tema della giustizia è stata anche la coordinatrice di Iv, Raffaella Paita, che ieri ha apprezzato pubblicamente la lettera di Marina Berlusconi al Giornale: “Ha ragione quando parla di guerra dei trent’anni con la magistratura” e “ha ancora ragione quando parla di damnatio memoriae da parte della procura di Firenze. È il momento di riformare davvero la giustizia”. Un segnale forte agli azzurri ma anche a Nordio. Più concretamente il prossimo terreno di convergenza sarà la prescrizione. Nordio si è detto favorevole a modificarla, smantellando quindi un altro pezzo della riforma Cartabia approvata nella precedente legislatura, e nei prossimi giorni arriverà in commissione alla Camera il testo base. A presidiare il tema con una sua proposta di riforma c’è il deputato di Azione, Enrico Costa, e sono in corso interlocuzioni per arrivare a un testo unica con gli altri due testi presentati dalla maggioranza. L’obiettivo: ritornare alla prescrizione pre-Bonafede (che l’ha fermata al primo grado) e smantellare la riforma Cartabia nella parte in cui introduce la prescrizione processuale in appello e Cassazione (che si traduce nell’improcedibilità nel caso in cui i processi durino più di due anni in secondo grado e uno in terzo). Uno dei possibili effetti potrebbe essere il ritorno alla prescrizione per come introdotta dalla legge Orlando, mettendo quindi in difficoltà anche il Pd. Il concorso esterno è un reato serio anche se Nordio fa il gioco delle tre carte di Giancarlo Caselli La Stampa, 18 luglio 2023 Il ministro della Giustizia lo definisce “un ossimoro” e Meloni pensa ad altro ma così dimezza l’Antimafia. Borsellino ha combattuto fino alla morte questo scempio, lui ora direbbe “c’è puzzo di compromesso”. Il 19 luglio ricorre l’anniversario della morte di Paolo Borsellino e dei poliziotti che erano con lui in via d’Amelio: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi, una delle primissime donne assegnate a un servizio di scorta. Questa orribile strage va ricordata per il clamoroso depistaggio che ha impedito a lungo un regolare processo, ma anche per il “pessimo affare” (copyright G. Bianconi) realizzato da Riina, facendo seguire all’attentato contro Falcone - dopo neanche due mesi e forse persino accelerandone l’esecuzione - quello contro Borsellino. È la storia del 41 bis, norma prevista da un decreto legge varato dal Consiglio dei ministri l’8 giugno 1992, dopo Capaci, che scatenò una campagna ostile (contestazioni di avvocati penalisti e detenuti in rivolta), sicché la conversione in legge del decreto procedeva a rilento. Quando i tempi stavano ormai per scadere, solo dopo l’autobomba di via d’Amelio il Parlamento, a tappe forzate, riuscì a convertire il decreto in legge. Così, isolati e privati della forza del gruppo, i mafiosi si pentirono in massa e per Cosa nostra fu un grave problema. Effetto nefasto per Riina, il quale - riveleranno alcuni collaboratori - ripeteva che si sarebbe giocato anche i denti, volendo dire una cosa preziosa, per far cancellare legge sui pentiti e 41 bis. Quest’anno però la ricorrenza ha rischiato e rischia di essere avvelenata dalle polemiche innescate da quel misto di Marchese del Grillo e don Chisciotte che a volte sembra voglia essere il Guardasigilli Nordio. Che contro il concorso esterno in associazione mafiosa si è esibito in ripetute esternazioni stupefacenti, sostenendo che si tratterebbe di un ossimoro perché “o si è esterni, e allora non si è concorrenti, o si è concorrenti e allora non si è esterni”. Quasi fosse il gioco delle tre carte, mentre la realtà è ben diversa: associati sono solo i “punciuti”, coloro che si autoproclamano uomini d’onore e giurano all’associazione un vincolo per la vita; i soggetti non associati che pongono in essere attività utili ai mafiosi doc - di solito uno scambio di “favori” illeciti - sono invece concorrenti esterni, puniti in base all’articolo 110 (che disciplina il concorso di persone in qualunque reato) e 416 bis (associazione mafiosa). Quindi nessun ossimoro, ma semmai logica e buon senso imperniati sulla conoscenza di fatti concreti e sulla storia della mafia. È appunto nelle “relazioni esterne” l’architrave del potere mafioso, che proprio grazie ad esse impesta il nostro Paese da un paio di secoli, costringendo un intero popolo a subire infamie tremende che ne sfigurano la dignità. Contro questo scempio ha combattuto fino al sacrificio Paolo Borsellino. È allora evidente che sostenere - come fa il ministro Nordio - che il reato di concorso esterno non compare nel codice penale ma è un reato (questo sì è un ossimoro!) evanescente da rimodulare, rischia di depotenziare l’antimafia ricucendola al contrasto dell’ala militar-gangsteristica, risparmiando i “galantuomini” che le assicurano coperture, complicità e collusioni e quindi buona e lunga vita. Un’antimafia a dir poco dimezzata, che di certo Borsellino avrebbe denunziato come un arretramento impregnato di quel “puzzo di compromesso morale, indifferenza e complicità - sono sue parole - che è la negazione di ogni seria e responsabile lotta alla mafia”. È vero. La premier Giorgia Meloni è intervenuta sul concorso esterno dicendo: “Comprendo benissimo sia le valutazioni del ministro Nordio, sempre molto precise, sia le critiche che possono arrivare, però mi concentrerei su altre priorità”. Nordio si è subito allineato, ma ci tiene a rimarcare che sono vent’anni che studia il problema (tanto ci è voluto per partorire l’ossimoro). Sarò incontentabile, ma a me sembra che Nordio ne esca non con la bocciatura secca che avrebbe meritato un vero e convinto sostegno dell’antimafia, ma con un semplice invito a posporre ad “altre priorità” l’attuazione delle sue “precise valutazioni”. Tanto più che a favore di Nordio si sono schierati big della maggioranza come Guido Crosetto e Antonio Tajani. Sempre nella maggioranza, poi, sono con Nordio tutti gli orfani di Berlusconi, fedeli al “verbo” che il Cavaliere aveva rivelato in due interviste del 4 settembre 2003 alla Voce di Rimini e al periodico inglese The Spectator, cioè che “a Palermo la nostra magistratura comunista, di sinistra, ha creato un reato, un tipo di delitto che non è nel codice; è il concorso esterno in associazione mafiosa”, (forse era preoccupato per il processo all’amico Marcello dell’Utri, condannato con sentenza definitiva a sette anni di reclusione, proprio per il reato che non esiste…). Purtroppo, dunque, la vicenda non può dirsi conclusa. Giustizia tributaria, la riforma e quel cortocircuito tutto italiano di Paolo Pandolfini Il Riformista, 18 luglio 2023 Il Mef gioca una “doppia partita”: così si crea una maxi-direzione generale Il giudice tributario avrebbe fortemente bisogno di essere terzo e imparziale. “La riforma della giustizia tributaria è arrivata prima della tanto attesa riforma fiscale di cui si parla ormai da decenni e che invece avrebbe dovuto precorrerla”. A dirlo è Antonio Leone, presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, l’organo di autogoverno dei circa 2700 giudici tributari che sono chiamati quotidianamente a decidere un contenzioso che vale almeno due punti di Pil. La giurisdizione tributaria, pur non occupando le prime pagine dei giornali, ha il l’importante compito di bilanciare le pretese impositive dello Stato con il diritto dovere del cittadino di contribuire alla vita del Paese. “La riforma del Fisco è quanto mai necessaria. In primo luogo, per assicurare l’intellegibilità ed applicabilità della norma tributaria da cui, a seguire, dipende la deflazione del contenzioso”, prosegue Leone. La metà dei ricorsi del settore civile in Cassazione sono infatti incardinati proprio presso la Sezione tributaria di Piazza Cavour. Fino a poco tempo fa il loro numero aveva raggiunto l’incredibile cifra di 50mila. Al momento il testo della riforma fiscale è stato approvato dalla Camera e si trova all’esame del Senato. Salvo imprevisti, considerati anche i necessari decreti attuativi, la riforma del Fisco dovrebbe entrare in vigore a partire dal prossimo gennaio. Lo scorso fine settimana, però, il vicepremier Matteo Salvini ha provato a ributtare la palla in tribuna, ipotizzando l’introduzione della “pace fiscale”. Una modifica che stravolgerebbe molte parti del testo già approvato il quale prevede norme per nulla “pacifiche”. L’articolo 16 della riforma, ad esempio, prevede la possibilità di pignorare automaticamente i conti correnti degli evasori. Discorso diverso - come detto - per la riforma della giustizia tributaria, approvata lo scorso anno alla vigilia di Ferragosto, con le Camere sciolte e con il dibattito solo al Senato per rispettare le tempistiche del Pnrr. La riforma, che ha introdotto il giudice professionale, non ha risolto il problema principale che affligge da sempre questa giurisdizione speciale: la dipendenza dal Mistero dell’economia e delle finanze. Il Mef gioca una “doppia partita” nel processo tributario in quanto dal dicastero di via XX Settembre dipendono sia i giudici tributari che le varie Agenzie fiscali. Un cortocircuito che non esiste in nessun altro Paese europeo e che crea problemi di indipendenza dei giudici, che devono “giudicare” gli atti del proprio datore di lavoro, almeno sotto il profilo dell’apparenza. L’autonomia dal Mef nella riforma non c’è stata e, anzi, la sua presenza è sempre più ingombrante con la creazione di una maxi-direzione generale. Eppure la materia curata dal giudizio tributario, particolarmente complessa, richiede conoscenze ulteriori rispetto alle altre materie, civile, amministrativo e contabilità dello Stato, ed è estranea anche alla cultura giuridica generalista. Ecco perché il giudice tributario avrebbe fortemente bisogno di essere ed apparire terzo ed imparziale, anche in ossequio all’articolo 111 della Costituzione. Numerosi sono, invece, gli indicatori della apparente non indipendenza degli attuali e futuri giudici e magistrati tributari. Oltre all’inquadramento ordinamentale dei giudici in capo al Mef, anche il personale delle Corti tributarie dipendente sempre dal Mef e non è gerarchicamente “utilizzabile” da parte dei giudici. L’erogazione e la gestione dei mezzi finanziari per il funzionamento delle Corti dipendono, poi, dall’amministrazione finanziaria e manca un ruolo autonomo degli amministrativi del Consiglio di presidenza, a differenza di quanto avviene per il Csm. Il Cpgt aveva fatto in passato una proposta, non andata in porto, di trasferire la giurisdizione tributaria sotto la Presidenza del consiglio dei ministri. L’unica novità positiva riguarda il recente avvio della Scuola superiore della magistratura tributaria per assicurare una offerta formativa stabile ai giudici tributari. La Scuola superiore (la scorsa settimana è stato nominato il suo Comitato scientifico) si avvarrà della collaborazione delle Università con le quali già in passato sono stati avviati diversi protocolli d’intesa. Una menzione, infine, per il progetto Prodigit sulla giustizia predittiva che andrà ad affiancarsi all’Ufficio nazionale del massimario. Il progetto, da terminare entro l’anno, ha l’obiettivo di aumentare il livello di digitalizzazione, creando un modello sperimentale di miglioramento della prevedibilità delle decisioni (cd “giustizia predittiva”). Grazie all’algoritmo sarà creata una banca dati di giurisprudenza che costituirà un unicum nel panorama delle giurisdizioni italiane poiché non esiste oggi una banca dati pubblica e gratuita contenente l’intera giurisprudenza di merito nazionale. Questo strumento consentirà di divulgare i contenuti delle sentenze, far conoscere al pubblico gli orientamenti delle Corti e alla Cassazione i dettagli e le dimensioni del contenzioso di merito, migliorare la qualità delle sentenze. Aveva ragione Cossiga: per riformare la giustizia voleva mandare i carabinieri al Csm di Giuliano Cazzola huffingtonpost.it, 18 luglio 2023 Le misure proposte da Carlo Nordio riguardano essenzialmente la condotta delle procure e tendono a colpire quegli abusi che non riguardano l’esigenza di “fare giustizia”. Aveva ragione Francesco Cossiga: per riformare la giustizia voleva mandare i carabinieri al Csm. Del resto, sia pure a parti invertite è quanto suggerisce da tempo Piercamillo Davigo. “Non è più semplice mandare un ufficiale di polizia giudiziaria sotto copertura - ecco la proposta del Grande Inquisitore - a partecipare a una gara d’appalto e quando qualcuno la vincerà, dicendo “tu questa gara non la devi vincere” lo arresta, così facciamo prima?”