Nordio e il destino della riforma di Stefano Folli La Repubblica, 15 luglio 2023 Sembra quasi che il ministro attenda rassicurazioni da Meloni sul futuro del suo progetto: se non dovessero arrivare, non sono da escludere le dimissioni. Come era prevedibile, la riforma della giustizia è un vortice che tende a travolgere tutto per lasciare alla fine le cose come stanno. Polemiche ci furono già ai tempi della legge Cartabia e ora si ripropongono ingigantite nei confronti di Nordio. Ma i tasselli del quadro sono oggi più complicati da comporre per la buona ragione che il progetto riformatore, concepito in chiave liberal-garantista, appare più spigoloso e, come si dice, divisivo. Ci sono questioni di merito e altre di clima politico generale. Vediamo più in dettaglio. È evidente che la presidente del Consiglio non intende increspare i rapporti con il Quirinale. Né Mattarella si è mai proposto di vestire i panni di leader dell’opposizione al governo, come qualcuno vorrebbe in totale spregio dei ruoli istituzionali. Il presidente della Repubblica vuole mantenere l’equilibrio tra i poteri dello Stato, Giorgia Meloni non vuole rinunciare al nucleo della riforma. Nel concreto esiste un accordo tacito tra i due palazzi per escludere “guerre di religione”, il che equivale a mettere da parte per ora ogni aspetto suscettibile di esasperare gli animi, soprattutto tra i magistrati. Questo spiega i toni prudenti della premier negli ultimi giorni, anche prima del colloquio al Quirinale. Non vuole essere un addio alla riforma, almeno sul piano formale, bensì una sterilizzazione dei punti controversi in questa fase in cui il governo è in qualche difficoltà. I casi Santanchè, Delmastro e La Russa jr. hanno il loro peso, anzi sono piombo nelle ali dell’esecutivo. Di conseguenza si capisce quello che dice il sottosegretario Mantovano: le priorità sono altre, gli interventi vanno modulati con criterio politico e nel rispetto delle priorità. Sottinteso: occorre tenere d’occhio quel che vuole l’opinione pubblica. Per cui abolire il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, pur fumoso e talvolta indefinibile, suona male all’orecchio del cittadino che chiede sicurezza e nessuna indulgenza verso i malviventi. Si dirà che così si accetta una forma di “giustizialismo” di ritorno. La risposta è che certe iniziative vanno condotte nei tempi e nei modi opportuni. Non è proprio una sconfessione di Nordio, ma certo è il richiamo a un’esigenza superiore (e pazienza se il ministro, un ex magistrato liberale che Meloni aveva voluto a tutti costi a via Arenula, si trova adesso esposto all’accusa assurda di essere “l’uomo che vuole aprire le porte alla mafia”, come ha osservato Piero Sansonetti su l’Unità). È anche accaduto che il ministro, mentre si registrava una certa convergenza tra Quirinale e Palazzo Chigi, rilasciasse ieri mattina un’intervista al Corriere in cui ribadiva le sue idee riformatrici, compresa la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. È una sfida o una sorta di provocazione, come qualcuno ha ipotizzato? Probabilmente né l’una né l’altra: Nordio tiene il punto perché è stato chiamato per fare queste riforme garantiste e, del resto, muoversi nei meandri della politica non è il suo forte. Finora non ha mai voluto danneggiare il suo presidente del Consiglio, figurarsi, ma nemmeno ci tiene a essere una figura di contorno. Non è d’accordo sulla rinuncia ad abolire il concorso esterno, ma può accettare una dilazione per ragioni politiche. Sembra quasi che stia aspettando una parola rassicurante da Giorgia Meloni sul futuro della sua riforma. Può darsi che la riceva oppure no. Nel secondo caso le sue dimissioni sarebbero da mettere nel conto. Peraltro a Palazzo Chigi non vorranno rinunciare a cuor leggero a uno dei pochi esponenti liberali del governo. Evitare la guerra con la magistratura senza perdere un presidio “garantista” nell’esecutivo: ecco la vera strettoia lungo cui si muove la premier. Giustizia, le priorità di Meloni che non vuole intaccare il rapporto con il Quirinale di Francesco Verderami Corriere della Sera, 15 luglio 2023 Tensioni e problemi con l’alleato leghista, mentre sarà da valutare la reazione di Forza Italia. Nell’estate del 1997 la Bicamerale fu vicina a un accordo bipartisan sulla riforma della giustizia. Ma quando si palesò un’intesa sulla separazione delle carriere, la reazione delle toghe fece saltare tutto. Anche adesso è la separazione delle carriere il cuore dello scontro, al punto che l’Anm - incurante delle prerogative parlamentari - ha definito questa ipotesi un “pericolo per la democrazia”. Ma al contrario di ventisei anni fa non è alle viste un’immediata revisione sistemica della giustizia. È il governo a prender tempo. La decisione del Guardasigilli di presentare un disegno di legge complessivo “entro fine anno” ha avuto l’effetto di bloccare alla Camera i lavori in commissione sulla separazione delle carriere. Fratelli d’Italia è l’unico partito a non aver depositato una proposta di legge sulla materia. E quanto al resto, come la riforma del Csm, a sentire un esponente dell’esecutivo “al ministero stanno vincendo i magistrati che sono in maggioranza nella commissione delegata a redigere il testo”. Insomma, la palla è in tribuna. Se e quando verrà rigiocata “dipenderà dall’indirizzo politico che vorrà dare Meloni”, spiega un rappresentante del governo. Ma in questo frangente la premier ha altre priorità e sono molte le ragioni che la inducono a tenere saldo il rapporto con il Quirinale, a condividere la necessità di tenere bassa la tensione. Per quanto (anche) ieri siano stati i magistrati ad agitare le acque. I casi giudiziari che hanno colpito il suo partito, l’approccio cattedratico di Nordio su temi sensibili per un Guardasigilli e il gioco antagonista di Salvini, la inducono a una linea di prudenza. Ha bisogno di tempo. “Da Vilnius ha iniziato intanto a rimettere ordine in casa”, secondo un dirigente di FdI. Dove l’anima giustizialista si affaccia quando si parla di separazione delle carriere: “Farebbe confusione...”