I problemi del carcere riguardano la collettività di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 16 luglio 2023 Il Garante Mauro Palma punta lo sguardo sul peso che i fattori culturali hanno sulle misure di detenzione. “I detenuti sanno che ne usciranno peggio di quando sono entrati”. Nelle carceri italiane ci sono stati 33 suicidi in soli sei mesi. È la conferma di una tendenza in atto che dovrebbe portare a raggiungere le cifre dello scorso anno: 85. L’estate è infatti un periodo molto difficile per chi lo trascorre in una cella, tanto che nell’agosto del 2022 si è registrato un suicidio ogni due giorni. A pesare sono le condizioni dei nostri istituti di pena, ma non solamente. Come sostiene Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà, è necessario prima di tutto intervenire sulla cultura esterna al carcere. Palma ci ricorda che stiamo parlando delle persone “più fragili e più deboli”, e lo fa citando i due ultimi suicidi: un uomo appena entrato in carcere e una donna, condannata a quattro anni e dieci mesi, alla quale mancava un mese e mezzo alla scarcerazione. “La sensazione - afferma - è di essere in un mondo di cui nessuno si interessa e i detenuti pensano che ne usciranno peggio di quando sono entrati, cioè con lo stigma del carcere. Nel caso della donna, subentra anche la paura del mondo esterno: ‘dopo 4 anni qui dentro, rientrerò nella stessa situazione di prima’. Tutto ciò, più che interrogare il carcere, interroga l’idea che la collettività ha del carcere”. Gli interrogativi cadono anche sulle risorse, ma non in termini puramente di denaro, bensì “di qualificazione del personale, affinché abbia connotazioni sociali e faccia da mediatore tra interno ed esterno del carcere: non può essere affidato tutto alla polizia penitenziaria, che oltretutto non è preparata per questo compito”. Un altro elemento esterno fondamentale, secondo il Garante, è l’assenza dei luoghi di aggregazione, senza i quali la società “manda tutte le contraddizioni a finire nel penale e nel carcere. Ci sono più di 1.500 persone detenute per pene inferiori a un anno, altri 2.700 tra uno e due anni: sono persone che rappresentano povertà e minorità sociale. Alcune di loro non hanno nemmeno casa e quindi non posso usufruire degli arresti domiciliari, a volte non sanno nemmeno cosa potrebbero chiedere proprio per una condizione di minorità culturale. Tutte contraddizioni che dovrebbero essere state intercettate dal territorio, prima e con altri strumenti”, ma così non accade. Il carcere come mera punizione - Mauro Palma ricorda i rudimenti fondamentali, i princìpi che dovrebbero essere scontati per chi di carcere si occupa a ogni livello: “Il diritto penale deve essere la misura estrema per chi ha commesso reati minori, non la prima. I fatti ci dicono che il carcere non potrà fare niente per queste persone, perché il carcere è una macchina complessa. In pochi mesi non si riesce a mettere in campo alcun programma e i detenuti si riconsegneranno al territorio esterno tali e quali a quando sono stati arrestati, in una condizione di solitudine, in situazioni destinate a ripetersi, con grandi probabilità di ritornare dentro. Sarà stata solamente una sottrazione di vita”. “Anche economicamente è una soluzione sballata - prosegue -. La carcerazione sembra una misura buona per avere consenso politico nell’opinione pubblica: dimostrare che, se una persona sbaglia, la si prende e sbatte dentro. Le difficoltà di una società complessa vengono affrontate espungendole, facendole finire nel penale, nella carcerazione”. Circa l’esito delle pressioni dell’associazionismo impegnato su questo fronte, Palma esorta le associazioni stesse a fare rete, a uscire dalla tentazione del protagonismo individuale, perché solamente con un impulso unitario e massiccio si possono ottenere risultati, anche sul fronte della sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Il reato di tortura è intoccabile - Impossibile non parlare con il Garante nazionale delle persone private della libertà delle violenze emerse nella questura di Verona e dell’intenzione del governo di modificare il reato di tortura. Palma si dice convinto che queste proposte sono destinate a subire una battuta d’arresto in quanto irricevibili. “C’è un segnale fortemente negativo che viene dato: se il giorno stesso in cui vengono alla luce i fatti di Verona, un deputato ed ex sindaco di Verona (Flavio Tosi, ndr) dice ‘cambiamo il reato’, siamo davanti a un messaggio di implicita impunità”. “A livello sociale - spiega - non si è elaborata fino in fondo la consapevolezza della realtà di chi ha la responsabilità di una persona, della sua restrizione della libertà, e poi esercita violenza su quella stessa persona. L’articolo 13 della Costituzione ci dice che è proibita ogni violenza psichica o fisica sulle persone sottoposte a restrizione di libertà ed è un segnale molto forte che si è stentato a rendere operativo per decenni. Ora che lo è, anche grazie a inchieste e processi, anziché capire come la giurisprudenza possa essere anche un’indicazione culturale per persone che hanno commesso determinate violenze, il messaggio è: state tranquilli che cambiamo la legge. Questa è una grossa responsabilità”. Mauro Palma ricorda anche che durante la scorsa legislatura c’era stata una proposta di modifica della Costituzione e del comma che prevede si debba tendere alla rieducazione del condannato con prima firmataria Giorgia Meloni, della quale non si trova invece traccia nella riproposizione della proposta nell’attuale legislatura e questo proprio per l’attuale responsabilità di governo. L’ indicazione culturale “rimane però particolarmente grave”. “Sono preoccupato - conclude - perché, indipendentemente dallo schieramento politico, sta guadagnando consensi nell’opinione pubblica l’insofferenza nei confronti delle difficoltà e la ricerca di soluzioni sbrigative. Un tempo la complessità era un valore, ora è un fastidio”. Tensione sulla giustizia, Nordio gioca le sue carte di Mario Di Vito Il Manifesto, 16 luglio 2023 Meloni vorrebbe raffreddare lo scontro con le toghe. Il guardasigilli va avanti, rivendica la separazione delle carriere e incassa l’ok di Fi. Sarà spericolato e sarà imprudente, ma sarebbe ingeneroso dire che le uscite dell’ultima settimana di Carlo Nordio siano figlie di uno suo presunto non saper stare al mondo. Al contrario, le picconate, del tutto fuori linea rispetto alla prudenza predicata da Giorgia Meloni soprattutto dopo il suo incontro con Mattarella di giovedì, segnalano un preciso posizionamento da parte del ministro della Giustizia, anche in virtù degli endorsement ricevuti, su tutti quelli di Antonio Tajani e Guido Crosetto. È probabilmente troppo presto per dire che la maggioranza si stia spaccando, ma di sicuro la cosiddetta “pax mattarelliana” sulla giustizia è tutta nelle sue mani: un’impuntatura sarebbe complicata da superare, tanto più se dovesse arrivare su una materia che, piaccia o meno, è parte del programma del governo. Insomma la questione della separazione delle carriere - che Nordio vorrebbe calendarizzare in maggioranza prima delle ferie estive anche se a Palazzo Chigi sostengono di non saperne ancora nulla - appare centrale, molto al di là delle polemiche che pure arrivano copiose dalle opposizioni e dall’Anm. Meloni di aprire la guerra con la magistratura non ha alcuna voglia e sarebbe anche incline ad accogliere il consiglio del Colle sugli emendamenti al ddl Nordio approvato dal consiglio dei ministri lo scorso 15 giugno. Però non può non tener conto dei segnali fatti arrivare a mezzo stampa proprio dal titolare di via Arenula, che non lascia passare giorno senza ribadire le sue idee, con la conseguenza di scatenare reazioni inferocite e quindi di impedire l’auspicata (da Meloni) chiusura delle ostilità. Una riforma della giustizia come la vorrebbe fare Nordio - rivedendo la Costituzione - è un progetto a lungo termine complesso e pieno di insidie, perché aprirebbe un vero e proprio conflitto tra due poteri dello Stato come e più che ai tempi di Berlusconi. Che l’atmosfera sia tesa si vede anche dal fatto che, nel giorno della sua incoronazione a segretario di Forza Italia, il di solito mite Antonio Tajani abbia deciso di rintuzzare sulla rimodulazione del concorso esterno in associazione mafiosa, materia che molti in maggioranza - da Mantovano a Salvini - ritengono sia meglio accantonare, anche perché in Europa una revisione sarebbe molto malvista e non pare il caso di aprire questo fronte in un momento già di per sé difficile sul Pnrr. “Nordio dice una cosa dal punto di vista giuridico impeccabile - ha detto Tajani -. Non si può essere mezzi mafiosi, o sì è o non lo si è… Lui ha fatto l’esempio delle Brigate rosse, il fiancheggiatore è un brigatista, è lo stesso discorso. Decideremo tutti assieme come fare la riforma. Le proposte partono dal consiglio dei ministri, ne discuteremo in consiglio dei ministri”. A seguire, su Twitter, ci mette il carico anche Guido Crosetto, aggiungendo pure una punta di complottismo, pietanza di cui la base di FdI è ghiotta: “Il ministro Nordio ha tutta la mia solidarietà perché si trova stretto nella morsa tra chi vuole mantenere il potere di utilizzare la giustizia come uno strumento di lotta politica e chi ha paura di sfidare l’ingiustizia facendo una scelta Giusta, perché teme ritorsioni”. Tutto ciò sta a significare che Nordio non è affatto isolato e che non lo si potrà mettere alla porta in quanto sgradito combina-guai: dovrà essere ascoltato, in un modo o nell’altro. Ne va del rapporto tra la premier e il Quirinale, quindi degli equilibri della stessa maggioranza, sempre in bilico tra i falchi che vorrebbero la sfida in campo aperto ai magistrati e le colombe che vedono bene i rischi di una mossa del genere. Chi ha capito che il tasto della giustizia duole un bel po’ è Matteo Renzi, che prova ad affondare il colpo: “La riforma della giustizia serve oggi più che mai. In Commissione Giustizia al Senato combatterò per questo, sfidando il governo ad andare avanti. Vedremo se fanno sul serio”. Dal Partito democratico, invece, Elly Schlein se la prende con le proposte di revisione del concorso esterno. “Il governo è diviso sugli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata - ha detto - È irresponsabile mettere in discussione il reato di concorso esterno alle associazioni di stampo mafioso. Che segnale stanno dando?”. Il senso delle istituzioni viene prima dello scontro con i magistrati di Mario Chiavario Avvenire, 16 luglio 2023 Che cosa ci dicono le vicende di La Russa, Santanchè e Delmastro. Tre vicende che da un po’ di tempo trovano largo spazio nelle cronache vengono spesso etichettate come ennesimi episodi di un’ormai annoso deterioramento dei rapporti tra politica e giustizia. Sintomi, in particolare, del riaccendersi di uno scontro, mai del tutto sopito, tra una parte della politica e una parte della magistratura. Vale forse la pena spendere qualche considerazione anche da un altro punto di vista: sul senso, cioè, delle istituzioni che ne emerge, da parte di parecchi tra coloro che ne sono rappresentanti. Tra tutti, il caso sul quale anche il cittadino comune può farsi un’opinione senza dover conoscere le alchimie di leggi e sentenze, è quello dell’intervento pubblico del Presidente del Senato, Ignazio La Russa, su una denuncia presentata nei confronti di uno dei suoi figli per violenza sessuale. In proposito la stessa Presidente del Consiglio Giorgia Meloni - pur strettamente legata a La Russa da una radicatissima militanza politica comune - ha usato parole eloquenti di dissenso, apprezzabili specialmente nella esplicita solidarietà verso tutte coloro che non si rassegnano alla violenza. In ogni caso, senza nulla togliere al comprensibile desiderio di un padre di veder scagionato il figlio da un’accusa infamante e di esprimere una convinzione d’innocenza, l’essere la Seconda carica dello Stato avrebbe dovuto imporre in partenza a quel padre di tacere e poi, puramente e semplicemente, a riconoscere di avere sbagliato e gravemente, a danno della ragazza ma altresì della collettività da lui rappresentata. Ciò, del tutto a prescindere dagli sviluppi e dagli esiti che l’indagine potrà avere. Più complesso il quadro che vede come protagonista la Ministra Daniela Santanchè. Vi si avverte, come in tanti altri casi, qualcosa che non funziona nei meccanismi predisposti dalla legge per la gestione delle notizie di reato da parte degli inquirenti e in particolare di quell’istituto nato in funzione di tutela dell’indagato - “informazione (non avviso) di garanzia” - e divenuto invece il surrogato di una condanna anticipata, come già denunciava il Presidente Scalfaro alla fine degli anni Novanta. Né, almeno in partenza convince quello che rischia di diventare il rituale delle richieste di dimissioni, come una sorta di conseguenza automatica dell’emissione di quell’informativa o addirittura della mera iscrizione di un nome nel registro delle notizie di reato. Quante carriere politiche stroncate per la diffusione di una pratica mediatica e politica scorrettissima, non compensata da tardivi e insufficienti riconoscimenti a posteriori dell’ingiustizia … Ciò non vuol dire che il legittimo emergere, da un’inchiesta, di fatti sconcertanti a carico di chi detiene un potere, tanto più se ad alto livello, non possa diventare - indipendentemente da una condanna penale - oggetto di pubblica discussione e di valutazioni etico-politiche anche estremamente critiche. E da questo punto di vista appare insostenibile, sempre alla stregua del senso delle istituzioni, con quell’oltre mezz’ora di autodifesa irrituale mediante l’esposizione nell’aula parlamentare, senza contraddittorio, delle “sue” verità. Infine, il caso del sottosegretario Delmastro. Il caso, com’è noto, è nato dall’intervento parlamentare di un