Giustizia, la vera riforma è accorciare la durata dei processi di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 17 luglio 2023 Il lancio di ogni idea di modifica della legislazione vigente sulla giustizia penale, da tempo va sotto l’impegnativo nome di Riforma della Giustizia. Si tratta più modestamente di modifiche più o meno ampie e talora solo puntuali di una o altra previsione legislativa. La quotidiana aggiunta di nuovi temi non ha nulla della organicità che richiederebbe il grande tema della riforma (nel senso del miglioramento) della Giustizia penale. Molte idee immesse in un caotico dibattito politico restano generiche e manca l’approfondimento delle prevedibili conseguenze. Spetta al Parlamento produrre leggi e assumere decisioni, ma la natura di certi temi richiede che esso abbia presenti gli argomenti che ne illustrano la complessità. Vi è invece spesso un semplicismo intollerabile, ignorante del dibattito che da lungo tempo accompagna lo studio di ciascun tema. L’aria di dissacrante novità che si vuol indurre contraddice il dato di fatto, che non una delle riforme che si propongono è originale. Tutte e ciascuna sono già oggetto di approfondito studio e dibattito da parte degli studiosi del diritto penale nonché della giurisprudenza prodotta dai giudici e, in particolare, dalla Corte di Cassazione. Così è per la questione dell’abuso di ufficio, che si vuole abolire dopo ripetute e anche recenti modifiche legislative e di progressive specificazioni elaborate dalla giurisprudenza, alla ricerca della maggior possibile definitezza. Ma qualunque modifica legislativa si voglia ancora introdurre non potrà arginare il gran numero di denunce che raggiungono le procure della Repubblica attivando le necessarie indagini preliminari. E non ci si dovrà stupire di effetti imprevisti della eventuale abolizione della norma che punisce l’abuso di ufficio. Ogni norma è situata e ha il suo spazio nel sistema complessivo. Il rapporto tra l’una e le altre è retto dal criterio di specialità: se si toglie una norma speciale emerge la applicazione di quella generale, che può essere più o meno grave, ma in ogni caso richiede indagine e decisione giudiziaria. In qualche misura analoga e tutt’altro che nuova è la questione, recentemente agitata, del concorso esterno nelle associazioni di tipo mafioso. Esso è oggetto di un lungo percorso di crescente specificità nella applicazione che se ne fa. Stupisce che ora se ne metta in discussione l’esistenza stessa, con il solo effetto di un inquietante annuncio. Su un piano diverso si pone il tema che va sotto il titolo di “separazione delle carriere tra giudici e pm”. Innanzitutto perché, qualunque cosa essa significhi, tra le tante possibili, richiederebbe una riforma costituzionale. E, per darle un senso, porterebbe alla abolizione del principio della obbligatorietà della azione penale e la definizione di luoghi e modi della adozione e attuazione di una “politica penale” gestita attraverso le scelte di agire o di non agire. Poiché di questo si tratta e non, come invece si dice, di assicurare l’imparzialità del giudice, separandolo dai magistrati del pubblico ministero nell’iniziale reclutamento e nella carriera. Con le conseguenze naturali che se ne avrebbero sullo status dei magistrati del pubblico ministero, il loro rapporto con il governo, ecc. ecc. Vasto programma, su una questione che è seria se se ne evita il solo agitar di bandiere o il ripetere inutili slogan. Seria, ma straordinariamente impegnativa, poiché, come più volte ha ritenuto la Corte costituzionale investe capisaldi del sistema costituzionale, delle garanzie e della separazione dei poteri. Nel frattempo, il governo avrà occasione di impegnarsi sull’individuazione dei criteri generali che dovranno essere indicati con legge dal Parlamento, perché le procure della Repubblica vi si uniformino nel definire i criteri di priorità. Così stabilisce la legge del 2021 e si tratta di una novità, che vuole disegnare un equilibrio tra la responsabilità politica del Parlamento e l’autonomia della magistratura nella programmazione della trattazione delle notizie di reato. Si tratta - anche perché sarà la prima volta - di un impegno molto difficile che grava prima di tutto sul ministero della Giustizia. Dal suo esito si vedrà se certe proclamazioni destinate al solo clamore del dibattito sono destinate a concretizzarsi in qualche cosa di rilevante rispetto ai problemi reali. Mentre di tutto ciò si discute, rimane ai margini il problema vero e profondo. Si tratta della intollerabile durata dei procedimenti penali, di cui l’enormità dei carichi pendenti negli uffici giudiziari è solo un aspetto. Diverse distorsioni ne sono la conseguenza: per esempio l’uso abnorme delle misure cautelari e la tensione tra i tempi dell’accertamento giudiziario e il diritto del pubblico di essere informato. Il sistema processuale italiano ha caratteri fondamentali che producono tempi lunghi; non solo per i tempi morti tra una fase e l’altra, tra una udienza e l’altra. Si sentono lodare i modi di procedere americani o britannici, ma si tace che là, tra le altre cose, vige il sistema della giuria. La giuria decide con verdetti privi di motivazione: guilty - not guilty, colpevole - non colpevole. E gli appelli sono rarissimi e sostanzialmente solo di natura procedurale, proprio perché la mancanza di motivazione non apre la strada a riesami, discussioni, critiche. E quindi a possibili decisioni difformi. Invece il sistema italiano (e generalmente europeo continentale) è costituzionalmente fondato sulla motivazione dei provvedimenti giudiziari e sulla loro ricorribilità. La legge processuale offre infinite possibilità di appelli e ricorsi in Cassazione. I tempi ovviamente si allungano, molte risorse vengono impiegate, decisioni giudiziarie difformi vengono assunte anche a distanza di molto tempo. I danni per imputati e vittime sono gravissimi, eppure la difformità delle decisioni giudiziarie è il fisiologico esito della possibilità di impugnarle criticandone il fondamento. Farebbe paura l’importazione di sistemi che altrove sono radicati nella storia, ma che non corrispondono alle nostre richieste di garanzia. Ma ignorare la questione fondamentale dei tempi delle decisioni giudiziarie e non affrontarne cause e rimedi, non aiuta a mostrare di voler prender sul serio le radici dei problemi. Ecco perché il sistema giustizia non funziona più di Francesco Fimmanò L’Espresso, 17 luglio 2023 Tempi lunghissimi. Troppi processi per il fallimento dei riti alternativi e per la moltiplicazione delle ipotesi di reato. E la maggioranza dei magistrati irreprensibili tollera in silenzio i colleghi scorretti. Il Pnrr parte dal presupposto che il sistema giudiziario sostiene il funzionamento dell’intera economia e che la sua efficienza è condizione indispensabile per lo sviluppo e per il corretto funzionamento del mercato. Le risorse quindi non servono solo all’attuazione dei diritti costituzionali, visto che il miglioramento del sistema potrebbe portare benefici fino al 2,5% del Pil e aumenti dell’attrazione degli investimenti fino a 200 miliardi di euro. Eppure siamo all’undicesimo posto in Europa per spesa pro-capite nel sistema-giustizia in rapporto alla popolazione, che rappresenta il 60% di quella tedesca, il 67 % della inglese e il 75% della olandese. Peraltro il Covid ha fatto aumentare l’arretrato e quindi gli investimenti, specie in tecnologie digitali, sono decisivi per le performance. In particolare il processo telematico va immediatamente potenziato, sempre nel rispetto dei canoni del contraddittorio e dei diritti delle parti, specie in materia penale. Si pensi in particolare alle funzioni di segreteria e di cancelleria dove molto si è fatto ma ancora molto di più c’è da fare ed al tema della “calcolabilità giuridica” ovvero della capacità predittiva sugli esiti delle controversie. L’incertezza delle decisioni, infatti, è il terreno di conflitto storicamente più difficile, assieme al fattore tempo. Quest’ultimo non può essere valutato solo come necessità di durata ragionevole, cosa che peraltro è imposta dall’art. 111 della Costituzione, ma è anche l’elemento che determina le decisioni di investimento e scandisce la vita delle persone. La prevedibilità temporale di una decisione permette all’interessato di compiere scelte razionali e di avere un sacrosanto progetto di vita o aziendale; è essenziale poter prevedere un inizio e una fine e fare affidamento sul rispetto di un minimo di prevedibilità e di certezza dei rapporti giuridici. Certezza che è un valore immanente a tutte le Costituzioni democratiche, storicamente nate appunto come protezione garantista contro gli atti arbitrari e imprevedibili. Orbene, se da un lato abbiamo assistito al lungo trend di riduzione dei tempi della giustizia civile nell’ultimo decennio, discorso diverso vale per la giustizia penale. Quando stavo per laurearmi nel 1989, entrò in vigore il nuovo codice Vassalli di procedura, in cui la grande innovazione fu il passaggio dal processo inquisitorio (in cui la formazione della prova avviene nella fase delle indagini) a quello accusatorio (in cui accusa e difesa formano la prova in contraddittorio nel corso del dibattimento, sotto la guida del giudice). Possiamo tranquillamente dire che l’operazione è fallita. Oggi abbiamo una fase delle indagini sbilanciata a favore dell’accusa e quella del dibattimento sbilanciata a favore della difesa, col risultato che si tende, da parte dell’imputato, a trascurare la prima con la sostanziale rinuncia alle indagini difensive e ad aspettare la seconda; con il conseguente disastro che spesso riguarda le misure cautelari, che, anche mediaticamente, si sostituiscono di fatto alle sentenze. Peraltro il codice era legato al funzionamento dei riti alternativi che avrebbero dovuto portare alla definizione rapida del 90% dei procedimenti. Lo stesso valeva per la funzione filtro che avrebbe dovuto assumere l’udienza preliminare, per evitare di portare a giudizio gli esiti di indagini destinate a essere smentite da un lungo dibattimento. Nessuna delle due cose si è verificata. Quanto poi alla sorte infausta del patteggiamento, basta considerare che nell’esperienza anglosassone, ove la regolamentazione è più flessibile e il potere discrezionale del pm più ampio, solo il 10% dei processi viene celebrato. La verità è che non si può continuare così. Come la vicenda di Tangentopoli ha dimostrato, se le ipotesi di reato sono troppe, il sistema della giustizia penale, molto semplicemente, non può farsene carico. A posteriori, non potrà che notarsi come i Tribunali definirono solo sparuti episodi, lasciando gli altri insabbiati dalla prescrizione, o più semplicemente dal dimenticatoio. Guardando a quel passato i pochi condannati appaiono oggi capri espiatori, vittime di una sorta di vendetta collettiva. Inquadrata in quest’ottica specifica, la politica criminale, intesa come approccio basato sulla osservazione funzionale della norma al fine di renderla efficiente in quel dato contesto, può avere un notevole influsso sul sistema di prevenzione. Com’è noto, l’impiego dello strumento penale dovrebbe essere limitato ai casi in cui non sono disponibili forme di tutela alternative, attesi gli elevatissimi costi del processo. La prevenzione in particolare è un investimento per il futuro con connessioni a tutti i problemi della prognosi e della valutazione dei risultati. Un’ultima considerazione meritano i protagonisti principali del sistema (assieme agli avvocati) ossia i giudici. Sulla base di una esperienza ultratrentennale, parlare di magistratura in senso lato, come si è spesso fatto, specie in senso dispregiativo, configura un chiaro errore di metodo. Di magistratura in senso lato, almeno per quanto ci riguarda, possiamo parlare solo in positivo, in quanto si tratta di uno dei corpi dello Stato, nel generale decadimento, che meglio si è preservato. Viceversa di un numero ridottissimo di magistrati, che rappresentano un enorme problema per le istituzioni democratiche, si può e si deve assolutamente parlare. E se proprio dobbiamo usare l’espressione magistratura in senso lato