. Eppoi Meloni deve gestire le manovre dell’alleato leghista, che - raccontano dal Consiglio dei ministri - “nei giorni pari fa il forcaiolo e nei giorni dispari si riscopre garantista”. Ieri era un giorno dispari: avendo compreso che sulla giustizia si andrà per le lunghe, Salvini ha definito la riforma “un’urgenza per il Paese. Conto che si passi il prima possibile dalle parole ai fatti”. Il suo approccio situazionista ha un obiettivo: smarcarsi dalla premier, lasciare che si logori e porla davanti a un bivio. Nel caso in cui mirasse infatti a varare il premierato, suggellandolo con un referendum, Meloni dovrebbe decidere se sobbarcarsi anche un referendum sulla separazione delle carriere, assai meno popolare. La giustizia può produrre reazioni a catena più o meno involontarie nel quadro politico: si vedrà come reagirà Forza Italia in caso di stallo della riforma. C’è un motivo quindi se Renzi ha deciso di spostarsi nella commissione Giustizia al Senato, e se da giorni difende la memoria berlusconiana dalla magistratura. Nel Palazzo è in atto da qualche tempo un’operazione in vista delle urne l’anno prossimo. Al grido di “centristi d’Italia unitevi” si ragiona attorno a una lista che metta insieme gli “europeisti” da Forza Italia a Italia viva, passando per formazioni regionali e movimenti cattolici nazionali, come quello riunito ieri da Fioroni. Renzi, visti i ripetuti “no” di Calenda a varare una lista unica per le Europee, ha risposto alle sollecitazioni con un “ragioniamoci”. Sembra un’ipotesi irrealistica, perché - sfruttando il proporzionale - dovrebbe mettere insieme pezzi di maggioranza e di opposizione, espressione peraltro di famiglie europee differenti. E in più Tajani, che oggi assumerà la guida di Forza Italia, ha fatto sapere di essere contrario. Eppure qualcosa si muove, se è vero che Moratti si è incaricata di sondare la famiglia Berlusconi e Renzi ne ha fatto cenno con Meloni. Sarebbe un’operazione “non ostile” nei riguardi della premier, alla quale sia Moratti (durante la convention di Assolombarda) sia Fioroni (alla riunione di Tempi Nuovi) hanno lanciato chiari segnali concilianti. Lo snodo è Forza Italia. Ma per Meloni ritrovarsi sull’uscio Renzi non dev’essere tranquillizzante, nonostante lui ripeta che “Giorgia deve durare cinque anni”. C’è già Salvini, c’è la giustizia, c’è tutto il resto. C’è già la campagna elettorale. La pax mattarelliana sulla giustizia passa per una serie di ritocchi mirati al ddl di Paolo Delgado Il Dubbio, 15 luglio 2023 Durante il colloquio con Meloni il capo dello Stato ha suggerito prudenza su alcune norme e toni più pacati. Forse non sarà una vera pace ma di certo quella che Mattarella ha imposto è qualcosa in più di una semplice tregua armata come tante. Il capo dello Stato ha impresso un cambio di direzione: starà ora alla politica, cioè a governo e maggioranza, e alla magistratura cogliere l’occasione. Il presidente, lavorando di fioretto, comparendo il meno possibile, affidando probabilmente a trattative discrete il compito di dissodare il terreno ha ottenuto, ancora prima dell’incontro di giovedì con Giorgia Meloni, uno dei risultati a cui teneva di più. Poco prima che i presidenti della Repubblica e del Consiglio si appartassero, al termine della riunione sul Colle del Conisglio Supremo di Difesa, il sottosegretario Mantovano faceva piazza pulita di ogni fantasia di ridimensionare il concorso esterno in associazione mafiosa. Forse non si esagera affermando che quella ventilata riforma rappresentava per il Colle la preoccupazione principale, perché riassumeva in sé tutte le turbolenze legate allo scontro con la giustizia. Per il potere togato sarebbe stata una dichiarazione di guerra senza quartiere perché gli inquirenti sarebbero stati privati di una delle armi essenziali che adoperano nelle inchieste sulla criminalità organizzata. Le critiche su quella fattispecie di reato abbondano da anni: è un elastico che ciascun magistrato può tirare a piacimento, la vaghezza stessa del reato permette di strappare molte più condanne che non nei casi di abuso d’ufficio o traffico di influenze. La scelta di intervenire del ministro Nordio non era affatto peregrina ma resta un fatto che lo scontro sarebbe stato violentissimo. In secondo luogo, ma per certi versi era proprio questa la preoccupazione principale, l’Europa avrebbe fatto fuoco e fiamme e soprattutto avrebbe interpretato l’intervento governativo come segnale di inaffidabilità del governo italiano nel contrastare la criminalità. Infine il conflitto con l’opposizione avrebbe riportato seduta stante il clima politico al livello delle guerre berlusconiane sulla giustizia. Il passo indietro del governo è dunque per il presidente di piena soddisfazione. Mattarella mira anche a modifiche significative del ddl giustizia che si accinge comunque a firmare. La cancellazione secca dell’abuso d’ufficio è un’altra voce che Bruxelles ritiene inaccettabile, anche dal punto di vista formale dal momento che contrasta con le disposizioni europee. Il traffico di influenze, l’altra fattispecie di reato cancellata dal ddl, non presenta gli stessi problemi formali ma sarebbe lo stesso interpretato come segnale allarmante dall’Europa. Prendere posizione apertamente significherebbe per il Quirinale navigare in direzione opposta a quella che intende seguire il presidente: porterebbe a una ulteriore drammatizzazione, alzerebbe la tensione invece di abbassarla. Mattarella punta invece su una sorta di soluzione pacifica: nessuna esposizione del Colle, se non per via indiretta, riaffermando quando capiterà l’occasione la necessità di non arretrare di un passo nella lotta contro la criminalità. Si aspetta però che governo e maggioranza non blindino il provvedimento nel passaggio parlamentare e si dispongano anzi ad accogliere o apportare alcune modifiche, quelle necessarie per rendere la legge accettabile