. Si potrebbe mandare quell’ufficiale in qualche palazzo di Giustizia con l’incarico di arrestare il procuratore o il suo sostituto quando iniziano una indagine palesemente strumentale e infondata. Prendiamo il caso delle bombe di mafia del 1993. La procura di Palermo ci ha costruito sopra la telenovela della “trattativa tra Stato e mafia”, ha perseguitato dei civil servant riconosciuti integerrimi a decenni di distanza, è arrivata a chiamare in causa i vertici delle istituzioni repubblicane, ha nutrito un’abbondante letteratura dei professionisti dell’antimafia, ha avuto a disposizione ore di comparsate televisive in cui venivano presentati alla stregua di San Giorgio che infilza il dragone: tutto questo fino a quando un giudice terzo non ha fatto cadere in via definitiva quella montatura. Eppure i protagonisti di quella pagliacciata, magari impegnati in altri ruoli, insistono nelle loro versioni e trovano settori di opinione pubblica che continuano ad appoggiarli e partiti pronti a portarli in Parlamento a sostenere, da legislatori, i loro teoremi. Perché le bombe e la trattativa? Cosa nostra - è lo spunto per l’indagine di Palermo - intendeva ricattare lo Stato allo scopo di ottenere una revisione dell’articolo 41 bis per i mafiosi al “gabbio”. Su questa medesima vicenda criminale la procura di Firenze insiste, nonostante le smentite, su di un’altra ricostruzione. Le bombe del 1993 le avrà pur messe la mafia, ma per ordine di Silvio Berlusconi che si preparava a scendere in campo e che si faceva precedere dai fuochi d’artificio. L’intermediario era Dell’Utri il quale - essendo stato condannato, anni dopo, per concorso esterno in associazione mafiosa - costituisce una prova di per sé accertata. Oggi il bersaglio del giustizialismo e dei suoi prosseneti è divenuta la riforma presentata da Carlo Nordio che è oggetto di un bombardamento continuo e implacabile, senza che il ministro abbia le spalle coperte dalla sua stessa maggioranza. La violenza della controffensiva sta creando molti ripensamenti, perché quello giustizialista è un fronte trasversale che trova udienza anche in forze importanti della maggioranza, perché sono tanti i partiti che si sono serviti del combinato disposto procure-gogna mediatica per attaccare gli avversari. Pertanto le procure vantano crediti molto diffusi - e come è emerso in tante occasioni, anche recenti - non esitano a presentarli alla riscossione quando è opportuno. Non ho molta fiducia sul fatto che questa sia la volta buona, ma bisognerebbe cominciare a mettere le cose in chiaro: il problema della giustizia in Italia è quello delle procure, che, come ha scritto Sabino Cassese, giurista insigne, ex ministro, giudice emerito della Corte Costituzionale - sono divenute un “quarto potere”, in violazione di quella Costituzione che oggi dicono di voler difendere. “Quello che la Costituzione definisce “ordine” è divenuto “potere”. Al compito di dare giustizia si affianca quello di predicare le virtù. In conclusione, l’ordine giudiziario ha acquisito un ruolo diverso da quello prefigurato nella Costituzione”. Il settore problematico della magistratura è quello delle procure, ovvero della magistratura inquirente, perché quella giudicante è certamente più equilibrata - anche se arriva con troppo ritardo - come si vede osservando le sentenze che demoliscono i teoremi delle procure. Ma questa “terziarietà” deve essere garantita dalla separazione delle carriere. “Solo l’ordine giudiziario e solo a mezzo di un processo può dichiarare un accusato colpevole. Questo principio - ha scritto ancora Cassese - è stato travolto in Italia dall’affermazione di quello che può chiamarsi un vero e proprio quarto potere, le procure”. Secondo il giurista, quindi, i pm non si limitano a costruire l’accusa, ma giudicano prima del processo. Vogliamo approfondire come avviene quest’abuso di potere? Ce lo spiega Luciano Violante, una personalità al di sopra di ogni sospetto, in una intervista al Foglio sulla finzione dell’obbligatorietà dell’azione penale, che a suo avviso “offre ai magistrati la possibilità di concentrarsi su reati evanescenti per concentrarsi più sulle persone da indagare che sui reati da dimostrare”. Per il presidente della ANM Giuseppe Santalucia l’obbligatorietà dell’azione penale rimane un presidio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e sarebbe messa in discussione proprio dalla separazione delle carriere. Violante ha poi descritto come funziona: “Si usa un’ipotesi di reato non ben limitata, si apre un’indagine sulla persona, si cerca tutto ciò che in una persona possa essere considerato rilevante dal punto di vista della morale oltre che del penale e si usa il circo mediatico per dare legittimità alla propria azione”. Le misure proposte da Carlo Nordio riguardano essenzialmente la condotta delle procure e tendono a colpire quegli abusi che non riguardano l’esigenza di ‘fare giustizia’. Nessun ufficio giudiziario ha mai indagato sul traffico di veline tra le procure e i cronisti giudiziari, perché è un passaggio fondamentale dello sputtanamento pre-giudiziale che è di per sé una condanna che dura per l’intero calvario dell’iter processuale. Un altro grande penalista, Filippo Sgubbi (nel suo saggio: “Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi” edito da Il Mulino nel 2019) ha reso ancor più evidente la stortura di un diritto penale divenuto “totale” perché è penetrato in tutti gli aspetti del vivere civile. Ne deriva - secondo Sgubbi - che nei processi penali le prove non si limitano ad applicare il sillogismo classico dell’illiceità, confrontando il comportamento specifico dell’imputato con la norma di carattere generale, ma la ricerca verte anche sull’esistenza o meno della illiceità ovvero di una norma che sanzioni quel comportamento. E se non esiste la si crea ex novo. È il caso di incriminazioni non di origine legislativa ma giurisprudenziale, tra le quali spicca il c.d. concorso esterno nei reati associativi “ove l’imputato potrà apprendere solo dal dispositivo della sentenza - e quindi ex post - se la propria condotta rientra o meno in tale figura”. La giurisprudenza - che dovrebbe limitarsi a decidere sul caso concreto - è divenuta, impropriamente, non solo fonte del diritto, ma persino creatrice della norma, al posto e in sostituzione del potere legislativo. Eppure tutti se la sono fatta sotto quando Nordio si è spinto fino a preconizzare l’abolizione di questa fattispecie di reato. Ma si può abrogare una norma che nessuna legge ha mai previsto? Magistrali sono poi le considerazioni tratte da Filippo Sgubbi sulla pretesa uguaglianza dei cittadini che sarebbe salvaguardata, secondo il presidente Santalucia, dall’obbligatorietà dell’azione penale in barba al principio che “ad impossibilia nemo tenetur”. “Si staglia, poi, nel contesto di una giustizia penale sempre più avulsa dalle sue finalità, la fattispecie della responsabilità penale senza colpa (dal binomio innocente/colpevole si passa al binomio puro/impuro). In sostanza, il reato è diventato una colpa per talune categorie sociali: non nel senso tradizionale di uno specifico fatto - sostiene Sgubbi - commesso da una persona e connotato da colpevolezza, bensì come un male insito nell’uomo e nel suo ruolo nella società. Il reato e la colpa sono uno status che precede la commissione di un fatto. Assomiglia, per gli “impuri”, al peccato originale. Non si tratta di una colpa generale inerente alla persona umana come tale, ma è legata al ruolo sociale ricoperto o alla tipologia dell’attività che svolge nella vita (in particolare, la politica, ndr). Così talune categorie sociali sono “pure” per definizione e prive di colpa. Gli appartenenti ad altre categorie, invece, dovranno dimostrare la loro contingente ed episodica purezza (un innocente - secondo la dottrina Davigo - è solo un colpevole che l’ha scampata); cioè saranno costretti a provare che in quella circostanza eccezionalmente non gli sarebbe potuto essere imputare nulla. Cassese: “I giudici reclutati dal governo hanno un ruolo politico” di Stefano Bigolaro Il Dubbio, 18 luglio 2023 “Trovati un maestro”, è un suo consiglio ai giovani. Sabino Cassese, maestro, lo è attraverso le generazioni. Per gli studenti, per i lettori, per noi avvocati amministrativisti, e non solo. Per chi entra a contatto con il mondo delle amministrazioni pubbliche (e nella categoria ci siamo un po’ tutti). Un maestro a livello collettivo: un intellettuale con cui confrontarsi sui punti nevralgici del nostro ordinamento. Tra questi, vi è certamente l’assetto attuale della giustizia amministrativa. Un “potere assoluto”, si è detto. Comunque un mondo a sé, fondamentale e un po’ esoterico. Professor Cassese, nel nostro ordinamento se una controversia riguarda un potere pubblico il giudice non è quello ordinario ma quello amministrativo. Insomma, c’è un dualismo di giurisdizioni. Ma la magistratura amministrativa, come struttura, deve essere indipendente rispetto ai poteri che giudica? Abbiamo ereditato il modello francese, quello dualistico. È un lascito dello statalismo dei cugini d’oltre Alpe. Con una differenza: in Italia, il giudice posto al vertice è la Corte di cassazione, in Francia il Tribunale dei conflitti, composto a metà di giudici amministrativi e a metà di giudici ordinari. Dunque la correzione italiana va nel senso del monismo. La magistratura amministrativa ha il suo organo di garanzia, che funziona bene e garantisce indipendenza e imparzialità. Tuttavia, permane la funzione consultiva del Consiglio di Stato e permane l’utilizzazione di magistrati amministrativi, dei due livelli, quali consiglieri di organi esecutivi. Quest’ultimo accorgimento presenta vantaggi, perché porta nell’amministrazione l’esperienza plurima dei magistrati, ma anche l’inconveniente di costituire un’eccezione al principio di imparzialità e di indipendenza. La funzione consultiva del Consiglio di Stato si estende agli atti normativi. Anzi, qualche volta leggi fondamentali - ad esempio, il codice dei contratti pubblici - sono scritte direttamente dal Consiglio di Stato. Non è un problema se un giudice scrive le norme che poi è chiamato ad applicare? Il problema presenta due aspetti. Innanzitutto quello dell’indipendenza di un organo giudicante che collabora alla stesura delle leggi. Apprezzo molto l’esperienza francese nella quale il Consiglio di Stato si è impegnato a fondo in quest’opera, iniziando, con quel grande giudice che è stato Guy Braibant, la codificazione a diritto costante del diritto francese. Si tratta di una operazione che ha visto impegnati il capo del governo, il Conseil d’État e le amministrazioni interessate, quindi con una stretta collaborazione tra specialisti di settore e generalisti dell’organo giudiziario. Il secondo problema riguarda l’attitudine dei consiglieri di Stato come redattori di norme. Purtroppo, quello che fanno negli uffici legislativi dei ministeri e nei loro gabinetti, fa propendere per un giudizio critico. Le sentenze vanno scritte con uno stile completamente diverso dalle norme. Scrivendo la sentenza, il giudice risponde agli argomenti delle parti. Questo non è il caso delle norme. La principale ragione per cui le leggi italiane sono scritte malissimo deriva proprio dalla incapacità dei magistrati amministrativi di spogliarsi di quella veste, quando redigono norme. Un altro elemento legato al ruolo storico del Consiglio di Stato è la nomina di un quarto dei suoi componenti da parte del governo. Non sarebbe meglio, ad evitare ogni ipotesi di condizionamento, eliminare questo potere di nomina? Questa che appare un’anomalia, ha tuttavia funzionato bene. Escludere la nomina governativa potrebbe significare l’inizio della trasformazione della giustizia amministrativa. Può essere utile fare il primo passo, purché si sappia qual è il percorso successivo, se un modello di tipo inglese (un apparato unico) o un modello di tipo tedesco (più apparati, ciascuno dotato di autonomia e indipendenza). Ma c’è una magistratura amministrativa unitaria, o prevale la diversità - anche di funzioni - tra giudici Tar e consiglieri di Stato? Diversità di funzioni e anche di preparazione dei magistrati possono essere anche utili perché accentuano il pluralismo, a condizione che vi sia una traiettoria condivisa, perché, come scrisse all’inizio della storia del dualismo francese un noto magistrato, “giudicare l’amministrazione è anche amministrare”. Da sempre ai consiglieri di Stato sono conferiti incarichi extragiudiziari dal potere esecutivo. Alcune cautele sono ora previste nella legge 71/ 2022, che però è una legge delega (e l’attuazione, da giugno di quest’anno, è stata rinviata a fine 2023). Ma gli incarichi extragiudiziari possono incidere sull’indipendenza del giudice amministrativo? Non c’è dubbio che questa costituisca un’anomalia nell’ambito della separazione tra amministrazione e