l’unica dura critica che le va fatta è l’inerzia e la tolleranza nei confronti dei Pochi che minano ogni giorno il buon nome dei Tanti. Si obietterà che ciò dipende dalle correnti che proteggono i propri, dalle Procure generali che non vigilano e non agiscono in sede disciplinare per corporativismo e dai rappresentanti al Csm che hanno una gestione delle vicende da politicanti, come i casi degli ultimi anni dimostrano. Tutto vero, ma a monte c’è appunto quel 99 per cento di magistrati irreprensibili, che tuttavia consentono colpevolmente che ciò avvenga, voltando le spalle perché non vogliono scocciature. In diritto si parla di “culpa in vigilando”... e non è poco! Se Meloni vuole davvero riformare la giustizia, saluti Nordio e chiami Renzi di Francesco Cundari linkiesta.it, 17 luglio 2023 Non trattandosi di una discussione seria, sia consentito avanzare una proposta altrettanto frivola, ma almeno logica: invece dell’ennesimo compromesso destinato a finire nel nulla, puntare al grande spariglio. Lo scontro sulla giustizia, con l’Anm che denuncia il tentativo di delegittimare la magistratura e il Governo che accusa la magistratura di delegittimare la politica, non è certo una novità degli ultimi giorni. Non è una novità che il governo diffonda assurde teorie del complotto contro i pm (qui di nuovo c’è forse solo l’invenzione della nota anonima ufficiale) e non è una novità che la magistratura tenti di squalificare in partenza qualunque critica (come delegittimazione) e qualunque proposta di riforma (come attentato alla sua indipendenza), sebbene non vi siano in realtà né alcun complotto né alcuna riforma. Il governo è ormai insediato da quasi un anno, ma interventi e obiettivi della presunta riforma continuano a cambiare regolarmente, da un’intervista all’altra, perché il vero scontro è, come sempre, uno scontro di potere. Ma anche sulla natura di questo scontro trentennale sarebbe ora di chiarire alcuni equivoci. Il primo equivoco è che non c’è nessuna politicizzazione della magistratura, non è e non è mai stato questo il problema: c’è semplicemente il fatto che i magistrati, da Mani pulite in poi, anche grazie a un rapporto non limpido con la stampa, hanno acquisito un ruolo di preminenza sulla scena pubblica speculare al tracollo dei partiti e della politica (questi sì davvero e costantemente oggetto di un’opera incessante di delegittimazione, da parte di non pochi giornalisti e magistrati). Questa posizione di forza ha anche un fondamento oggettivo nel tributo di sangue pagato dai magistrati nella lotta al terrorismo e alla mafia (sebbene alcuni martiri della lotta alla mafia, come Giovanni Falcone, siano stati anche i principali bersagli polemici di larga parte della magistratura associata, finché erano in vita). Sta di fatto che da trent’anni questo ruolo abnorme si traduce in una serie di vantaggi molto concreti, che non hanno nulla a che fare con logiche di schieramento e tanto meno con fumose ideologie. Da un lato c’è la forza della corporazione nel difendere un assetto che, nato per garantire l’indipendenza della magistratura, sembra sconfinare spesso nell’irresponsabilità e nell’impunità, come dimostrano le luminose carriere compiute dai magistrati responsabili dei più clamorosi errori giudiziari. Dall’altro ci sono i non pochi vantaggi per i singoli, perché ormai ci siamo abituati al fatto che i pubblici ministeri siano dei personaggi televisivi, costantemente intervistati da tv e giornali come sacerdoti delle supreme verità della politica e della vita. Anche sulla base di tale popolarità possono sempre contare su possibili carriere di ripiego nelle istituzioni e in ogni altro ambito della vita associata, candidati a tutti i livelli e da tutti i partiti, dall’estrema sinistra all’estrema destra, a riprova dell’assoluta trasversalità del problema. Anzi, la prima obiezione che si dovrebbe fare alla destra, semmai, è proprio questa: che se davvero volesse mettere un freno alla politicizzazione della magistratura, potrebbe cominciare smettendo di affidare a magistrati ruoli politici di primo piano, come candidati alle elezioni locali e nazionali, come sottosegretari e come ministri della Giustizia. Date queste premesse, c’è insomma da attendersi che anche stavolta tutto si risolverà in interventi parziali, di scarso o nessun effetto pratico. Da qualche parte si scriverà che il ricorso alle intercettazioni o alla custodia cautelare è consentito in situazioni non solo gravi ma gravissime, dopodiché pubblici ministeri e giudici troveranno tali situazioni sempre più spesso gravissime anziché gravi; da qualche altra parte si scriverà che sui giornali devono pubblicarsi solo i particolari di strettissima, e non più solo stretta, rilevanza penale, dopodiché giornalisti e conduttori televisivi troveranno che in tutti i particolari tale rilevanza sia più stretta che mai, e continueranno a farceli sapere in abbondanza. Non trattandosi di una discussione seria, sia quindi consentito concludere con una proposta altrettanto frivola, e più che mai inverosimile, ma almeno logica (del perché logica e verosimiglianza tendano sempre più spesso a escludersi reciprocamente, quando si tratta di politica, magari parliamo un’altra volta). La proposta è semplice: Giorgia Meloni promuova subito il ministro Carlo Nordio a qualche importante incarico internazionale (del resto si parla ogni giorno di sue possibili dimissioni) e offra il posto a Matteo Renzi. Invece dell’ennesima bicamerale destinata a finire nel nulla, delegittimata preventivamente dalle campagne sul grande “inciucio” tra destra e sinistra, Meloni e Renzi facciano direttamente il passo successivo. Renzi potrà così guadagnarsi sul campo quel ruolo di erede politico di Silvio Berlusconi che un tempo gli è stato attribuito come una scomunica, ma oggi sembra tentarlo sul serio; mentre Meloni otterrà non solo una riforma della giustizia di sicuro più incisiva di quella che avrebbe avuto altrimenti, ma riuscirà al tempo stesso a produrre l’impazzimento definitivo delle opposizioni. Oppure, semplicemente, si rassegni a non farne niente, abbassi i toni e ci risparmi la centesima replica del solito balletto. Meloni lo scarica, Nordio ritratta: il concorso esterno non si tocca di Giulia Merlo Il Domani, 17 luglio 2023 La premier smentisce il suo ministro, ribadendo che “ci sono altre priorità”, lui è costretto ad allinearsi. Ma il dibattito ha aperto crepe in maggioranza, con Forza Italia schierata col guardasigilli per la modifica. La polemica ha aperto un tema politico nel governo: per quanto ancora Nordio potrà proporre temi non discussi con gli alleati senza che ci siano conseguenze? Alla fine è stata Giorgia Meloni a mettere fine alla questione: il concorso esterno non si tocca. “Mi concentrerei su altre priorità”, ha detto la premier, riprendendo esattamente le parole del suo sottosegretario, Alfredo Mantovano, che in settimana aveva provato senza successo a stoppare il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il guardasigilli, che in un’intervista aveva sostenuto la necessità di tipizzare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, non aveva però voluto capire il messaggio, non tecnico giuridico ma politico: il tema non è in agenda e rischia solo di portare il governo in un ginepraio di polemiche. Imperterrito Nordio proprio il giorno dopo era uscito con un una lunga intervista sul Corriere della Sera per dettagliare le ragioni dell’importanza di metter mano al reato. Con un risultato: portare davvero la maggioranza a discutere di questo e soprattutto a dividersi, con Forza Italia compatta a sostegno di Nordio e il vicepremier Antonio Tajani pronto a sostenere l’iniziativa, e Lega e Fratelli d’Italia contrari. Il neosegretario di Forza Italia ha utilizzato proprio questo argomento durante il suo discorso programmatico e la capogruppo al Senato, Licia Ronzulli è andata oltre: “Il concorso esterno è un reato che c’è solo in Italia e che non ha motivo di esistere. O si è mafiosi o non lo si è, o si concorre, e quindi si è mafiosi, oppure no”. Con questi toni, è passato in secondo piano che si tratti di un dibattito sul nulla in concreto, visto che un disegno di legge non esiste né è in agenda. Ma tanto è bastato per aprire crepe evidenti nel centrodestra. Per questo a distanza di una settimana è dovuta intervenire direttamente la premier, che ha sempre fatto della lotta alla mafia un suo totem e ha nel suo pantheon personale Paolo Borsellino, ma di cui era addirittura stata messa in dubbio la presenza alle commemorazioni del 19 luglio in via d’Amelio. Il concorso esterno non si tocca, punto. “Comprendo benissimo sia le valutazioni del ministro Nordio che sono sempre molto precise, sia le critiche che possono arrivare”, ha aggiunto Meloni. Una sconfessione in piena regola, sia pur a malincuore perchè tra i due il rapporto sarebbe di stima, necessaria per chiudere un fronte pericoloso ma che pesa sul profilo del guardasigilli. Lui stesso, poche ore dopo le parole di Meloni, ha tentato di tamponare la situazione con un comunicato stampa in cui si riallinea alla premier e parla anzi di “perfetta sintonia”, definendo “fantasiose e talvolta maligne” le ricostruzioni su “ipotetici dissidi”, che servirebbero solo a sabotare la riforma della giustizia. Indietro tutta quindi: la revisione del concorso esterno “non fa parte del programma”. Eppure, seppur in modo stringato, anche in questo caso Nordio non ha rinunciato ad argomentare la sua tesi nel merito sulla necessità di modificare il reato, spiegando che “il problema del concorso esterno è stato da me trattato nei miei scritti di questi ultimi venti anni ed è essenzialmente tecnico”, ma “semmai mira a rafforzare la lotta contro la criminalità organizzata”. Tradotto, se ancora la posizione del ministro non risultasse chiara: una riforma del concorso esterno servirebbe a migliorarlo, perché - come Nordio ha ripetuto in settimana - “il concorso esterno è un ossimoro, se sei concorrente non sei esterno e se sei esterno non sei concorrente. Noi non vogliamo eliminarlo, ma il reato va rimodulato”. La polemica ha aperto un tema politico nel governo: per quanto ancora Nordio potrà proporre temi non discussi con gli alleati senza che ci siano conseguenze? La smentita pubblica di Meloni è un avvertimento che mai come ora è arrivato forte e un ridimensionamento politico del ministro, che rende il ministero della Giustizia sempre più fragile. Già indebolita con il caso del sottosegretario Andrea Delmastro, rinviato a giudizio per la divulgazione di informazioni coperte da segreto, e quello delle note anonime contro i magistrati, che sarebbe stata pilotata dalla potente vice capo di gabinetto Giusi Bartolozzi, via Arenula è nel caos. In questa situazione dovrà gestire i delicati passaggi in Senato del disegno di legge che abroga il reato di abuso d’ufficio, ma di cui è ormai certa la modifica in commissione. Non è chiaro se gli emendamenti saranno proposti dal governo o dai gruppi parlamentari, ma la strada è in salita e difficilmente si avrà una approvazione finale almeno in un ramo del parlamento prima della chiusura estiva. Tajani: “Lo stop della premier sul concorso esterno? Ciò che conta è separare le carriere” di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 17 luglio 2023 Il neo segretario: “Il partito di Forza Italia dovrà svolgere il ruolo che aveva la Democrazia cristiana”. Basta parlare di “gossip e di poltrone”, per l’erede politico di Berlusconi la priorità è far capire agli italiani che Forza Italia “non è la costola di nessuno” e sarà “l’architrave del sistema politico italiano”. La nuova Democrazia cristiana, segretario Antonio Tajani? “Non si tratta di rifare la Dc, ma di aggregare e costruire un partito con le porte aperte, che svolga il ruolo che svolgeva la Democrazia cristiana nella prima Repubblica”. Com’è andato il suo primo giorno da leader? “Ho avuto tanti messaggi, a cominciare da Ursula von der Leyen. Sento una grande responsabilità. Ho passato la domenica a Tolfa a spiegare ai giovani la linea, i valori, le cinque sfide che sono crescita economica, giovani e denatalità, salari, Sud, Europa”. E la