dall’Unione. Per sapere quanto sarà accolto il suggerimento, per non dire l’esplicita richiesta, di Mattarella bisognerà aspettare che la legge arrivi al vaglio delle Camere, anche se sembra di capire che Giorgia Meloni avrebbe mostrato disponibilità. È appena il caso di notare che ammorbidimenti del testo veicolerebbero automaticamente un certo disgelo con la magistratura ma anche, magari in modo inconfessato, con le opposizioni stesse, in particolare con il Pd. Mattarella è troppo attento alla più rigorosa correttezza per discutere una legge che ancora non esiste o per sconsigliare a un governo di dar seguito al programma col quale si è presentato alle elezioni. Quel che può fare e che sta facendo è adoperarsi per svelenire il clima, attenuare le frizioni, stemperare lo scontro. In una situazione quasi pacificata, diventerebbe ancor più improbabile che la premier si decida a intraprendere una crociata, quella sulla separazione delle carriere, che quanto meno non la appassiona. La scommessa del capo dello Stato, stavolta, non è persa in partenza. Una magistratura infinitamente più debole che in passato tiene nella sostanza bassi i toni ed è chiaro che non mira allo scontro. Il governo, tanto più dopo la scomparsa di Berlusconi, l’unico leader davvero interessato alla riforma della giustizia, è ben poco ansioso di lanciarsi in una guerra sul fronte sempre delicatissimo della giustizia. Le condizioni perché l’intervento del presidente abbia successo ed eviti il ritorno alla sfida permanente tra politici e togati sono stavolta ottimali. Giustizia, l’argine del Colle sull’abuso d’ufficio: viola trattati internazionali di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 15 luglio 2023 L’avviso del Quirinale alla premier. Il richiamo al precedente del 2017, l’unica volta in cui Mattarella rinviò una legge alle Camere. Se non sarà modificata, la norma del ddl Nordio che abroga l’abuso di ufficio è destinata a essere bocciata dal presidente della Repubblica, nel momento in cui sarà chiamato a firmare la legge per farla entrare in vigore. La strada tracciata dal capo dello Stato nel colloquio riservato davanti alla Vetrata è ora chiara alla presidente del Consiglio. L’ipotesi che il Quirinale rifiuti l’autorizzazione alla presentazione in Parlamento del disegno di legge sulla giustizia è frutto di analfabetismo costituzionale. L’atto è dovuto, un tagliando di regolarità formale. Ma serve a mettere il Quirinale a conoscenza del contenuto delle iniziative del governo, in modo da poter esercitare le sue prerogative, anche informali. Cosa che Sergio Mattarella ha fatto nel vis-à-vis con Giorgia Meloni. Il presidente della Repubblica ha spostato la palla sul ben più penetrante controllo in sede di promulgazione di una legge che ha compiuto tutto l’iter parlamentare. La Costituzione contempla la possibilità per il capo dello Stato di richiedere un riesame da parte del Parlamento, con messaggio motivato. Fu Luigi Einaudi, nel 1949, a inaugurarlo. Da allora i casi di rinvio sono stati una sessantina. Qualcuno per dissenso nel merito, la maggior parte per dubbi di costituzionalità. Il record è di Cossiga che rinviò 22 leggi, di cui 15 negli ultimi due anni da “picconatore”. Ciampi prese di petto il conflitto di interessi di Berlusconi, rinviando la legge Gasparri sul sistema televisivo. Mattarella è molto sensibile alle manifestazioni disfunzionali degli altri poteri costituzionali. Il 24 febbraio si è fatto sentire sulla legge di conversione del decreto milleproroghe, gonfiata dal Parlamento con 205 misure dalle originarie 149. Non potendo rifiutare la promulgazione (il decreto era in vigore da quasi due mesi), Mattarella ha accompagnato la firma con una lettera in cui richiama all’ordine governo e parlamento. Come il predecessore Napolitano, Mattarella è stato parco nel rinvio di leggi alle Camere. Anche perché ormai le leggi derivano quasi esclusivamente da decreti, su cui è più utile far valere le stesse ragioni nella moral suasion con il governo. Durante la cerimonia del ventaglio del 30 luglio 2015, sei mesi dopo l’elezione, Mattarella annunciò la sua interpretazione del potere di rinvio, riservandosi di usarlo “soltanto quando riscontri una chiara violazione della Costituzione, un chiaro contrasto con la Costituzione”. Due anni dopo, ricevendo alcune scolaresche al Quirinale, precisò: “C’è un caso in cui posso, anzi devo non firmare: quando arrivano leggi che contrastano palesemente, in maniera chiara, con la Costituzione”. Era il 26 ottobre 2017. Al giorno successivo risale l’unico caso di mancata promulgazione di una legge nel corso della sua (doppia) presidenza. Mattarella rinviò alle Camere la legge “per contrastare il finanziamento delle imprese produttrici di mine antipersona, di munizioni e submunizioni a grappolo”. Questo precedente è stato esplicitamente richiamato alla premier Meloni. Allora Mattarella motivò il rinvio adducendo in particolare “evidenti profili di illegittimità costituzionale” in riferimento all’articolo 117 della Costituzione, secondo cui “la potestà legislativa è esercitata nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. La norma che prevedeva solo una sanzione amministrativa per chi finanzia la produzione di quelle armi violava le convenzioni di Oslo e di Ottawa, che impongono sanzioni penali. Anche oggi è il rispetto del diritto europeo e dei trattati internazionali il problema squadernato sotto gli occhi della premier. Nel caso del ddl Nordio, il faro è acceso sulla norma che cancella il reato di abuso di ufficio. La questione era già stata sollevata un paio di mesi fa nelle audizioni parlamentari da numerosi giuristi. L’Italia aderisce con altri 188 Paesi alla convenzione Onu di Merida contro la corruzione, che all’articolo 19 impone di “conferire carattere di illecito penale al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della propria posizione al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona o entità”. Una fattispecie