deputato (l’on. Donzelli), con pesantissime accuse a colleghi dell’opposizione basate su documenti riservati, a lui “passati” dal sottosegretario: e, quanto a senso delle istituzioni, non c’è che dire. Ma, secondo i critici, ad essere “irragionevole” sarebbe la decisione di un giudice di non accogliere una richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero a conclusione della sua indagine per rivelazione di segreto. Irragionevole? No, semplicemente applicazione di una regola voluta nel suo nucleo più essenziale, sin dagli anni successivi alla Liberazione, per garantire una doppia verifica prima di mandare in archivio una notitia criminis. Che, poi, la richiesta del pubblico ministero in questo senso venga solitamente accolta nulla toglie alla legittimità e alla “ragionevolezza” della soluzione alternativa, che non vuol dire certezza della condanna, ma mero riconoscimento dell’opportunità di vederci più chiaro: tanto più in un caso come questo, dove, a quanto pare, il dissenso tra p.m. e g.i,p. non verterebbe sul fatto oggettivo della rivelazione di ciò che non doveva essere rivelato, ma soltanto sull’individuabilità o meno di un “dolo” da parte dell’autore. Semmai, è opportuno che in casi del genere a formulare l’imputazione non sia la stessa persona che aveva firmato la richiesta di archiviazione. Ma, prima di togliere quella doppia verifica e fare del giudice un semplice passacarte di quella che non sarebbe più una richiesta ma un diktat, sarebbe bene pensarci più di due volte. Mentre Nordio parla d’altro, il sistema giustizia rischia lo stop di Giulia Merlo Il Domani, 16 luglio 2023 Comincia l’iter del ddl giustizia sull’abuso d’ufficio e il ministro manda in tilt il governo col concorso esterno. Intanto il processo telematico appena introdotto rischia di bloccarsi, perché mancano telecamere e pc. L’allarme è stato lanciato, soprattutto sugli uffici del giudice di pace e dei tribunali minorili, sia dall’Anm che dall’avvocatura. Se tutto procede come previsto, in settimana dovrebbe arrivare il via libera del Quirinale e il disegno di legge sulla giustizia del ministro Carlo Nordio, che contiene l’abolizione dell’abuso d’ufficio, inizierà il suo iter in commissione Giustizia al Senato. Il clima non è sereno: né in maggioranza, né nel rapporto con la magistratura. Le ultime esternazioni del guardasigilli sul concorso esterno in associazione mafiosa, infatti, hanno incrinato i rapporti con la Lega ma anche con la presidenza del Consiglio, che hanno imposto lo stop con un netto “non è una priorità”, prendendo le distanze dalle posizioni di Nordio. Proprio questo potrebbe avere dei riflessi sull’iter approvativo del ddl: non è un mistero che la presidente della commissione, la leghista Giulia Bongiorno, fosse scettica rispetto alla cancellazione del reato e abbia chiesto garanzie su una “fase due” in cui sistematizzare i reati contro la pubblica amministrazione e risolvere il vuoto normativo. Inoltre sia dal Colle che dall’accademia sono arrivati segnali di perplessità rispetto alla costituzionalità del testo nella sua attuale formulazione, perché confliggente con i trattati internazionali in materia di anticorruzione. Il rapporto con l’Anm è altrettanto compromesso: il ddl nella forma aveva già provocato le reazioni negative del sindacato delle toghe e le polemiche dei giorni scorsi dopo gli attacchi alla categoria per le inchieste contro esponenti del governo ha fatto il resto. Risultato: il ddl giustizia verrà certamente modificato in parlamento. “Migliorato”, dicono dalla maggioranza. Insomma il testo cambierà, che a Nordio piaccia o meno. Peserà infatti la moral suasion del Colle - che dovrà procedere al controllo di costituzionalità - e anche la necessità del governo di abbassare i toni dello scontro con il mondo della giustizia che proprio il ministro, pur col contributo della premier sul caso Delmastro, ha acceso. Se il disegno di legge porta con sé questioni politiche e scontri, il dato di realtà è che non si tratta di una riforma di sistema ma solo una modifica settoriale, che incide poco se non nulla sui problemi più impellenti nella galassia giustizia. Problemi che vengono da lontano e non possono essere imputati all’attuale guida di via Arenula, ma che tuttavia stanno ora arrivando al pettine a causa dell’inizio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, che Nordio ha dovuto anticipare in alcuni aspetti del processo civile. Tutta la riforma Cartabia, pilastro per il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr, si fonda su un elemento: l’informatizzazione e le nuove tecnologie che essa richiede, tanto per il processo civile che per quello penale, fino ai giudici di pace e al processo minorile. Sembra una soluzione ovvia, soprattutto dopo gli anni di pandemia, ma dai tribunali arriva una constatazione amara: con questo apparato infrastrutturale, la riforma rimarrà lettera morta o quasi. Non tutte le aule hanno i computer, infatti, e non tutte sono state dotate del sistema audio-video per la registrazione. Senza questi strumenti è impossibile garantire soprattutto una delle previsioni della riforma: la videoregistrazione delle udienze così che, nel caso in cui muti il collegio giudicante, non sia necessario rinnovare per intero il procedimento. Per questo alcuni tribunali hanno trovato escamotage, che però non possono essere una soluzione stabile: “A Bari queste strutture tecnologiche ancora non sono a regime e in alcuni dei processi più rilevanti abbiamo ingaggiato un perito che si occupi delle riprese”, ha spiegato il giudice barese Giovanni Zaccaro. Una soluzione, questa, che però può essere solo tampone. Problemi sorgeranno anche con la norma sul deposito degli atti in via telematica. Il termine inizialmente era stato fissato al 20 luglio, ma le proteste di avvocatura e magistratura ne hanno provocato lo slittamento di un anno. In settimana, infatti, arriverà un decreto del ministero che stabilirà la possibilità di doppio binario, lasciando sopravvivere anche il deposito cartaceo. La norma ora slittata, infatti, stabilisce che tutti gli atti tipici debbano essere depositati dagli avvocati esclusivamente sul portale telematico. Minorenni e giudici di pace - Infine, l’ultimo allarme riguarda i procedimenti davanti ai giudici di pace e al tribunale per i minorenni. La riforma Cartabia, infatti, prevede anche per questi l’obbligatorietà del deposito telematico di atti e di provvedimenti dal 30 giugno. L’informatizzazione, che la norma ha esteso anche ai processi in corso, però, è ancora molto indietro. Sia gli uffici del giudice di pace che i tribunali per i minorenni, infatti, fino ad oggi on avevano alcun tipo di strumento informatico per il deposito degli atti. Passare da zero a cento, dunque, ha prodotto infinite criticità. Come reso noto dall’Anm, gli stessi presidenti dei tribunali hanno segnalato che negli uffici dei giudici di pace “manca l’hardware, la mancata consegna ed adeguamento di portatili, formazione ancora insufficiente del personale”. Con il risultato che, per evitare la paralisi, in alcuni tribunali la soluzione trovata è stata quella di prevedere espressamente l’autorizzazione al deposito con modalità non telematiche degli atti, disattendendo di fatto la previsione normativa, sfruttando le previsioni delle diposizioni attuative del codice, che lo prevedono nel caso in cui “i sistemi informatici del dominio giustizia non sono funzionanti e sussiste una situazione di urgenza”. Non va meglio nei tribunali dei minorenni, dove c’è stato un cambio di sistema - dal Sigma al Sicid - e questo ha provocato la difficoltà per i giudici di leggere i fascicoli e problemi di deposito degli atti, che non venivano caricati, rendendo impossibile ai giudici adempiere ai provvedimenti urgenti. Anche in questo caso - ha comunicato l’Anm - molti tribunali per i minorenni hanno autorizzato il deposito cartaceo. “Si renderà necessario un importante lavoro di bonifica dei dati per abbinare gli avvocati alle parti oltre ad ulteriori criticità collegate alla figura del curatore del minore. Operazioni complesse e dispendiose in termini di tempo. La conseguenza è che settori che riguardano minori in situazione di pericolo e fragilità oggi sono in gravissima sofferenza”, ha spiegato Daniela Giraudo, consigliera del Cnf e componente della commissione ministeriale del processo civile telematico minorile. Criticità che fanno poca notizia ma che stanno mandando in tilt il servizio giustizia. Così Nordio ha cancellato la stagione Cartabia. Dal Pnrr all’abuso d’ufficio di Liana Milella La Repubblica, 16 luglio 2023 In carica Carlo Nordio da nove mesi. Il bottino? Il decreto Rave, il reato universale dopo Cutro e il ddl sul codice rosso in condominio con il collega Piantedosi. Molti annunci, poca sostanza. Per giunta divisiva. Marta Cartabia, 20 mesi di governo in via Arenula. Quando va via ha fatto approvare quattro riforme, penale, civile, tributaria, del Csm, che consentono all’Italia di guadagnarsi 2,3 miliardi nel Pnrr. Nonché le nuove regole sulla presunzione di innocenza. Il clima politico? Lei, polemiche soprattutto per via dell’improcedibilità, la regola che fa cadere i processi in appello se non rispettano i tempi stabiliti. Lui, dispute continue per le sue esternazioni, a cominciare dalle intercettazioni che costano troppo e vanno tagliate, per finire all’ultimo scontro sul concorso esterno. Passando per la separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione penale. Due stili, opposti risultati. Con una Cartabia che, non più ministra, per scelta tace. Entriamoci dentro. La trasparenza in via Arenula - E partiamo dalla “casa” della giustizia, il ministero di via Arenula. Dove la trasparenza è d’obbligo. Cartabia la garantisce. Nomina varie commissioni per le sue riforme, le rende pubbliche attraverso il sito con tanto di nomi e qualifiche. Non sappiamo quante ne abbia nominate Nordio perché la sua gestione è opaca. Solo grazie a qualche professore che ai suoi fan diffonde la notizia d’essere stato “prescelto” si scopre che è nato un nuovo gruppo. L’unico noto è quello sulla colpa medica presieduto da Adelchi D’Ippolito. Ce n’è una sull’ordinamento giudiziario dove figura al vertice Claudio Galoppi, ex Csm per Mi ed ex collaboratore al Senato della presidente Elisabetta Casellati. Del pari è noto che ha cambiato i nomi scelti da Cartabia per monitorare il cammino della riforma penale. E ha soppresso giuristi come Gatta, Gialuz e Palazzo. Lo spoil system - È prassi consolidata che il ministro si crei la sua “corte”. Cartabia punta sulla continuità, tiene con sé addirittura il capo di gabinetto del suo predecessore Alfonso Bonafede, Raffaele Piccirillo, che ha lavorato in Europa.Al vertice dello strategico dipartimento dell’organizzazione giudiziaria conferma Barbara Fabbrini, che è lì dai tempi di Andrea Orlando. Nordio cambia tutto, e a dirigere l’ufficio legislativo piazza il Pg di Roma Antonio Mura che aveva firmato la lettera per chiedergli di rinviare l’entrata in vigore della riforma Cartabia. Pesca soprattutto tra le toghe con cui ha lavorato in Veneto, come il presidente del piccolo tribunale di Vicenza Alberto Rizzo che diviene capo di gabinetto. Ma è la sua vice, Giusi Bartolozzi, detta la “zarina”, sua amica di vecchia data, che in via Arenula fa il buono e il cattivo tempo. La sfida del Pnrr - Gli impegni del Pnrr per Cartabia erano una quotidiana ossessione. Ne parlava di continuo, ne monitorava i tempi, dai suoi uffici arrivavano continui report sull’effettiva possibilità di raggiungere le sfide che consentiranno all’Italia di incassare in questo settore 2,3 miliardi di euro. Tutta l’attività del ministero era finalizzata a garantire gli impegni del governo Draghi. E la stessa Cartabia, nelle visite alle corti d’appello italiane, non faceva che raccomandare il rispetto degli impegni accelerando i processi. Con Nordio il Pnrr, dal punto di vista mediatico, finisce nel dimenticatoio. La separazione delle carriere - Benché sia stata la prima donna al vertice della Consulta, quella che ha fatto cadere “il tetto di cristallo”, Cartabia non fa pesare il suo passato. Al contrario di Nordio, che a ogni piè sospinto cita se stesso non solo come ex pm, ma pure come presidente di commissioni sulla riforma della giustizia. Cartabia cita una sola volta i suoi nove anni alla Corte, quando affronta il tema della separazione delle carriere, perché il responsabile giustizia di Azione Enrico Costa ha presentato alla Camera una proposta di legge. E Cartabia rammenta come una simile riforma comporti inesorabilmente la modifica della Carta. Che non è aggirabile. Invece ecco Nordio non solo annunciarla più volte come la panacea dei mali della giustizia, ma ipotizzare addirittura, pur dicendo che lui stesso non è un fan di quest’ipotesi, che essa si possa fare senza toccare la Costituzione. L’abuso d’ufficio - Se Nordio vanta di aver sempre detto che questo reato va cancellato, Cartabia si comporta all’opposto. Tant’è che con Draghi viene incontro alle richieste dell’Europa quando si occupa della direttiva sulla protezione degli interessi finanziari della Ue. Ed include proprio l’abuso d’ufficio nell’articolo 322 bis del codice penale che estende i reati contro la pubblica amministrazione ai parlamentari e ai funzionari europei. All’opposto Nordio ha prevista di cancellarlo nel suo ddl su cui il Quirinale medita un intervento per evitare lo scontro con l’Europa visto che proprio questo reato fa parte della direttiva Ue contro la corruzione. Nordio dovrà incassare la sconfitta. Il rapporto con il Csm - In nove mesi Nordio non ha trovato un minuto per andare al Csm. Ovviamente Cartabia lo ha fatto più volte. Una visita di rito, dal valore istituzionale, visto che il presidente del Csm è il capo dello Stato Mattarella. Invece Nordio ha preferito ricevere in via Arenula