giurisdizione sull’amministrazione. Tuttavia, va anche considerato l’altro aspetto. Le amministrazioni pubbliche in questo momento sono debolissime per carenze di vertice, perché lo spoil system, introdotto da governi del centro sinistra alla fine del secolo scorso, ha prodotto guasti gravissimi. Dunque dei giudici amministrativi che suppliscono alle carenze dell’amministrazione attiva come capi di gabinetto o in altre delle molte funzioni che si svolgono nella gestione dell’amministrazione, c’è bisogno. Forse si può distinguere tra gli incarichi, ad esempio, tra essere capo di gabinetto o capo ufficio legislativo? Inutile nascondersi la realtà. Al di là delle funzioni, che possono essere diverse, i magistrati chiamati a collaborare con l’esecutivo, nei molteplici ruoli, svolgono nello stesso tempo un ruolo politico e gestionale. Come ho già detto, della loro presenza c’è bisogno, anche se costituisce un’anomalia nell’ordine della Repubblica. I giudici amministrativi sono un po’ un mondo a parte. E il Cpga è una sorta di Csm di quel mondo. C’è il rischio dell’autoreferenzialità? Finché permane la struttura dualistica del sistema giudiziario, può essere persino utile quella rigida separazione, anche perché la scuola della magistratura ordinaria è prigioniera del “piccolo mondo antico” della magistratura ordinaria: basta vedere gli insegnamenti che si impartiscono, le persone che sono invitate a tenere corsi, l’attenzione per i problemi dell’efficienza della giustizia, e così via. I componenti “laici” del Cpga sono scelti da Camera e Senato senza alcuna consultazione. L’effetto è che chi entra nel Cpga non conosce quel mondo. Non sarebbe preferibile un coinvolgimento dell’avvocatura nelle sue strutture rappresentative? Il pluralismo delle provenienze in organi collegiali di quel tipo farebbe benissimo, anche per evitare eccessivo spirito di corpo. Un terzo di tutti i ricorsi ai Tar va al Tar Lazio, che ha una propria competenza funzionale su numerose materie. Perché - accanto alla competenza territoriale dei Tar - c’è anche la competenza funzionale? La competenza funzionale del Tar Lazio è semplicemente il riflesso del residuo centralismo del nostro sistema amministrativo. Ma questo sta persino riprendendo quota, perché le Regioni non hanno capito che devono uscire dalla strettoia dei rapporti Stato- Regioni per costruire una Repubblica regionale, ciò che comporta una collaborazione orizzontale tra le regioni. Un piccolo indicatore di questa miopia e scarsa ambizione delle Regioni è stato fornito durante la pandemia, quando malati delle regioni del Nord sono stati accolti in ospedali tedeschi. Ci si è chiesti se non c’erano ospedali italiani in altre regioni? È giusto - per migliorarne la produttività - far aiutare i giudici amministrativi da personale non giudiziario (sul modello anglosassone del “clerk”)? Negli ultimi anni ci si è resi conto che il “clerk” può essere utile a tutti i livelli e l’esperienza iniziata, per quanto ne so, è positiva. Dunque, c’è bisogno di qualcosa di più di un cancelliere, c’è bisogno di un assistente, che raccolga i precedenti, sappia scegliere i contributi della cosiddetta dottrina, sia funzionale all’attività del giudice. In conclusione: il sistema attuale della giustizia amministrativa, frutto di una lunga storia, può ritenersi adeguato al rinnovato art. 111 Cost. sul giusto processo e all’obbligo di garantire la parità tra le parti? In larga misura non è adeguato, ma per adeguarlo occorrerebbe maturare un disegno che non riesco a vedere nella cultura giuridica e tantomeno in quella politica; e, poi, essere capaci di realizzarlo, e la capacità di realizzazione manca ancora di più della capacità di formulare nuovi disegni organizzativi. Un processo penale immortalato. Registrazione video e audio di tutte le fasi del procedimento di Antonello Martinez Italia Oggi, 18 luglio 2023 Dal 30 giugno introduzione, teoricamente obbligatoria, della registrazione video e audio di tutte le fasi del procedimento penale. Si tratta di una novità della riforma Cartabia, rilevante sia per gli inquirenti che per i difensori. Abbandonato l’arcaico metodo di trascrizione riassuntiva della verbalizzazione ad opera di cancellieri, funzionari di polizia, si apre il campo alle nuove tecnologie video/audio che in tempo reale consentono di trascrivere tutto con la certezza che non venga persa una sola battuta. Questa innovazione quindi non solo riduce in modo assoluto i tempi ma va ad assicurare anche la vera applicazione di quelli che sono i cosiddetti diritti fondamentali dei soggetti coinvolti nel processo. Basti pensare ad esempio ad un interrogatorio di una persona indagata laddove potranno essere colte anche le minime sfumature delle dichiarazioni rese e si ridurranno in modo esponenziale tutte le varie interpretazioni sia da parte dell’accusa che della difesa. Le nuove regole si articolano prevalentemente su due livelli. Da un punto di vista generale operano le previsioni dell’articolo 134 c.p.p. che configura unitamente al verbale la fonoregistrazione e la videoregistrazione come le ordinarie forme di documentazione degli atti. Il terzo comma della norma prevede l’obbligatorietà della fono o videoregistrazione quando il verbale sia redatto in forma riassuntiva, o quando la redazione in forma integrale sia ritenuta insufficiente per le caratteristiche del caso concreto. Viene quindi abrogato il quarto comma che consentiva la riproduzione audiovisiva solo in casi eccezionali. Il progresso tecnologico cambia così l’assetto codicistico in materia di documentazione degli atti processuali, superando il modello della verbalizzazione cartacea. Ma c’è un ma. In ogni parte della riforma viene ribadito il concetto “fatta salva l’indisponibilità della strumentazione”. Non solo. Altro elemento di preoccupazione è la totale assenza di sanzioni nel caso in cui non siano disponibili le attrezzature atte alla riproduzione audio e video (capita ancora oggi di assistere alla verbalizzazione manuale di una deposizione perché il computer in dotazione non funziona o addirittura l’unica macchina da scrivere disponibile è rotta). Una riforma importante, dunque, che rischia però di rimanere lettera morta. Irrilevanza delle attenuanti a effetto speciale per la messa alla prova, la Consulta sollecita il legislatore di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2023 L’effetto di ridurre il massimo edittale non è consentito nella fase che precede l’accertamento concreto della diminuzione di pena. La Corte costituzionale - con la sentenza n. 146/2023 - sollecita il Legislatore a rivalutare la possibilità di estendere la messa alla prova ai casi in cui sussistano gli estremi - in assenza di alcuna aggravante - per il riconoscimento di un’attenuante ad effetto speciale e senza limitarne il riconoscimento nella misura minima. Dando cioè la possibilità di sospendere il processo e ammettere a lavori socialmente utili l’imputato grazie a un’anticipata presa in conto di una diminuente che se considerata nel massimo consente di scendere al di sotto della soglia del massimo edittale entro cui l’istituto di giustizia riparativa diventa applicabile. Infatti, l’articolo 168 bis del Codice penale ammette l’imputato al beneficio di poter evitare il processo e la detenzione solo quando si è imputati di reato sanzionato nel massimo entro i 4 anni. Nel caso sottoposto all’attenzione della Consulta il Giudice dell’udienza preliminare ha dovuto negare l’istanza per la messa alla prova a un imputato di omicidio stradale che astrattamente appariva rientrare - in tale fase processuale - nella previsione del settimo comma dell’articolo 589 bis che in caso di concorso della vittima consente al giudice di ridurre la pena “fino” alla metà. Mentre il regime attualmente applicabile consente di riconoscere anticipatamente tale attenuante solo nella misura minima che corrisponde a un giorno. Ciò impediva appunto nonostante tutti gli indici positivi ascrivibili all’imputato istante di concedergli l’ammissione alla messa alla prova con corrispondente sospensione del processo. L’accertamento concreto - Secondo il Gup rimettente vi sarebbe, cioè, un solo impedimento all’ammissibilità della richiesta dell’indagata nella fase dell’udienza preliminare: la pena edittale per il reato di omicidio stradale “base” (ossia non circostanziato) è la reclusione da due a sette anni; pena che, per effetto dell’attenuante del settimo comma, è diminuita “fino alla metà” sicché nel minimo potrebbe essere la reclusione di un anno, ma nel massimo, potendo la pena essere diminuita anche di un solo giorno, rimarrebbe comunque superiore alla soglia di quattro anni. Ciò comporterebbe la violazione degli articoli 3 della Costituzione per l’asserita disparità di trattamento in altre situazioni simili (ad esempio le lesioni colpose stradali) e dell’articolo 27 che mira a una pena rieducativa. Quindi il giudice del rinvio costituzionale chiede alla Consulta di dichiarare l’articolo 168 bis del Codice penale incostituzionale nella parte in cui non consente l’accesso alla prova nella particolare ipotesi dell’omicidio stradale commesso con concorso di colpa della vittima. La messa alla prova sotto la lente della Consulta - L’introduzione di questa misura è pressoché contemporanea a quella della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. E la giurisprudenza ha ritenuto sussistere un parallelismo tra messa alla prova e citazione diretta in ordine però alle aggravanti a effetto speciale: se il reato è più grave per l’esistenza di un’aggravante a effetto speciale, non è possibile la citazione diretta, né è ammissibile la richiesta di messa alla prova. Ma vi sono anche orientamenti che hanno affermato che l’effetto escludente delle aggravanti ad effetto speciale fosse (testualmente) previsto solo per i casi di citazione diretta. Cioè una tesi più favorevole quest’ultima ad ampliare il perimetro della concedibilità della messa alla prova. E le Sezioni unite, investite della composizione del contrasto di giurisprudenza, hanno accolto quest’ultima interpretazione. La “pena edittale” ex articolo 168-bis Cp è quella prevista per il reato non circostanziato e quindi, in particolare, non assumono a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese le circostanze ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. Quindi l’effetto pratico di questo orientamento è che la messa alla prova è possibile anche in caso di reati che, tenendo conto dell’aggravante a effetto speciale, potrebbero essere puniti con una pena ben maggiore di quella di quattro anni di reclusione, stabilita come discrimine dall’articolo 168-bis del Codice penale. Riforma Cartabia - Con la recente riforma il legislatore ha ulteriormente puntato sulla messa alla prova dell’indagato o imputato con sospensione del procedimento. Infatti, nella legge delega della riforma targata Cartabia era previsto: - di estendere l’ambito di applicabilità della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato a ulteriori specifici reati, puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto: - di prevedere che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato possa essere proposta anche dal pubblico ministero. Il Legislatore delegato con il decreto legislativo 150/2022 in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari ha esteso l’elenco dei reati a citazione diretta per i quali è anche possibile la messa alla prova puniti mediamente con pena edittale di cinque anni di reclusione o addirittura sei. Ben oltre la soglia di quattro anni di cui all’articolo 168-bis, primo comma, del Codice penale. Il legislatore, anche dopo la recente riforma del 2022 ha lasciato invariato l’iniziale scelta di individuare i reati, per i quali è consentita la messa alla prova, sulla base della pena edittale detentiva prevista in misura non superiore nel massimo a quattro anni; pena che, in quanto “edittale”, è riferita alla fattispecie del reato non circostanziato. Si tratta di una scelta di politica criminale rimessa alla discrezionalità del legislatore, il quale non irragionevolmente ha fissato una soglia di pena massima irrogabile, quale discrimine per l’accesso al beneficio, e ciò ha fatto con riferimento a quella edittale, prevista per il reato base non circostanziato, senza quindi dare rilievo alle circostanze né aggravanti né attenuanti, quantunque ad effetto speciale. Messa alla prova e particolare tenuità - È vero che, invece, per il parallelo - e pressoché contemporaneo - istituto della non punibilità per la particolare tenuità del fatto rileva la diminuzione di pena in ragione dell’applicazione delle attenuanti ad effetto speciale, al