corrispondente all’abuso di ufficio. C’è di più. All’inizio di maggio la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva per uniformare e rafforzare le misure anti corruzione, come reazione al Qatargate. L’abuso di ufficio, assieme al traffico di influenze, è esplicitamente citato tra i reati da contrastare. L’articolo 11 della proposta di direttiva recita: “Questa disposizione definisce l’abuso di ufficio nei settori pubblico e privato e stabilisce che questa condotta o l’inazione sia punibile come reato se intenzionale”. Prima di redigere il suo testo, la commissione Ue ha interpellato gli Stati membri. Hanno risposto 25 su 27. Tutti hanno detto che l’abuso di ufficio è già previsto come reato, pur con diverse formulazioni. Anche il governo Meloni ha risposto a Bruxelles in questo senso. Salvo proporre di abolirlo con il ddl Nordio. Qualche settimana dopo. Nordio insiste: “E ora carriere separate” di Mario Di Vito Il Manifesto, 15 luglio 2023 Il ministro ormai è un “caso”: torna sul concorso esterno e rilancia sulle riforme. Santalucia (Anm): “Pericolo per la democrazia”. Carlo Nordio ormai è un caso. Nelle stesse ore in cui Sergio Mattarella spiegava a Giorgia Meloni che abbassare i toni della polemica con la magistratura fosse interesse di tutti, “anche del governo”, il ministro della Giustizia concedeva al Corriere della Sera un’intervista per rilanciare ancora una volta i soliti argomenti: concorso esterno da rimodulare, imputazione coatta “irrazionale”, abuso d’ufficio da abolire, separazione delle carriere da fare al più presto. Quest’ultimo punto è stato anche oggetto di un nuovo intervento del ministro: “Probabilmente lo porteremo nella prossima riunione di maggioranza, prima delle vacanze estive, per definire le tempistiche”, segno che, almeno lui, di seppellire l’ascia di guerra non ne ha alcuna intenzione. E allora apriti cielo. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia a Radio Anch’io ha parlato apertamente di “pericolo per la democrazia”, chiarendo che quando il discorso prenderà concretamente piede l’associazione dei magistrati non resterà certo a guardare ma darà battaglia in lungo e in largo. Del resto, aggiunge, “le nostre critiche mi pare abbiano trovato ascolto al Quirinale…”. Nel merito, Santalucia sostiene che “un pm separato dalla giurisdizione, e quindi fuori dal meccanismo di compensazione e controllo che prevede la Costituzione, lo lasceremo solo? Si controllerà da solo o ci sarà qualcuno che ambirà a quel controllo? Quello non potrà essere che il potere politico. Credo che occorra stare molto attenti”. Separare la magistratura inquirente da quella giudicante è un antico pallino della destra italiana, ma sin qui nessuno ha mai provato sul serio a fare questo tipo di riforma. Non che la faccenda non sia mai stata affrontata: nel 2006 la riforma Castelli ha reso molto più complicato il passaggio da pm a giudice, e infatti da allora sono pochi quelli che ne fanno richiesta (meno dell’1% secondo i dati del Csm). Pure Marta Cartabia, nel 2022, si è applicata sul punto, riducendo da quattro volte a una sola, entro i primi 10 anni di carriera, la possibilità di cambiare ufficio, cosa che, da sempre, costringe chi decide di farlo a trasferirsi in un altro distretto e in un’altra regione, salvo i rarissimi passaggi dal civile al penale e viceversa. La quotidianità giudiziaria italiana, in altre parole, non verrebbe minimamente toccata e la vera grande questione - quella dei tempi della giustizia - non ne trarrebbe alcun beneficio. Ad ogni buon conto, per il governo Meloni la separazione delle carriere sembra essere la pancia della legislatura, e poco importa se il percorso sarà lungo e rischioso: dopo aver definito le tempistiche, come dice Nordio, si renderà necessario mettere a punto una riforma che andrà a toccare in modo molto pesante la Costituzione, poi bisognerà passare alla prova del dibattito parlamentare e poi ancora, verosimilmente, alla sfida finale del referendum. A correre come treni in pianura ci vorrebbero almeno due anni per fare tutto. E non che la partenza sia stata delle migliori: i terzopolisti Costa e Giachetti segnalano che in Commissione affari costituzionali di giudici e carriere non se ne parla da oltre quattro mesi e tutti sono fermi in attesa della presentazione di un disegno di legge da parte del governo. La maggioranza, almeno sulla carta, appare piuttosto compatta, con significative aperture che arrivano anche dalle parti Azione e di Italia Viva, tendenzialmente favorevoli a riformare la giustizia e in linea con l’idea di dividere i percorsi di giudici e pm. “Noi andiamo avanti senza esitazione. Poi le aule sono sovrane, questo è il senso della democrazia parlamentare”, ha detto il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, sostenendo inoltre che la separazione delle carriere è già negli articoli 104 e 111 della Costituzione. Per quello che riguarda la ventilata modifica del concorso esterno, nonostante l’insistenza di Nordio, la faccenda pare destinata a scomparire nell’oblio. Persino Salvini è intervenuto per dire che non è una priorità, e lo stesso Nordio, sempre sul Corriere, ha affermato che nel programma di governo non c’è nulla del genere e che lui ha espresso un’opinione perché gliel’avevano chiesta. A svelenire un po’ il clima, infine, potrebbe contribuire un’eventuale decisione del governo di accettare gli emendamenti sul ddl presentato all’indomani della morte di Berlusconi, quello con dentro la revisione dell’abuso d’ufficio. L’ipotesi è in piedi, ma la decisione è tutta nelle mani del governo. “Giusto riformare ma senza gettar via il bambino con l’acqua sporca” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 luglio 2023 L’allarme del costituzionalista e opinionista Michele Ainis, che al Dubbio dice: “Le riforme vanno fatte ma con grande attenzione. Giusta la “vigilanza” del Colle”. C’è uno scontro tra politica e magistratura? Ci sono dichiarazioni piuttosto roventi da una parte - la maggioranza politica - e dall’altra - magistrati, ex magistrati, l’Anm. Potremmo considerarlo il frutto avvelenato della stagione berlusconiana. Secondo Lei Nordio, con le sue esternazioni pubbliche più da editorialista che da Ministro, è un problema per Giorgia Meloni? Probabilmente sì. Io trovo che ci sia una contraddizione tra l’anima di Fratelli d’Italia che storicamente è sempre stata di stampo giustizialista e che si esprime attraverso una serie di interventi normativi che hanno introdotto nuovi reati e rafforzato le pene per reati già esistenti. Mi riferisco al primo decreto di questo Governo, quello contro i rave-party, poi il decreto Cutro sugli scafisti, quello sulla maternità surrogata che si vuole trasformare in reato universale, ma anche le dichiarazioni della premier sulle droghe leggere che andrebbero criminalizzate come le droghe letali, la stretta sugli youtuber. Dall’altro c’è invece un’anima garantista che invece vorrebbe intervenire per togliere i reati o attenuarne lo spessore, come nel caso dell’abuso d’ufficio e del concorso esterno in associazione mafiosa, e che vorrebbe una stretta sulle intercettazioni ma soprattutto la separazione delle carriere. Quindi secondo lei Nordio ha sbagliato a candidarsi con Fratelli d’Italia? Non so dire quale sia il partito giusto per il Ministro però c’è tutto quanto appena detto. Vorrei però anche far osservare il ruolo del Presidente della Repubblica, ossia lo stile con cui Mattarella esercita la sua moral suasion, a differenza di Napolitano che la esercitava in pubblico attraverso moniti, appelli, ammonimenti, ramanzine alla politica. Invece l’attuale Capo dello Stato usa uno stile indiretto ma probabilmente altrettanto efficace rispetto ai predecessori. In che senso? A fronte delle esternazioni di Nordio a proposito dell’impossibilità di rispettare le norme fiscali e di quelle della stessa presidente del Consiglio quando ha parlato del pizzo di Stato a proposito delle tasse, Mattarella parla del dovere fiscale ai rappresentanti della finanza. Poi ci sono delle polemiche sulla magistratura e lui riceve al Quirinale i vertici della Cassazione. Secondo lei l’Anm ha il diritto di intervenire nella discussione pubblica o la giudica una interferenza? Ha certamente il diritto di intervenire, esiste la libertà di associazione, non siamo più in un’epoca in cui venivano silenziate categorie o singole persone. Poi ci può essere un problema di opportunità ma così come i professori universitari, che sono pure dipendenti pubblici, attraverso le loro rappresentanze possono criticare questa o quella riforma, così anche le associazioni di magistrati possono intervenire in modo dialettico. Non vedrei un problema di legalità ferita. Come giudica le parole usate dalla premier sui casi Santanché, Delmastro, La Russa? Distinguerei due piani: quello riguardante singole inchieste giudiziarie su singoli esponenti politici o loro parenti su cui il silenzio è d’oro, per cui ci si difende in giudizio. Se la politica reagisce rispetto ad una inchiesta che colpisce un suo esponente attaccando la magistratura siamo di nuovo al frutto avvelenato di cui parlavamo prima. Poi c’è l’altro piano, quello delle riforme: su di esse è lecito, e sarebbe sorprendente il contrario, che disputino posizioni contrapposte. Dopo di che la democrazia prevede votazioni parlamentari. Come giudica il primo pacchetto di riforme targato Nordio? Io non sono un penalista e non vorrei intervenire su elementi che non si conoscono bene. Credo però che il rischio sia quello di buttare via il bambino insieme all’acqua sporca. L’abuso d’ufficio, così come il concorso esterno in associazione mafiosa, ha degli aspetti evanescenti e andrebbe modificato. Io non sarei per l’abolizione perché creerebbe anche dei problemi con l’Europa. Poi c’è il problema che abbiamo troppi reati: 35 mila disse una volta il Procuratore generale di Cassazione. Nessuno li conosce tutti. Allora sarebbe opportuno sfoltire il numero dei reati: una cosa sono i delitti naturali, altra cosa sono quelli di pura creazione legislativa. Secondo lei il Governo e il Parlamento avranno la forza e i numeri per portare a casa la separazione delle carriere? Questa legislatura nasce con una maggioranza forte in Parlamento, direi meno forte nel Paese. Ricordo, per chi lo avesse dimenticato, che un italiano su tre non è andato a votare il 25 settembre 2022. L’attuale maggioranza è partita con delle ambizioni molto forti: non soltanto la separazione delle carriere ma ancor di più il presidenzialismo, di cui non sento più parlare. Non so se questo significhi che hanno fatto un bagno di realtà o che invece è più probabile che si vogliano distribuire queste riforme molto divisive in tempi diversi. Allora sarà interessante capire se si parte prima col presidenzialismo o con la separazione delle carriere. Articolo 27 della Costituzione: vige nelle nostre carceri? È disatteso e non da oggi. Il problema del sovraffollamento delle carceri lo viviamo da molto tempo. Nel 2000 persino papa Wojtyla chiese una amnistia ma non fu concessa. Temo che questa questione non appassioni l’opinione pubblica. Delmastro: “Nessuno strumento di lotta alla mafia sarà indebolito dal governo” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 15 luglio 2023 Il sottosegretario Andrea Delmastro risponde alle critiche dell’Anm e delle opposizioni. Sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, ma allora che cosa vuole fare il governo sul concorso esterno in associazione mafiosa? “La linea del governo è chiara: non si tocca”. Mica tanto chiara. Il ministro Carlo Nordio ieri al “Corriere” ha spiegato anche come intervenire. Non è così? “Sono contento che abbia precisato che non è l’idea del governo. Ma comunque non ha detto che vuole abolirlo”. Neanche che vuole mantenerlo... “Diciamo che si è scatenata una tempesta perfetta sul “Nordio-pensiero”. Vale a dire? “Un corto-circuito logico. Perché il ministro ha detto che non esiste. E semmai