il vice presidente leghista Fabio Pinelli. Un rapporto a due, che nello stesso tempo, da un lato ha irritato i consiglieri, e dall’altro ha negato una relazione istituzionale. Le azioni disciplinari - Qui la differenza tra Nordio e Cartabia è abissale. La ministra ne ha fatto un uso specifico e mirato. Giusto per citare dei casi. Il 6 aprile 2021 gli ispettori partono per la procura di Trapani per verificare l’inchiesta sulle Ong e l’attività di salvataggio dei migranti. Il 10 giugno 2022 Cartabia vuole vederci chiaro sul giovane di Carrara indagato per due delitti, ma in libertà quando avrebbe dovuto trovarsi in carcere da quattro mesi. E ancora, ad agosto Cartabia manda gli ispettori a Bologna per il femminicidio di Alessandra Matteucci uccisa a martellate dall’ex fidanzato Giovanni Padovani. Cosa fa Nordio? Le cronache registrano soprattutto la sua invadenza nelle azioni penali, nel caso Uss quando contro i giudici di Milano che lo hanno messo ai domiciliari muove l’azione disciplinare, e ora la sua reazione irata contro la gip di Roma che ha chiesto l’imputazione coatta per Andrea Delmastro Delle Vedove. Addirittura, dopo questo caso, Nordio vuole sopprimere questo potere dei gip. Il garantismo nei fatti - Nordio un garantista parole. Cartabia garantista nei fatti. Lo dimostrano le sue riforme, in quella penale ecco la giustizia riparativa. E ancora la direttiva sulla presunzione di innocenza, nonché le pene sostitutive al carcere. Di queste Nordio parla sempre. Ma Cartabia le ha fatte. E poi c’è il caso Cospito, certo Cartabia ha firmato il 41 bis perché i magistrati glielo avevano chiesto, ma Nordio di fronte a uno sciopero della fame di 182 giorni non si è mosso a pietà. Anche se la Consulta prima e la Corte d’Appello di Torino poi hanno cancellato l’ergastolo riducendolo a 24 anni. I crimini internazionali - E chiudiamo su un singolare capitolo, quello del codice dei crimini di guerra. Cartabia nomina la commissione presieduta da big della materia come Ernesto Pocar e Francesco Palazzo. Nordio procede allo spoil system. Cambia i nomi. Ma alla fine il suo codice si blocca perché a Palazzo Chigi notano un possibile imbarazzo rispetto ai “crimini contro l’umanità”. Da quel momento, era marzo, del codice non si è saputo più nulla. Concorso esterno in associazione mafiosa: il reato che non esiste di Piero Sansonetti L’Unità, 16 luglio 2023 C’è una vera e propria rivolta contro il ministro Nordio che ha annunciato di volere correggere (ora si dice: rimodulare) la formulazione del reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”. In realtà, chi conosce un poco poco il diritto sa perché questo reato non può essere né corretto, né rimodulato e neppure abolito. Per una ragione semplice e paradossale. Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non esiste. Ora vedremo perché. Contro il ministro Nordio, ex magistrato, si è alzato un fuoco di sbarramento. Guidato, come era prevedibile, dal giornale dell’Anm (l’associazione dei magistrati) e cioè dal Fatto quotidiano, seguito a ruota dal suo giornale scialuppa, e cioè Repubblica. La quale alle volte riesce persino ad anticipare il Fatto nelle campagne giustizialiste, ma di solito lo segue a ruota. E dietro ai giornali grillini si è mosso mezzo mondo politico e giornalistico. a partire addirittura dal sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Mantovano, che ha sconfessato Nordio (in questo governo c’è la gara a quali ministri vengono sconfessati più spesso…). Nordio, pacifico magistrato veneto e anche pacifico ministro che al momento non sembra affatto intenzionato a realizzare nessuna riforma della giustizia, solo per aver detto una cosa ragionevolissima è indicato come l’uomo che vuole aprire le porte alla mafia. Ora il problema non è quello di sostenere una polemica politica o giudiziaria. È normale che le polemiche si accendano. Il problema vero è che in Italia ormai è passata una idea di lotta alla mafia che non ha niente a che fare con la legalità e con il diritto. Gran parte della politica italiana, in particolare (e tra poco vedremo perché) la politica di sinistra, immagina che la lotta alla mafia sia una sfera autonoma della politica che non ha niente a che fare con la legge e che deve essere invece affrontata con mezzi e regole militari che pongano il fine (la sconfitta di Cosa Nostra) al di sopra della legittimità dei mezzi (il codice penale). E questo è un problema molto serio, perché questo modo di pensare mette in discussione i pilastri essenziali della dialettica democratica, e inquina la battaglia politica. Provo a spiegarmi meglio. Tutti coloro che oggi polemizzano con Nordio per la sua dichiarazione sul concorso esterno, non portano a sostegno della loro tesi argomenti giuridici ma argomenti politici. Dicono che in questo modo si indeboliscono le forze impegnate per battere la mafia. Non sono in nessun modo interessati a discutere del merito delle leggi e della loro costituzionalità o addirittura della loro legalità. Così non si costruisce un conflitto politico, si costruisce un conflitto tout court di netto taglio qualunquista. Non a caso il capostipite di questa cultura è Beppe Grillo. Entriamo nel merito della questione. Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non esiste nel nostro codice penale. Non tutti lo sanno ma, curiosamente, è così. Le Procure sostengono (e hanno ottenuto un parziale via libera da parte della Cassazione) che il reato è una combinazione di altri reati, e precisamente del reato previsto dall’articolo 110 del codice penale (il reato di concorso) con il reato previsto dall’articolo 416 bis (associazione mafiosa). Però esiste anche l’articolo 1 del codice penale, che è il più importante visto che è stato messo in testa al codice, il quale dice testualmente così: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da esse stabilite”. Ora una cosa è assolutamente sicura: il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non è previsto da nessuna legge e nessun articolo del Codice stabilisce una pena per chi lo commetta. Voi capite che non è un problema piccolo. Ma forse l’aspetto più drammatico di questa faccenda non sta neanche nel fatto che alcune persone siano state condannate per questo reato, ma invece nella circostanza che, in assenza di una precisa definizione giuridica del reato, i magistrati lo interpretano a propria discrezione e lo usano, di solito (diciamo pure: quasi sempre) solo quando non riescono a trovare a carico della persona che hanno preso di mira una imputazione ragionevole e provabile. Se l’inquisito risulta evidentemente privo di responsabilità su altri reati, gli si addebita il reato fantasma. Qual è il ragionamento che sta dietro questa pratica (ed il motivo per il quale questa pratica piace parecchio a una bella fetta dell’opinione pubblica)? Il ragionamento è questo: un magistrato che raggiunge la convinzione che una tale persona sia mafiosa, e non riesce però a trovare le prove, ha la via d’uscita di attribuirgli il reato di concorso esterno. Non solo, ma l’imputazione di concorso esterno ha il vantaggio di permettere l’arresto, anche molto prolungato, e quindi di consentire fortissime pressioni offrendo la liberazione in cambio di una buona confessione e di una chiamata di correo. Voi capite che se poi l’indiziato è davvero mafioso, è un bel colpo alla mafia, e se invece non lo è si tratta di un piccolo danno collaterale che la società può controllare. Questo modo di pensare, assolutamente maggioritario prima della rivoluzione francese, e prima di Montesquieu e di qualche altro filosofo forse un po’ troppo liberal, sta tornando ad essere largamente maggioritario. Qualcuno, alla mia citazione di Montesquieu, mi ha fornito una risposta geniale: “ma a quei tempi, e perdipiù in Francia, non esisteva la mafia”. Sembra una battuta ma non lo è. È un pensiero profondo. La battaglia per la sicurezza non deve rispondere ai principi fermi del diritto, deve rispondere alle opportunità del momento. La sicurezza è sopra il diritto e uno stato moderno deve fondarsi sulla sicurezza, non sul diritto. Detto questo, e prima di tornare sull’irriformabilità di una legge che non esiste, facciamo un breve accenno alla natura e all’origine del reato associativo. Siamo, in Italia, poco dopo la metà dell’800. I piemontesi avevano conquistato il Sud ma alcune brigate di ribelli, armati, si opponevano. I piemontesi lio chiamavano i briganti ma non riuscivano a sconfiggerli. Allora furono varate le famose leggi Pica (che mi pare fosse il nome del ministro dell’Interno) che risalgono al 1863, le quali oltre a stabilire varie misure orribilmente repressive, stabilirono che esisteva il reato di associazione (non riferibile necessariamente al compimento di un reato specifico) che permetteva di rastrellare e punire interi villaggi. Diciamo pure: una infamia imperialista. Poi l’Italia ha finito per unirsi davvero, il brigantaggio è finito, la legge è rimasta. Bene, su questa legge si è innestata la follia - follia persino grammaticale - del concorso esterno, che stabilisce che tu puoi essere colpito anche se non fai parte di una associazione mafiosa perché io -io Pm - penso che comunque la guardi con simpatia. Ora, cerchiamo di essere chiari: Nordio non può abolire questo reato, perché il reato non esiste. Può fare solo una cosa: istituirlo. E questa credo che sia la più grande minaccia per le associazioni della cosiddetta “antimafia militante”. Perché se il Parlamento istituisse il reato dovrebbe dargli dei confini e cadrebbe la discrezionalità dei Procuratori. I Procuratori e i Pm quello e solo quello vogliono: discrezionalità e potere assoluto. Se il concorso esterno dovesse diventare reato vero e proprio perderebbero tutto. Può diventare reato vero e proprio? Beh, se mantiene questo nome resta in conflitto permanente con la lingua italiana, che esclude che una persona sia esterna ad una associazione e possa essere condannato perché considerato interno. Nella formulazione “concorso esterno”, a rigor di logica, c’è già la motivazione dell’assoluzione. Però Nordio potrebbe voler trasformare le due sentenze della Corte Costituzionale (una del 1994 l’altra del 2005) in legge. E istituire il reato di concorso esterno. Specificandolo, “modulandolo” e dandogli dei confini. Rendendolo una legge dello Stato e riportandolo nei confini della legalità. Oggi chi adopera quel reato e condanna delle persone commette un atto illegale. Dicono che il reato sia di formazione “giurisprudenziale”. Ma i reati non lo decide la giurisprudenza, la giurisprudenza li studia. Nella costruzione democratica basata sulla distinzione dei poteri i reati può deciderli solo il Parlamento. Il potere rappresentativo. Nordio ha l’occasione per rimettere in regola le cose e trarre molti magistrati fuori dell’illegalità. Del resto fu un grande magistrato impegnatissimo nella lotta alla mafia, Pierluigi Vigna, che nel 2002 spiegò che quel reato non poteva restare aleatorio e in mano alla discrezionalità dei Pm e che andava codificato. Ed esiste un testo di legge che istituisce il nuovo reato scritto di suo pugno. Ps. Perché la sinistra finisce sempre per schierarsi coi nemici dello Stato di diritto? Credo essenzialmente per un vecchio riflesso. La tendenza a ripetere formule e slogan del passato. Negli anni 60 fare antimafia non era un mestiere redditizio come è ora. La stampa e la Tv davvero negavano l’esistenza della mafia e coprivano le relazioni pericolose tra mafia e politica. Il Pci fu quasi l’unico partito che tentava di opporsi. E insieme al Pci, piccoli gruppi di magistrati davvero coraggiosi. Che perlopiù, oltretutto (ma questo non si sa) erano fortemente garantisti. Come Cesare Terranova. Oggi gli eredi del Pi ripetono un po’ a pappagallo formule politiche di allora, senza accorgersi che in questo modo fanno un danno e non un favore alla democrazia. Ps. 2 Intervenire sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa è un’offesa a Falcone? Come dice la sorella del giudice Falcone e anche il fratello di Borsellino, che però in quegli anni non erano impegnatissimi sul fronte del contrasto alla mafia. Beh, non è così. Falcone utilizzò l’idea del concorso esterno quando era giudice istruttore, cioè col vecchio codice di procedura, che rispondeva a principi del tutto diversi da quelli del nuovo codice. Oggi le prove non le raccoglie più il giudice istruttore Falcone è stato l’ultimo grande giudice istruttore), le prove si formano al processo. Esiste un libro che si chiama “Interventi e proposte” e che raccoglie tutti gli interventi pubblici di Falcone nel decennio 82-92. Bene, in uno di questi interventi Falcone spiegò che con il nuovo codice il reato di concorso esterno non era più configurabile. Disse di più: mise in discussione la compatibilità tra muovo codice e reato associativo. Bisogna conoscerlo Falcone, non basta gridare il suo nome. Guerra con le toghe? Macché, è solo ammuina: lo scontro sulla Giustizia è roba da ridere di Valerio Spigarelli L’Unità, 16 luglio 2023 Politica e giustizia, spalleggiati dai supporter mediatici, mimano una contrapposizione che in realtà serve solo a fini interni. Ai tempi del Cav, lo scontro con la magistratura fu una cosa seria. Ma si sa, la storia si ripete due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. “La storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa”, diceva uno, ormai dimenticato, che sotto la testata de L’Unità ci sta come il cacio sui maccheroni. Frase che calza a pennello per spiegare lo scontro tra la Politica e la Giustizia che, con qualche forzatura, i partiti di governo, l’opposizione “di sinistra” e l’ANM, stanno mettendo in scena. Ognuno spalleggiato dai propri supporter mediatici, i contendenti mimano una contrapposizione che, in realtà, è pura narrazione che serve soprattutto a fini interni. Il centrodestra, fin qui, sulla