pari del suo aumento ove ricorrano circostanze aggravanti, anch’esse ad effetto speciale. Ma ciò si spiega in ragione dell’accertamento, ad opera del giudice, dell’effettiva sussistenza delle circostanze al fine della dichiarazione della suddetta causa di non punibilità. Invece, nel caso della messa alla prova, il processo è sospeso e la valutazione del giudice è fatta in limine, ossia prima dell’accertamento giudiziale sull’incolpazione e quindi prima che possa risultare il concorso di un’attenuante a effetto speciale. E in mancanza di un meccanismo processuale di verifica anticipata della sussistenza di attenuanti a effetto speciale, non è irragionevole che il criterio distintivo di identificazione dei reati, per i quali è possibile la messa alla prova, rimanga affidato alla pena edittale nel massimo, senza considerare né le aggravanti, né le attenuanti, quantunque ad effetto speciale. Affinché possano essere pienamente rilevanti, a tal fine, le attenuanti a effetto speciale, secondo la prospettazione del giudice rimettente, dovrebbe introdursi un più favorevole criterio di computo, quale in ipotesi sarebbe quello della massima (e non già della minima) riduzione possibile. Tuttavia, appartiene alle scelte di politica criminale del legislatore una tale opzione che non potrebbe essere limitata all’attenuante di cui al settimo comma dell’articolo 589 bis Cp, ma dovrebbe riguardare in generale il criterio di computo delle attenuanti ad effetto speciale, una volta che se ne introducesse la rilevanza agli effetti della messa alla prova. Anche sotto questo profilo le censure di disparità di trattamento e di irragionevolezza intrinseca appaiono non fondate. Le conclusioni e l’input al legislatore - Sul punto della mancata applicabilità della messa alla prova a causa del massimo edittale superiore ai 4 anni la Consulta afferma che “ove risultasse in giudizio che effettivamente l’evento non sia stato esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione dell’imputata del reato di omicidio stradale, in ragione del concorso di colpa della vittima, la pena potrebbe essere ridotta fino a metà di quella prevista per il reato non circostanziato e, in tal modo, soccorrerebbero altri istituti (quali le misure alternative alla detenzione, nonché la sospensione condizionale della pena), parimenti ispirati ad evitare la condanna ad una pena che possa essere percepita come non proporzionata e quindi tale da non favorire la risocializzazione del condannato”. Ma dice la Consulta in chiusura della sua decisione di non fondatezza della questione che “rimane la criticità segnalata dal giudice rimettente. L’allargamento dell’area di applicazione della messa alla prova con sospensione del procedimento penale anche a reati molto gravi, in ragione delle aggravanti ad effetto speciale, non preclusive dell’accesso al beneficio, ha però lasciato immutata la perdurante mancanza di rilevanza, a tal fine, delle attenuanti parimenti ad effetto speciale, che, all’opposto, possono ridurre notevolmente la pena, talora finanche in misura inferiore a quella prevista per la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena. È quindi auspicabile una più ampia ammissibilità del beneficio della messa alla prova con sospensione del procedimento anche per reati che sono decisamente meno gravi proprio in applicazione di attenuanti ad effetto speciale. Di ciò non potrà non farsi carico il legislatore”. Piemonte. Commissione Sanità: mancano medici nelle carceri cr.piemonte.it, 18 luglio 2023 Investire maggiori risorse per il personale medico e sanitario, in particolare psichiatri e psicologi, e rendere più attrattive tali occupazioni all’interno del carcere. È quanto emerge dopo il sopralluogo della Commissione Sanità del consiglio regionale piemontese, presieduta dai vicepresidenti Andrea Cane e Domenico Rossi, al carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Accompagnati dal garante regionale per i detenuti Bruno Mellano, alla presenza dell’assessora alle Pari opportunità Chiara Caucino, i commissari sono stati accolti dalla direttrice e dalla vicedirettrice della struttura, Elena Lombardi Vallauri e Assuntina Di Rienzo, e hanno avuto modo di confrontarsi con il provveditore dell’amministrazione penitenziaria Rita Russo e con il responsabile del presidio medico dell’Asl Città di Torino nella Casa circondariale Alessandro Franchello. “Le criticità che caratterizzano il sistema sanitario nazionale sono le stesse che si riscontrano dentro le mura di un carcere. La differenza è che in un ‘mondo chiuso’ le conseguenze sono estremamente più gravi perché i detenuti non hanno alternative - ha spiegato Domenico Rossi. Servono investimenti per superare il sottodimensionamento e il forte turnover del personale a partire dai medici e infermieri, ma anche degli psicologi che si accompagna insieme al sottodimensionamento della polizia penitenziaria; il tema deflagrante del disagio psichiatrico per cui servono al più presto investimenti seri; la necessità di migliorare la comunicazione e la collaborazione tra carcere e rete sanitaria esterna per favorire davvero il reinserimento”. “La maggiore criticità, già evidenziata anche in Commissione, è l’ormai radicata mancanza di personale a tutti i livelli: medici, infermieri e Oss - commenta Giorgio Bertola, Consigliere regionale Europa Verde Piemonte. Una carenza che, sommata a quella degli agenti penitenziari e degli educatori, fa sì che gli operatori della sanità si sentano poco tutelati e sicuri. Il turnover molto frequente, causato principalmente da un ambiente lavorativo inadeguato, non dà poi garanzia di continuità nell’erogazione dei servizi”. Per Francesca Frediani, Consigliere regionale Unione Popolare Piemonte “le criticità ormai strutturali e i tragici eventi suicidari delle scorse settimane, nella sezione maschile e femminile, hanno evidenziato come sia necessario migliorare se non implementare ex novo un meccanismo di interazione e collaborazione con l’esterno, per permettere un reale ed efficace reinserimento nella società. Per molti detenuti, infatti, il fine pena coincide con il rientro in una realtà che non ha in serbo nulla per il futuro e, frequentemente, con il ritorno alla solitudine o a situazioni segnate dal disagio e dalla violenza. Insomma, il tema della psichiatria andrebbe affrontato in modo radicale e, probabilmente, riorganizzando totalmente il sistema, garantendo le cure e le terapie adeguate ai detenuti, ma anche la sicurezza al personale del carcere”. Cagliari. Detenuto muore in cella a 57 anni, aperta inchiesta per omicidio colposo alguer.it, 18 luglio 2023 Aveva 57 anni Paolo Ledda, l’informatore farmaceutico era detenuto presso il carcere di Uta a Cagliari, perché condannato a nove anni di reclusione dalla Corte d’Appello di Sassari per il reato di strage (tentata). All’uomo nel 2019 gli era stato attribuito un tentativo di attentato con una bomba artigianale, in quanto cercò di far saltare in aria una palazzina di via XX Settembre dove aveva sede la Unipol-Sai, ad Alghero. È stato ritrovato privo di vita ieri (lunedì): le sue condizioni di salute ultimamente si erano aggravate, ma nonostante tutto non sarebbero chiari i motivi della morte. Tanto che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari ha disposto l’esame autoptico e aperto un’inchiesta. Contattato telefonicamente, il suo legale, avv. Danilo Mattana, non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione. Sulla sua morte in carcere sono scattate le indagini della pm Nicoletta Mari, sostituto procuratore a Cagliari che, nella giornata di ieri, ha deciso di procedere per il reato di omicidio colposo contro ignoti. Sdr: sgomento e preoccupazione per morte detenuto in Sai Cagliari-Uta “La morte dietro le sbarre di una prigione genera sgomento e suscita interrogativi che vanno aldilà di un’inchiesta della Magistratura. Al dolore dei familiari e degli operatori penitenziari per la scomparsa di una persona ci si chiede, purtroppo, ancora una volta, che cosa si può fare per evitare fatti così traumatici”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” con riferimento alla morte di P.L., 57 anni, algherese, trovato morto in una cella del SAI (Servizio Assistenza Intensiva) della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. “Questo episodio, i cui contorni saranno chiariti anche attraverso una eventuale perizia necroscopica disposta dal Magistrato, richiama - osserva Caligaris - l’urgenza di una sanità penitenziaria adeguata ai bisogni di donne e uomini privati della libertà. È vero che l’intero sistema sanitario regionale sta mostrando tutte le manchevolezze accumulatesi negli anni, ma è altrettanto vero che le carenze sono diventate urgenze e manca una vera e propria integrazione tra il Reparto diagnostico terapeutico della Casa Circondariale, strutturato e gestito da ASL e AREUS, con quello degli analoghi reparti degli ospedali. Il Direttore Sanitario di Cagliari-Uta ha lo stesso grado di competenze e responsabilità di un collega dirigente ma per disporre un ricovero deve chiedere il permesso e così anche per un qualunque intervento chirurgico, a meno che il paziente-detenuto non sia in punto di morte. Per non parlare delle condizioni di vita di chi soffre di disturbi psichiatrici. Persone che, se non sono in isolamento, sostano nelle celle inermi con psicofarmaci”. “Nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta (con 575 detenuti oltre il limite regolamentare di 561 posti), dove il caldo scioglie perfino gli abiti addosso e limita la respirazione, mancano da gennaio gli specialisti di oculistica e dermatologia, ginecologia e neurologia, da 4 mesi. Non è possibile - osserva ancora l’esponente di SDR - continuare a ignorare questa situazione pensando che si può sopperire con le visite ospedaliere. Accompagnare un/una detenuta in un Nosocomio richiede l’autorizzazione della Magistratura di Sorveglianza e/o di un Giudice, necessità della disponibilità della scorta, condizionata dallo scarso numero di Agenti, il risultato è che le persone con necessità di controlli per patologie importanti rischiano di aggravarsi. L’assenza di poter accedere a una visita specialistica come nel caso della ginecologia e/o dermatologia e/o neurologia e/o oculistica esaspera gli animi di chi si sente abbandonato con reazioni inconsulte. Finora nonostante l’impegno dell’assessore regionale Carlo Doria non si è concretizzato neppure l’apertura di un reparto penitenziari ospedaliero. Insomma - conclude Caligaris - esprimiamo la vicinanza alla famiglia del detenuto deceduto ma richiamiamo ancora una volta l’attenzione su una sanità penitenziaria da riorganizzare”. Reggio Emilia. Detenuto picchiato, gli agenti in silenzio davanti al giudice di Nello Trocchia Il Domani, 18 luglio 2023 Il giorno è il 3 aprile 2023, il carcere è quello di Reggio Emilia. La scena racconta un pestaggio ai danni di un giovane tunisino ristretto nell’istituto di pena emiliano. L’aggressione sarebbe avvenuta coprendogli la testa con uno straccio prima di buttarlo a terra, picchiarlo e lasciarlo senza vestiti ormai strappati. Fatti per i quali la procura, guidata da Calogero Gaetano Paci, ha chiesto e ottenuto per cinque agenti l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, per otto la sospensione dal servizio, in tutto gli indagati sono quattordici. Tra le contestazioni non c’è solo la tortura, il reato che il governo Meloni vorrebbe depotenziare, ma anche il falso. Come già accaduto in passato, ogni abuso di potere prevede sempre la falsificazione degli atti per coprire il pestaggio. Il sette aprile, il detenuto ha presentato la denuncia che ha riassunto i fatti. Dopo il tremendo pestaggio, la vittima ha inutilmente chiesto di essere portato in infermeria, ma è stato messo in isolamento e per essere curato ha dovuto tagliarsi le vene con la ceramica dei sanitari. Solo a quel punto è stato portato dai medici. La vittima è stata medicata, ma non è stata sottoposta a una visita complessiva e così non sono stati documentati i traumi riportati a causa del pestaggio. Dopo la medicazione è stata rimandato in isolamento. Il pestaggio - L’aggressione è avvenuta dopo un colloquio molto animato con la direttrice, destinataria di diversi insulti da parte delle vittima che contestava alcuni rapporti disciplinari, ma anche l’isolamento dove era stato confinato. “Comprendeva di essere stato abbrancato dalle guardie penitenziarie che iniziavano a insultarlo chiamandolo “marocchino di merda figlio di puttana” (…) gli avevano messo un sacchetto in testa e gli bloccavano le mani dietro la schiena, facendolo poi cadere a terra; successivamente lo colpivano con dei