che vuole intervenire con una norma ad hoc, che non significa abolire ma tipizzare un reato ad hoc”. Lo farete? “Non è nel programma di governo. Ma comunque rassereno tutti: non c’è nessuna volontà di abbassare l’asticella nella lotta alla mafia. E non potrebbe essere che così”. Perché? “Perché la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha tratto fonte di ispirazione politica da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, come ha sempre detto”. Molti lo hanno detto. Nel concreto? “Allora diciamolo meglio: nessuno strumento della lotta alla mafia sarà indebolito da questo governo. Credo si sia capito”. Da cosa? “Come primo atto abbiamo sventato la sostanziale abolizione dell’ergastolo ostativo per i mafiosi che non collaborano. Abbiamo una normativa eccezionale nella aggressione di patrimoni illeciti. Strumenti improntati al follow the money di Falcone come la confisca preventiva (che all’estero chiamano “confisca senza condanna”) e quella allargata a denaro non strettamente collegato al reato, che ci fanno essere studiati e lodati dagli altri Paesi come ho avuto modo di vedere ad Anversa nel Forum della coalizione dei Paesi contro il crimine organizzato. Figuriamoci...”. Figuriamoci? “Figuriamoci se vogliamo smantellarli. Manterremo tutto. Lo abbiamo dimostrato anche nella lotta all’ammorbidimento del 41 bis, sulla quale penso di poter dire qualcosa ...”. Secondo il gip ha detto anche troppo. Non ne ha mai parlato, ci può dire cosa pensa di quella imputazione coatta, con il pm che voleva archiviare? “Dall’imbarazzo di parlare di una mia posizione personale, che ha qualunque uomo di buonsenso, mi ha tolto la presidente del Consiglio: la penso esattamente come lei”. Incluso il fatto che sia stata “irrazionale”? “Non ho mai frazionato il pensiero di Giorgia Meloni. L’ho sempre condiviso nella sua totalità. Continuerò ad affrontare nelle sedi opportune questa vicenda. Confidando nel fatto che emergerà la mia assoluta estraneità ai fatti”. Il Pd aspetta ancora sue scuse ed esce quando lei entra in commissione. “Spiace sempre la mancanza di confronto”. Degli altri casi che scuotono la maggioranza... “Non ne parlo”. Cosa pensa dello scontro in atto con l’Anm? “L’Anm fornisce alcune sollecitazioni che è giusto ascoltare. L’organismo politico ha un altro ruolo, indipendente. Ma nel caso del concorso esterno non c’è neanche il motivo del contendere”. Nel caso della separazione delle carriere però sì. “È un altro tema. È da sempre nel programma di centrodestra e lo faremo”. Secondo l’Anm è pericolosa per la democrazia... “Quindi lei mi sta dicendo che l’Anm ritiene che una serie di Paesi europei, che ce l’hanno, non sono democratici? Io non penso proprio”. Fiandaca: “Ora basta scontri. Il concorso esterno in associazione mafiosa non va toccato” di Liana Milella La Repubblica, 15 luglio 2023 Il professore emerito di diritto penale a Palermo: “L’intervento sarebbe necessario, ma ora è troppo forte la contrapposizione politica. Non voglio essere inserito in uno dei due fronti. “Adesso non è il momento di intervenire sul concorso esterno. Troppo forte la contrapposizione politica per farlo anche se si tratta da sempre di un intervento necessario”. Da Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale a Palermo, da sempre sostenitore della necessità di un intervento sul concorso esterno, arriva da un lato la conferma che si tratta di un passo obbligatorio, ma al contempo la notazione che il momento non è proprio dei più favorevoli. Perché proprio adesso che Nordio insiste sulla necessità di intervenire lei si ferma? “Le guerre di religione che sono deleterie - e non giovano a nessuno, né ai garantisti, né alla magistratura più impegnata nella lotta alla mafia - creano solo confusione e fomentano un clima aggressivo, ma purtroppo riaffiorano ciclicamente…”. Eh già, sono trent’anni che sul punto va avanti così… “Io cerco di essere il più possibile uno studioso super partes rispetto alle polemiche superficiali e aggressive, ci sono problemi che vanno affrontati in modo costruttivo. Ma adesso, quello che mi darebbe fastidio sarebbe essere inserito d’ufficio in uno dei fronti contrapposti perché invece mi piace guardare ad alcuni problemi con consapevolezza critica e al contempo con spirito costruttivo”. Nordio torna sulla necessità di intervenire sul concorso esterno che definisce negativamente come “un ossimoro”. E cita proprio lei come protagonista della necessità di farlo... “Nordio ha ragione nel sostenere che la maggior parte degli studiosi di diritto penale del nostro Paese suggeriscono da tempo un intervento legislativo sul concorso esterno. Vorrei però, a scanso di equivoci, precisare un punto importante. L’auspicio della maggior parte della dottrina specialistica più qualificata non è motivata dalla preoccupazione di smantellare, come qualcuno teme, o di ridurre irragionevolmente gli spazi di punibilità che l’istituito del concorso esterno consente”. Però il timore è proprio questo… “E io invece vorrei precisare che l’esigenza di descrivere con la maggiore precisione possibile i requisiti costitutivi di un concorso punibile non riflette solo una preoccupazione in chiave individual-garantistica. Perché la modifica può anche servire a potenziare l’efficacia repressiva dell’istituto e può contribuire a rendere più chiare e solide le imputazioni, accrescendo la possibilità di ottenere condanne in giudizio”. Il sottosegretario Mantovano ha fermato Nordio e ha detto che il concorso esterno non si tocca. La paura di tutte le toghe antimafia, sentite da Repubblica, è proprio questa, che i processi in corso possano saltare... “Non è certo una preoccupazione nuova. Nei primi anni Novanta fui relatore in un convegno scientifico e sostenni che sarebbe stato opportuno che il Parlamento si responsabilizzasse rispetto a una più puntuale descrizione legislativa del concorso esterno. Ricevetti una telefonata allarmatissima di Gian Carlo Caselli che mi disse ‘Giovanni ma