giustizia? Pensa che lo scontro con le toghe, nel nome di Berlusconi, farà salire Forza Italia nei sondaggi? “La giustizia è parte fondamentale delle riforme per rendere più competitiva l’Italia. La giustizia civile che non funziona vale 3 punti di Pil. Il processo penale così com’è porta all’assoluzione del 60% dei processati, qualcosa non funziona. Bisogna avere il processo giusto, con la netta separazione tra magistrato inquirente e giudicante”. Per l’Anm “è un pericolo per la democrazia”. Volete che i pm rispondano al governo? “No, guardi, non è una cosa contro i magistrati. Noi vogliamo innalzare il livello del giudice che giudica, vogliamo metterlo su un piedistallo”. Al Consiglio nazionale girava l’interrogazione a Nordio per mandare un’ispezione alla Procura di Firenze che indaga sui presunti rapporti tra Berlusconi e la mafia. Lei la sottoscrive? “Non mi risulta che sia una iniziativa del partito”. Prima di essere eletto all’unanimità, lei ha dato il suo appoggio a Nordio sulla modifica del concorso esterno. Dispiaciuto che la premier abbia stoppato l’idea? “Dal punto di vista giuridico Nordio ha ragione, la riforma renderebbe la lotta alla mafia più severa. Ma il tema non è nel programma e non c’è l’urgenza. La priorità è la separazione delle carriere”. La seconda lettera che ha ricevuto dai figli di Berlusconi, quella riservata, contiene notizie sui debiti di FI? “Non abbiamo parlato di questioni economiche, la seconda lettera è personale e riguarda l’eredità politica. Il creditore di FI era Berlusconi, le garanzie sono passate ai figli con l’eredità. Non ho notizie da dare”. L’assenza di Marta Fascina sabato vuol dire che non ci sarà un ruolo per la compagna di Berlusconi? “A me il pettegolezzo non interessa, la famiglia ci sostiene e Marta Fascina è un deputato, fa parte del disegno di FI. Non ha litigato con nessuno. La sua assenza non ha un significato politico, ma umano. È in lutto, non se la sentiva di venire al primo evento senza di lui. Non siamo macchine, ai 5 minuti di applausi mi sono commosso anch’io”. Il congresso si terrà prima delle Europee anche se l’area di Ronzulli, Mulè e Cattaneo puntava a dilatare i tempi? E come si comporterà con le correnti? “La mia volontà è di farlo prima delle Europee. Non sarà una spartizione di poltrone, ma un congresso di contenuti. Sabato c’è stato un voto all’unanimità, se poi ci sarà un contributo di idee e di proposte ne sarò ben lieto, non cerco yes men”. Forza Italia rischia di diventare una costola di FdI? “Non siamo la costola di nessuno, la nostra ambizione è essere il centro di gravità permanente del sistema politico, la dimora di tutti i riformisti e garantisti che cercano un punto di riferimento stabile, credibile, responsabile. Forza Italia è il centro del centrodestra, può attrarre chi ha votato Pd e M5S e chi si rifugia nell’astensione”. Rosato, Bonetti e Castaldo però non arrivano. “Non è il mercato delle persone, io non ho mai fatto un nome e nessuno ha mai detto che ci sarebbero stati ingressi al Consiglio nazionale. Ci saranno ingressi importanti, in futuro. Non si tratta di fare una campagna acquisti e promettere posti, ma di costruire un progetto attrattivo”. Lei vuole unire in Europa popolari, liberali e conservatori per isolare Salvini? “Salvini se vuole si può unire. Non è lui il problema, ma Le Pen e Alternative für Deutschland”. Il leader della Lega voleva rubarle la scena rilanciando sulla pace fiscale? E punta a logorare Meloni? “Non interpreto tutto in chiave di gossip e non credo che Salvini voglia logorare il governo di cui fa parte. Guardando ai contenuti, noi abbiamo fatto tante proposte sulla pace fiscale e se Salvini è d’accordo sono contento”. Calato l’effetto Berlusconi, vede un effetto Tajani? “Il sondaggio che ci dà all’11% è uscito prima della mia elezione. Ci deve essere un effetto di squadra, non un effetto Tajani”. Palazzo Chigi sta “mollando” Daniela Santanchè? “Non lo so e non entro nel merito di vicende giudiziarie che non conosco, dico solo che gli avvisi di garanzia si devono dare agli interessati e non ai giornali”. Non aprirete alle opposizioni sul salario minimo? “Io voglio un salario ricco, non un salario minimo, perché lo vedo come un livellamento verso il basso da Paese veterosocialista. Le riforme liberali che ho indicato servono a far crescere l’economia e a consentire alle imprese di far salire il salario dei lavoratori in modo strutturale”. La sfera incongrua del concorso esterno e del deep state mafioso di Giuliano Ferrara Il Foglio, 17 luglio 2023 Per alcuni settori della magistratura e degli apparati, per il concerto mediatico-giudiziario, la realtà non può essere quella che si vede. E serve un reato ombra per rendere coerente la trama infinita di teorie del complotto. Sul fatto che il concorso esterno in associazione mafiosa sia incongruo e illogico, e che basta e avanza il favoreggiamento relativo a un reato materiale per incastrare con certezza giuridica il colluso con la mafia, evitando arbitrarietà e interpretazione normativa o giurisprudenziale, sono in realtà d’accordo un po’ tutti, da Nordio a Spadaro che sostengono tesi opposte eppure non negano, l’uno l’efficacia repressiva di interventi contro le coperture istituzionali dei criminali in materia di reati associativi, l’altro la prevalenza, nel reato che non è un reato, dell’interpretazione sulla norma definita e precisa. La divisione in merito è politica, non solo di opportunità, come dice il professor Fiandaca. C’è una versione da leggenda nera della storia della mafia, della collusione con la mafia e del contrasto alla mafia, che punta sul ruolo dei colletti bianchi, cioè lo stato, gli amministratori, gli imprenditori, i funzionari, i deputati, i senatori che fiancheggiano dall’esterno gli scopi dell’organizzazione criminale. Ma qui si entra in un’altra sfera illogica e incongrua, perché la mafia da un certo punto in poi, dopo i decenni del quieto vivere e del compromesso familista amorale, è stata combattuta dallo stato e in larga misura colpita e indebolita, se non sradicata e distrutta, proprio dallo stato italiano, e non solo da magistrati accaniti coraggiosi e spesso silenziosi, silenziosamente operosi, non solo da investigatori e poliziotti e carabinieri alle dipendenze dei pm e della direzione antimafia, anche dalle istituzioni, dagli uomini e dalle donne dei partiti, dal legislatore, dall’esecutivo. La mafia è criminalità più politica, ma non è il deep state. Con il processo sulla trattativa e altre folleggianti astruserie si è cercato di dimostrare che coloro i quali avevano messo le manette a Riina e Provenzano, tanto per fare un esempio che si capisca, erano gli stessi che tramavano per indurre lo stato a cedere, a venire a patti immondi, disposti a proteggere il crimine organizzato in una sfera di sostanziale omertà e collusione. Il tutto è alla fine scoppiato come una bolla di sapone. Ora il concorso esterno resta lo strumento simbolico principale per l’uso politico della campagna contro la criminalità mafiosa. Per alcuni settori della magistratura e degli apparati, per il concerto mediatico-giudiziario, la realtà non può essere quella che si vede. Falcone non lavorava al ministero della Giustizia, alle dipendenze di un governo Andreotti, quando fu martirizzato. Gli avevano sì dato del carrierista e dell’opportunista, perché non salvaguardava i colletti bianchi ma non credeva nel famoso terzo livello del deep state e non accettava la calunnia, però a tutto c’è un limite. Il maxiprocesso, che un cassazionista come Carnevale considerava uno sgorbio giuridico, fu organizzato, finanziato, sorretto con ogni mezzo, ai limiti della legalità e del diritto, dai politici della Repubblica e dei partiti, politici di governo spesso poi coinvolti in indagini e processi per mafia. Anche questo dato è inaccettabile. Serve un reato ombra, sovrano nel regno dell’incongruità, per rendere coerente la trama infinita di teorie del complotto su cui si basa non già l’antimafia ma lo spregiudicato abuso strumentale dell’idea trainante di uno stato criminale che non si vede. Nordio la pensa come Berlusconi e non come Falcone di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2023 Ridotta all’osso la questione è chiara. Le mafie sono sì organizzazioni criminali di tipo gangsteristico (traffici di armi, droghe e rifiuti tossici; pizzo; gioco d’azzardo; contraffazioni ecc.), ma non sono soltanto questo. Sono forti anche se non soprattutto per gli appoggi (coperture, collusioni, connivenze) di cui godono in settori del mondo apparentemente legale. Questo è il vero nerbo, la vera spina dorsale del loro potere. Che spiega come da oltre due secoli le mafie impestino il nostro Paese, cosa che nessuna banda di gangster al mondo è mai riuscita a uguagliare. Per cui se si colpisce soltanto l’ala militare della organizzazione criminale, risparmiando le relazioni esterne o zona grigia o borghesia mafiosa che dir si voglia, l’antimafia ne risulterà inesorabilmente dimezzata e perdente. Giovanni Falcone era ben consapevole di tutto ciò. Tant’è che nella ordinanza-sentenza conclusiva del maxi ter scritta il 17 luglio 1987 con gli altri magistrati del pool di Palermo, testualmente affermava: “(vi sono) manifestazioni di connivenza e di collusioni da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni (che) possono - eventualmente - realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili - a titolo concorsuale - nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso (…) che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”. Silvio Berlusconi era invece di tutt’altro avviso. Difatti, in due interviste del 4 settembre 2003 alla Voce di Rimini e al periodico inglese The Spectator, dichiarò che “a Palermo la nostra magistratura comunista, di sinistra, ha creato un reato, un tipo di delitto che non è nel Codice; è il concorso esterno in associazione mafiosa (forse aveva in mente il processo a carico di Marcello Dell’Utri, condannato a sette anni di reclusione). E il ministro Nordio, con chi sta? Senza ombra di dubbio con Berlusconi. Anch’egli si dichiara convinto che il reato di concorso esterno non compare nel codice penale, per aggiungere che è solo una interpretazione della giurisprudenza, un reato evanescente, da rimodulare. Ora, a parte che non riesco proprio a capire (ma non sono un ministro…) come faccia la giurisprudenza a intervenire se non c’è già un reato previsto e punito da una norma di legge da interpretare e applicare; a parte che neppure riesco a capire come si possa pretendere di rimodulare un reato inesistente; a parte tutto questo, basta sfogliare un qualunque manuale di base per apprendere che la figura del concorso esterno in associazione mafiosa altro non è che una delle tante applicazioni concrete del concorso di persone, previsto per tutti i reati dall’art. 110 del codice penale. Quindi non uno strappo alle regole dell’ordinamento. Nessuno scandalo. Urlare il contrario equivale a non capire quel che si dice o capirlo persino troppo bene. Quel che appare evidente è che il “nostro” Guardasigilli si muove e opera sotto l’insegna “Silvio è vivo e lotta insieme a noi”. Vale a dire che si considera epigono ed erede spirituale di Berlusconi in parole, opere e intenzioni. Per non dire della tendenza (comune a Chigi e via Arenula, per di più con l’uso di veline anonime) di strillare al complotto di giudici politicizzati che vorrebbero sfruttare il caso del sottosegretario Delmastro. Mentre sarebbe piuttosto il caso di preoccuparsi della qualità della nostra democrazia costituzionale fondata sulla separazione dei poteri. La rabbia dell’Antimafia: “La proposta del Guardasigilli inconcepibile nel merito e nel metodo” di Giuseppe Legato La Stampa, 17 luglio 2023 Amarezza e incredulità per le nuove iniziative legislative in cantiere. Dopodomani a Palermo si commemora Borsellino ed il clima è già teso. Se non è rabbia è diffidenza, amarezza. Incredulità. L’altalena degli stati d’animo dell’antimafia siciliana alla vigilia delle commemorazioni, dopodomani, del magistrato Paolo Borsellino, non è una premessa idilliaca per il governo guidato dalla premier Meloni