pugni in testa e sul volto attraverso il tessuto del sacchetto”, si legge nell’ordinanza, firmata dal giudice Luca Ramponi, che riassume la denuncia della vittima. L’indagine è partita da una verifica scrupolosa del racconto del detenuto visto che K.L. aveva più volte manifestato opposizione nei confronti del personale che aveva anche offeso. Una verifica che ha trovato un valido supporto nelle registrazioni dei filmati di video sorveglianza. La vittima è stata incappucciata con una federa bianca, bloccato con le braccia dietro la schiena, non ha minacciato né lanciato lamette o sputato a qualcuno, è stato colpito con un pugno, sgambettato, preso a schiaffi, e ha ricevuto un altro colpo in testa mentre era inginocchiato. Ma non è finita. Un ispettore ha chiesto a un sottoposto di mettere una scarpa sulla gamba della vittima, poi in testa. Quindi altri pugni. Una scena che si è conclusa con i vestiti strappati. Gli attimi finali dell’umiliazione con il detenuto trasformato in prigioniero e oggetto di angherie e soprusi. Il tutto mentre era a terra, impossibilitato a muoversi. Una violenza vile da parte degli uomini della polizia penitenziaria. Le indagini - Le indagini sono state condotte dal Nic, il nucleo d’investigazione regionale della polizia penitenziaria, e il giudice scrive che “appare difficile ipotizzare mutamenti della situazione processuale o in ogni modo acquisizione di emergenze in grado di offrire interpretazioni alternative ai fatti”. Il riconoscimento dei carnefici è evidente dalla nitidezza delle immagini e dalla credibilità dei colleghi che li hanno riconosciuti. Il giudice si è occupato di offrire una scrupolosa disamina nella valutazione del reato di tortura per concludere che nelle violenze subite dal detenuto è indubbiamente la contestazione più adeguata perché il modo con cui la vittima è stata percossa e malmenata “ha indubbiamente comportato una degradazione disumanizzante della sua persona”. Ad alcuni indagati viene contestato anche il reato di falso perché le relazioni che sono state elaborate in merito ai fatti accaduti quel giorno sono palesemente contraddette e smentite dalla visione dei filmati delle telecamere. A partire dall’uso improprio di una lametta da parte del detenuto che avrebbe brandito minacciando gli agenti, una circostanza che è stata totalmente esclusa dal giudice dopo la visione delle immagini, ma che serviva come giustificazione per l’accaduto. Reggio Emilia. Botte in carcere, gli agenti non rispondono al giudice di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 18 luglio 2023 Il difensore: “Non è stata una tortura. Va valutata la personalità del carcerato e l’antefatto”. “La Convenzione di New York definisce come tortura le azioni che infliggono dolore volte a estorcere informazioni a una persona. Nel caso avvenuto in carcere a Reggio, questa fattispecie di reato non sussiste: non c’è reiterazione della condotta e non sono stati tenuti comportamenti mortificanti verso il detenuto”. È quanto dichiara l’avvocato Alessandro Conti, che difende uno dei quattordici agenti della polizia penitenziaria indagati per il pestaggio denunciato da un 40enne tunisino quand’era detenuto nella struttura di via Settembrini. L’uomo, sottoposto alla sospensione di un pubblico ufficio per dieci mesi, è comparso ieri mattina davanti al giudice per le indagini preliminari Luca Ramponi: per lui, e per altri cinque indagati, il gip ha escluso la gravità indiziaria per tortura (“Si sono limitati ad assistere alle condotte”, si scrive nell’ordinanza), invece ravvisata per otto sui quattordici agenti finiti sott’inchiesta. Ieri mattina sono iniziati gli interrogatori di garanzia per gli agenti raggiunti da misura. Otto persone sono state raggiunte dalla sospensione per un anno, altri due uomini per dieci mesi; cinque fra questi sono anche stati sottoposti all’obbligo di firma. Per otto di loro la misura è stata applicata in relazione al reato di tortura; ipotizzate anche le lesioni (prognosi entro i venti giorni) e il falso per la stesura di tre relazioni. Secondo la ricostruzione investigativa, fatta attraverso la videoregistrazione interna e a testimonianze, il detenuto era uscito dalla stanza del direttore, dopo che era stato sanzionato con l’isolamento per condotte che violavano il regolamento. Mentre andava verso la cella di isolamento, è stato incappucciato con la federa di un cuscino, fatto cadere a terra e preso a pugni e pedate. Poi è stato sollevato a mezz’aria e denudato, portato nella cella e di nuovo aggredito. Davanti al giudice, ieri gli agenti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere: “Una scelta derivata dal fatto che non abbiamo ancora visto gli atti e neppure il filmato”, dichiara l’avvocato Liborio Cataliotti che difende due agenti sospesi per un anno e sottoposti all’obbligo di firma, per i quali preannuncia il ricorso al Riesame: “Occorre approfondire la personalità del detenuto e l’antefatto rispetto al pestaggio: ci risultano due relazioni disciplinari fatte nel carcere di Bologna dove lui si trovava prima di Reggio. Non è stata una spedizione punitiva, ma un’azione subitanea, frutto di una condotta discutibile del detenuto che pare volesse andare in un reparto diverso da quello al quale era stato destinato”. Un altro agente, sospeso per dieci mesi, è assistito dall’avvocato Federico de Belvis: “Il gip ha escluso la gravità indiziaria sul reato di tortura. A oggi per lui l’ordinanza riguarda solo il falso. Si è avvalso della facoltà di non rispondere: i tempi ristretti non hanno permesso valutazioni alternative, ma potrebbe decidere di rendere interrogatorio più avanti. Valuteremo il ricorso al Riesame”. Posizione simile, allo stato delle valutazioni del gip, anche per l’uomo difeso dall’avvocato Conti: “Ho visto il video - dichiara il legale . Emerge un intervento crudo, è vero, ma si verifica a seguito di atteggiamenti che in una struttura penitenziaria sono difficilmente tollerabili, ad esempio rispetto all’ipotesi che il detenuto potesse avere con sé materiale tagliente come le lamette. Le condotte che eccedono possono essere configurate in modo diverso rispetto alla tortura”. Bolzano. “Detenuti, il 70% è tossicodipendente: manca l’assistenza” di Chiara Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 18 luglio 2023 L’allarme lanciato da avvocati e Nessuno tocchi caino. Meraner (Serd): “Non ci sono spazi”. Centoquattordici detenuti (su 88 posti), di cui 96 con condanna definitiva, per il 70% tossicodipendenti. È l’istantanea del carcere di via Dante, “scattata” ieri dagli avvocati della Camera penale e dell’Ordine di Bolzano, in occasione della visita dei rappresentati della lega internazionale Nessuno tocchi Caino. A seguire, il convegno dedicato alla piaga della tossicodipendenza in carcere, con i detenuti troppo spesso abbandonati a se stessi, perché i Servizi per le dipendenze (Serd) non li riescono a intercettare. Del carcere di Bolzano, costruito nell’800, “la vecchiaia non è solo e non è tanto strutturale, quanto concettuale. Perché - sostiene Elisabetta Zamparutti, tesoriera di Nessuno tocchi Caino - in carcere troviamo tanti problemi sociali, come quello della dipendenza da sostanze, che avrebbero bisogno di una risposta diversa che non quella punitiva”. Se non altro alla luce dei dati, ricordati da Angelo Polo, vice presidente della Camera penale e moderatore del convegno: “Il tasso di recidiva, tra chi è stato detenuto, è del 70%, mentre il 75% di coloro che sono stati affidati in prova ai servizi sociali non delinque più”. Producendo quello che Beniamino Migliucci, past presidente dell’Unione camere penali, definisce un effetto a catena: “I magistrati, preoccupati, fanno più fatica a concedere misure alternative”. Marco Boscarol, della Camera penale, parla di una situazione “avvilente”: “Da inizio anno, solo due persone sono state affidate in prova ai servizi sociali per motivi terapeutici”. Un diritto, quello ad accedere a tutte le prestazioni sanitarie, comunità terapeutiche comprese, che ai detenuti viene negato. Lo ricorda Bettina Meraner, direttrice del Serd di Bolzano. “Sono una cinquantina i detenuti che ci sono stati segnalati, e che abbiamo visto almeno una volta. Ma una trentina li abbiamo dovuti “archiviare”: non facciamo in tempo a segnalarli allo psicologo, che sono già usciti dal carcere”. E questo, a causa dei ritardi con i quali avviene il contatto: “Non abbiamo l’autorizzazione a entrare tutti i giorni: mancano gli spazi, che dobbiamo dividere con il servizio di psichiatria dell’Azienda sanitaria. Il carcere potrebbe essere un’occasione per prendere in cura persone che non si sono mai rivolte a noi, in un’ottica di riduzione del danno e di evitare la cronicizzazione. Ma dobbiamo poter intervenire prima”. Una lettura contestata da Maria Luisa Bigarelli, medico del carcere di via Dante. “Nessuno ha mai vietato l’ingresso a nessuno. Uno stato di astinenza da sostanze, siamo in grado di identificarlo anche noi: attualmente, abbiamo 9 pazienti che seguono una terapia sostitutiva, alcuni con il metadone. Ma esiste il problema della manipolazione degli infermieri che la somministrano, o che somministrano farmaci psichiatrici: i detenuti se ne impossessano, e li smerciano ai compagni di cella. Noi non siamo la polizia penitenziaria, ma qui ne va della sicurezza del paziente e della tutela della sua salute”. Il problema, insomma, riguarda tutti coloro che stanno al di là delle sbarre: chi perché detenuto, chi perché ci lavora. Forlì. Carcere, carenza di personale sanitario e di offerta formativa per il reintegro dei detenuti di Paola Mauti Il Resto del Carlino, 18 luglio 2023 Presentato il rapporto di Antigone Emilia-Romagna relativo alle condizioni delle carceri in una regione che, con i suoi 3.407 detenuti, di cui 153 donne, si conferma uno dei territori con il più alto numero di presenze. Il documento, che fa riferimento all’indagine svolta nel 2022, ha riguardato sette case circondariali presenti sul territorio, tra le quali quella di Forlì. Se la casa circondariale di Forlì risulta promossa per quanto riguarda la gestione della pandemia e per le occasioni di lavoro offerte ai detenuti da committenti esterni al carcere, permangono forti criticità legate agli aspetti strutturali, per il fatto che è ubicata nel centro della città. Questo, purtroppo, incide negativamente sulla qualità degli spazi, i quali spesso risultano inadeguati allo svolgimento di alcune attività. Il rapporto ha evidenziato che mancano le cosiddette “salette della socialità”, così come aree destinate alle attività sportive. Inoltre, nelle celle non è presente la doccia e quelle comuni sono inadeguate, anche per la presenza di muffe. Il rapporto dedica un’attenzione particolare alla condizione carceraria delle detenute. Le detenute in Emilia-Romagna al 31 maggio 2023 sono il 4,7% del totale, distribuite nelle sezioni femminili che si trovano degli istituti di Bologna, Modena, Piacenza, Reggio Emilia e Forlì. E le conseguenze più evidenti dell’inadeguatezza strutturale della casa circondariale di Forlì, che al momento dell’indagine contava 19 recluse, si riscontrano particolarmente nella sezione femminile. Le detenute sono ospitate in un edificio separato dal resto dell’istituto, “con piccoli reparti all’interno dei quali mancano, il più delle volte, stanze adeguate a svolgere attività in comune”. Inoltre, non ci sono spazi da adibire a nidi per le madri. Ma la situazione delle detenute è penalizzata anche per altri aspetti. Infatti, se la percentuale di reclusi che lavorano per committenti esterni al carcere risulta essere a Forlì mediamente più elevata che nel resto della Regione, sono poche le donne che usufruiscono di questa opportunità: nel 2021, quando erano presenti 21 donne, 4 detenute lavoravano alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e solo 2 per datori di lavoro esterni, mentre non era attivo alcun corso di formazione professionale. Quanto ai percorsi di alfabetizzazione, nel 2022 ce n’era uno solo attivo destinato alle donne, mentre le scuole medie e il biennio delle superiori non erano partiti. Lo stesso vale per la formazione professionale. Nel 2022 si è cercato di sopperire a questa grave carenza, “ed è infatti stato introdotto un corso di cucina e uno di cucito”. Il carcere di Forlì è l’unico Istituto romagnolo dotato di un centro clinico strutturato, che dovrebbe garantire copertura medica 24 ore su 24. Per questo risulta particolarmente grave il fatto che si registri “una carenza di personale medico e sanitario, con conseguenze che incidono anche sulla gestione quotidiana (rilascio di nulla osta, screening per gli arrestati, difficoltà a