giustizia ha combinato solo disastri, replicando lo schema delle leggi cotte e mangiate da dare in pasto all’opinione pubblica in cambio di qualche oncia di consenso - da quella sui rave alla preannunciata legge sulle baby gang - che affligge il sistema penale dalla fine del XX secolo. Ciò nel segno della continuità del populismo giudiziario con il testimone che passa dai Cinque stelle al duo Lega/Fratelli d’Italia. Sempre nel segno della continuità, ma stavolta della politica fintamente garantista dei governi Berlusconi, è parallelamente proseguita la narrazione - anche esposta con eleganza quando il prosatore è il ministro Nordio - sulla necessità di una riforma complessiva, con rituale invocazione della separazione delle carriere e di un intervento sulla Costituzione. Il tutto, però, da rinviarsi “all’autunno”, mitica stagione delle riforme che il signor B. evocava ad ogni governo che presiedeva, salvo poi impelagarsi nella palude delle leggi ad personam per far contento sé stesso e di quelle securitarie per accontentare la maggioranza silenziosa degli italiani che, sotto sotto, un po’ forcaioli sono da sempre. In attesa dell’avvento della riforma vera si mettono allora in campo riformuccie, come quella che mescola abuso di ufficio, traffico di influenze, intercettazioni, custodia cautelare ed articoli vari. Un mix buono per spaccare l’opposizione e mettere in difficoltà i suoi leader, Schlein in testa contestata dai sindaci del PD, ma che di organico non ha veramente nulla. Oppure si licenziano norme che sembrano fatte dal mago Silvan, come l’ultimo Decreto Ministeriale del 4 luglio, che impone alla giustizia penale italiana un salto nel futuro telematico da un giorno all’altro, senza però curarsi di verificare che gli uffici giudiziari siano pronti. Con il risultato che, se le cose non cambieranno con l’ennesimo rinvio all’italiana - che pare si stia profilando in queste ore - dalla fine di luglio gli avvocati italiani si faranno il segno della croce al momento di depositare un appello o un ricorso per cassazione perché non sapranno se l’hanno fatto sul serio. Discreto lascito, questo della narrazione tecnologica fatta quasi sempre sulla pelle degli imputati, del governo Draghi e della ministra Cartabia in cerca di soldi europei. In questo scenario viene bene anche una replica del mitico scontro con la magistratura, che ai tempi del Cav fu una cosa seria - e drammatica dal punto di vista dell’equilibrio dei poteri costituzionali - con le ripetute invasioni di campo del Terzo Potere a cui si oppose una resistenza fatta di ritirate e concessioni da parte degli altri, tutti gli altri, FI e PD per primi, secondo uno schema che vedeva la magistratura, il CSM e l’ANM, come vere e proprie controparti del potere legislativo. Solo che oggi non capita che tre PM si affaccino dalla tv per proclamare la propria opposizione ad una legge; oppure che il capo di una Procura, vestito e calzato in ermellino e tocco durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, proclami la “resistenza” contro le leggi del parlamento; ovvero che si sputtani in mondovisione il premier in carica recapitandogli un avviso per garanzia mentre sta seduto a tavola coi Grandi della Terra (…che comunque l’hanno già appreso dai giornali del mattino a cui la stessa Procura ha avuto la cortesia di recapitarlo in advance). No, oggi ci tocca assistere alla riedizione della faccenda a proposito delle imprese di Delmastro o della Santanchè, che sono imbarazzanti quanto inconsistente è il loro paragone con i nefasti del passato. Come è imbarazzante ascoltare gli interventi sul tema della Premier la quale, con inflessione Roma Sud, rivendica prima il contenuto di un “lettera anonima” spedita da Palazzo Chigi e poi, senza soluzione di continuità, proclama che non ha intenzione di litigare coi magistrati su nulla. E qui noi malfidati guardiamo alla separazione di carriere in culla pronta ad essere sacrificata per l’ennesima volta sull’altare della pax giudiziaria con la magistratura. Alla quale magistratura, o per meglio dire alla sua rappresentanza sindacale, l’ANM, a sua volta, non pare vero di poter parlare dell’ennesimo tentativo farlocco di mettergli la museruola per rialzare un po’ la testa dopo anni di rappresentazioni a suon di chat di Palamara che ne hanno offuscato l’immagine. Alla magistratura associata piace l’idea di poter finalmente trovare un giudice simbolo da mettere sotto tutela rispetto alle aggressioni governative e quindi sollecita prontamente al CSM l’apertura proprio di una “pratica a tutela”. A nessuno gli viene in mente, da quelle parti, di aprire identica pratica a tutela della presunzione di innocenza sulle esternazioni di qualche Procuratore troppo incline alle conferenze stampa; oppure di riflettere seriamente sul fatto che, se le scale del CSM sono state ritenute il luogo più sicuro per incontri tra consiglieri e rappresentanti politici, forse in tema di intercettazioni e trojan qui nel Bel Paese stiamo un po’ più in là dell’accettabile. No, i rappresentanti dei magistrati questo lo negano, perché siamo il paese delle garanzie e le intercettazioni come il trojan sono “irrinunciabili nella lotta contro il crimine”. Concetto subito raccolto dai governativi che si affrettano a dire che, infatti, loro nulla faranno sul tema nella riformuccia di cui sopra se non garantire ai buoni, cioè a quelli che non c’entrano nulla le cui conversazioni finiscono regolarmente sui giornali e in TV, che ci penseranno loro ad evitarlo. Magari con qualche norma che complicherà la vita ai cattivi, cioè agli imputati e ai loro avvocati, impedendogli persino di ascoltare, leggere o avere copia di tutte le intercettazioni di un processo. L’apoteosi dell’ammuina si raggiunge poi il consenso tripartisan su Gratteri capo in pectore della procura di Napoli. Qui sono d’accordo tutti, ma proprio tutti, destra, sinistra, centro e pure Renzi, che evidentemente ha questa fissazione da anni, visto che lo voleva fare ministro. No, rispetto ai temi della Giustizia e alla coerenza dei suoi attori aveva proprio ragione Marx, ma non il Karl citato all’inizio, Groucho, quando diceva: “questi sono i miei principi, se non vi piacciono ne ho altri”. Sembra il motto della casa, qui da noi, quando si parla di Giustizia. La Giustizia, la benda e il gattopardo di Tommaso Marvasi La Discussione, 16 luglio 2023 In numerosi articoli di questa rubrica ho affrontato il tema della riforma della giustizia. Articoli ispirati dalla urgenza del problema, da anni non più rimandabile, in ogni settore della giurisdizione; ma scritti rassegnati, fin dai primi tentativi reali (Ministra Cartabia, Governo Draghi, 2021) alla evidente realtà dell’impossibilità di attuare una qualsiasi riforma che abbia veramente il significato della parola (“Modificazione sostanziale, ma attuata con metodo non violento, di uno stato di cose, un’istituzione, un ordinamento. In particolare, il termine è stato applicato a indicare innovazioni o mutamenti profondi nella vita dello Stato”, Enciclopedia Treccani). Con prudenza anche eccessiva il Ministro Nordio - già giudice, già pubblico ministero, poco gradito alle organizzazioni della magistratura - ha proposto, la sua timida riforma, affidata a un disegno di legge, al quale sta lavorando una commissione ministeriale, composta in maggioranza da magistrati: quelli, ritengo, più attratti dal fascino della politica che dallo scranno del tribunale. Il potere giudiziario è il più terribile dei poteri, perché non sottoposto al controllo democratico cui devono sottostare il potere esecutivo e legislativo. Con una differenza sostanziale: se questi ultimi due poteri dovessero sgarrare è riconosciuto al popolo il diritto di ribellarsi. Un diritto che taluni considerano diritto inviolabile dell’Uomo e che alcune Costituzioni sanciscono in maniera esplicita. Un istituto, chiamato anche diritto di resistenza, che viene unanimemente riconosciuto e apprezzato da tutte le democrazie: nella mia vita ricordo il compiacimento per varie rivolte: la caduta di Pinochet in Cile, la fine del regime dei colonnelli in Grecia, il crollo del Muro di Berlino. Diritto di ribellione che, però, non è riconosciuto contro il potere giudiziario, proprio per la sua non subordinazione alla volontà popolare. Eppure quello giudiziario è il potere, tra i tre della classica ripartizione montesquiana, che più di tutti, venendo meno il principio della sua autonomia dall’esecutivo, offre lo strumento per vessare il popolo. Qualsiasi tiranno cerca la legittimazione tramite il potere giudiziario: Erdogan dopo il fallito golpe del 2016 nei suoi confronti ha fatto piazza pulita di migliaia di avversari, compresi numerosi giudici non allineati, con condanne giudiziarie; da sempre il regime assolutista fa condannare dai giudici gli oppositori politici (in Russia ne sanno qualcosa; ma credo anche altrove); per tacere del medioevo di alcuni regimi islamici, che reprimono sempre con sentenze e con carcere legittime aspirazioni delle giovani generazioni femminili. Digressione che ovviamente non c’entra con l’Italia, col nostro Stato di diritto, con la nostra civiltà giuridica. Ma che mi serviva per fare meglio comprendere la centralità delle norme che la riforma Nordio pone in testa al suo tentativo di riforma: l’abuso di ufficio, il traffico di influenze e la partecipazione esterna ad associazione mafiosa. Si tratta di norme assolutamente fumose e che non caratterizzano il comportamento previsto dalla legge come reato, lasciando ampli margini di discrezionalità all’interprete; addirittura il reato da partecipazione esterna, neppure è previsto da una disposizione di legge, ma è una costruzione giurisprudenziale (un ossimoro, afferma il Ministro Nordio). Norme adattabili alle più svariate situazioni, che, unite alla obbligatorietà dell’azione penale (il precetto costituzionale, art. 112, che più di ogni altro dovrebbe essere abolito per attuare una riforma reale) rendono qualsiasi cittadino, anche il più probo, facilmente perseguibile giudiziariamente: basta una qualsiasi denuncia, anche per una inezia, perché possano teoricamente ipotizzarsi quei reati. Ed il processo è pena, come sa chi ci è passato, stando dalla parte sbagliata della cattedra; anche se alla fine, con la vita devastata, assolto. La riforma proposta da Nordio, come già successo per la Cartabia, verrà ammortizzata. “La riforma riformata. In pejus”, era il titolo di un mio articolo del 25 luglio 2021 ed è suggestiva la coincidenza estiva: come se, approssimandosi la chiusura per ferie dell’Italia, l’istituzione che non vuole mutare di una virgola, acquisti potenza. Se mi consentite una metafora, Nordio in questo momento mi sembra come il Maestro Alberto Veronesi che venerdì sera, al festival pucciniano, ha diretto la Boheme bendato, sentendo solo la sua musica, ma non vedendo l’azione. Il punto è che la riforma della Giustizia, per quanto dovrebbe essere (ed è) argomento di interesse generale, appassiona solamente gli addetti ai lavori. Questi, peraltro, l’affrontano in una stolta contraddizione tra categorie e attribuendo alla Giustizia il falso idolo di un compito che non le spetta e che non può svolgere: la lotta alla mafia e alla criminalità. Un idolo che sopravanza tutto e che mette in subordine tante altre esigenze della giustizia: che non è solo quella penale e che è al disastro, con conseguenze economiche che a misurarle farebbero impallidire il nostro debito pubblico. Lotta alla mafia che la Giustizia non può svolgere per il semplice motivo che la responsabilità penale è personale e che il giudice può intervenire solo dopo avere avuto notizia di un reato. Mentre la lotta alla criminalità (diversa dalla mera scoperta del reo e della sua punizione) deve incidere sulla società, deve coinvolgere soprattutto le persone per bene, deve offrire alternative e modelli di vita. Il giudice ha un compito delicatissimo e difficile e la sua autonomia è imprescindibile. Il riferimento che contraddistingue lo Stato di diritto è proprio il giudice a Berlino: che, però, non basta che ci sia, ma deve anche essere consultabile, efficiente e tempestivo. Efficienza e tempestività che dovrebbero essere le finalità di una riforma che deve comportare prima di tutto una rivoluzione culturale: che oggi sembra inaccettabile all’establishment, ma che è già nella società mutata vertiginosamente e che prima o poi emergerà. Il Ministro Nordio ha ragione di provarci e lo fa onestamente. Anche se attorno a lui fioriscono argini politici, spesso mascherati da sostegno. Intanto la riforma naviga, nessuno osa affermare che non serve, ma tutti la vogliono gattopardesca: si faccia, ma a condizione che tutto rimanga com’è. “La separazione delle carriere è la madre di tutte le battaglie” di Angela Stella L’Unità, 16 luglio 2023 Parla Tullio Padovani: “È irrinunciabile, porterebbe alla discrezionalità dell’azione penale e al controllo dell’operato dei pm. Nordio sbaglia su Delmastro e l’abolizione dell’abuso d’ufficio è una follia, ma l’Anm si muove come un partito”. C’è uno scontro tra politica e magistratura? Questo scontro dura da più trent’anni, lo scontro inizia molto prima di Mani Pulite. Si prepara agli inizi degli anni 70. Durante questi decenni ci sono stati momenti anche di stasi ma se non si rimuovano le cause è destinato a durare. Quali sono le cause? Derivano dal fatto che la funzione del pm, e in generale della magistratura, ha nel corso del tempo assunto un ruolo e una funzione ipertrofica rispetto alla concezione di uno Stato di Diritto equilibrato. Hanno cioè un ruolo dominante. Già anni fa dicevo provocatoriamente: L’articolo 1 della Costituzione (‘L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione’) va riletto così: L’Italia è una Repubblica giudiziaria, fondata sull’esercizio dell’azione penale. La sovranità appartiene ai pubblici