che del “giudice” assassinato da Cosa Nostra 57 giorni dopo il collega Giovanni Falcone, ha sempre rivendicato un ispiratore della sua “scelta” politica. La ventilata modifica del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, rilanciata dal ministro Carlo Nordio nonostante le bordate, tutt’altro che amiche, di Matteo Salvini e del sottosegretario Alfredo Mantovano (oltreché di una serie di autorevoli voci di procuratori in prima linea nella lotta al crimine organizzato), salvo arrendersi (ieri) al fotofinish dopo il “muro” eretto a Tunisi dalla premier, è ritenuta inconcepibile nel merito (in sè e per sè) e nel metodo (soprattutto legato alle tempistiche delle esternazioni di Nordio). E - in questo senso - il perentorio giudizio del professor Nando Dalla Chiesa aiuta a comprendere il termometro delle sensibilità: “Un autogoal così clamoroso era difficile immaginarlo” dice. “La Meloni assicura che ha imparato a fare politica partendo dagli insegnamenti di Borsellino e il suo ministro le smonta il diritto dell’antimafia”. Ancora: “Ci sono molto magistrati bravi che non hanno un’idea di che cosa sia la mafia, non gliela insegnano all’università e nemmeno dopo. E se gli capita un’inchiesta, per la sola circostanza di averla condotta, credono di averne le coordinate. Mettersi a discutere come se il diritto sulla mafia possa venire dall’empireo è la cosa peggiore che un magistrato possa fare. C’è, invece, una storia che evidentemente non si conosce”. In definitiva: “Non si possono dire certe cose la settimana prima che si ricordi Borsellino”. Ossimoro, evanescente: cosi Nordio aveva rubricato il concorso esterno in associazione mafiosa nei giorni scorsi. “Quando sento fare certi giochi di parole - racconta Dalla Chiesa - mi chiedo di cosa stiamo parlando, di quale spessore ci sia dietro quell’elaborazione. È davvero stupefacente”. Sull’annuncio di Meloni di voler partecipare (“come tutti gli anni”) alla commemorazione di via D’Amelio è lapidario: “Mantovano, che ho conosciuto quando ero in Parlamento e pur col quale vi erano posizioni diverse, ne avrebbe diritto. Vediamo se la premier userà questa occasione per chiuderla con le domande di esenzione dal diritto e con la cancellazione della storia giuridica dell’antimafia”. Con una premessa in coda: “Non si giochi con il nome di Borsellino”. Salvatore, fratello di Paolo, fondatore del movimento delle Agende Rosse, è - se possibile - ancora più dirette: auspica una rimozione di Nordio da ministro: “Mi auguro che quando la Meloni verrà qui lo faccia dopo aver preso decisioni su di lui, bloccandolo, perché pare davvero voler demolire la legislazione voluta da Falcone e da mio fratello. Scegliere queste tempistiche per certe esternazioni - aggiunge - che vanno esattamente nel senso contrario del ricordo di un impegno costato la vita, è inammissibile”. Borsellino parla di aspettative tradite: “Le parole di Nordio seguono alla nomina a capo della commissione parlamentare antimafia di Chiara Colosimo della quale non si possono negare i contatti amichevoli con un terrorista (il neofascista Luigi Ciavardini). Ecco, se non ci sarà chiarezza su tutto questo contesteremo alzando le nostre agende rosse, in maniera pacifica perché il patrimonio di Falcone e Borsellino non si custodisce così”. Dario Montana, fratello del commissario della squadra Mobile ucciso da Cosa Nostra il 28 luglio del 1985, è netto: “Questo governo e questo ministro stanno riportando indietro di 20/30 anni le lancette del dibattito giuridico e dell’evoluzione del nostro Paese. Il concorso esterno non è né ossimoro né invenzione, ma un reato che viene perseguito con la combinazione di una serie di norme che sono già nel nostro codice penale. In questo paese - aggiunge - bisogna fare i conti con l’etica e la selezione del personale politico e invece che pensare a separare le carriere di giudici e pm si dovrebbe ci si dovrebbe occupare di inserire nella Costituzione quello che l’Europa ci chiede da tempo: il diritto alla verità. Per noi ancora negato”. L’avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino e dei figli della sorella del giudice, Adele, nel processo, su cui pende Appello, per il depistaggio di via D’Amelio, invoca impegno governativo “su altri temi allontanandosi da campagne innocentiste. Piuttosto che essere presenti per fare dichiarazioni di cerimonia - dice - sarebbe il caso di schierarsi accanto a chi lotta per l’accertamento di verità e giustizia”. “Più probabile che non”: quella trappola nelle interdittive antimafia di Angelo Riccardi L’Unità, 17 luglio 2023 Le interdittive antimafia sono adottate a discrezione dei Prefetti. Possono espropriare, bloccare un’azienda sulla base del solo sospetto di infiltrazione mafiosa. Leggo e rileggo di una lotta alla mafia fatta di numeri freddi e irrilevanti, come a voler affermare che la lotta alla mafia foggiana non può prescindere nel colpire tutti, indistintamente, malcapitati buoni e cattivi. Consigli sciolti a catena e interdittive antimafia a raffica. Foggia come Reggio Calabria? Sarà il caso di comprendere la Reggio Calabria di oggi e se veramente è stato raggiunto un qualche risultato dell’antimafia sul territorio. Io credo che dopo tale analisi qualcuno guarderebbe con sospetto a queste iniziative dello “Stato”. Le interdittive antimafia sono un mezzo esclusivo utilizzato in Italia per combattere la mafia e dimostrare l’impegno nella lotta alla criminalità organizzata. Questi provvedimenti amministrativi sono adottati a discrezione dei Prefetti e possono essere utilizzati per espropriare, bloccare o distruggere un’azienda sulla base del solo sospetto di infiltrazione mafiosa, basandosi su una valutazione della probabilità di infiltrazione mafiosa all’interno dell’azienda. In parole povere, basta che il Prefetto ritenga “più probabile che non” l’esistenza di infiltrazioni mafiose per adottare l’interdittiva. Carlo Giovanardi ha dedicato tempo alla trappola del “più probabile che non”, raccogliendo denunce degli operatori economici vittime. Dopo aver ripetuto le denunce in conferenze stampa, è stato accusato di minacce al Prefetto di Modena e al gruppo interforze del Ministro degli Interni, oltre che di oltraggio a Pubblico Ufficiale. Le misure di prevenzione mostrano i loro limiti e sono palesemente discrezionali e discutibili. Qual è la visione strategica di chi prende le decisioni? Sarebbe interessante capire gli obiettivi di certe iniziative. Le “scelte” sono in realtà “politiche”, poiché sono affidate al Prefetto di turno che, senza una direzione chiara, decide chi colpire con misure interdittive che danneggiano persone, famiglie, imprese e interi territori. Secondo uno studio di Transcrime, l’85% delle aziende sequestrate alla mafia fallisce entro due anni dalla confisca come misura di prevenzione. È una situazione tragica per l’occupazione e i lavoratori, che perdono improvvisamente il posto di lavoro senza speranza di trovarne un altro. Qual è il modello economico alternativo proposto dallo Stato per evitare questo scenario disastroso? Ad oggi nessuno. Immaginate cosa sarebbe accaduto alle aziende di Silvio Berlusconi - e all’economia nazionale - se fossero state oggetto di interdittive. Sulla parola di ex boss mafiosi e collaboratori di giustizia accreditati nei processi, che hanno ricordato e giurato sui rapporti tra Berlusconi e Cosa Nostra, sul pagamento di un “pizzo” in cambio di vantaggi economici e della pace sociale e famigliare. Meno male, ne sono felice, che le aziende di Berlusconi siano state risparmiate. Che nessun Prefetto abbia deciso di interdirle in base alla regola del “più probabile che non”. Che nessun giudice abbia adottato misure di prevenzione patrimoniali nei confronti dell’imprenditore Berlusconi. Lo stesso Berlusconi che nell’arco dei suoi quattro governi, sullo stesso presupposto del “più probabile che non”, ha sciolto per mafia decine e decine di consigli comunali. Per molto meno, invece, in provincia di Foggia, un’azienda è stata di recente colpita da un’interdittiva. E non per aver pagato la mafia ma per aver denunciato una richiesta estorsiva di natura mafiosa. È difficile capire come un provvedimento del genere sia solo stato concepito e poi attuato. Perché le conseguenze per un’azienda colpita da un’interdittiva possono essere devastanti. Viene esclusa dalle liste delle aziende “pulite”, il che significa che non può più lavorare con la Pubblica Amministrazione, partecipare a gare pubbliche, ottenere licenze o autorizzazioni amministrative; persino l’accesso al credito bancario diventa quasi impossibile. L’azienda è condannata al fallimento. Secondo le parole del famoso scrittore Leonardo Sciascia, la mafia non può essere sconfitta con la “terribilità”, ma attraverso il Diritto. Ecco, dobbiamo fare in modo che il Diritto prevalga, che la verità emerga e che la giustizia sia giusta. Solo allora potremo sconfiggere la mafia e costruire un futuro migliore per tutti. Ragusa. Detenuto si uccide in carcere: scoppia la protesta livesicilia.it, 17 luglio 2023 Un detenuto, originario di Noto, si è suicidato all’interno del penitenziario di Ragusa, in contrada Pendente. Si tratta di C. S., 26 anni. Lascia una moglie e tre figli. Subito dopo avere appreso la notizia, gli altri reclusi dei tre piani del reparto penale hanno inscenato una protesta battendo e lanciando oggetti nei corridoi. Per placare i subbugli è stato richiamato altro personale non in servizio con l’ausilio di altre forze di Polizia. La protesta è stata rientrata solo a tarda notte. Il segretario nazionale della PolGiust, Francesco Davide Scaduto, sottolinea in una nota come “la sicurezza degli istituti penitenziari non sia più argomento di interesse pubblico, denunciando al contempo l’assenza di un protocollo di intervento per intervenire in tali ipotesi di criticità”. Dall’inizio del 2023 sono in tutto 7 i casi di suicidio avvenuti nelle carceri siciliane. Tre di essi si sono registrati al carcere di Augusta, un quarto a Messina a marzo ed altri due al carcere Pagliarelli di Palermo. Momenti di tensione si sono registrati a Ragusa all’arrivo dei famigliari. Ravenna. Tensione in carcere, detenuti incendiano la propria cella: tra le cause il caldo di Annamaria Corrado Il Resto del Carlino, 17 luglio 2023 Secondo il sindacato autonomo di polizia penitenziaria sono le eccessive temperature ad aver scatenato la protesta. Fumo e paura ma nessuno è rimasto ferito. Trasferiti i due albanesi che hanno appiccato il fuoco. Potrebbe essere stato il caldo eccessivo la causa della protesta che sabato sera ha creato tensione nel carcere di Ravenna. Poco dopo le 19 due detenuti hanno incendiato il materasso della loro cella al secondo piano, provocando un intenso fumo che si è diffuso immediatamente anche al piano inferiore. Pare che a prendere fuoco siano state anche alcune bombolette dei fornellini utilizzati dai detenuti per cucinare. L’aria è diventata irrespirabile e anche chi era nelle altre celle ha iniziato a urlare alle finestre ‘Aiuto, aiuto, al fuoco!’, mentre altri sventolavano fazzoletti bianchi per attirare l’attenzione. Nel frattempo, mentre davanti all’ingresso dell’istituto si affollavano carabinieri, polizia, guardia di finanza, polizia locale, vigili del fuoco, all’interno il personale della polizia penitenziaria - era arrivata intanto la direttrice dell’istituto, Carmela De Lorenzo, a coordinare le operazioni - metteva in salvo i detenuti. Le celle sono state aperte e sono stati fatti uscire tutti. I due che hanno appiccato il fuoco sono stati portati in un cortile e tenuti separati dagli altri, si tratta di due uomini di origine albanese in carcere per furto e droga il primo e per aver lanciato una molotov contro un’auto ferma nella zona di via Zalamella il secondo. Anche gli altri carcerati sono stati portati all’aria aperta, ma in altri settori. Sono entrate nella casa circondariale l’ambulanza e l’auto medicalizzata e i detenuti sono stati visitati per scongiurare possibili intossicazioni da fumo. Tutti stavano bene, non è stato necessario alcun ricovero e anche le operazioni di evacuazione nei cortili è avvenuta senza intoppi, e senza che