garantire la valutazione medica del rischio suicidario)”. Peraltro, l’Emilia-Romagna è tra le regioni dove si registra uno dei tassi più alti di suicidi e molto alto è anche il tasso di autolesionismo: 40% a livello regionale e del 51% nel carcere di Bologna e di Forlì. Brescia. Confindustria in campo per il reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti giornaledibrescia.it, 18 luglio 2023 È stato siglato ieri pomeriggio nella sede di Confindustria Brescia il terzo accordo di collaborazione tra l’associazione di via Cefalonia, gli istituti di pena bresciani, la Garante dei detenuti e il Tribunale di Sorveglianza di Brescia, volto a potenziare le iniziative di reinserimento sociale dei detenuti. Alla firma sono intervenuti Franco Gussalli Beretta (presidente Confindustria Brescia), Silvia Mangiavini (vice presidente Confindustria Brescia con delega a Legalità e Bilancio di Sostenibilità), Luisa Ravagnani (Garante dei detenuti), Francesca Paola Lucrezi (direttrice delle carceri di Brescia) e Monica Cali (presidente Tribunale di Sorveglianza). L’accordo precedentemente sottoscritto nel 2022 ha finalizzato l’abilitazione di 15 detenuti alla conduzione dei carrelli elevatori e l’avvio di un tirocinio di reinserimento sociale, ad oggi in corso. Parallelamente, il carcere di Canton Mombello ha ospitato una riunione del direttivo dei Giovani Imprenditori di Confindustria Brescia: l’incontro ha rappresentato un importante momento di confronto tra mondo dell’impresa e carcere. L’accordo odierno - che avrà durata biennale - si basa sui buoni risultati dei precedenti e si concentra su iniziative di formazione lavorativa in carcere, sull’avvio di tirocini di reinserimento sociale e sul rafforzamento del dialogo tra carcere e imprese. In questa nuova fase spiccano importanti novità in tema di lavoro digitale: per rispondere alle esigenze del mercato, saranno avviati corsi specifici per consentire ai detenuti l’acquisizione di competenze in campo informatico, nell’ottica di approdare all’inserimento lavorativo in tale ambito. Il nuovo accordo rappresenta un ulteriore passo avanti significativo nella promozione dell’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti, aprendo a nuove e concrete opportunità per il loro reinserimento. “Lo scopo del progetto è instaurare un canale di dialogo stabile tra mondo del lavoro e mondo carcerario - commenta Silvia Mangiavini, vice presidente Confindustria Brescia con delega a Legalità e Bilancio di Sostenibilità -. In particolare, il nostro obiettivo è fornire ai detenuti strumenti di reinserimento da spendere nel mondo del lavoro, per costruire una loro dignità e trovare realizzazione in un’attività legale. Ci auguriamo che il progetto funzioni e, magari, possa essere replicato anche in altre realtà territoriali”. I punti In particolare, Confindustria Brescia si impegna, con la collaborazione e il monitoraggio delle altre parti coinvolte, a: Realizzare un corso di formazione in carcere avvalendosi delle strutture formative di Fondazione Aib. La formazione sarà progettata d’intesa con l’Ufficio del Garante dei detenuti e con la Direzione degli Istituti di pena bresciani, tenendo conto dei bisogni formativi della popolazione carceraria e della domanda del mercato del lavoro del territorio. Sensibilizzare i propri iscritti ad ospitare tirocini di orientamento, formazione e inserimento/reinserimento finalizzati all’inclusione sociale e all’autonomia delle persone in esecuzione penale presso la Casa Circondariale Nerio Fischione e la Casa di Reclusione di Verziano, valutate idonee dall’Equipe trattamentale del Carcere e dal Tribunale di Sorveglianza di Brescia. I tirocini si svolgeranno nelle aziende associate che liberamente daranno la propria disponibilità, sotto la diretta responsabilità formativa dei tutor individuati dalle aziende stesse, nel rispetto della L.R. n. 22/2006, della Delibera di Regione Lombardia n. 5451/2016 e successive modifiche, e della Normativa penitenziaria pertinente. Sviluppare progetti nel campo della formazione e del lavoro digitale con l’implementazione di percorsi sviluppati in collaborazione con esperti del settore. Con la finalità di sviluppare forme di dialogo tra il carcere e il mondo del lavoro, il gruppo Giovani Imprenditori di Confindustria Brescia porterà all’interno delle carceri di Brescia una riunione del proprio Comitato Direttivo, che verrà aperto alla popolazione carceraria, agli educatori e alle parti sottoscrittrici del presente Accordo. Temi, data e modalità dell’incontro verranno concordati con la Direzione del Carcere e con la Garante dei detenuti. Sensibilizzare le aziende associate a donare generi di prima necessità a favore dei detenuti degli Istituti di pena bresciani. A tal fine, aderirà alla richiesta di collaborazione del Garante dei detenuti, divulgando alle proprie imprese l’elenco dei generi più necessari. Napoli. “Pre-giudicato”: una storia di rinascita nello spettacolo dei detenuti di Secondigliano Il Mattino, 18 luglio 2023 A mettere in scena lo spettacolo la compagnia “Le voci di dentro”. “Pre-giudicato, un’Odissea sociale” è il titolo dello spettacolo andato in scena martedì 13 e mercoledì 14 giugno scorsi. Recitato in maniera estremamente realistica dalla compagnia “Le voci di dentro”, composta da detenuti rinchiusi nel carcere di Secondigliano, il testo ha visto la luce da tempo, ma la sua messa in scena è stata bloccata dall’emergenza covid. Come quasi tutto quello che prende vita dentro le mura del centro penitenziario, lo spettacolo ha toccato le corde emotive di tutti, grazie all’impegno dei detenuti e a quello dei volontari che con loro hanno realizzato questo progetto teatrale. Il regista Luca, e poi Monica, Francesco, Julia, Guido, Antonio. Protagonista della storia è Marco che, uscito dal carcere dopo aver scontato una pena di dieci anni, è ancora giovane, determinato a cambiare vita, torna nella sua famiglia perbene, vuole un lavoro onesto. Ma tra lui e la speranza della vita che ha sognato si frappongono tanti ostacoli, il suo viaggio verso il cambiamento, quindi, diventa un’odissea. Il testo portato in scena da “Le voci di dentro” inframmezza alle vicende della vita di Marco brani dall’opera di Omero, elevando i tentativi del giovane ex detenuto a costruirsi una vita oltre il carcere e la pena scontata a gesta epiche, come quelle che Ulisse dovette affrontare per tornare a Itaca. A contrastare Marco non sono maghe, sirene o ciclopi, ma i pregiudizi che gli negano un lavoro, e i protervi guaglioni del sistema, che prima lo reclamano tra le loro fila, e poi lo colpiscono proprio laddove stava ricominciando la sua vita. Marco è “Pre-giudicato”, e come tale rifiutato dal contesto sociale esterno. Avvertito come un corpo estraneo, come un nocivo fastidio, come un rifiuto che dovrebbe nascondersi, o tornare da dove è venuto. Ed è così che Marco dopo le tante porte sbattute in faccia percepisce se stesso, cede, molla, ascolta il canto delle sirene dei suoi ex sodali del sistema. È un attimo, un momento in cui rischia di vanificare il cammino intrapreso in carcere, il cambiamento che è avvenuto in lui. A salvarlo è la forza di un amore nuovo, una donna che gli mostra che un’altra vita è possibile. E Marco si rialza, rimodula la sua esistenza e diventa un paladino della legalità. Questa storia, incarnata da chi queste vicende le vive e le vivrà sulla propria pelle, assume una forza e un significato che vanno al di là della mera narrazione. È la forza di una testimonianza, di una strada da tanti percorsa. È la storia di chi, lasciatosi alle spalle il cancello del carcere, vorrebbe tapparsi le orecchie per non ascoltare sirene sbagliate. Nel migliore dei mondi possibili chi esce dal carcere cambiato dovrebbe poter dare corpo e sostanza al cambiamento, dare senso agli anni passati tra le sbarre. Ma questo che viviamo, si sa, di certo non è quello che secondo Leibniz bilanciava in maniera equa il bene e il male, qualcosa, durante i secoli, è andato storto, e a molti tocca vivere la propria personale, dolorosa, Odissea. Livorno. Il Carcere delle libertà, camp a Gorgona per studenti quilivorno.it, 18 luglio 2023 Il camp del 22-23 e 24 luglio è finalizzato alla riqualificazione di un’area comune del carcere (ambiente vissuto dai detenuti) e abbellimento dello spazio coinvolgendo detenuti e studenti nella verniciatura e decorazione. La Fondazione Laviosa lancia un bando rivolto a giovani studenti limitrofi al comune di Livorno per partecipare ad un camp della durata di tre giorni all’isola Gorgona nei giorni 22-23 e 24 luglio. Il camp è finalizzato alla condivisione di momenti insieme ai detenuti dell’Istituto penitenziario e rientra nel progetto “Il Carcere delle libertà” giunto alla seconda edizione, potenziato rispetto alla precedente, grazie al coinvolgimento dei detenuti delle Sughere, che beneficeranno di laboratori di grafica con artisti del territorio. La Fondazione e la sensibilità del suo presidente, il dottor Giovanni Laviosa, vedendo il lavoro come modalità di relazione con gli altri e di espressione personale si rivolge con progetti specifici anche a tutte quelle marginalità sociali dove l’esclusione dal tessuto lavorativo rappresenta anche una forma di esclusione sociale. Il camp è finalizzato alla riqualificazione di un’area comune (ambiente vissuto dai detenuti) e abbellimento dello spazio, coinvolgendo detenuti e studenti insieme alla verniciatura e decorazione dello stesso. Il weekend rappresenta la fase preliminare del progetto “Il carcere delle libertà - seconda edizione” con il team building del gruppo di studenti che saranno portavoci per altri coetanei e parteciperanno a laboratori artistici finalizzati alla realizzazione di prodotti creativi fatti da loro stessi insieme ai detenuti per finanziare attività nelle realtà carcerarie. Possono partecipare ai tre giorni di attività di camp e formazione gli studenti che abbiano compiuto il 16esimo anno di età e che frequentano una scuola secondaria di secondo grado del comune di Livorno o di comuni limitrofi. La Fondazione copre le spese logistiche e i pasti. La formazione e il progetto sono a cura delle professoresse Flavia Bertolli (già curatrice della prima edizione e del primo volume di testo dedicato al “Carcere delle Libertà) e Giovanna Lo Giacco, in sinergia con le educatrici penitenziarie Barbara Radice e Perla Macelloni con la supervisione e collaborazione del direttore Giuseppe Renna. Per partecipare è necessario inviare entro martedì 18 luglio la propria candidatura, mandando una mail a: segreteria@fondazionelaviosa.com. La mail dovrà avere in allegato: una lettera motivazionale, un breve curriculum di esperienze formative scolastiche ed extrascolastiche e l’ultima pagella scolastica. Politici figli di una scuola che ormai ignora il passato di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 18 luglio 2023 Sono alcuni decenni che la storia sta subendo un processo di espulsione dal canone culturale dominante. Nella nostra civiltà l’umanesimo è davvero in precipitosa ritirata. In Italia come in tutta l’Europa occidentale e negli Stati Uniti è sempre più visibile un peggioramento qualitativo della classe politica. Qui da noi la cosa è particolarmente evidente: è un declino abbastanza impressionante nella preparazione culturale, nella capacità di orientamento e di direzione, nei comportamenti, perfino nella proprietà del linguaggio e nell’abbigliamento. Conta senz’altro la virtuale scomparsa dei vecchi partiti con la loro capacità di selezione del personale politico. Ma proprio perché si tratta di un fenomeno non solo nostrano bensì dell’Occidente in generale e che riguarda tutta la classe dirigente, si deve pensare che il peggioramento di cui stiamo parlando sia prodotto da qualcos’altro che non sia la presenza di una determinata forma-partito o dei suoi meccanismi di selezione. Questo qualcos’altro è la scuola. È il sistema d’istruzione che ormai si è affermato nei nostri Paesi e al quale naturalmente anche le classi politiche devono la loro formazione. Non mi soffermo sul fatto, pur importantissimo, che si tratta di un sistema che almeno in Italia è da tempo scadente (e quindi non può che produrre persone in media culturalmente scadenti, parlamentari compresi come si capisce), perché ciò che adesso mi preme notare è altro. E cioè che da noi come dappertutto, la formazione del ceto politico è quasi sempre una formazione di tipo umanistico. In nessun Paese europeo, infatti, a cominciare dal nostro, c’è mai stato un uomo politico di rilievo, e tanto meno una personalità di governo, un primo ministro o un ministro importante, il quale provenisse da studi tecnico-scientifici: ad esempio un ingegnere, un biologo, un fisico. Da sempre, insomma, tranne rarissime eccezioni - ad esempio la cancelliera Merkel: ma è appunto l’eccezione che conferma la regola - l’intera classe politica europea e quindi anche quella italiana è stata formata da uomini (solo in tempi recenti anche da donne) la cui formazione è avvenuta seguendo uno di questi tre indirizzi di studio: quelli letterari, quelli giuridici o quelli economici. Quelli che si chiamano per l’appunto gli studi umanistici. Dovrà esserci un motivo: probabilmente - avanzo l’ipotesi - perché le discipline umanistiche si sono rivelate quelle in grado di fornire i migliori strumenti per praticare con successo due dimensioni specifiche dell’agire politico. Da un lato la conoscenza delle società umane con la conseguente possibilità di comprenderne i bisogni e i moventi basilari, di interpretarne (e sfruttarne) i meccanismi psichici singoli e collettivi: potendo quindi in tal modo interloquire proficuamente con i suoi membri per ottenerne il consenso. Dall’altro le discipline umanistiche, addestrando a cogliere i caratteri e i movimenti di fondo di una determinata società, addestrano meglio di altre a fare sintesi, a definire l’interesse generale nel quale quella società può riconoscersi e sul quale impegnarsi. Essenziale e determinante per tutto ciò, come si capisce, è stata la familiarità con la dimensione della storia propria di ogni formazione umanistica, assente viceversa in quella scientifica. È solo conoscendo il passato, infatti, intendendo i valori e le cause profonde e interconnesse di ogni realtà sociale, conoscendo i loro molteplici risvolti psicologici, che è possibile immaginare il probabile svolgimento di questa realtà e le relative conseguenze in modo tale che risulti più facile prendere le decisioni che riguardano quella realtà medesima. Indirettamente, insomma, la storia si presenta come un grande e prezioso deposito di sapere sociale, la sua conoscenza come la premessa necessaria per l’elaborazione di qualunque cultura e strategia politica. La politica e la storia insieme (e insieme alla geografia: è mai pensabile un esponente di governo che ignori i confini delle Marche o quali Paesi bagna l’Oceano Indiano?), la politica e la storia insieme, dicevo, costituiscono da sempre le coordinate che definiscono la sfera pubblica in Occidente. Senza la storia la politica è cieca, e la storia che rinuncia alla dimensione della politica è destinata a perdere la propria identità. Ormai sono alcuni decenni però che in Occidente la storia sta subendo un processo di espulsione dal canone culturale dominante. Oggi, nelle idee correnti, nel modo di giudicare l’universo dei valori, di guardare al passato, dappertutto, su un criterio storico prevale un criterio moralistico perlopiù ispirato alla prospettiva dei diritti individuali. Per giudicare quanto accaduto un secolo, due secoli fa quello che un tempo era il tribunale della storia sembra essere diventato un tribunale e basta. Il “politicamente corretto”, la cultura “woke” che rimuove le statue e dà l’ostracismo a Winston Churchill perché era uno “sporco colonialista” (come se a suo tempo non lo fosse stato anche Karl Marx...) è diventato l’orientamento ideologicamente “avanzato” sostenuto da un implacabile dispositivo ricattatorio. Un pervadente orientamento antistoricista ha colpito in generale tutta la formazione umanistica. Non solo ad esempio un po’ dovunque e anche in Italia è stato ridotto il numero delle ore dedicate all’insegnamento della storia (quello della geografia è stato addirittura cancellato), ma ad esempio anche nelle facoltà di Economia e di Giurisprudenza prevalgono ormai di gran lunga le materie orientate in senso tecnico-specialistico, le materie d’immediato uso professionale, su quelle formative incardinate in una prospettiva generale di carattere storico. E così pure nell’ambito degli studi di natura più schiettamente letteraria o filosofica o artistica è virtualmente finito il dominio assoluto che fino a l’altro ieri vi aveva la dimensione storica. Da gran tempo ormai i paradigmi didattici e interpretativi che vanno per la maggiore sono quelli genericamente strutturali e funzionalisti. I programmi e i curricula della scuola di ogni ordine e grado ne sono lo specchio fedele. Nella nostra civiltà e specialmente nella nostra formazione, insomma, l’umanesimo, la letteratura e la storia che così a lungo lo hanno nutrito sono in precipitosa ritirata. Ma ciò vuol dire una frattura drammatica: che è in ritirata qualunque autorità del passato o che sul passato si fonda. Vale a dire che si sta dileguando quell’autorità che per secoli, insieme all’esperienza religiosa, ha rappresentato la via principale d’accesso alla formazione della libera individualità e a tutto ciò che di essa è premessa o conseguenza, a cominciare dalla libertà politica. La fine dell’esemplarità del passato - di questo caposaldo assoluto della formazione umanistica - ha voluto dire il venir meno di una fonte d’ispirazione decisiva perché non dico in tutti, ma almeno in qualcuno, mettesse radici un senso della giustizia e una devozione al bene pubblico, una cura della dignità e un’aspirazione alla grandezza, destinate a rivelarsi preziose per lo sviluppo della nostra civiltà. Nelle scuole della Repubblica popolare cinese sono sicuro che si tengono ottimi corsi di fisica atomica e di biologia molecolare ma che delle “Confessioni” di Agostino o degli “Annali” di Tacito nessuno ha mai sentito parlare. È proprio sicuro che a noi in Occidente convenga cercare di imitarle? Migranti. Meloni-Ue-Saied: un accordo nel disprezzo dei diritti umani di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 18 luglio 2023 La firma del Memorandum d’intesa tra la Tunisia e l’Unione europea per un “nuovo partenariato per affrontare la crisi migratoria”, è un “modello” nelle relazioni con i paesi nordafricani, secondo quanto sostenuto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, rimane all’interno di vecchie logiche, improntate alla cosiddetta “condizionalità migratoria”, già lanciate in Europa ai tempi di Sarkozy, ma che oggi hanno dimostrato un fallimento completo. Come del resto si era già dimostrata una prospettiva perdente lo scambio tra una manciata di ingressi legali ed una maggiore disponibilità nelle politiche di rimpatrio forzato, già al centro degli accordi conclusi nel 1998 da Napolitano con la Tunisia di Ben Alì. La Tunisia beneficiava già, dopo l’Accordo di Associazione (firmato dalla Tunisia - primo dei Paesi dell’area - già nel 1995 ed entrato in vigore nel 1998 di aiuti da parte dell’Unione Europea con il cd. Strumento Europeo di Vicinato e Partenariato (ENPI), che fornisce assistenza ai Paesi destinatari della Politica Europea di Vicinato. Il Piano Indicativo Nazionale 2011-2013, ad esempio, stanziava a favore della Tunisia 240 milioni di euro destinati a riforme politiche per democrazia, diritti umani, stato di diritto e buon governo; gestione dei flussi migratori e dell’asilo, lotta al crimine organizzato, al terrorismo e al riciclaggio; sviluppo di condizioni propizie all’investimento privato; sviluppo sostenibile ambientale, sociale ed economico; sostegno all’istruzione, alla formazione superiore e alla ricerca; rafforzamento dei programmi sociali; agevolazioni per lo scambio di beni e servizi; sviluppo dei trasporti, del settore energetico e della società dell’informazione. Oggi siamo rimasti a questa stessa generica enunciazione di principi. La “linea Meloni sulle migrazioni”, dunque, non è affatto nuova. Si possono ricordare il Processo di Khartoum ed i Migration Compact lanciati da Renzi nel 2014 alla fine dell’operazione Mare Nostrum. Oppure si può paragonare il Memorandum d’intesa concluso da Gentiloni e Minniti con il governo di Tripoli nel febbraio del 2017, o gli accordi intergovernativi del 2016 tra gli Stati europei e la Turchia, con il Memorandum d’intesa concluso ieri tra la Tunisia e l’Unione Europea. Non ci sono nuovi impegni operativi vincolanti, ma solo dichiarazioni di principio, che adesso, come ha dichiarato la Meloni “dovranno essere messe a terra”. Forse si spera in ulteriori progressi con la visita a Roma del ministro dell’interno tunisino prevista per i prossimi giorni, o con la Conferenza dei capi di governo africani che la Meloni ha indetto per domenica 23 luglio a Roma. Manca di certo nel Memorandum d’intesa l’obiettivo principale che si proponeva il governo italiano: la possibilità di riportare in Tunisia, dopo “procedure accelerate in frontiera” i migranti sub-saharani arrivati in Italia dopo essere transitati da quel paese. In Tunisia non hanno ancora dimenticato l’esperienza fallimentare, un vero disastro umanitario, che si verificò dal 2011 al 2013, quando in collaborazione con l’Unhcr venne istituito il campo di transito di Choucha, vicino a Ben Guardane, alla frontiera con la Libia. Saied ha imposto nel Memorandum la clausola secondo cui la Tunisia non diventerà piattaforma per i rimpatri dall’Unione europea, ed ha ottenuto invece una promessa di supporto dall’Unione europea, per i respingimenti collettivi che già sta attuando verso i paesi confinanti. Non si vede però come l’Unione Europea, anche attraverso Frontex, possa partecipare con il supporto finanziario, se non operativo, ad operazioni di intercettazione in mare o di rimpatrio forzato in violazione del divieto di respingimenti collettivi o degli obblighi di soccorso e di sbarco in un porto sicuro affermati dal Regolamento UE n.656 del 2014. La Tunisia non è oggi un “paese terzo sicuro” per la maggior parte degli Stati membri dell’Ue. Le prassi attuate dalla polizia tunisina ed i respingimenti collettivi nel deserto, ai confini con la Libia e l’Algeria, sono in contrasto con gli standard minimi di tutela dei diritti fondamentali della persona sanciti dalle Convenzioni internazionali. La collaborazione nelle attività di ricerca e salvataggio (SAR) con le autorità tunisine non si potrà certo risolvere nella delega di ulteriori respingimenti collettivi, sempre che la guardia costiera tunisina voglia davvero riportare a terra tutti i migranti subsahariani in fuga verso l’Europa. Quello che continua a mancare è una vera organizzazione di ricerca e soccorso europea che costringa gli Stati costieri a salvare vite umane ed a garantire un porto di sbarco sicuro. Una maggiore “effettività” delle politiche di rimpatrio, in assenza di consistenti canali legali di ingresso in Europa e di possibilità realistiche di evacuazione dei migranti sub-sahariani, come pure un contrasto più violento dei tentativi di attraversamento del Mediterraneo, non potranno che fare esplodere altro conflitto sociale in Tunisia e travolgere le sue relazioni con i paesi dell’area subsahariana, come la Costa d’Avorio ed il Gambia. Migranti. Il decreto di Piantedosi è illegale, la Guardia Costiera lo sa di Gianfranco Schiavone L’Unità, 18 luglio 2023 Le richieste della Guardia Costiera italiana rivolte alla nave Open Arms di adoperarsi per il soccorso dei naufraghi avvenuto il 6 luglio possono apparire un paradosso, ma non lo sono; o meglio, lo sono pienamente se viste sotto la lente delle confuse e demagogiche scelte politiche che agitano il Governo in carica, ma non lo sono affatto sul piano giuridico. La Guardia Costiera ben conosce infatti il diritto internazionale marittimo e in particolare le norme sul dovere di soccorso in mare e dunque sa bene che “ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa”. (Convenzione Uncls all’articolo 98 paragrafo 1). Pertanto, non potendo direttamente intervenire con i propri mezzi è suo obbligo (e non sua facoltà) chiedere a qualunque nave si trovi in condizione di operare il soccorso, di farlo il prima possibile, sotto suo coordinamento. La Guardia Costiera sa anche bene che i soccorsi possono essere multipli e non certo uno soltanto, come vuole invece una diffusa ma del tutto infondata interpretazione del Decreto legge 1/23 convertito con modificazioni in legge 15/23 in relazione al completamento “senza ritardo” delle operazioni di soccorso. Fatta salva l’esigenza di valutare gli eventuali rischi per la sicurezza della nave, non può infatti sussistere alcun margine di scelta da parte del comandante di qualsiasi nave nell’effettuare anche soccorsi multipli nel corso della medesima navigazione qualora nel corso della propria navigazione la nave intercetti direttamente (o riceva istruzioni di agire da parte delle autorità) più situazioni di grave pericolo e altre navi non siano in grado di intervenire o perché troppo distanti dal luogo dove si registra il rischio di naufragio o perché tecnicamente non idonee ad effettuare