ministeri, che la esercitano in modo discrezionale. Questo non vuol dire che i giudici governino in tutto e per tutto, ma in certe situazioni si atteggiano a decisori di ultima istanza. Secondo Lei Nordio, con le sue esternazioni pubbliche più da editorialista che da Ministro, è un problema per Giorgia Meloni? Non saprei. Meloni lo ha scelto, lo ha voluto, lui non sorprende nessuno con quello che dice. Nordio fa bene a riaffermare la linea politica della giustizia che ha fin dall’inizio espresso. Certo, talvolta può essere impolitico dire determinate cose in certi momenti. In tutto questo Nordio mi sembra un po’ isolato. Come giudica le parole usate dalla premier sul caso Santanché (neanche un avviso di garanzia determina automaticamente le dimissioni)? Sono cose vecchie. Ce lo diciamo da decenni. I discorsi sono sempre gli stessi. Invece di lamentarvi, avete il potere, risolvete il problema! L’avviso di garanzia non è stato proclamato sul Monte Sinai, quindi si può disciplinare in modo più corretto, così come la disciplina sulla pubblicazione degli atti. Non giudico la vicenda in particolare, ma sul tavolo ci sono le solite questioni. Dal punto di vista dell’opportunità politica dovrebbe dimettersi se ricevesse l’avviso di garanzia? Ma neanche per sogno in linea di principio. Tutto ruota intorno all’esercizio dell’azione penale in Italia che è sottratto ad un vaglio preliminare di legalità. Come inizia l’azione penale? Basta che ci sia una denuncia su cui occorre svolgere le indagini. Il moto giudiziario all’inizio può essere sollecitato anche da elementi labili e poi alla fine, dopo molto tempo, quando il danno ormai è fatto, si vede che non c’era nulla di penalmente rilevante. Non puoi essere condannato se ti arriva un avviso di garanzia. Inoltre è sbagliato e assurdo che l’informazione di garanzia possa essere pubblicata. Si tratta di un problema che mi sono trovato a trattare in una commissione, nominata dal Ministro Martelli, già agli inizi degli anni ‘90. Vi facevano parte, tra gli altri, anche Glauco Giostra e Giorgio Lattanzi e discutevamo di questo, ossia della segretezza degli atti di indagine. Esattamente 30 anni fa elaborammo un progetto di riforma - avevamo rilevato che il meccanismo del codice prevede la tutela delle indagini ma non dell’indagato - contro il quale si scatenarono campagne giornalistiche durissime che hanno indotto il ministro a disconoscere l’elaborato. Siamo fermi, siamo in un universo immobile, siamo fuori della storia. E sul caso Delmastro e l’imputazione coatta? Mi permetto di dissentire da Nordio. Questo sistema certamente è in antitesi col sistema accusatorio ma il fatto è che noi abbiamo un sistema costituzionale che non è ispirato all’accusatorio. In particolare noi abbiamo un sistema costituzionale che prescrive con l’articolo 112 l’obbligatorietà dell’azione penale. E allora quando il pm chiede di archiviare il controllo di legalità chi lo dovrebbe fare? Il controllo del gip è un istituto costituzionalmente necessario. Il problema sta nel 112: lo dobbiamo mantenere così? È il velame in realtà dietro al quale si cela l’arbitrarietà. Se il pm va avanti e tiene una persona sulla graticola per anni con indagini che portano a perquisizioni e sequestri e poi finiscono in un non nulla, lui non risponde di nulla perché sostiene di essere obbligato ad esercitare l’azione penale. Possibili che non si vedano le cose più ovvie? Discutiamo veramente della responsabilità dei magistrati che devono render conto di ciò che fanno, anche in relazione alla progressione di carriera. Secondo lei l’Anm ha il diritto di intervenire nella discussione pubblica o la giudica una interferenza? Io la giudico una pesantissima e inqualificabile interferenza. L’Anm ha un compito assimilabile mutatis mutandis a quello di un “organismo sindacale”, per lavorare, ad esempio, per la tutela degli stipendi, per i problemi intra-categoriali. Quando si pretende di scendere in campo con quella forza associativa, si diventa un partito politico di maggioranza in termini qualitativi, di potere. Come giudica il primo pacchetto di riforme targato Nordio? L’abolizione dell’abuso di ufficio è una scelta assurda, improponibile. Si verrà a creare un buco nel quale si insinua un potere sottratto ad ogni controllo di legalità. In altri termini: quando c’è discrezionalità amministrativa non c’è sindacato del giudice penale. Ma se questo comportamento non si esprime nelle forme dell’atto viziato da una illegittimità censurabile non lo sarà neanche rispetto al Tar. Quindi in sostanza il pubblico ufficiale è il titolare esclusivo di una potestà di cui non deve rendere conto a nessuno. Saremmo quindi in uno Stato premoderno, molto più vicino al sistema feudale che non a quello dello Stato di Diritto. Per quanto concerne il collegiale per le misure cautelari rappresenta senza dubbi maggiori garanzie ma non lo si può prevedere per tutti i reati. Ora si parla di rivedere il concorso esterno. Giusto aprire un dibattito? Che il concorso eventuale nel reato associativo sia concepibile è il sistema che ce lo dice, solo che giustamente ha di per sé connotati di indeterminatezza. Da qui tutte quelle incertezze giurisprudenziali che lo rendono evanescente. Il problema comunque andrebbe innanzitutto affrontato sul piano del concorso in generale ma anche su questo sono decenni che ne discutiamo. Secondo lei il Governo e il Parlamento avranno la forza e i numeri per portare a casa la separazione delle carriere? È la battaglia finale, è irrinunciabile. Se il pm viene separato dall’ordine giudiziario non è più la stessa cosa: la separazione di conseguenza porterebbe alla discrezionalità dell’azione penale, al controllo dell’operato del pm. I tre punti che costituiscono la riforma della giustizia: discrezionalità, responsabilità, separazione. Sulla possibilità che questa riforma venga approvata mi chiedo: la forza casomai ce l’hanno ma come la eserciteranno? Nessuno mi garantisce che la soluzione sia razionale. Si sa che d’estate le carceri sono forni bollenti. E continuano i suicidi. Non crede che ci sia un disinteresse generale nei confronti delle carceri? Non interessa niente a nessuno. Si ammazzino pure, sarà uno di meno. E seppure la gente lo viene a sapere fa spallucce. Se l’obiettivo fosse quello di far emergere il problema, sollevare l’opinione pubblica questi eventi sarebbero denunciati dalle stesse autorità per dire ai cittadini ‘vedete in che situazione siamo?’. Il Governo dovrebbe essere il primo a rendere trasparente la situazione, invece bisogna accendere Radio Radicale o leggere quei pochi giornali che ne parlano. Quando entri in una grande azienda, trovi un grande cartello nel quale sono indicati gli infortuni sul lavoro in un determinato periodo per far vedere qual è l’andamento. E ogni morte diviene motivo di allarme per tutti. Quindi è un cartello monitorio. La stessa cosa dovrebbe esserci all’ingresso di Via Arenula per i suicidi perché sono indici di una grave crisi da denunciare sulla pubblica piazza e che deve sollecitare interventi drastici. Non possiamo avere la morte per pena, perché abbiamo abolito la pena di morte. Qualcuno non vuole Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, come membro del Collegio del Garante dei diritti dei detenuti... Sicuramente qualcuno non la vuole perché Rita avrebbe una linea che non farebbe piacere quasi a nessuno. Rita quel frammento di potere lo ha speso a servizio delle carceri. Per questo è unica ed è una eccezione in questo Paese. Ma la regola non ama le eccezioni e quindi meglio che lei resti fuori con mille pretesti. Santalucia (Anm): “Una riforma fallimentare, con la cura Nordio zero benefici alla Giustizia” di Maria Elena Cosenza La Notizia, 16 luglio 2023 “Non condivido le critiche del ministro, anche se so bene quanto ampio e articolato sia il dibattito dei giuristi intorno a questa forma criminosa”. Così il Presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) Giuseppe Santalucia in merito alle parole del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ha definito il reato di concorso esterno evanescente e da modificare. “Prendo atto, peraltro, che l’idea del Ministro - prosegue Santalucia - che non ho ben compreso se volta all’eliminazione del concorso esterno o alla sua migliore definizione, non ha sostanza politica, perché la Presidenza del Consiglio dei ministri ha decisamente negato che si interverrà”. Malgrado i dubbi espressi da Mattarella alla Meloni, il guardasigilli sembra intenzionato ad andare avanti sull’abrogazione tout court del reato di abuso d’ufficio. Crede sia una buona idea? “Ho già detto in plurime occasioni le ragioni tecniche di una contrarietà alla eliminazione del reato. Non mi pare una buona idea, ho illustrato gli argomenti che servono a dimostrare che non è una felice idea riformatrice. Lo ha fatto anche il Comitato direttivo centrale della Anm, nel corso dell’ultima seduta dell’8-9 luglio, ponendo soprattutto in evidenza che una totale eliminazione del reato porrebbe l’ordinamento italiano in frizione con alcuni atti normativi sovranazionali, di ambito europeo, che invece chiamano gli Stati a prevedere che lo sfruttamento a fini personali di un ufficio pubblico sia comportamento punibile sul piano penale. La parola spetta al Parlamento”. Intanto fa discutere il tema della separazione delle carriere su cui il governo è in tilt. Se Meloni frena, Nordio e Sisto insistono. Perché separare le carriere sarebbe un vulnus per la nostra democrazia? “Una riforma, quella della separazione delle carriere, che non contribuirà ad elevare la qualità del nostro sistema istituzionale. La Costituzione ha realizzato un’opera preziosa. Credo che i tanti progressi fatti dalla nostra società siano ricollegabili anche al sapiente equilibrio, scolpito in Costituzione, che vuole un pubblico ministero indipendente, inserito nella giurisdizione, controllato dai giudici, lontano dal potere politico. Mettere mano a una riforma così importante senza considerare tutte le implicazioni che potrebbero derivare per il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e, soprattutto, per i rapporti tra pubblico ministero e potere politico mi sembra scelta non saggia. Cosa ne sarà di un pubblico ministero separato dalla giurisdizione? Sarà più vicino al potere politico? E dell’azione penale obbligatoria? Il principio di obbligatorietà traduce nel sistema penale il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Cosa ne faremo?” Le procure e i tribunali sono in affanno. Mancano 1500 magistrati ma il ministro ha rivelato che ne assumerà solo 250. Un numero di per sé insufficiente ma che desta ancor più preoccupazione alla luce delle modifiche alle misure cautelari che dovranno essere decise da un collegio… “Non è così. Il Ministro, e gliene dò atto, ha provveduto a bandire i concorsi per la copertura dei posti vacanti. Certo i tempi del reclutamento dei magistrati non sono rapidi, ma è normale che sia così, perché si tratta di vagliare l’idoneità tecnica ad assumere un ruolo particolarmente delicato come è quello di magistrato. La proposta di incrementare l’organico di 250 posti è collegata alla riforma delle misure cautelari, perché si vuole che la custodia cautelare in carcere sia decisa non più da un giudice singolo ma ad un collegio. Riforma questa di cui comprendo lo spirito di garanzia ma che va riguardata all’interno dell’ampio sistema dei controlli sulle misure cautelari, oggi particolarmente ricco. Le garanzie vanno innalzate ma il sistema deve essere sostenibile, altrimenti le garanzie rimangono strozzate dalle inefficienze, al di là delle buone intenzioni”. Si dice che voi dell’Anm affermate che questa riforma della Giustizia è punitiva verso la categoria. Ci può spiegare perché gira questa voce? “Non abbiamo detto questo. È una riforma che non riguarda i magistrati ma il sistema penale. Quando abbiamo accennato al fatto che si evocano alcune riforme non appena alcune singole iniziative giudiziarie risultano non gradite, non facevamo certo riferimento al disegno di legge del Ministro Nordio che al momento è all’esame del Capo dello Stato”. Sui casi giudiziari che agitano la maggioranza, Meloni ha difeso a spada tratta i suoi. Su Delmastro ha tuonato contro l’imputazione coatta che, a suo dire, è un’anomalia del nostro sistema penale. È davvero così? “Non è così. Si tratta di un meccanismo che sta nel codice di procedura penale dal 1988 e che dimostra che il principio di obbligatorietà dell’azione pena è preso sul serio. Sono stati predisposti dei controlli del giudice sull’operato del pubblico ministero. Se non ci fossero i controlli, il pubblico ministero sarebbe arbitro dell’azione penale, e ciò non sarebbe accettabile”. Su Santanché, invece, per la premier il problema sarebbe “procedurale” in quanto non è normale che la ministra abbia saputo dell’indagine tramite i giornali. Per questo si vocifera di una riforma dell’avviso di garanzia… “Io non so se vi sia stata una fuga di notizie imputabile ai magistrati. Non spetta a me dirlo. So, però, che il Ministro della giustizia ha tutti gli strumenti per accertarlo, anche per allontanare il sospetto che la magistratura venga meno ai suoi doveri di garanzia dei diritti di tutti”. Qual è il suo giudizio sulla riforma Nordio? “Una riforma che non migliora la legislazione penale nei limitati settori su cui interviene”. L’indennità di disoccupazione Naspi spetta anche ai detenuti lavoratori Il Giorno, 16 luglio 2023 L’indennità di disoccupazione, la Naspi, spetta anche ai detenuti che hanno prestato attività lavorativa per l’amministrazione penitenziaria. A stabilirlo è una sentenza recente del Tribunale di Busto Arsizio che ha accolto il ricorso di una detenuta lavoratrice seguita dalla Cgil di Milano. La detenuta ha lavorato come addetta alle pulizie e successivamente come aiuto sarta nella