nessuno si facesse male. Gli autori dell’incendio, due fratelli, non hanno opposto resistenza, né hanno dato spiegazioni sul perché del loro gesto. L’area esterna tutto attorno, secondo il protocollo da mettere in atto in questi casi, è stata messa in sicurezza dalle forze dell’ordine presenti e i due uomini sono stati immediatamente trasferiti, uno ad Ancora, l’altro a Reggio Emilia. A causa di quello che è accaduto sabato sera è stato annullato il concerto previsto ieri con i musicisti della Cherubini, un appuntamento ormai consolidato al quale ha sempre preso parte, come spettatore, il maestro Riccardo Muti. La casa circondariale si augura di poter recuperare al più presto l’evento che vede la partecipazione sempre di parecchi detenuti. Ad attribuire al caldo la protesta di sabato è il Sappe, il Sindacato autonomo polizia penitenziaria. Nei giorni scorsi, tra l’altro, il garante dei detenuti, Roberto Cavalieri, aveva scritto una lettera all’Amministrazione penitenziaria, per chiedere una serie di misure per migliorare la situazione, tra le quali l’apertura della porta blindata delle celle durante la notte per consentire una maggiore circolazione dell’aria. In carcere sono già iniziati gli accertamenti, i detenuti verranno sentiti e saranno controllate anche le registrazioni del sistema di videosorveglianza. Cagliari. Sdr: nel carcere di Uta nuovo corso di parruccheria per le detenute reportsardegna24.it, 17 luglio 2023 Si rinnova l’appuntamento con “Un carcere di genere. Un genere di carcere”, il corso di parruccheria, ideato e promosso dall’associazione “Socialismo Diritti Riforme Odv” in collaborazione con la Hair School di Francesca Piccioni. Undici detenute della sezione femminile della Casa Circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari, da lunedì 17 luglio, potranno seguire un corso professionale di parruccheria per apprendere le basi di una professione che potrà offrire loro, una volta terminato di scontare la pena, di svolgere un’attività lavorativa. L’iniziativa, che saraà inaugurata alle ore 9.00 alla presenza della responsabile dell’Area Educativa dell’Istituto Giuseppina Pani e della vice Presidente di Sdr Rina Salis, si avvale della collaborazione della Direzione, dell’Area Educativa e di quella della Sicurezza dell’Istituto. Il programma, curato da Francesca Piccioni titolare di Hair School di Quartu Sant’Elena, prevede un primo modulo formativo, articolato in 8 lezioni ciascuna di 4 ore, per un totale di 32 ore, per conoscere le tecniche di base. Ciascuna detenuta riceverà il materiale necessario per imparare a fare lo shampoo, montare i bigodini, usare il phon e/o la piastra nonché utilizzare le tinture per capelli o l’ossigeno per schiarirli. Il tutto seguendo scrupolose norme igieniche. “Per il secondo anno consecutivo SDR - ha sottolineato Paola Melis, presidente del sodalizio - si impegna per offrire un’opportunità a chi sta scontando una pena detentiva. Nella scorsa edizione sono state 8 le detenute coinvolte, questa volta saranno 11, un numero significativo in una sezione che conta 28 donne. Ciò è potuto avvenire con il nostro sforzo finanziario ma anche grazie alla generosità di Francesca Piccioni che ancora una volta si presta a offrire la sua esperienza per dare un’occasione si riscatto a persone private della libertà”. “Il titolo che abbiamo scelto per questa iniziativa - ha sottolineato Maria Grazia Caligaris socia fondatrice di SDR - allude al carcere che vorremmo, cioè un penitenziario da cui si esce disponendo di una cassetta di attrezzi utile per inserirsi nel mercato lavorativo, un’occasione per poter utilizzare il tempo in modo utile a se stesse e alla società. Accedere alla formazione qualificata non è facile per le detenute, ecco perché siamo particolarmente grati alla Direzione del carcere e all’Area Educativa e della Sicurezza per il sostegno e la disponibilità”. “Si tratta di un progetto - ha evidenziato il Direttore Marco Porcu - che guarda lontano e risponde a quelle che sono le principali finalità della reclusione. Apprendere un mestiere significa trasformare il tempo della detenzione in un’occasione di crescita personale e poter rientrare nella società arricchite di un’esperienza, trovando anche una migliore collocazione sociale”. “Nella sua essenzialità, il programma - ha evidenziato Francesca Piccioni - contempla le fasi iniziali più importanti della professione. Fare la parrucchiera richiede molte competenze che vanno dalla scelta dei prodotti alla cura del cliente fino alla gestione contabile. Sono però fondamentali saper trattare il capello e nutrire la passione per il mestiere. Il corso avrà soprattutto questa finalità: suscitare interesse e amore per un’attività che offre grandi soddisfazioni a chi la coltiva con umiltà e pazienza”. Volterra (Pi). Un’estate a teatro, il viaggio di Atlantis dentro il carcere di Barbara Gabrielli La Repubblica, 17 luglio 2023 Il nuovo spettacolo di Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza andrà in scena dal 28 luglio al 3 agosto. “Un’incitazione a mettere in primo piano l’uomo”. Gli altri appuntamenti in programma. A chi ancora gli chiede perché non vada a lavorare in qualche grande teatro, il regista Armando Punzo, Leone d’oro 2023 alla carriera alla Biennale di Venezia, risponde che lui crede nelle utopie e nella capacità che arte e cultura hanno di trasformare le persone. Con questa consapevolezza, da 35 anni, guida i suoi attori-detenuti della Compagnia della Fortezza nel carcere di massima sicurezza di Volterra in un percorso artistico, prima ancora che sociale. E luglio, come di consueto, è il momento della restituzione. Il nuovo lavoro della compagnia si intitola “Atlantis - Capitolo 1 La Permanenza” ed è l’ideale prosecuzione del precedente progetto “Naturae”. “Atlantis non è un luogo reale, ma mentale e utopico. È un’incitazione a mettere in primo piano l’uomo e le sue potenzialità, tralasciando gli aspetti puramente materialistici” spiega Punzo. Lo spettacolo andrà in scena dal 28 luglio al 3 agosto, all’interno del carcere, accompagnato da attività, mostre e approfondimenti sulla poetica e la pratica di questa esperienza che continua a fare scuola grazie anche alla masterclass “Per Aspera ad Astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, sostenuta da Acri-Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio. Da qui è nata l’idea di realizzare un film documentario, affidato al regista Gianfranco Pannone, per raccontare la vita della compagnia. Il progetto, che verrà illustrato in un incontro dal titolo “Appunti per un Film” (29 luglio ore 18), arriva proprio all’inizio di una fase importante per la Compagnia della Fortezza e per tutta Volterra. È stato infatti finalmente affidato l’incarico allo studio di architettura Mario Cucinella per la realizzazione di un teatro permanente all’interno del carcere, il primo caso in tutta Europa. Proseguendo con il programma, il 21 luglio prenderanno il via due iniziative a cura di Cinzia de Felice, alter ego di Punzo nella direzione organizzativa e nella gestione dei progetti. All’interno della Salina Locatelli, grande stabilimento industriale tuttora in funzione, prenderà posto un’installazione permanente dal titolo “La Compagnia della Fortezza nella Salina di Volterra”. Il sale è stato il protagonista dell’allestimento dello spettacolo che la Compagnia della Fortezza mise in scena per la Biennale di Venezia in occasione del conferimento del Leone d’oro 2023 alla Carriera a Punzo. Si intitola infatti “Il Sale Di Volterra - la Compagnia della Fortezza alla Biennale di Venezia” la serie di fotografie di Stefano Vaja, esposta al Volterra bistrot. Domenica 30 luglio verrà invece presentato il libro fotografico di Filippo Trojano “I’m Looking For The Face I Had Before The World Was Made” (edito da Leporello ed.): una serie di scatti realizzato nell’estate del 2022 nel backstage dei due spettacoli portati in scena dalla Compagnia della Fortezza. Mercoledì 2 agosto, infine, presentazione del libro del giornalista Fabio Francione, “Sguardi Sul Teatro Contemporaneo”. Caltanissetta. “Gocce di speranza”: detenuti dell’IPM incontrano le Clarisse di Marcella Sardo ilfattonisseno.it, 17 luglio 2023 Sono “gocce di speranza” quelle che, giorno dopo giorno, operatori e formatori dell’Istituto Penale Minorile (IPM) di Caltanissetta infondono ai loro giovani detenuti. Stimoli che arrivano da attività diversificate, iniziative a sfondo sociale, culturale e spirituale favorendo un dialogo ad ampio raggio proprio perché scaturito con persone che arrivano da mondi talvolta molto diversi da quello dal quale provengono i minorenni dell’IPM. Si tratta di zampilli che riescono a penetrare oltre le sbarre del carcere minorile per promuovere il recupero sociale e l’integrazione nella società. Musica, teatro, tradizioni cittadine. Sono già numerose le iniziative promosse dal tutto il team dell’IPM diretto da Girolamo Monaco nel 2023 e tante altre sono ancora in cantiere. Solo per fare qualche esempio basta citare la partecipazione alla Real Maestranza del Mercoledì Santo al seguito del Capitano, il concerto musicale della Modern Music Orchestra tenuto nel cortile dell’istituto di via Don Minzoni e la collaborazione con gli studenti del liceo Coreutico “R. Settimo” di Caltanissetta per un laboratorio di scrittura creativa. Ma l’attività non si è mai fermata e in questi giorni tre detenuti hanno ottenuto dalla magistratura un permesso speciale per andare a trovare, insieme ai loro operatori, le monache di clausura che vivono nel convento di Santa Chiara alle porte di Caltanissetta. Tra le religiose e i detenuti c’erano delle sbarre, elementi purtroppo ben noti ai minorenni che, però, questa volta hanno assunto un significato ben diverso. Una “scelta di vita” quella delle Clarisse che, volontariamente, hanno deciso di ritirarsi in un Monastero per vivere la loro vita in preghiera e aprirsi al mondo ponendosi al totale servizio dell’altro. Reclusione, cella, sbarre: sono parole comuni, ma declinate in contesti assolutamente diversi, addirittura opposti. Ciò, però, al quale si aspira è un concetto comune ed è quello del “peso della libertà” non soltanto nel corpo ma, soprattutto, nello spirito. I ragazzi sono usciti dal convento con la consapevolezza di avere avuto un confronto esistenziale serrato, profondo, unico sul senso della vita. Un’esperienza che, per gli effetti davvero “rivoluzionari” scaturiti, ha piacevolmente stupito tutti i partecipanti presenti. I detenuti, gli educatori, l’assistente sociale, la psicologa, gli animatori del progetto “espressione e libertà”, l’ispettore di polizia penitenziaria e il direttore dell’IPM hanno respirato, nella serenità del luogo, il potere interiore del cambiamento possibile. Una preziosa fonte che, sgorgando, scivolerà come un ruscello verso tutti i professionisti che transitano dall’IPM e della quale, a cascata, beneficeranno tutti i minorenni. Reggio Calabria. I coristi del carcere e del coro Città di Villa protagonisti del “Concerto d’estate” reggiotoday.it, 17 luglio 2023 L’iniziativa si è svolta nei giorni scorsi nella sala teatro Emilio Campolo dell’istituto penitenziario Panzera di Reggio Calabria, plesso San Pietro. Una manifestazione fuori dal comune. Quella che ha visto protagonisti i detenuti dell’Istituto penitenziario G. Panzera di Reggio Calabria, plesso San Pietro, diretto dal dott. Giuseppe Carrà, in collaborazione con il Coro Città di Villa San Giovanni, associazione villese presieduta dall’avv. Patrizia Arcuri. Giovedì e venerdì 13 e 14 luglio, presso la sala teatro Emilio Campolo dell’istituto S. Pietro, i coristi del carcere e quelli del coro Città di Villa, entrambi diretti dal maestro Giusj Antonella Santacaterina, sono stati i protagonisti del “Concerto d’estate”, frutto di un lungo progetto svoltosi durante l’anno nel carcere reggino ed intitolato “Musi canto”. Progetto approvato dallo stesso direttore del carcere, Carrà, sostenuto dal capo area trattamentale, Lorenzo Federico e proposto dal cappellano Padre Carlo Maria Cuccomarino Protopapa, da sempre convinto che “l’inclusione dei carcerati nella chiesa e la loro