che dici? Possono sorgere problemi con i processi in corso’. In realtà il potere del Parlamento, per ragioni di ordine costituzionale, non può essere inibito dal fatto che alcuni processi possano subire influenze da una nuova legge, perché se fosse così nessun reato potrebbe essere cambiato, in attesa di chiudere i processi in corso. Questa è un’obiezione assurda”. Ma è una preoccupazione giusta. Perché lei s’immagina l’effetto che farebbe veder cadere le imputazioni per i fiancheggiatori delle mafie? “Guardi, ho già detto prima che riscrivere il concorso esterno non vuol dire smantellarlo e renderlo inefficace. I magistrati sanno che si può argomentare sulla persistenza dell’illecito anche nel caso di una modifica legislativa che non comporta, quindi, il fallimento dei processi in corso. Io capisco le preoccupazioni dei magistrati perché ognuno difende il suo lavoro. Loro vanno in allarme per la tenuta dei processi e preferiscono disporre di uno strumento duttile e servizievole, com’è il concorso esterno nella versione attuale. Ma c’è un’altra anima della giustizia penale, quella che esige di rispettare i principi costituzionali della riserva di legge, della sufficiente determinatezza della fattispecie, della prevedibilità della distinzione tra condotte lecite e illecite”. Già, questa è la sua impostazione giuridica, ma qui parliamo di fiancheggiatori della mafia che possono uscire dal carcere... “L’attuale genericità del concorso esterno non consente di comprendere bene in anticipo quali possano essere le condotte punibili a titolo di concorso e quelle legittime. Questo contravviene a un diritto riconosciuto dalla Corte europea dei diritti umani di essere posti in condizione di prevedere in anticipo il rischio penale. La genericità del concorso esterno dà ai magistrati uno strumento duttile, ma che consente di muovere imputazioni molto labili, incerte e spericolate, che talvolta sfociano in un nulla di fatto”. I pm antimafia dicono che se dovesse cambiare il concorso i processi aperti potrebbero morire... “Ma qui non sappiamo neppure quante indagini importanti e ben congegnate esistano. E poi, glielo ripeto, c’è la possibilità di ragionare in termini di continuità del tipo di illecito, per cui una modifica legislativa non comporterebbe automaticamente in ogni caso l’azzeramento, e i magistrati lo sanno bene”. Allora perché c’è una levata di scudi e la stessa Maria Falcone chiede di fermarsi? “Il potere di fare leggi è forse bloccato dal “paradigma vittimario” che ferma la libera determinazione di fare le leggi scritto nella Costituzione? È forse scritto nella Carta che il parere delle vittime può bloccare il Parlamento?”. Quindi lei consiglia all’attuale governo di seguire la linea Nordio? “Io suggerisco e consiglio molta prudenza, perché l’intervento sul concorso esterno non rientra nel programma del governo sulla giustizia e viste le reazioni del fronte avverso inserire questa modifica aggraverebbe la già grave nevrosi politico-istituzionale determinata dal conflitto tra politica e giustizia”. Chiede al governo di fermarsi? “Per il momento non insisterei sulla modifica perché ci vuole molta perizia e molta maestria nel farla. Si tratterebbe di riscrivere il concorso per renderlo più garantito, ma anche più efficace ed efficiente sul piano della prevenzione e della repressione delle condotte contigue. Riuscire nel miracolo di bilanciare, in modo equilibrato, le due esigenze di fondo presuppone una perizia normativa e un livello di competenza tecnica che non è facile raggiungere, a maggior ragione in questo momento. Io ho sempre detto, in linea teorica, che il Parlamento dovrebbe responsabilizzarsi nel fissare i presupposti del concorso e nel definire in modo più puntuale le condotte di sostegno esterne all’organizzazione”. E perché ora ritiene che non sia il momento di farlo? “Ho sempre chiuso i miei interventi dicendo in conclusione: meglio che sia la Corte di Cassazione a cercare di migliorare progressivamente per via giudiziaria la tipizzazione del concorso, piuttosto che disporre di una norma parlamentare mal congegnata, costruita in modo poco chiaro ed equivoco. Per il clima di forte contrapposizione e aggressività che vedo, dubito che vi siano adesso le condizioni di contesto perché il Parlamento possa esitare una nuova norma che sia soddisfacente ed appagante sul piano del garantismo e dell’efficacia preventivo-repressiva, cioè le due anime della giustizia penale che vanno tenute sempre in equilibrio”. Nordio non hai mai detto di voler cancellare il concorso esterno, anzi... di Simona Musco Il Dubbio, 15 luglio 2023 Il Guardasigilli ha precisato che puntare a una modifica del concorso esterno non significa negare l’esistenza di “attività che debbano essere punite perché sono compiute senza far parte del sodalizio e senza concorrere minimamente in termini causali agli scopi dell’organizzazione”. “Non vi è alcun cedimento al contrario nella lotta contro la mafia, ma c’è un’esigenza di certezza di diritto” perché “la stessa parola “concorso esterno” è un ossimoro”, che parte da “una contraddizione lessicale della lingua italiana: concorrere deriva da concurrere, correre insieme, stare insieme, stare dentro, mentre estraneo deriva da extra, stare fuori, quindi non ha senso mettere insieme chi sta dentro con chi sta fuori, o si sta dentro o si sta fuori”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio non cede di un millimetro. Dopo le parole dello “scandalo” pronunciate a Piazza Vittorio ad un evento di Fratelli d’Italia, questa volta lo fa in videocollegamento con Torino per un convegno sulla figura dell’avvocato Vittorio Chiusano, precisando che puntare ad una modifica del concorso esterno non significa negare l’esistenza di “attività che debbano essere punite perché sono compiute senza far parte del sodalizio e senza concorrere minimamente in termini causali agli scopi dell’organizzazione”, ma affermare che “devono essere consacrate in una norma ad hoc”. Ed