il soccorso stesso in condizioni di sicurezza. Il luogo nel quale si devono concludere i soccorsi deve, infine, sempre essere un porto sicuro, ovvero, secondo le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Risoluzione Msc.167 (78), un luogo dove sono assicurati i bisogni primari e la vita e la sicurezza dei naufraghi non sono minacciate. Ciò in particolare nel caso di salvataggio di persone in fuga: “la necessità di evitare lo sbarco in territori dove la vita e la libertà di coloro che dichiarano di avere un fondato timore di persecuzione di coloro che dichiarano di avere un fondato timore di essere perseguitati, è un elemento da tenere in considerazione nel caso di richiedenti asilo e rifugiati recuperati in mare” (Linee Guida paragrafo 6.17). Mandela Day, per ricordare e ricominciare di Carlo Baroni Corriere della Sera, 18 luglio 2023 Il Sudafrica si celebra la giornata dedicata al grande leader e primo presidente di colore, che ha lasciato grandi aspettative. Non è facile, ma il seme del cambiamento ormai ha attecchito Mandela Day, per ricordare e ricominciare. Un giorno per ricordarlo. Per ripartire da dove era arrivato. Forse troppo avanti. Lui che aveva avuto la pazienza di aspettare ventisette anni prima di uscire dal carcere di Robben Island. Oggi, 18 luglio, si festeggia il Mandela Day. A nessun leader politico è mai stato attribuito un onore simile. Ma cosa lascia in eredità l’ex presidente sudafricano? Un fardello pesante di promesse. Con lui è come se il Sudafrica avesse deciso di partire dal tetto per ricostruire una nuova casa. Le fondamenta non sono ancora state gettate. Mancano i muri maestri e il giardino davanti è pieno di sterpaglie. La sua scommessa di un Paese arricchito dalle diversità, la Rainbow Nation sembra sgretolarsi davanti alla corruzione e al malgoverno. La rassegnazione di non poter invertire la rotta è il sentimento che prevale in questa parte dell’Africa con numeri da potenza economica. Eppure la sfida da vincere adesso è persino più facile di quella che affrontò Nelson Mandela. Basta leggere cosa scrivevano politologi e analisti il giorno che divenne presidente. Anche chi stava ideologicamente dalla sua parte, lasciava trapelare sfiducia e scetticismo. I padroni bianchi non avrebbero mai accettato di farsi governare da un nero. I neri erano troppo arrabbiati per accontentarsi solo di guidare il Paese. Il destino del Sudafrica era segnato. La resa dei conti sarebbe arrivata. Inesorabile. Il Mandela Day è qui a dimostrare che, in questi anni, ci sono state cadute, passi indietro ma che una nuova strada è già tracciata. Diversa da quella di un fato ineluttabile che impregna quasi tutta l’Africa. Il Paese del dopo Mandela fa parte dei Brics. In politica estera dice la sua. A volte male. Prende sbandate che lo mandano fuori strada. Di sicuro Mandela non avrebbe dialogato con la Russia. Ma il germe del cambiamento ormai è attecchito. E la tenacia di celebrare ogni anno, testardamente, un giorno per Madiba vuol dire tanto. Forse persino tutto. Non solo per il Sudafrica. Iran. La polizia morale torna in strada per imporre il velo dii Alessandro Fioroni Il Dubbio, 18 luglio 2023 Dopo mesi di proteste per la morte di Masha Amini, tornano le ronde contro le donne. Ma questa volta la repressione dovrà fare i conti con i giovani pronti a sfidare il regime. Da domenica scorsa nelle città iraniane è tornata la famigerata polizia morale a pattugliare le strade. La notizia e stata confermata dal portavoce della stessa polizia, Saeed Montazerolmahdi, che ha reso noto ufficialmente che le squadre di agenti hanno ripreso il loro lavoro per “affrontare coloro che, sfortunatamente, ignorano le conseguenze di non indossare l’hijab adeguato e insistono nel disobbedire alle norme”. Dieci mesi dopo l’arresto di Masha Amini, la ragazza curda di 22 anni fermata dalle forze dell’ordine a Teheran il 13 settembre 2022, e le proteste di massa scoppiate in risposta alla sua morte avvenuta nei tre giorni seguenti, mentre era trattenuta presumibilmente per aver indossato male l’hijab. Le pattuglie tornano dunque a cercare di fermare l’incendio delle rivolte, che ora sembra placato, ma che ha lasciato il fuoco a covare sotto la cenere. Le troppe testimonianze di come Mahsa sia stata uccisa, per i colpi alla testa ricevuti al momento dell’arresto, sono ormai divenute patrimonio di una generazione che continua a protestare anche con piccoli gesti. Ancora il portavoce ha specificato il compito della polizia morale: “Se disobbediscono agli ordini delle forze di polizia, verranno intraprese azioni legali e saranno deferiti al sistema giudiziario”. Questo perché donne e ragazze hanno, non solo metaforicamente, bruciato il velo o lo hanno gettati in aria durante le manifestazioni anti- establishment. Un segno intollerabile di sfida per il regime degli Ayatollah che ha visto un numero sempre crescente di studentesse smettere ancora oggi di coprirsi i capelli in pubblico. Ma è un gioco estremamente pericoloso perché attraverso il controllo sull’abbigliamento passa il dominio sul corpo delle donne e il controllo sociale. Dal 2006, unità speciali di polizia formalmente note come Guidance Patrols (Gasht- e Ershad) sono state incaricate quindi di far rispettare tali regole e via via nel tempo hanno assunto un’importanza sempre maggiore. A riprova di quanto sia considerata sovversiva una liberalizzazione dei costumi da parte del regime teocratico, contribuisce il fatto che alla polizia morale sono state messe a disposizione anche tecnologie più moderne: telecamere di sorveglianza per identificare chi viola le regole, chiudendo anche le attività che tollerano chi attua le trasgressioni al codice di abbigliamento. La censura analizza le immagini e rende note quelle più adatte, come i video mostrati all’inizio di quest’anno nei quali si vedeva un uomo che lanciava una vaschetta di yogurt in faccia a due donne senza velo. Le voci che si levano dall’opposizione sociale, soprattutto dal mondo studentesco, esprimono dubbi sul fatto che gli agenti saranno in grado di imporre il codice come facevano prima della morte di Mahsa Amini. La valutazione è che ormai le ragazze che trasgrediscono sono troppe. Anche per la società civile il ritorno della polizia morale causerà un nuovo caos, come ha avvertito il quotidiano riformista Hammihan o il politico Azar Mansouri secondo il quale tutto mostra che “il divario tra il popolo e lo stato si sta allargando”. Inoltre, gli iraniani hanno anche usato i social media per condannare l’arresto, domenica di un attore, Mohammad Sadeqi, che aveva esortato le donne a difendersi, anche in maniera violenta, quando vengono avvicinate dalla polizia morale. L’attore però è riuscito a mostrare le immagini dell’irruzione di agenti in borghese nella sua abitazione. Da segnalare anche il caso di un’altra attrice, Azadeh Samadi, alla quale il tribunale ha imposto un divieto di sei mesi di utilizzare i social media e il proprio telefono, oltre a una terapia obbligatoria per “curarla” da una cosiddetta malattia antisociale della personalità: a maggio aveva partecipato al funerale di un regista teatrale senza indossare il velo. Afghanistan due anni dopo: il dovere di ribellarsi a un futuro senza donne di Marta Serafini Corriere della Sera, 18 luglio 2023 La presa di potere dei talebani di due anni fa ha lasciato pochi segni visibili. Molte ong hanno preferito lasciare, altre come Emergency sono rimaste. Il ministero degli Affari femminili è stato sostituito dal quello per la Promozione della virtù. Chiudono parrucchieri, centri estetici e beauty saloon. Ad una prima occhiata, nulla pare cambiato a Kabul. All’atterraggio pensi che sarà tutto diverso. In realtà è sempre la stessa vecchia cara Kabul. Il takeover - la presa di potere - dei talebani di due anni fa ha lasciato pochi segni visibili, almeno ad un primo sguardo assonnato dopo oltre 20 ore di viaggio. Sulla pista campeggiano gli aerei delle due compagnie locali più importanti, la Kam Air e l’Ariana Airlines, oltre a quelli delle agenzie umanitarie. Non ci sono controlli particolarmente severi. E al gate dell’aeroporto, lo stesso protagonista dei giorni tragici delle evacuazioni di due anni fa, regna la calma. Anche la strada verso il Baron Hotel, dove due anni fa un kamikaze di Isis si fece saltare contro la folla ammassata contro i cancelli dell’aeroporto uccidendo più di 238 persone, ora sembra tranquilla. C’è meno traffico, le strade sono più pulite, il carretto dei gelati continua a suonare. Anche le sedi dei ministeri sono sempre allo stesso posto. Eccetto quella del ministero degli Affari femminili che è stata subito sostituita dal ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio. A guardare meglio però le differenze si notano. Ci sono meno donne in giro. Non tutte sono velate integralmente ma in tante tengono la mascherina sul viso per evitare di essere fermate. Le fotografie di Massud, il Leone del Panshir volto simbolo della resistenza ai talebani, sono sparite. Alcune insegne dei parrucchieri e degli estetisti sono state imbrattate di nero, gli stessi beauty saloon che tra un mese dovranno chiudere per decreto dei talebani. Ma non solo quelle. Sono stati coperti anche alcuni dei graffiti più colorati che decoravano gli alti muri degli edifici governativi. Altri però sono rimasti. Ci vuole tempo per capire. E per vedere anche ciò che non è immediatamente visibile agli occhi. Kabul è sempre Kabul ma l’atmosfera è sicuramente diversa, per certi versi più rilassata. Sono 3 mesi che non ci sono attentati. Ma per le festività di Eid che si sono appena concluse ci si aspettava nuove stragi. La presenza occidentale è sicuramente meno visibile, molte ong hanno preferito lasciare, altre come Emergency sono rimaste per continuare a offrire il loro aiuto. Le super potenze straniere hanno sicuramente una responsabilità grande. “Ci avete lasciato soli”, dicono in tanti. Ma c’è anche chi è contento del passaggio di consegne e spera che il nuovo governo combatta la corruzione. È presto per dire cosa ne sarà del nuovo Afghanistan e se i talebani riusciranno a mantenere il potere nonostante le enormi difficoltà economiche. Di sicuro, resta il dovere di mantenere alta l’attenzione. Soprattutto sui diritti delle donne. Perché è in quei divieti all’istruzione che sta il grande dilemma del futuro. Potrà l’Afghanistan sopravvivere senza che alle giovani sia permesso di laurearsi e di lavorare? È possibile un futuro senza donne? In tanti scommettono di no. A noi il dovere di restare e continuare a raccontare. Il nostro aiuto alle donne afgane di Dacia Maraini Corriere della Sera, 18 luglio 2023 Mi scrive Lucy Ferriss dal Trinity College di Hartford, nel Connecticut per raccontare quello che stanno facendo lei e una decina di professori per le donne afgane. Si collegano privatamente con le ragazze relegate in casa a cui è impedito di frequentare la scuola, tenendo da remoto lezioni di matematica, di medicina, di ingegneria, secondo le richieste che vengono da quel popolo disgraziato in cui le donne sono state escluse dall’apprendimento. A me sembra una idea molto bella. La libertà di collegarsi a internet non è stata per fortuna interdetta, anche perché tutto il sistema di commercio del Paese si basa sui collegamenti con l’estero e non si può controllare casa per casa come i computer privati, di proprietà maschile poi vengano usati dalle sorelle, dalle madri e dalle figlie per studiare clandestinamente. Verrebbe da chiedersi il perché di tanta punitiva esclusione. Cosa può esserci di così pericoloso nell’apprendimento? La risposta sta nelle nuove leggi dei talebani: frustate pubbliche, processi e prigione per le ragazze che mostrano di volere mettere il naso nei libri. Nella mente degli intolleranti talebani l’istruzione, l’apprendimento, la conoscenza, sono formatori di coscienza e il regime teme come la peste ogni tipologia di coscienza civile e pubblica. Lucy Ferriss e i suoi professori lavorano gratuitamente, ma ci sono dei costi per le connessioni, e chiedono un aiuto in denaro, anche minimo, per chi vuole dare una mano alle ragazze afgane private del diritto di formazione. La riposta, come racconta Lucy, è stata talmente ampia e capillare che credo meriti attenzione. Le donne vogliono studiare, capire, emanciparsi da uno stato di analfabetismo e buio mentale. Lucy aggiunge la copia di una bellissima lettera che li ha raggiunti da Kabul in cui una ragazza che ha partecipato alla prima tornata di studi via internet ringrazia: “So che siete volontari e vi sono grata, ma vi prego non fermatevi. Abbiamo bisogno del vostro aiuto. Finora nessuno mi ha aiutato salvo voi. Grazie”.