produzione di mascherine durante il periodo del Covid in un istituto penitenziario milanese, prima di essere trasferita in un altro istituto della stessa città, dove è attualmente ancora reclusa. “Dopo la sentenza del tribunale di Milano del novembre 2021, che ha accolto il ricorso di un altro detenuto seguito dalla Cgil Milano, e altre sentenze nel resto del Paese- spiega la Cgil in una nota- assistiamo ad una nuova vittoria della rivendicazione che la nostra organizzazione porta avanti da tempo. La sentenza del Tribunale di Busto Arsizio lo ribadisce chiaramente: “Risulta evidente che disconoscere la corresponsione della Naspi a tutti i cittadini meno che ai detenuti lavoratori subordinati dell’amministrazione penitenziaria configuri una palese violazione degli artt. 3,4, 35 e 38 della Costituzione da parte di Inps il cui comportamento non deve dirsi solo illegittimo e incostituzionale ma, prima di tutto, discriminatorio. Una discriminazione odiosa alla quale la Cgil continuerà ad opporsi. Nonostante le pronunce della Cassazione, l’Inps, con il messaggio n. 909 del 5.3.2019, ha instaurato la prassi del mancato riconoscimento della Naspi a detenuti ed ex detenuti che abbiano svolto lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria per i loro periodi di quiescenza dal lavoro. Chiediamo con forza che Inps torni sui suoi passi”. Torino. I Radicali in vista al carcere: “Servono personale e permessi” di Sofia Francioni Corriere di Torino, 16 luglio 2023 Lo ha scritto il sindaco Lo Russo sul Corriere Torino il 14 luglio: “Torino e provincia hanno case circondariali non adeguate alla rieducazione. Anche questa è sicurezza”. La conferma arriva dopo l’ispezione al Lorusso e Cutugno dell’associazione radicale Adelaide Aglietta. Il coordinatore Andrea Turi raccoglie dai detenuti le stesse denunce che arrivano dalle carceri di Ivrea e Biella, dove l’associazione è appena stata nell’ambito della campagna aperta alla cittadinanza “Devi vedere”, che il 30 giugno sarà ad Asti. “Dialogo assente o lento con i magistrati di sorveglianza, che non permette di ottenere permessi in base alle rilevazioni degli educatori. I detenuti riferiscono che anche loro sono pochi. Nel reparto dei sex-offenders, il padiglione più critico dal punto di vista strutturale, ci hanno raccontato di non aver mai visto in un anno l’educatrice. Queste mancanze, in una sezione come il Lorusso e Cutugno dal grande turnover, dove sono detenute persone in attesa di giudizio o che scontano una pena fino a cinque anni, creano sovraffollamento. Altro grave problema storico della casa circondariale”. Inoltre, mancano all’appello circa duecento agenti di polizia penitenziaria. Il ministero della giustizia, sul sito aggiornato al 31 marzo 2023, riferisce che per le 1.400 anime recluse nel carcere torinese sono previsti 894 agenti, contro i 699 effettivamente in servizio a oggi. Anche su questo il sindaco Lorusso chiama in causa il governo, riferendo di averne parlato di recente “a Roma con il ministro Nordio, che mi ha dato piena disponibilità a lavorare in sinergia con le istituzioni territoriali”. Con il coinvolgimento, scrive il sindaco “degli attori sociali, economici e il terzo settore. A Torino ci stiamo lavorando con energia”. Intanto, al Lorusso e Cutugno “le docce restano rotte, con un’umidità pazzesca e a volte su muri fatiscenti”, denuncia Turi. “Siamo entrati anche nella cella numero 8 della parte femminile, dove il 28 giugno una detenuta si è tolta la vita. Le persone recluse ci hanno pregato di fare arrivare a Bruno Mellano e Monica Cristina Gallo, garante regionale e torinese per i detenuti, la richiesta di una quanto mai urgente visita al Lorusso e Cutugno”. Nella stessa casa circondariale dove quest’anno due persone si sono tolte la vita. Penitenziario che nel 2022 era stato il peggiore in Italia dopo Foggia, con 35 tentativi di suicidio sventati dalla penitenziaria e quattro casi di suicidio sui cinque registrati in Piemonte. Reggio Emilia. “Se le pene non sono rieducative a rimetterci è la società” di Giulia Gualtieri reggionline.com, 16 luglio 2023 L’intervento dell’assessore comunale al Welfare Daniele Marchi in seguito al pestaggio avvenuto ai danni di un detenuto 41enne per mano di agenti della penitenziaria. “Il Governo non ha intenzione di dimenticare. Non può esserci giustizia dove c’è abuso. E non può esserci rieducazione dove c’è sopruso”. Lo diceva Mario Draghi due anni fa, il 14 luglio 2021, al carcere di Santa Maria Capua Vetere, teatro di una “mattanza” senza precedenti. Il Governo è cambiato e mentre il Partito di Giorgia Meloni vuole abolire il reato di tortura, nelle carceri italiane si moltiplicano le “mattanze”. L’ultima, apprendiamo, qui a Reggio Emilia. C’è una responsabilità personale che verrà accertata da chi di dovere. Ma c’è anche una responsabilità collettiva che ci interpella tutti. C’è una serie di “segni” che escono dalle mura del nostro carcere (e non solo dal nostro), che dobbiamo provare a cogliere. Detenuti pestati, agenti aggrediti, celle a fuoco, detenuti e agenti suicidi, celle sovraffollate, docce ammuffite. Un inferno. Il carcere non è il luogo dove “fargliela pagare”. Leggiamo e realizziamo la nostra Costituzione. E mettiamoci dal punto di vista delle vittime e della comunità. Su questo dobbiamo interrogarci tutti. Che giustizia vogliamo? Quanta povertà nel dibattito pubblico sulla giustizia! L’unico vero scopo del sistema penitenziario, lo ripeto, non è “fargliela pagare”. Credo quindi che siamo sulla strada sbagliata e che “a pagarla” siamo tutti. Le comunità che, negando il diritto al recupero, avranno sempre più reati, non meno. I detenuti, che continueranno a vivere in condizioni disumane. Gli agenti e tutti gli operatori del sistema penitenziario, che dovranno continuare a lavorare sotto organico, in luoghi insalubri e difficili. Le vittime e i famigliari, che continueranno a portare in solitudine le conseguenze di ciò che hanno subito. La strada giusta è nelle parole di Mario Draghi: non dimenticare. Nelle competenze di una Amministrazione locale, non dimenticare significa promuovere la relazione tra carcere e città e supportare con ogni mezzo i percorsi di recupero e reinserimento, dotandosi anche, come stiamo facendo a Reggio Emilia, della figura del Garante comunale. Senza illudersi che questo sia sufficiente e risolutivo. Serve di più. Serve la cultura della giustizia riparativa che superi definitivamente il paradigma retributivo (occhio per occhio) e apra ad una giustizia più democratica che non dimentichi le vittime e che coinvolga attivamente le comunità nel trasformare il male causato col reato in un progetto di recupero, di bene e, ove possibile, di riconciliazione. Servono investimenti per il carcere, invece pensano ad abolire reato di tortura L’assessore al welfare del Comune di Reggio dopo il pestaggio di un detenuto alla Pulce: “Ambiente troppo trascurato. Gli enti locali sono sempre stati a fianco della direzione carceraria. A settembre si concluderà anche l’iter per avere il garante”. “Il carcere è un luogo troppo trascurato, sotto tutti i profili, lo certifica la relazione di Antigone oltre alla cronaca, oltre a questo episodio limite anche un incendio recentemente, aggressioni agli agenti… è un contesto complesso che richiede maggiori investimenti da parte della politica, in primis del Ministero che ne ha la responsabilità”. Secondo l’assessore al welfare del comune di Reggio Daniele Marchi il “sistema carcere”, come presidio dello Stato, ha bisogno di maggiori investimenti, invece a livello nazionale si sta andando nella direzione opposta. “Forze politiche che sostengono questo Governo vogliono abolire il reato di tortura per il quale invece si è potuto procedere nell’indagine a Reggio”. Marchi definisce “un fatto molto grave, se accertato nelle dovute sedi” il pestaggio avvenuto alla Pulce da parte di diversi agenti di polizia penitenziaria nei confronti di un detenuto tunisino. “E’ positivo il fatto che sia stata aperta una indagine. Significa che anche i diritti dei detenuti possono trovare risposta, se lesi”. L’assessore al Welfare ha seguito da vicino molti progetti per migliorare le condizioni di vita dei detenuti all’interno del carcere di Reggio, da ultimo quello del cinema e dell’aula multimediale. “Gli enti locali sono sempre stati a fianco della direzione carceraria - dice - e settembre si concluderà anche l’iter per avere il garante comunale. “Abbiamo ricevuto diverse candidature che saranno verificate formalmente, poi i curricula saranno consegnati al consiglio comunale per la nomina”. Ma la Repubblica giudiziaria nasce prima di tangentopoli di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 16 luglio 2023 Nel suo libro, Antonucci spiega che il potere che hanno ora i magistrati, soprattutto che esercita funzioni requirenti, ha origini assai lontane. “La Repubblica giudiziaria. Una storia della magistratura italiana” (Marsilio, 288 pp. 19 euro) scritto dal giornalista del Foglio Ermes Antonucci è il primo libro sulla storia della magistratura nel periodo repubblicano. “Uno strumento utile per capire le varie tappe che hanno portato allo strapotere delle toghe”, ricorda l’autore che si è cimentato in questa inedita ricerca storica”. “La maggior parte delle persone pensa che la magistratura abbia sostituto la politica dopo Tangentopoli. Ma non è così. Il potere che hanno ora i magistrati, soprattutto chi esercita funzioni requirenti, ha origini lontane”, prosegue Antonucci che ha suddiviso il suo libro in capitoli, uno per ogni decennio, dall’entrata in vigore della Costituzione, agli anni del terrorismo, alla P2, a Tangentopoli, alle picconate di Cossiga, al berlusconismo. Grande spazio nel libro hanno, ovviamente, le correnti delle toghe. Nate come centri di elaborazione culturale, le correnti, sulla carta delle associazioni di carattere privato, condizionano (vedasi il Palamaragate) in maniera profonda il Consiglio superiore della magistratura. Va ricordato che in nessun altro Paese occidentale esistono, come in Italia, le correnti dei magistrati. “Il primo gruppo all’interno dell’Anm fu, nel 1957, Terzo potere (Tp) che sostenne le domande di cambiamento dei magistrati più giovani contro la struttura gerarchica dell’ordinamento giudiziario e il sistema di carriera”, sottolinea Antonucci. Per contrastare il progressismo di Tp, nel 1962 nacque Magistratura indipendente (Mi), la corrente conservatrice, poi in contrapposizione con Magistratura democratica (Md), nata nel 1964. Md fin da subito influenzerà il dibattito sulla giustizia dentro e fuori la magistratura. Di Md si ricorda la giurisprudenza alternativa, fondata su una visione marxista della giustizia come lotta di classe contro lo Stato borghese. I magistrati di Md ritenevano che il “diritto avesse natura discrezionale e che la decisione giudiziaria era un atto politico”. L’interpretazione della norma doveva essere a favore della classe deboli Nel convegno 1971, Giovanni Palombarini, uno dei padri fondatori di Md, propose il diritto “diseguale’ finalizzato proprio ad interpretare le norme per le classi subalterne. Era necessario partecipare insieme ai lavoratori al processo di formazione della coscienza di classe, con l’obiettivo finale di rovesciare la struttura capitalistica “attraverso l’affermazione dell’egemonia proletaria nella società, la crisi dell’ideologia dominante e degli apparati repressivi”. Negli anni successivi i collegamenti con i partiti della sinistra parlamentare ed extraparlamentare si fecero sempre più intensi, favoriti anche da un diverso atteggiamento del Pci nei confronti della magistratura a seguito di un ricambio generazionale. Il collegamento magistratura- politica era fondamentale nel quadro di una strategia unitaria “per sconfiggere il disegno reazionario e di ristrutturazione neocapitalista”. Una immagine rende bene il clima di quegli anni. Ed è quella durante i funerali di Ottorino Pesce, pm romano, toga di Md, morto d’infarto a gennaio del 1970. Al termine della cerimonia, militanti comunisti e magistrati di Md, fra lo sventolio delle bandiere rosse, decisero di salutare il feretro con il pugno chiuso. Nel 1972 il segretario generale di Md Generoso Petrella venne eletto in Parlamento nelle liste del Pci. Qualche anno più tardi toccò ad un altro esponente di punta di Md, Luciano Violante, essere eletto, aprendo così la strada delle toghe che dalle aule di giustizia andavano in Parlamento con il Pci-Ds-Pds-Pd. Nell’hotspot di Pantelleria il diritto è sospeso: migranti rinchiusi come fossero detenuti di Chiara Sgreccia L’Espresso, 16 luglio 2023 “Non possono lasciare la struttura”, si legge nel documento che la Prefettura di Trapani invia ad Asgi. Il testo scritto dalle autorità italiane certifica la detenzione illegittima. All’interno del Punto crisi non vengono eseguite le operazioni di identificazione. E visto che i migranti non sono ancora fotosegnalati, “non possono lasciare la struttura”. Anche perché non ci sono proprio “gli strumenti di regolamentazione di entrata e di uscita”. Così si legge in un documento redatto dalla Prefettura di Trapani e inviato a Asgi, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, a proposito dell’hotspot di Pantelleria. Ufficialmente nuovo: attivo dall’agosto del 2022. Ma già da anni destinato al primo soccorso e all’assistenza delle persone migranti, che venivano trattenute informalmente all’interno dell’ex caserma Barone, struttura inagibile da decenni. Adesso fatiscente. Così le autorità certificano con un testo scritto che le persone vengono detenute all’interno di un Punto crisi: “Una condizione di illegittima privazione della libertà personale che gli attori coinvolti nella gestione dei centri hotspot, a partire dalle istituzioni competenti, sembrano reputare come parte necessaria dell’identificazione, che attuano