rieducazione sia una sfida culturale in cui impegnarsi tutti insieme”. A sviluppare il progetto, incontrando settimanalmente i detenuti, sono state Giusj Santacaterina, che ha curato le voci, la tecnica e l’esecuzione dei brani, e Claudia Serio, contralto del coro di Villa che ha curato aspetti burocratici e tecnici oltre che aver messo a disposizione la propria voce per aiutare i detenuti durante le prove. “Interagire con la popolazione del plesso S. Pietro - ha sostenuto Carrà - è stata una duplice sfida; da un lato poiché l’interazione con la società esterna all’istituto penitenziario stimola il detenuto ad un percorso di reale autocritica affinché capisca gli errori del passato così che, una volta rientrato in società, possa essere migliore di quando ha iniziato il percorso in carcere; dall’altro perché si possa lanciare messaggio alla società e alla popolazione che in carcere si lavora per rendere migliori le persone quindi si rinforza il messaggio di speranza”. Un evento perfettamente riuscito anche grazie al personale della polizia penitenziaria, comandato dalla dott.ssa Giuseppina Crea, senza il quale non sarebbe stato possibile attivare manifestazioni di questa portata. Il concerto si è svolto in due giornate per dare la possibilità a tutti i reparti di assistere, ha visto protagoniste, oltre i due cori, anche i maestri Luisa e Claudia Morabito, rispettivamente violoncellista e pianista. Il repertorio ha spaziato dai classici come O Sole mio e Volare, a Bocelli e Puccini fino agli assoli del “duo Morabito”, impegnate in brani come Amapola, Besame mucho e Libertango. “Esperienza meravigliosa - ha sostenuto Federico - che auspichiamo possa proseguire negli anni”, poiché “non dimentichiamo - ha concluso l’avv. Arcuri - che la rieducazione passa soprattutto attraverso la cultura e quindi la musica”. Poiché la musica, come sosteneva il grande Ezio Bosso, si può fare in un solo modo: insieme! La tutela dei diritti tra politica e giustizia di Giuseppe Maria Berruti Il Messaggero, 17 luglio 2023 La politica vive un interim. È affidata all’economia. La tesi della sovrastrutturalità del diritto riceve una conferma. Tutto oggi è subordinato alla compatibilità economica. I diritti non sono sentiti come costruzioni storiche corrispondenti a conquiste. Che si impongono ad altre ragioni dello stare insieme. I diritti sono diventati provvisori, sottoposti sempre alla verifica della loro sopportabilità finanziaria. Il Covid ha trovato questa realtà e l’ha esasperata. Perché anzitutto occorreva vivere, difendere, soprattutto non agire secondo schemi non protetti dalla malattia. La regola giuridica richiede razionalità, attenzione, e soprattutto socialità assoluta nella sua applicazione, tutti concetti che la difesa necessaria dal contagio ha reso retorici. La tutela del lavoro, la pensione, la scuola, la sanità, e tutto ciò che fino ad ora si è considerato un diritto, ci appaiono ciò che forse sono sempre stati: traguardi. Che la Storia oggi sposta più avanti. Più lontano. Troppi anni di uso della forza della legge piuttosto che della ragionevolezza di cui deve essere intrisa, ci rendono colpevoli. Non si poteva uscire da tanti errori senza pagarli in un momento nel quale, invece, la consapevolezza della essenzialità dei diritti dovrebbe essere massima. E dimenticando di avere vissuto l’illusione di poter fare tutto con le leggi, con la politica. Perciò la politica oggi vive una fase dalla quale non uscirà semplicemente quando il Covid (come è già accaduto), oppure la crisi economica, si riterranno superati. Il cambiamento è rapido. Non sappiamo quando il mercato, che vive della sua relazione di forza soprattutto quando crisi esogene, come una guerra, dettano la loro imprevedibilità, concederà una tregua. Non sappiamo quando torneremo a ragionare in termini di diritti, perché non abbiamo nessuna chiarezza del modello sociale condiviso che dovrebbe supportarli. I diritti che conosciamo sono diventati più deboli. E non abbiamo idea di quelli che dovrebbero sostituirli. Procediamo a sbalzi, alla ricerca di soluzioni che ci consentano di prendere fiato. Perché il baratro della perdita del lessico comune tra classi, categorie e generazioni, non è stato ancora superato. In questo quadro si pone il disagio dei giuristi e dei giudici. Gli studiosi non hanno affrontato il problema della prevalenza delle tecnologie finanziarie sulle scelte dei governi. Non esistono ancora meditazioni utilizzabili per capire come affrontarne la velocità, e controllarne la responsabilità dentro schemi giuridici seri. Il tasto di un computer trascina danaro, marchi, imprese vere, dietro operazioni di cui si saprà sempre tardi, e sempre poco. I giudici affrontano domande con strumenti vecchi. Applicano leggi che sappiamo tutti si dovranno superare. Sembrano, a volte, sacerdoti di una religione morta. E questa sostanziale inadeguatezza delle soluzioni sperimentate spinge qualche volta verso soluzioni stravaganti, personali perché contingenti, soprattutto estranee al controllo democratico sulla giustizia fondato sulla fedeltà alla legge, che è regola fatta da altri che non è il giudice. Alla velocità del cambiamento occorre rispondere con attenzione alle debolezze. La solidarietà verso i più colpiti è la premessa di un processo di riforma credibile di tutto ciò che governa la nostra convivenza. Dobbiamo capire cosa e come cambiare perché, questa volta, davvero tutto cambi. Lo schema feudale che ci appartiene e si autoalimenta da secoli nel riconoscimento reciproco delle corporazioni, deve essere superato. Deve cambiare il Parlamento, deve cambiare la Magistratura, debbono essere riviste tutte le disordinate sovranità istituzionali. Per giungere ad uno schema di democrazia che renda controllabile ogni scelta. E sottragga la giustizia al ruolo di sversatoio dei problemi indotto a trovare soluzioni oggettivamente politiche. Stabilendo in modo moderno, oltre le ambiguità di una separazione dei poteri mai realizzata nella Storia, fino dove può spingersi il giudice nella creazione della regola del caso concreto. Dobbiamo, insomma, approfittare dell’interim, per ritrovare il ruolo dello Stato di diritto. Accettando di discuterne con pacatezza perché nulla nella Storia è risultato immutabile. In caso contrario, saremo preda del provvisorio. Quella fuga dalla verità della politica che inquina il dibattito pubblico di Marco Ruotolo* La Stampa, 17 luglio 2023 Nella Costituzione non esiste un divieto alle menzogne, ma ci sono limiti anche alle loro manifestazioni. Gli inganni della Casta sono un danno al diritto di essere informati e tradiscono la fiducia del popolo. La verità e la fiducia possono dirsi valori costituzionalmente rilevanti? Fino a che punto le “manifestazioni menzognere” sono “costituzionalmente tollerabili”? Possono davvero costituire limiti alla libertà di espressione? È un terreno di riflessione complesso, che presenta indiscutibili profili di interesse per il costituzionalista. Rimanda, infatti, al rapporto tra autorità e libertà, invoca l’essenza della sovranità popolare, che appartiene al (e non emana dal) popolo (art. 1, secondo comma, Cost.), investe, persino, il rapporto tra i diritti inviolabili e i doveri inderogabili (art. 2 Cost.), per poi condurci al cuore della rappresentanza democratica, alle forme e alla sostanza della partecipazione di ciascuno alla vita politica del Paese. Una partecipazione, quest’ultima, che, presupponendo l’eguaglianza dei cittadini di fronte alle istituzioni (isonomia), richiede, per essere effettiva, la rimozione di ostacoli di ordine economico e sociale da parte della Repubblica (art. 3, secondo comma, Cost.), mettendo ciascuno in grado di potersi formare liberamente e consapevolmente un’opinione e, tra l’altro, di potere liberamente (e dunque anche consapevolmente) esercitare il diritto di voto (art. 48, secondo comma, Cost.). Senza dimenticare i doveri di solidarietà politica, economica e sociale che qualificano l’appartenenza del polít?s alla politéia, lo stare insieme, il condividere le sorti di una comunità, il cui adempimento, ove riferito a persone cui siano affidate funzioni pubbliche, è connotato con i significativi caratteri della “disciplina” e dell’”onore” (art. 54, secondo comma, Cost.). Entro questa cornice, si può davvero dire addio alla verità? Se non si può forse affermare che la Costituzione statuisca “un generale obbligo di verità”, nemmeno può dirsi che garantisca le “manifestazioni menzognere”. Almeno nel contesto dell’esercizio di funzioni pubbliche dovrebbe escludersi che possa trovare protezione “una sorta di diritto alla menzogna”, la quale, anche se non “vietata in sé, in quanto anch’essa è espressione del pensiero”, ben potrà esserlo (e lo è) quando urti “contro uno dei limiti costituzionalmente imposti alla stessa libertà di espressione del pensiero” (Paolo Barile) o quando la mistificazione non riguardi, propriamente, il giudizio sul fatto ma l’esistenza stessa del fatto, in spregio ai valori della fiducia e della veridicità. Se, come ha sostenuto Gustavo Zagrebelsky, “la democrazia non è il regime della verità” (perché “se c’è la verità, non ci possono essere discussioni, compromessi, elezioni, votazioni, maggioranze e minoranze, dissenso e garanzie”), essa “non può nemmeno essere il regime del contrario della verità, cioè della menzogna e dell’inganno”. Anche perché, come ci insegna Häberle, “la verità è un concetto connesso con la libertà, la giustizia e il bene comune”. E il cittadino, che necessita di verità, deve avere gli “strumenti per ricercarla e “conquistarla”“, potendo vantare non soltanto un diritto a essere informato, ma anche a non essere disinformato. A venire in rilievo è anche il delicato rapporto tra “informazione” e “fiducia”, che merita particolare protezione nel contesto politico, in vista di un’effettiva e consapevole partecipazione di ciascuno alla vita politica del Paese. Perché riconoscere che la menzogna sia stata da sempre considerata un mezzo lecito della politica non significa affermare che la stessa non incontri, nella sfera pubblica, alcun limite. Il limite principale - come ci ricorda Hannah Arendt - sta proprio nel rapporto con la verità dei fatti; un rapporto senz’altro difficile, perché l’interpretazione dei fatti (specie politici) è in sé problematica e aperta a diverse letture. Il che non significa, però, che questo rapporto non meriti di essere approfondito, guardando specificamente, come si è anticipato, al tema delle menzogne, delle falsità e delle distorsioni dei fatti che siano collegate alla funzione di rappresentanza politica del comunicatore. L’affidabilità dell’oratore non sembra poter essere scissa dalla veridicità della narrazione, da una rappresentazione che sia effettivamente collegata alla “verità dei fatti”, coessenziale all’instaurarsi di un effettivo rapporto di fiducia, fondamento di una rappresentanza che aspiri a essere democratica. A ben vedere, più che la verità (o persino la veridicità) è dunque la menzogna, specie se organizzata, a poter rappresentare un limite per le libere opinioni nel contesto politico, in quanto lesiva dei diritti politici altrui e, specificamente, del diritto a essere correttamente informati. Il che significa, senz’altro, guardare al tema dei limiti alla libertà di manifestazione del pensiero non in termini unitari, ma valorizzando il fine della comunicazione e guardando anche al soggetto comunicatore, ove tali elementi implichino il venire in gioco di altri principi costituzionali e dunque l’esigenza della loro tutela (con riguardo alla comunicazione politica, ovvero alla funzione di rappresentanza politica esercitata dal comunicatore, il riferimento è, anzitutto, ai già richiamati principi che trovano espressione negli artt. 1, 48 e 54 Cost.). Non si tratta di proporre un’etica della verità, ben consapevoli che il dubbio non è il contrario della verità. Si tratta, piuttosto, di distinguere il piano dell’esistenza da quello della conoscenza e della rappresentazione dei fatti. Senza avere troppe remore ad affermare che la menzogna del politico è sempre un tradimento della fiducia, non importa se ricercata (specie nella prospettiva del voto) o già ottenuta (a seguito dell’acquisizione del consenso). *Ordinario di diritto costituzionale Università Roma Tre Migranti. La rivolta dei sindaci: “Scaricati come pacchi nei municipi” di Irene Famà La Stampa, 17 luglio 2023 Proteste dei Comuni dal Piemonte al Veneto. Le Regioni al governo: “Basta scelte imposte”. Gli slogan in campagna elettorale erano tutti dello stesso tenore: “Basta sbarchi”, “Difesa dei confini”. Si urlava all’”invasione” e l’umana solidarietà era tacciata di buonismo. Chi scappa dalla guerra, dai regimi, dalla fame, dalla povertà ha continuato a scappare. A cercare rifugio e una possibilità in Italia. Gli sbarchi proseguono, aumentano. E nei territori chiamati ad accogliere, dal Piemonte al Veneto, monta la protesta. Perché, dicono, “mancano progetti seri e condivisi”, “manca un preavviso adeguato”. Dal primo gennaio fino a ieri, sulle coste italiane sono sbarcati oltre 75mila migranti: 43mila in più del 2022. Lasciano la Costa d’Avorio, Guinea, Egitto, Bangladesh, Pakistan. E sempre di più fuggono dal caos della Tunisia. Arrivano in Italia. E i comuni vengono chiamati all’accoglienza in base alla popolazione residente, alla disponibilità immobiliare e alle cooperative. Iter e malumori. Si inizia da piccoli comuni del Piemonte, come Bibiana che conta 3400 abitanti. Lì, in Val Pellice, il sindaco Fabio Rossetto l’ha detto chiaro: non è favorevole ad ospitare 50 profughi in una vecchia Rsa. “Servono analisi, approfondimenti, definizione degli obiettivi, valutazione degli impatti sul territorio”. E ancora. “Ospitiamo già 337 stranieri. E poi un conto è l’accoglienza diffusa, un altro è trovarsi cinquanta persone da un giorno all’altro”. Altro esempio. Forno Canavese. A parlare è il sindaco Alessandro Gaudio: “Aspettavamo venti persone, ne sono arrivate 64”. Animi tesi nel vicentino dove diversi sindaci hanno denunciato l’arrivo di migranti senza preavviso: “Scaricati come pacchi davanti ai municipi”. Come il sindaco di Castelgomberto, Davide Dorantani, che ha scritto anche una lettera al Prefetto dicendo che quei tre ragazzi, due tunisini e uno del Gambia, non potevano stare lì, negli spogliatoi di un campo di calcio. Ieri, la Prefettura ha mandato un pulmino a prenderli. Saranno riassegnati a un altro comune. Oltre duemila chilometri, il mare, gli scafisti: no, il viaggio della speranza di questi tre giovani non si è ancora concluso. I numeri di chi chiede asilo aumentano: 3.970 le persone arrivate a Torino e provincia nell’ultimo mese, 900 in più dell’anno scorso. Quasi tremila in più gli arrivi in Veneto rispetto al 2022. E le Regioni aprono con il governo il fronte delle collocazioni e dell’accoglienza nei propri territori. Il governatore Zaia, voce fuori dal coro rispetto ad altri della Lega, ha chiesto di investire il più possibile sull’ospitalità diffusa contro la “realizzazione di altre tendopoli”. E ancora. “Il mio Veneto non ce la fa più e tutta l’Africa in Italia non ci può stare”. Numeri e polemiche gravano sullo stato di emergenza nazionale, dichiarato l’11 aprile scorso. E le Regioni chiedono “decisioni comuni”, non “scelte imposte”. Un appello che tiene insieme un po’ tutto: niente arrivi all’improvviso, pensare e coordinarsi sui progetti. “Bisogna evitare decisioni calate dall’alto. C’è bisogno di una collaborazione che porti a scelte prese di comune accordo”, ribadiscono vari presidenti di regione. Il Viminale cerca di stemperare gli animi e assicura “la massima disponibilità al dialogo con tutti gli interlocutori istituzionali”. E il commissario Valerio Valenti commenta: “Stiamo stressando il territorio per l’aumento degli arrivi, che è fisiologico in estate, ma il sistema tiene e questi problemi ci sono sempre stati”. Nel 90% dei casi, dice, “il sistema di collocazione dei migranti ha funzionato e funziona. Ci sono state ricadute più forti su qualche territorio, ma sono criticità che nascono da situazioni specifiche”. Ieri solo a Lampedusa sono sbarcati quasi in mille e nelle ultime ore lo stesso hotspot, prima che iniziassero i trasferimenti, aveva raggiunto 2.304 ospiti. E il commissario Valenti annuncia: “Stiamo lavorando a nuove aree esclusivamente temporanee e appositamente dedicate in Sicilia e Calabria per poter sopportare il significativo aumento del carico di arrivi con la creazione o l’implementazione di ‘punti di crisi’, ovvero aree di primissima accoglienza, come abbiamo fatto a Lampedusa”. Famiglie arcobaleno sotto attacco, raccolta fondi per sostenere le spese legali di Pasquale Quaranta La Stampa, 17 luglio 2023 “Le Procure non possono cancellare i nostri figli”. L’associazione Edge rilancia la campagna “Affermazione Costituzionale” di Rete Lenford: “L’avvocatura lgbti+ difenderà le coppie destinatarie di impugnazione in ogni città”. Una raccolta fondi per sostenere le spese legali contro le Procure che cancellano i riconoscimenti di bambini e bambine nati in Italia da coppie omogenitoriali. La campagna nazionale chiamata “Affermazione Costituzionale” avviata da Rete Lenford - Avvocatura per i diritti lgbti+, riceve ulteriore sostegno da parte di Edge - Leaders For Change, un’associazione che dal 2012 riunisce persone di rilievo della comunità imprenditoriale lgbtq+ italiana e i loro alleati, inclusi imprenditori, manager e professionisti. “Siamo scioccati dall’aggressività delle Procure e dalle conseguenze disumane e rischi a cui sono esposte le famiglie arcobaleno e i loro bambini - spiega Lucia Urciuoli, presidente di Edge -. Per questo abbiamo deciso di non rimanere inerti e di agire insieme ad altre associazioni e alla società civile”. Cosa significa e qual è lo scopo della campagna “Affermazione Costituzionale”? “L’obiettivo è riaffermare l’illegittimità della richiesta di cancellazione dei figli da parte delle Procure, promuovendo le ragioni delle famiglie arcobaleno in tutte le sedi giudiziarie e sollecitando ogni autorità a rivolgersi nuovamente alla Corte costituzionale per proteggere le famiglie omogenitoriali. Proprio perché crediamo nello Stato di diritto, confidiamo nella magistratura perché si affermi nella Corte, e ci auguriamo presto anche in Parlamento, l’uguaglianza costituzionale di tutte le famiglie. Sosteniamo Rete Lenford perché sosterrà tutte le spese necessarie per la difesa legale in ogni fase del processo, a ogni grado e davanti a qualsiasi autorità italiana o sovranazionale. In questo modo, sosterremo tutte le coppie coinvolte che hanno avuto impugnazioni da parte della Procura riguardo al riconoscimento dei figli da parte del genitore intenzionale. Un sostegno che si applica a tutte le città in cui si verifichino queste situazioni, non solo a Padova che attualmente è al centro dell’attenzione mediatica, ma ovunque”. Recentemente, alcune Procure hanno impugnato i riconoscimenti di bambini nati in Italia da coppie omogenitoriali. Quali sono le conseguenze di queste decisioni? “È successo a Padova, a Milano, a Bergamo, dove il tribunale ha stabilito che dal certificato di nascita di una bambina di nove mesi concepita all’estero con la fecondazione eterologa dovrà essere rimosso il nome di una delle sue due madri. Adesso, lo Stato considera la madre non biologica come un’estranea, perdendo così i suoi diritti genitoriali sulla bambina. Nel caso specifico di Padova, la Procura ha impugnato tutti e 33 gli atti di nascita dei bambini con due mamme registrati dal 2017 ad oggi. Queste decisioni hanno le stesse intenzioni e generano le stesse conseguenze e rischi, prima di tutto per i bambini che in questa situazione sono gli unici a non poter nemmeno dire la loro e per le famiglie omogenitoriali che vivono la quotidianità con i suoi diritti, doveri, gioie e preoccupazioni, come qualsiasi altra famiglia che conosciamo”. Come state sostenendo la campagna di Rete Lenford e cosa state chiedendo? “Noi di Edge abbiamo deciso di supportare, sin da subito, Rete Lenford in modo pratico e immediato. A metà giugno abbiamo versato i primi 6 mila euro, provenienti dai fondi dell’associazione e da donatori anonimi, per aiutarli in questa coraggiosa impresa. A partire dal 14 luglio, abbiamo lanciato una campagna pubblica di raccolta fondi sulla piattaforma GoFundMe, rivolta ai nostri iscritti, simpatizzanti e alleati. Chiediamo a tutti loro di scendere in campo al fianco delle famiglie lgbtqia+ e di difendere i diritti di migliaia di famiglie da attacchi quotidiani e sistemici. Vogliamo che diventino nostri alleati in questa mobilitazione politica e ideologica che non può essere combattuta a spese dei minori e di migliaia di cittadini. Vogliamo far prevalere le ragioni del diritto e la forza dei diritti. Non possiamo più tollerare soprusi e violenze psicologiche nei confronti delle famiglie basate sull’orientamento sessuale e la privazione dell’identità personale e familiare dei bambini, in violazione delle norme costituzionali”. L’Occidente diviso sui regimi di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 17 luglio 2023 Cosa impedisce a segmenti delle élite in grado di influenzare rilevanti settori dell’opinione pubblica di solidarizzare con Kiev e forse, domani, con Taiwan? Al vertice della Nato a Vilnius erano presenti, in funzione anti-cinese, i rappresentanti dei Paesi dell’Indo-pacifico, alleati degli Stati Uniti: Australia, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud. Ciò ricorda che, dopo l’Ucraina, la successiva gravissima crisi internazionale potrebbe esplodere in quella parte del mondo e riguardare il destino di Taiwan e, con esso, il futuro dei rapporti fra Cina e mondo occidentale. Taiwan non è un’isoletta sperduta: è un Paese di 24 milioni di abitanti con una democrazia compiuta e di alta qualità, e una economia sviluppatissima. Ed ha un ruolo strategico negli equilibri di potenza nell’Indo-Pacifico. Chi volesse chiarirsi le idee su ciò che è in gioco (anche per noi europei) in quella parte del mondo, dovrebbe leggere Danilo Taino, La guerra promessa (Solferino). Come reagirebbero le opinioni pubbliche europee se Taiwan fosse attaccata dalla Cina? La guerra in Ucraina ha unito i Paesi occidentali e rivitalizzato la Nato. Ma ha prodotto anche divisioni acute in Europa. In Francia, se si considerano i risultati delle elezioni parlamentari, si può constatare che il “partito filo- putiniano” è fortissimo e che, praticamente, solo il presidente Macron è la diga che impedisce alla Francia di rompere la compattezza del fronte occidentale. In Italia i successi televisivi, la dilagante presenza nei talk show dei filo-putiniani ci ha ricordato quanto ampia fosse nel Paese la corrente contraria al nostro sostegno a Kiev. In Germania, gli antichi e forti legami con la Russia si sono oggi spezzati ma le vecchie solidarietà continuano a influenzare segmenti rilevanti dell’opinione pubblica. Se una guerra nel cuore dell’Europa non è riuscita a compattare del tutto le opinioni pubbliche, che accadrebbe se la guerra successiva si svolgesse dall’altra parte del globo? La dichiarazione di Macron di qualche tempo fa, secondo cui il destino di Taiwan non può riguardare l’Europa è una possibile anticipazione di ciò che potrebbe succedere se Xi Jinping mantenesse l’impegno, come ripete continuamente, di volere risolvere al più presto e una volta per tutte la questione Taiwan. Quasi certamente l’Europa cercherebbe di tenersi lontana dal conflitto, forse non andrebbe al di là di blande dichiarazioni di fedeltà all’alleanza occidentale e di solidarietà con Taiwan. Ma sicuramente sorgerebbero forti correnti “pacifiste” che chiederebbero la fine dell’intervento americano e dei suoi alleati in difesa di Taiwan, e quindi l’accettazione della conquista cinese dell’isola. Proprio come fanno quelli che avversano il sostegno occidentale a Kiev. Nel caso di Taiwan tali atteggiamenti, plausibilmente, troverebbero molto ascolto nell’opinione pubblica anche perché essa non avvertirebbe immediatamente il senso di pericolo che ha suscitato l’invasione russa dell’Ucraina. Le crisi internazionali, e massimamente le guerre, portano alla luce del sole atteggiamenti e propensioni che in tempo di pace possono restare sotto traccia. Chi, dalle nostre parti, avversa il sostegno a Kiev puntando il dito sulle “colpe” occidentali (il presunto “abbandono” della Russia dopo la fine dell’Unione Sovietica, l’espansione ad Est della Nato, voluta, guarda un po’, proprio dai Paesi che erano stati sotto il giogo dell’Urss) richiama alla mente gli argomenti usati da altri, in altri tempi. Quando Hitler invase la Polonia c’era chi stigmatizzava le responsabilità occidentali. Di certo - lo sappiamo - le dure condizioni di pace imposte alla repubblica di Weimar ebbero un ruolo nell’ascesa del nazismo. Quelle responsabilità c’erano ma Hitler andava fermato lo stesso. Ciò vale a maggior ragione per Putin e l’Ucraina dal momento che la vera (e unica) responsabilità occidentale è stata quella di non avere messo in piedi, prima dell’invasione, un credibile sistema di deterrenza a difesa di Kiev. Come quando l’Ucraina dovette cedere alla Russia le armi nucleari in proprio possesso nel 1994 in cambio di una garanzia occidentale di protezione dei suoi confini. Una protezione che si rivelò finta quando, nel 2014, la Russia si prese la Crimea e una parte del Donbass. Cosa impedisce a segmenti delle élites politiche e intellettuali, dotate del potere di influenzare rilevanti settori dell’opinione pubblica, di solidarizzare con Kiev e forse, domani, con Taiwan? Se se ne ascoltano attentamente i discorsi si constata che nei loro ragionamenti compare sempre una doppia equiparazione: fra democrazie e regimi autocratici da un lato, fra presenza occidentale nel mondo (“l’impero americano”) e quella delle autocrazie dall’altro. I meno ipocriti lo dicono apertamente, gli altri lo fanno comunque capire: le democrazie occidentali sarebbero finte democrazie, regimi che mascherano, con la retorica democratica, il dominio oligarchico, il dominio di pochi ricchi. Pudicamente non si riferiscono alle elezioni definendole “ludi cartacei” né parlano, come Mussolini, di plutodemocrazie ma l’idea è quella. E se le cose stanno così la vera differenza fra le (sedicenti) democrazie e i regimi autocratici è che questi ultimi sono assai meno ipocriti. L’equiparazione di fatto fra democrazie e autoritarismi rende ai loro occhi privi di valore gli appelli in difesa delle prime contro i secondi. E li fa essere indisponibili a schierarsi a favore di democrazie aggredite da stati autoritari: oggi l’Ucraina, domani forse Taiwan. All’equiparazione fra democrazie e autocrazie corrisponde quella fra gli imperi veri e presunti. America, Russia, Cina starebbero nello stesso mazzo, si assomiglierebbero. Con la differenza che l’America è più potente e quindi molto più pericolosa. Pertanto, se si deve scegliere, nella competizione fra imperi, da che parte stare, è meglio opporsi all’America. Si tenga sempre d’occhio la doppia equiparazione proposta dai più severi critici europei delle nostre democrazie. Segnala due cose. La prima è che il futuro della democrazia, anche in Europa, non è assicurato una volta per tutte. Come negli anni Venti e Trenta dello scorso secolo le circostanze possono offrire a élites alienate l’occasione per farsi strada verso i Palazzi del potere. La seconda è che per mantenere la solidarietà occidentale se e quando scoppiano guerre che rappresentano per l’Occidente una minaccia esistenziale, occorrono sia leader all’altezza della sfida sia una laboriosa e faticosa opera di convincimento per impedire che settori rilevanti dell’opinione pubblica si perdano, come nel mito, seguendo il canto di certe sirene. Ora basta, non possiamo rompere il tabù del nucleare di Mario Giro* Il Domani, 17 luglio 2023 Se verrà usata l’arma nucleare ci proietterà in un altro mondo, sconosciuto e completamente diverso da quello attale. Se avvenisse l’irreparabile, ogni stato in possesso dell’arma nucleare (o in procinto di averla) si sentirebbe in diritto di usarla. Rotto il tabù, saremmo di fronte al buco nero dell’inverno nucleare per tutti. Non basta dire che si tratta di paranoie russe: pur assumendo di aver di fronte un regime fuori controllo, si deve far di tutto per evitare che giunga alle estreme conseguenze. Se da una parte in Russia si continua ad alimentare l’ansia atomica, dall’altra in occidente ci si abitua senza troppo reagire. È irragionevole da parte russa continuare a citare la guerra nucleare come una possibilità reale: nei talk viene sovente evocata, quasi ultimo ricorso per prevalere. È un’ammissione di debolezza: a fronte di una conduzione della guerra disastrosa la bomba sembra essere l’ultima chance per mantenere lo status di superpotenza. Ciò che preoccupa ancor di più è che autorevoli commentatori definiscono l’uso dell’arma finale come “decisione difficile ma necessaria”. Non si tratta soltanto di una nevrosi russa: dall’altra parte della barricata se ne discute come di un’eventualità. Fioriscono descrizioni e analisi sui media su cosa potrebbe accadere. Anche in Europa ci stiamo abituando alla guerra nucleare “controllata”, come se si trattasse solo di una forma di conflitto un po’ più forte. Si è passati dalle armi leggere, a quelle anticarro, ai blindati, agli aerei da caccia, ai missili dalle diverse gittate, ai proiettili a uranio impoverito ed ora… all’arma atomica tattica. Il termine “tattico” è fuorviante: se verrà usata l’arma nucleare ci proietterà in un altro mondo, sconosciuto e completamente diverso da quello attale. Cadrebbe l’ultimo tabù mai oltrepassato durante la guerra fredda, a dimostrazione che l’odio ingenerato da questa guerra è più forte e più profondo di quello dello scontro bipolare. Una situazione senza ritorno è ad un passo e occorre reagire. Non basta dire che si tratta di paranoie russe: pur assumendo di aver di fronte un regime fuori controllo, si deve far di tutto per evitare che giunga alle estreme conseguenze. Altrimenti saremo tutti ritenuti responsabili. Così ci guarda il sud globale: percepisce che tra russi e occidentali ci si è messi su un piano inclinato che non si arresta e rischia di fare effetto palla di neve, travolgendo anche loro. Se avvenisse - Dio non voglia - l’irreparabile, ogni stato in possesso dell’arma nucleare (o in procinto di averla) si sentirebbe in diritto di usarla. Rotto il tabù, saremmo di fronte al buco nero dell’inverno nucleare per tutti. Tardi sarebbe a quel punto additare chi ha iniziato per primo: non avrebbe più importanza. A noi occidentali verrebbe chiesto perché non abbiamo fatto tutto il possibile per evitarlo, non cercando la vittoria ma tornando sul terreno pragmatico della politica. Oggi i pragmatici sono coloro che vogliono il negoziato per evitare il peggio, mentre chi punta sull’escalation militare appare come intrappolato in un candore ideologico. Siamo ben oltre le ragioni e i torti ormai: dovremmo esserne consapevoli. La missione del cardinale Matteo Zuppi inviato di papa Francesco, ha iniziato con intelligenza e risoluta mitezza ad aprire canali e ad intravvedere soluzioni ai problemi umanitari. È ora che la politica colga tale opportunità e faccia la sua parte. Davanti alla possibilità di guerra nucleare c’è una sola cosa da dire: ora basta! *Politologo Kenya. La battaglia di Wandayi: cancellare la pena di morte e sostituirla con l’ergastolo di Sergio D’Elia* L’Unità, 17 luglio 2023 Sostituire “Pena di morte” con “ergastolo”: è il disegno di legge semplicissimo ma rivoluzionario del deputato di un collegio piccolo piccolo. James Opiyo Wandayi è arrivato al seggio della più alta assemblea del Kenya a nome del piccolo collegio elettorale di Ugunja, una città di 17.000 abitanti nella contea di Siaya che campa sulla coltivazione di sorgo, patate e manioca. Per rappresentare al meglio la sua terra si era formato come economista del settore agricolo, ma poi alla Camera dei deputati ha fatto qualcosa di meglio degli interessi agricoli dei suoi elettori. Da leader della coalizione di minoranza, per cambiare la faccia del Paese, si è dedicato principalmente alla tutela dei diritti umani e dello stato di diritto, al miglioramento della qualità della vita democratica del Kenya. Una volta è stato espulso dal Parlamento per aver interrotto con un fischio prolungato il discorso sullo stato della nazione del Presidente Uhuru Kenyatta, figlio del primo Presidente del Kenya post-coloniale, Jomo Kenyatta. Wandayi aveva contestato il provvedimento di espulsione davanti all’Alta corte che gli ha dato ragione ordinando che gli fosse consentito di tornare alla Camera perché altrimenti il suo elettorato non sarebbe stato rappresentato. Rappresentato in quali interessi? Non certo in quelli agricoli. La sua missione parlamentare era volta alla affermazione della vita del diritto per tutelare appieno il diritto alla vita nel suo Paese. Il suo disegno di legge di riforma penale è molto semplice: sostituire tre parole, “pena di morte”, con una sola: “ergastolo”. Il deputato del piccolo centro agricolo di Ugunja è convinto che l’abolizione della pena capitale farà diventare grande il suo Paese. Aiuterà il Kenya a preservare il diritto fondamentale alla vita che anima la sua Costituzione, ha detto Wandayi alla Commissione Giustizia e Affari Legali chiamata a esaminare la proposta prima del passaggio al voto del Parlamento. Porrà fine a trattamenti e punizioni crudeli, inumani e degradanti delle persone condannate in attesa della morte. A scanso di equivoci, Wandayi ha proposto alla commissione di cancellare dall’ordinamento penitenziario anche l’articolo sul metodo di esecuzione in cui si afferma che, quando una persona viene condannata a morte, deve essere impiccata per il collo fino al suo ultimo respiro. Tutti i membri della Commissione hanno sostenuto la proposta di Wandayi, eccetto Jane Njeri, rappresentante di Kirinyaga. “Dobbiamo rafforzare e attivare la pena di morte. Chi ruba o uccide dev’essere impiccato, occorre fare di una persona un esempio. Devono esserci equivalenza ed estreme conseguenze per l’atto compiuto.” Wandayi ha replicato che la pena di morte va messa al bando, non solo perché costituisce una violazione del diritto alla vita, “senza il quale non si possono godere altri diritti”, ma anche perché può far apparire normale che si uccidano esseri umani. Significa insegnare che la violenza e la morte sono un modo accettabile di affrontare reati gravi. “Un modo di pensare che abbassa lo Stato alla mentalità dell’assassino.” La frase “pena di morte” era stata cancellata con la nuova Costituzione del 2010, lasciando l’ergastolo come la più severa forma di punizione. Ciò nonostante, ferma restando nei codici, i tribunali hanno continuato a condannare alla forca. Dal 2011, 6.058 prigionieri sono stati rinchiusi nel braccio della morte, non solo autori di omicidio ma anche di rapina o tentata rapina a mano armata. Ogni giorno e per anni hanno vissuto con la mente tormentata dallo spettro del boia. “La pena di morte non solo priva il prigioniero di ogni traccia di dignità umana, ma è anche la profanazione dell’individuo come essere umano. Pertanto, deve essere abolita dalla legge keniota con la massima urgenza”, ha concluso il legislatore di Ugunja. La vita dei condannati a morte è stata risparmiata per quarant’anni da una moratoria di fatto delle esecuzioni e dalla bontà di capi di stato che hanno temperato con la grazia la giustizia del Kenya. Nell’agosto 2009 il defunto Presidente Mwai Kibaki aveva commutato in ergastolo 4.000 condanne a morte. Nell’ottobre 2016 l’allora Presidente Uhuru Kenyatta ha svuotato il braccio della morte dei suoi 2.747 abitanti. Dalla pena di morte alla pena fino alla morte - uno potrebbe pensare - il risultato non cambia. Ma tra l’una e l’altra, v’è una differenza fondamentale che sta nella virtù propria del tempo e della speranza. La virtù del tempo che scorre e scolpisce una nuova vita. La virtù della speranza che si incarna, oltre ogni ragionevole speranza, nella mente e nel cuore dei condannati e, per risonanza, anche nella mente e nel cuore dei loro supremi giudici. Questo articolo non racconta solo una storia di un altro mondo, è anche un appello all’Italia, all’Europa, al nostro mondo. Aiutiamo il piccolo deputato di Ugunja a fare grande il Kenya. Spes contra spem! *Segretario di Nessuno tocchi Caino