in assenza di base normativa e di convalida da parte dell’autorità giudiziaria. Nel nostro ordinamento non ci sono previsioni legislative che permettono all’autorità di pubblica sicurezza di adottare provvedimenti provvisori di limitazione della libertà personale qualora ciò fosse funzionale all’identificazione dei cittadini stranieri o di organizzazione degli spostamenti delle persone migranti in strutture di accoglienza o di detenzione amministrativa. Si tratta di una privazione della libertà personale che, invece, è stata monitorata costantemente e che appare connaturata all’approccio hotspot dando luogo a trattenimenti contrari a quanto sancisce la Costituzione, nell’articolo 13”, spiega Annapaola Ammirati, operatrice legale del progetto In Limine, che fa un punto sulle politiche di gestione delle frontiere e dell’accesso alle procedure di asilo. A conferma che la detenzione dei migranti all’interno degli hotspot è illegittima c’è anche la condanna definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo all’Italia. Arrivata lo scorso 10 luglio per i trattamenti inumani e degradanti che le persone hanno subito a Lampedusa: il trattenimento dei cittadini stranieri all’interno degli hotspot senza alcuna base di legge ha prodotto la violazione dell’articolo 5, diritto alla libertà e alla sicurezza, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. “ll trattenimento è ampiamente attuato all’interno dei centri hotspot durante le procedure di identificazione, determinazione della condizione giuridica e fotosegnalamento. In alcune circostanze, si prolunga anche dopo, cioè fino al trasferimento quindi all’inserimento in accoglienza se richiedenti protezione internazionale o all’inserimento nelle procedure finalizzate al rimpatrio se classificati come cittadini stranieri irregolari. Così le persone migranti permangono per tempi variabili in condizioni di isolamento e spesso in condizioni materiali inadeguate”. A quanto si capisce dal documento della Prefettura di Trapani questo è proprio quello che succede anche all’interno del nuovo Centro di Pantelleria, dove anche l’utilizzo del cellulare è contingentato: un piazzale d’asfalto su cui sono stati posti una decina di container bianchi che fungono da moduli abitativi. Per accogliere un massimo di 48 persone, che dormono impilate nei letti a castello. Senza neanche un spazio che sia pensato per la socialità. I migranti restano all’interno del centro fino a quando non viene organizzato il trasferimento per Trapani, dove avvengono le procedure di identificazione. I tempi, però, sono variabili: dipendono, ad esempio, dalle condizioni del meteo, del mare e dalle decisioni chi gestisce il centro. Così, si legge nel report che Asgi l’anno scorso aveva realizzato subito dopo aver visitato la struttura adibita a primo soccorso e assistenza di Pantelleria, ci sono casi in cui i tempi di permanenza sarebbero arrivati anche a 30 giorni: “Tutte le testimonianze informali e e di alcune associazioni hanno confermato che il centro nei fatti è chiuso. Sembrerebbe che alle persone migranti venga riferita l’interdizione dell’uscita dal centro. Tra gli abitanti dell’isola nessuna delle persone intervistate ha riferito di aver visto sistematicamente migranti muoversi. Il che è un’ulteriore conferma della chiusura di fatto del centro”. Secondo la Prefettura di Trapani, dal 4 agosto 2022 al 18 aprile 2023 dal Centro di Pantelleria sono transitati 4.507 migranti, di cui 661 minorenni. 381 sbarchi in 8 mesi. Dati che certificano l’aumento del flusso di persone che arrivano sull’isola su cui vivono poco più di 6.600 abitanti, che dista solo 65 chilometri dalla Tunisia (Lampedusa 110). In tutto il 2021 gli sbarchi a Pantelleria erano stati 211, le persone arrivate 2.555. “Secondo quanto riferito durante il sopralluogo, la struttura sarebbe stata caratterizzata in alcuni momenti anche da situazioni di grave sovraffollamento”, conclude Ammirati a proposito dell’hotspot la cui organizzazione, in attesa dell’espletamento delle procedure per l’affidamento alla Cooperativa che ha vinto la gara, è affidata da mesi al Comune di Pantelleria che non dispone di operatori formati per la gestione dell’accoglienza. Il governo Meloni alla crociata contro la cannabis di Franco Corleone L’Espresso, 16 luglio 2023 Giorgia Meloni e Alfredo Mantovano hanno deciso di lanciare una crociata contro la canapa, colpevole di essere una sostanza diabolica, causa della corruzione morale dei giovani. La tesi assai ardita si fonda sulla convinzione che non vi siano droghe leggere e pesanti, ma che esista la Droga, che rappresenta il male assoluto da combattere senza esclusione di colpi. D’altronde, se il Bene deve trionfare, non sono ammessi compromessi. Questa è la posizione alla base della legge Fini-Giovanardi, che rimase in vigore dal 2006 al 2014, quando la Corte costituzionale la cancellò perché approvata con una forzatura istituzionale, grazie all’iniziativa della Società della Ragione. Ebbene, l’ispiratore di quel testo che puniva la detenzione e il piccolo spaccio di tutte le sostanze illegali con pene da otto a vent’anni di carcere fu proprio Mantovano, che oggi - dieci anni dopo la bocciatura della Consulta - si ritrova nel governo Meloni responsabile della politica antidroga. Non si sa fin dove si spingerà la scelta proibizionista, ma gli annunci sono preoccupanti: dalla condanna delle strategie pragmatiche di riduzione del danno al sostegno indiscriminato delle comunità terapeutiche “chiuse”, sul modello della San Patrignano di Vincenzo Muccioli. Il 26 giugno, in un’aula della Camera dei deputati, Meloni ha urlato in modo scomposto che il disastro morale dei giovani è dovuto al predominio della lobby antiproibizionista, che impererebbe nella cultura e nelle televisioni. È un falso sesquipedale, perché in Italia dal 1990 vige la legge Iervolino-Vassalli (dpr 309/90), a segnare la svolta punitiva voluta da Bettino Craxi che tradì il pensiero laico, radicale e socialista di Loris Fortuna. Le conseguenze di quella scelta pesano sull’ingolfamento dei tribunali e sul sovraffollamento delle carceri, dove il 50% dei detenuti è incarcerato per violazioni del dpr 309/90 o per reati connessi alla condizione di emarginazione sociale di chi usa droghe. La destra di Alleanza nazionale istituì il dipartimento Antidroga, che ha avuto come capi prima il prefetto Pietro Soggiu, poi il deputato Nicola Carlesi, infine Giovanni Serpelloni, noto per la teoria dei buchi nel cervello provocati dal consumo di stupefacenti. Un’altra conseguenza è la criminalizzazione di moltissimi giovani: dal 1990 a oggi oltre un milione e 400 mila persone sono state segnalate alle prefetture per semplice consumo e più di un milione per il possesso di cannabis, subendo gravi sanzioni amministrative. La destra di Meloni rifiuta la categoria della distinzione anche per la canapa, contrastando perfino quella terapeutica e quella industriale senza componente psicoattiva. Il furore iconoclasta dimentica il sostegno del fascismo alla produzione di canapa tessile in Italia e forse coinvolgerà anche le meravigliose lenzuola che saranno avviate al rogo purificatore. Per fortuna - e non a caso - il vino viene salvato. Il vento è cambiato nel mondo, la cannabis è ormai legalizzata in quasi tutti gli Stati Uniti, in Canada, Uruguay e altri Paesi. In Italia è ora di riproporre un referendum che faccia decidere i cittadini tra autonomia e responsabilità, da un lato, moralismo e paternalismo autoritario, dall’altro. Contro chi vuole che la nostra Nazione sia il baluardo internazionale della reazione. Che cos’è la Corte Penale Internazionale, il ruolo chiave dell’Italia e gli oltre 20 anni di attività di Marco Perduca L’Unità, 16 luglio 2023 Lo Statuto di Roma che istituì la Corte fu adottato il 17 luglio del 1998, dopo un percorso lungo e tortuoso. In pochi lo sanno, ma il nostro Paese giocò un ruolo chiave perché dalle parole si “passasse ai fatti”. Ecco come andò. Dal 2010, il 17 luglio si celebra “La Giornata mondiale per la giustizia internazionale” in ricordo del giorno in cui, nel ‘98, alla FAO di Roma fu adottato lo Statuto che avrebbe istituito la Corte penale internazionale. Il trattato sarebbe entrato in vigore il 1° luglio del 2002 alla sessantesima ratifica. Non è noto o ricordato, ma l’Italia, governativa e non, ha giocato un ruolo chiave perché dalle “parole si passasse ai fatti”. La creazione di una giurisdizione penale è da sempre stata considerata un’aggiunta necessaria al sistema delle Nazioni unite; alla Corte internazionale di giustizia, che aggiudica dispute tra Stati, era necessario affiancarne una che perseguisse le responsabilità individuali di chi violava il diritto umanitario internazionale. La Guerra Fredda sospese quelle buone intenzioni fino al 1989 quando, a pochi mesi dalla fine dell’URSS, il primo ministro di Trinidad e Tobago Arthur Robinson rilanciò l’idea di un tribunale penale internazionale per contrastare il narcotraffico che stava destabilizzando i Caraibi - lui stesso scampò miracolosamente a un attentato. Grazie a quell’accorato appello l’Assemblea generale che vide la dissoluzione dell’Unione sovietica incaricò la Commissione per il diritto internazionale di redigere una bozza di statuto. La guerra nella ex-Jugoslavia bloccò i lavori perché nel 1993 il Consiglio di Sicurezza deliberò di creare un Tribunale ad hoc per i Balcani che spianò la strada, un anno dopo, a un’istituzione simile per giudicare il genocidio in Ruanda. L’anno in cui Berlusconi vinse le sue prime elezioni, la International Law Commission presentò finalmente all’Assemblea dell’Onu una bozza che sarebbe stata affidata alla Commissione affari legali del Palazzo di Vetro per la sua adozione, raccomandando di convocare una conferenza per negoziare un trattato che servisse da statuto della Corte. Nell’autunno di quell’anno Emma Bonino, a nome del governo Berlusconi I, che di lì a poco sarebbe caduto, offrì di ospitare a Roma i plenipotenziari allo scopo di, come fu detto, “passare finalmente dalle parole ai fatti”. La presenza della Deputata radicale nella delegazione italiana all’Onu faceva parte di un accordo politico-elettorale per il centro nord siglato nel 1994 tra la Lista Pannella e Forza Italia grazie al quale sei deputati, ma non Pannella, e un senatore sarebbero stati eletti (più o meno con certezza) nella XII Legislatura. Quell’offerta sarebbe stata confermata dai governi Dini e Prodi, mentre i futuri accordi tra Pannella e Berlusconi ebbero sorti peggiori. Oltre ad andare contro le priorità di Russia e Cina, la bozza di Statuto non piacque neanche ad altri due stati membri del Consiglio di Sicurezza: USA e Francia - il Regno Unito ancora a guida conservatrice si accodò ai “dubbi” dell’Amministrazione Clinton. A Washington non piaceva la totale indipendenza del procuratore che avrebbe potuto lanciare indagini “motivate politicamente” contro chi usava la forza per mantenere la sicurezza interna (Israele) o internazionale (USA), a Parigi non piaceva che il testo fosse costruito attorno al sistema di Common Law. Nei tre anni di negoziati che seguirono si trovò un bilanciamento sufficientemente condiviso circa buona parte dei rilievi franco-americani, e le preoccupazioni tecniche e politiche relative ai crimini di competenza della corte, in quali casi questa sarebbe intervenuta, se prevedere la pena di morte o l’ergastolo o nessuna delle due, la relazione con il Consiglio di Sicurezza e il ruolo delle vittime. Quando all’inizio di giugno del ‘98 alla FAO si inaugurò la Conferenza sotto la presidenza di Giovanni Conso, il testo era tutt’altro che pronto. Anche all’interno della Coalizione di Ong, co-fondata nel ‘95 dal Partito Radicale e Non c’è pace senza giustizia insieme ad Amnesty International, Human Rights Watch, i Federalisti mondiali e Parliamentarians for Global Action e altri, le priorità differivano: chi pensava, come i Radicali, che un’opportunità simile non si sarebbe più presentata, chi invece mirava a uno statuto “perfetto”. Trait d’union tra queste visioni apparentemente inconciliabili la Commissaria europea Emma Bonino (un altro dei punti dell’accordo Pannella-Berlusconi) e una quarantina di giovani giuristi e giuriste che, grazie a un progetto co-finanziato da Soros e l’UE a No Peace Without Justice, assistettero una dozzina di paesi in via di sviluppo durante i negoziati. Dopo una notte di scambi vivaci, il 17 luglio 1998 lo Statuto di Roma fu adottato con 120 voti a favore, 21 astensioni e 7 (Cina, Iraq, Israele, Libia, Qatar, USA e Yemen) contrari. Nei suoi 20 anni di attività sono stati aperti casi su: Afghanistan, Repubblica democratica del Congo, Sudan (Darfur), Georgia, Kenya, Libia, Mali, Palestina, Uganda, Ucraina e Venezuela. Nel 2006 il presidente del Sudan Omar al-Bashir fu ritenuto il mandante del genocidio in Darfur, nel 2011 il dittatore Muammar Gheddafi fu accusato di crimini contro l’umanità, a marzo scorso il Presidente Vladimir Putin di crimini di guerra commessi in Ucraina. Perseguire la pace attraverso la giustizia può suonare idealistico se non utopistico. Contrariamente a chi ritiene che si tratti di incriminazioni simboliche, quando un Capo di Stato viene formalmente accusato dalla Corte le sue fortune vanno diminuendo. Occorre quindi sostenerne il lavoro finanziariamente, cooperare con le indagini, aiutare vittime e testimoni e adeguare i propri codici come ancora l’Italia non ha fatto. Migranti e crisi. Italia e Unione Europea puntano tutto su Tunisi di Lorenzo Vita Il Riformista, 16 luglio 2023 L’obiettivo è un patto che garantisca lo stop del traffico di esseri umani. Meloni dovrà certificare che l’Italia ha avuto un peso nel trovare un accordo con un Paese di transito come la Tunisia e far vedere che Roma arriva prima di altri partner nel “mettere il cappello” sull’accordo con Saied. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, e il primo ministro (dimissionario) dei Paesi Bassi Mark Rutte, sono pronti a sbarcare di nuovo a Tunisi per finalizzare il memorandum di intesa con Kais Saied. L’obiettivo è sempre quello. Un patto che abbia da parte tunisina la garanzia che collabori nel fermare il traffico di esseri umani, mentre da parte dell’Europa aiuti finanziari e supporto per sbloccare i prestiti del Fondo Monetario Internazionale. La partita non è mai stata semplice. Eppure, un primo spiraglio sembra aprirsi, complice la necessità di sbloccare le trattative per la convergenza di due problemi: la perdurante crisi economica della Tunisia e la necessità per l’Italia e l’Unione europea di porre un freno ai flussi migratori irregolari dal Nord Africa. Il tempo è tiranno, e lo è tanto per Tunisi quanto per Roma. Saied sa di dover fare i conti con un Paese pericolosamente vicino al collasso finanziario. Una crisi che, come ricordano gli esperti, dura da almeno dieci anni e fa sì che la Tunisia abbia urgente necessità di investimenti esteri e di liquidità. I soldi dell’Europa e del Fmi servono come una boccata d’ossigeno sia per risanare le casse sia per gestire un flusso di migranti che Tunisi non riesce a controllare. Lo dimostra quanto accaduto in questi giorni ai confini con la Libia, ma anche quanto accade quotidianamente a Sfax, dove iniziano a vedersi i primi segni di rabbia e violenza contro i migranti da parte delle frange nazionaliste. L’Italia, dal canto suo, ha bisogno di questo accordo e del placet di Saied. Per Meloni è essenziale fermare le partenze dal Nord Africa. E se la Libia resta un enorme punto interrogativo funestato dall’anarchia militare, la Tunisia rappresenta un interlocutore quantomeno definito. Da una parte, per Meloni ne va di uno dei principali cavalli di battaglia del centrodestra: l’interruzione o quantomeno la riduzione dei flussi irregolari. Cosa non accaduta di certo in questi mesi, dal momento che, per fattori certamente convergenti e non tutti gestibili, in Nord Africa e in Sahel si assiste a un aumento significativo dei traffici di esseri umani parallelamente all’esplosione della rotta tunisina. I dati dell’agenzia Frontex sono cristallini. “Gli arrivi su tutte le altre rotte migratorie hanno registrato un calo rispetto all’anno precedente, che va dal -6% sul Mediterraneo occidentale al -34% sulla rotta del Mediterraneo orientale” si legge nel bollettino pubblicato dall’agenzia europea. Ma soltanto a giugno, “i contrabbandieri hanno intensificato le loro attività, provocando un aumento dell’85% degli arrivi nel Mediterraneo centrale” con il rischio anche di una sfida tra reti criminali. Dall’altra parte, per il governo italiano c’è anche un tema di ordine europeo. Meloni deve certificare che l’Italia ha avuto un peso nel trovare un accordo con un Paese di transito come la Tunisia, cardine della frontiera esterna dell’Unione europea. E deve soprattutto far vedere che Roma arriva prima di altri partner nel “mettere il cappello” sull’accordo con Saied. La visita a Tunisi del ministro dell’Interno francese Gerard Darmanin e dell’omologa tedesca Nancy Faeser pochi giorni dopo il primo viaggio del trio Meloni-Rutte-Von der Leyen aveva già fatto scattare l’allarme per un possibile “scippo” franco-tedesco del dossier tunisino. Uno smacco per il governo italiano, impegnato nel perorare la centralità di Roma nello scacchiere mediterraneo e africano, anche se spesso declinata nell’ambizioso per quanto ancora più che fumoso cosiddetto “Piano Mattei”. Il vicepresidente della Commissione Ue, Margaritis Schinas, ha effettivamente dato il merito a Palazzo Chigi dell’accordo, ricordando che “l’Italia ha dato un enorme contributo, per il quale le siamo grati”. Un segnale di fiducia che non va sottovalutato, ma che ora attende due “prove del nove”: Tunisi e l’accordo sui migranti, che Bruxelles vorrebbe siglare entro la fine dell’anno. Tunisia. Meloni ci riprova: soldi per fermare i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 16 luglio 2023 Nel paese nordafricano von der Leyen e il premier olandese Rutte: la speranza è di arrivare un accordo sul Memorandum. Unione europea e Tunisia continuano a trattare alla ricerca di un accordo sui migranti che però, al momento, sembra ancora lontano. Per questo Giorgia Meloni oggi sarà di nuovo nel paese nordafricano insieme alla presidente della commissione Ue Ursula von der Leyen e al premier olandese Mark Rutte per incontrare il presidente Kais Saied. E’ la terza volta nel giro di poche settimane che il “team europeo” si reca in Tunisia nella speranza di riuscire a mettere la parola fine al Memorandum di intesa che , tra le altre cose, dovrebbe impegnare Saied ad arginare le partenze dei migranti diretti in Italia. Impresa altre volte annunciata come fatta e poi sempre rimandata, a dimostrazione della distanza ancora esistente tra le parti. “I tre leader europei erano già stati a Tunisi l’11 giugno scorso per un pacchetto complessivo di partnership con le autorità tunisine e ora vi fanno ritorno per portare avanti quel lavoro” spiegava venerdì un portavoce della Commissione. L’accordo su cui si sta lavorando prevede assistenza macrofinanziaria, commercio e investimenti, ma si occupa anche di energia e di migranti. In cambio, l’Ue è pronta a investire subito 105 milioni di euro da destinare al controllo delle frontiere più 150 milioni per il bilancio tunisino. Altri 900 milioni sarebbe invece disponibili ma solo dopo che il paese nordafricano avrà raggiunto un accordo con il Fondo monetario internazionale per un ulteriore prestito di 1.9 miliardi. Per l’Italia la questione più importante riguarda lo stop alle partenze dei barconi, che già oggi ha raggiunto numeri record. Secondo Frontex, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere, quella del Mediterraneo centrale si conferma la rotta più trafficata, con 65.600 migranti intercettati nei primi sei mesi, il 140% in più rispetto a un anno fa e il numero più alto degli ultimi sei anni. Senza parlare dei rischi legati a un eventuale default della Tunisia, alle prese con una gravissima crisi economica, che provocherebbe una fuga in massa dal paese. Proprio il dossier immigrazione del resto sarebbe uno degli ostacoli maggiori al raggiungimento di un accordo. In Tunisia è infatti in corso da settimane una caccia al nero che vede nel mirino i migranti subsahariani presenti a Sfax, principale porto di imbarco verso l’Europa, e finora Saied non ha fatto niente per fermare le violenze compiute sia dalla polizia che da residenti. Centinaia di migranti, comprese donne incinta e bambini, sono stati deportati ai confini con la Libia e l’Algeria e abbandonati nel deserto senza cibo né acqua. “In Tunisia i cittadini dell’Africa subsahariana sono in serio pericolo di violenza e trattati quasi come schiavi”, ha raccontato ieri un operatore della ong Sos Humanity che ha avuto modo di ascoltare i racconti di alcuni migranti tratti in salvo: “A bordo abbiamo raccolto testimonianze di persone che in Tunisia hanno subito violenze per le strade che non hanno avuto la possibilità di entrare nei negozi o di salire su un autobus per via del colore della pelle”. C’è da sperare che i tre leader europei oggi parlino anche di questo con Saied. “In generale la nostra posizione è che la gestione deve essere sempre svolta nel rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani”, ha spiegato un altro portavoce della Commissione. La partita è comunque ancora tutta aperta, e si vedrà se l’ottimismo mostrato nei giorni scorsi sia dal ministro degli Esteri Antonio Tajani che dal vicepresidente della Commissione Ue Margaritis Schinas, entrambi convinti che oggi si arriverà alla firma dell’intesa, è giustificato oppure se il team europeo tornerà a casa ancora una volta a mani vuote. Il carcere di Guantánamo è un buco nero ormai dimenticato di Federica Lavarino wired.it, 16 luglio 2023 Nella prigione aperta nel 2002 nella base navale statunitense a Cuba sono stati rinchiusi 780 detenuti. Oggi nel carcere ci sono 30 persone, ancora in condizioni critiche. Per la prima volta l’Onu ha potuto visitare la struttura. Per la prima volta dopo oltre 21 anni dalla sua apertura, avvenuta l’11 gennaio 2002 all’interno della base navale americana situata nella zona sud dell’isola di Cuba, il governo degli Stati Uniti ha concesso alle Nazioni Unite l’accesso al campo di prigionia di Guantánamo. Una “visita tecnica” che si è conclusa il 26 giugno scorso e che ha avuto come primo risultato un fitto report di 23 pagine, nel quale la rappresentante Onu Fionnuala Ní Aoláin detta come priorità la definitiva chiusura del luogo simbolo della “lotta al terrorismo”, inaugurato dall’amministrazione guidata da George W. Bush a seguito dell’attacco alle Torri Gemelle. La special rapporteur ha avuto colloqui in forma privata con gli attuali 30 detenuti, con il personale militare e medico della base e, precedentemente alla visita, con i familiari e con l’associazione Cage, fondata da ex detenuti di Guantánamo. La relatrice speciale Onu vede come un “segnale positivo” la disponibilità dell’amministrazione Biden a concedere l’acceso a una zona militare extraterritoriale da sempre interdetta a qualsiasi controllo e nella quale ai 780 detenuti, tutti uomini di religione musulmana catturati nel corso dei due decenni precedenti in Afghanistan, Pakistan e Yemen con l’accusa di terrorismo, è stato negato qualsiasi diritto fondamentale. Persone che “non hanno alcun tipo di relazione con quanto avvenuto l’11 settembre 2001” e che, tuttavia, hanno vissuto o vivono tuttora l’esperienza di continui traumi fisici e psicologici. Per molti detenuti “la linea di separazione tra il passato e il presente è straordinariamente sottile, se non inesistente: le passate esperienze di tortura, costantemente rivissute nel presente, non hanno possibilità di risolversi in ragione del fatto che i detenuti non hanno ricevuto dal governo americano alcun tipo di terapia riabilitativa in grado di sanare il trauma subìto”. Se le condizioni materiali a Guantánamo sono “nettamente migliorate” rispetto al periodo nel quale sono arrivati i primi prigionieri e agli anni successivi, in cui il luogo “era caratterizzato da brutalità sistematiche e istituzionalizzate”, vi sono tuttora aspetti estremamente critici. Sebbene sia garantita un’assistenza medica di base, gli specialisti e le facilities che dovrebbero occuparsi della riabilitazione dei traumi dovuti alla tortura “non sono strutturate per affrontare disabilità permanenti, traumi cerebrali, dolore cronico e tutte le manifestazioni connesse, così come l’assenza per 21 anni del supporto emotivo dato dalla famiglia e dalla comunità di appartenenza”. Grazie al costante impegno dei legali e della Croce rossa internazionale è stata gradualmente implementata la possibilità di comunicare con familiari, che tuttavia, in alcuni casi, “hanno appreso dopo oltre 15 anni della detenzione a Guantánamo di un loro congiunto”. Alcuni detenuti hanno preferito evitare le chiamate per “paura di ritorsioni verso i familiari da parte del governo degli Stati Uniti o del Paese di origine” e in un caso “solo la madre del detenuto è riuscita a identificare in una video call il figlio, ormai irriconoscibile a causa del rapido processo di invecchiamento”. Dopo oltre vent’anni, la realtà di Guantánamo corre il rischio di venire dimenticata secondo l’ultimo rapporto della Seton Hall Law School di Newark, firmato da Mark Denbeaux, che in American Torturers: Fbi and Cia Abuses at Dark Sites and Guantánamo denuncia come gli Stati Uniti abbiano distrutto o nascosto tutte le prove video delle sistematiche torture inflitte ai detenuti. L’unica testimonianza visiva di quanto accaduto sono i disegni dell’artista yemenita Abu Zubaydah, assistito da Denbeaux, e prima vittima delle “enhanced interrogation techniques”, sottoposto 83 volte alla “simulazione di annegamento” (waterboarding). I 40 disegni sono stati pubblicati da The Guardian e, prima ancora, esposti nella mostra Remaking the Exceptional. Tea, Torture, and Reparations. Chicago to Guantánamo al DePaul Art Museum di Chicago. Una mostra per denunciare - “Guantánamo non è un caso eccezionale ma costituisce l’ordinaria modalità di funzionamento del sistema carcerario statale”, affermano i due curatori, Aaron Huges, artista e veterano della guerra in Iraq, e Amber Ginsburg, docente di arti visive all’università di Chicago. Ed è qui, nella terza più grande città degli Stati Uniti che, tra gli anni Settanta e Ottanta, oltre un centinaio di persone di colore sono state vittime delle torture del capo del Dipartimento di Polizia, Jon Burge. Tra le modalità di tortura più “efficaci”, le scariche elettriche generate da un dispositivo, in gergo detto “black box”, nato dall’adattamento di una invenzione dello scienziato serbo Nikola Tesla, utilizzato anche dai soldati americani durante la guerra in Vietnam. Nel lavoro di ricostruzione fatto dai curatori, nel recupero di opere d’arte e nel raffronto tra i racconti dei detenuti rinchiusi a Guantánamo e quelli delle vittime di Burge, oltre che da inchieste giornalistiche, è emerso un filo rosso che lega le due esperienze. Anche il report delle Nazioni Unite conclude che l’eccezionalità, la discriminazione e la narrazione in chiave “anti-terroristica” per giustificare le violenze perpetrate a Guantánamo “hanno avuto effetti che vanno ben oltre i suoi confini con enormi conseguenze sui diritti umani in più Paesi”. “Crediamo, e sogniamo, che l’arte rappresenti una forma di giustizia riparativa, di affermazione di libertà e di guarigione - affermano Hughes e Ginsburg -. La giustizia è una pratica. Come diciamo in Remaking the Exceptional, le riparazioni sono un modo per rimediare i torti, un percorso verso la guarigione, un passo verso la giustizia”.