è dunque questo quello che il ministro vorrebbe fare: tipizzare il reato e non lasciarlo all’incrocio tra gli articoli 416-bis e 110 del codice penale, due norme, tra l’altro, “abbastanza indeterminate”, fanno sapere da via Arenula. Da dove arrivano smentite secche relativamente a qualsiasi polemica con Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio che dopo le dichiarazioni di Nordio si è affrettato a smentire qualsiasi intervento su tale reato. Non ci sarebbe, in tal senso, nemmeno un vero e proprio piano del ministro, più convinto della necessità di accelerare il passo sulla separazione delle carriere, tanto da volerla portare all’attenzione dei colleghi nella prossima riunione di maggioranza. Ma la polemica infuria e a Nordio è toccato provare a chiarire le proprie parole anche in un’intervista al Corriere della Sera. Dove - forse per recuperare, forse no - quel che lascia intendere è che il suo intervento potrebbe essere addirittura in senso punitivo rispetto allo stato attuale. “La mia interpretazione è anche più severa” di quella degli ex colleghi che lo hanno criticato, ha infatti dichiarato, “perché anche chi non è organico alla mafia, se ne agevola il compito, è mafioso a tutti gli effetti”. Il che potrebbe significare allargare il perimetro dell’associazione, facendoci ricadere anche chi, allo stato attuale, viene considerato “solo” un favoreggiatore. Rimarrebbe, in ogni caso, da descrivere tutto un campo d’azione che esclude la possibilità di contestare l’associazione, per il quale Nordio suggerisce una vecchia idea di Giuliano Pisapia, ovvero “scrivere una norma ad hoc molto semplice e molto chiara”. L’allora deputato di Rifondazione ci aveva provato nel 2001, quando ha proposto di introdurre nel codice l’articolo 378 bis, che puniva con una pena da tre a cinque anni chi “favorisce consapevolmente con la sua condotta un’associazione di tipo mafioso o ne agevola in modo occasionale l’attività”. Una proposta più volte ripresa, con vari aggiustamenti sulla forbice della pena, ma alla fine sempre boicottata. La commissione scelta da Nordio stravolge la riforma Cartabia di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 luglio 2023 Dal collocamento delle toghe fuori ruolo alla valutazione della professionalità: le nuove regole della commissione nominata del ministro della Giustizia (piena di magistrati fuori ruolo) ribalta la riforma del precedente governo. Il tradimento di una riforma. È ciò che sta accadendo attorno alla riforma dell’ordinamento giudiziario approvata un anno fa dal Parlamento su iniziativa dell’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia. Dopo aver rinviato alla fine del 2023 il termine entro cui presentare i decreti attuativi, ora si scopre che la prima bozza del provvedimento - visionata in esclusiva dal Foglio - sovverte alcuni princìpi cardine della riforma. Che qualcosa potesse andare storto lo si era capito già al momento dell’istituzione a fine aprile, da parte del Guardasigilli Carlo Nordio, della commissione incaricata di elaborare i decreti attuativi, composta da 26 membri: diciotto magistrati, di cui dieci fuori ruolo, cinque docenti e tre avvocati. A guidare la flotta delle toghe fuori ruolo, peraltro, è Giusi Bartolozzi, vicecapo di gabinetto del ministro Nordio, che da tempo - tra una sfuriata e l’altra in pubblico con i propri collaboratori e colleghi - ha accentrato nelle proprie mani le decisioni più importanti che competono al ministero di Via Arenula. La preponderanza di magistrati fuori ruolo ha prodotto i suoi effetti, come denuncia il deputato Enrico Costa, vicesegretario di Azione, da sempre attentissimo a ciò che avviene nel campo della giustizia. Quello dei magistrati fuori ruolo costituisce, infatti, uno dei capitoli più importanti della riforma Cartabia. Il provvedimento innanzitutto prevede una riduzione del numero delle toghe collocate fuori ruolo, sia al ministero della Giustizia, sia negli altri ministeri, specificando che il collocamento è possibile “per la sola copertura di incarichi rispetto ai quali risultino necessari un elevato grado di preparazione in materie giuridiche o l’esperienza pratica maturata nell’esercizio dell’attività giudiziaria o una particolare conoscenza dell’organizzazione giudiziari”. Ebbene, nonostante queste specificazioni, la bozza di legge di attuazione della delega prevede la riduzione del limite massimo di magistrati ordinari collocati fuori ruolo da 200 a 180: un taglio risibile. Non solo. Il testo stabilisce anche che il collocamento del magistrato fuori ruolo non può essere autorizzato “se sono decorsi meno di tre anni dal rientro in ruolo a seguito di un precedente collocamento fuori ruolo”. Tuttavia, qualche articolo più in là si specifica che “ai magistrati fuori ruolo al momento della pubblicazione del presente decreto, si applica la disciplina vigente al momento del conferimento o dell’autorizzazione dell’incarico”. Insomma, tutte le toghe attualmente fuori ruolo, a partire dai diciotto che compongono la commissione (inclusa la vicecapo di gabinetto Giusi Bartolozzi) possono dormire sonni tranquilli e attendere di essere nuovamente collocati fuori ruolo al termine dell’attuale incarico. La seconda grande novità contenuta nella bozza di decreto legislativo riguarda la valutazione di professionalità, oggi sostanzialmente inesistente (il 99,6 per cento dei magistrati viene promosso con giudizi positivi). Per cercare di porre rimedio a questa situazione, la legge Cartabia ha recepito la proposta di Costa di istituire il fascicolo di performance del magistrato, che conterrà per ogni anno di attività “i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell’attività svolta, inclusa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività dell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento e del giudizio, nonché ogni altro elemento richiesto ai fini della valutazione”. Ciò che fa la bozza di decreto legislativo è specificare cosa si intende per “grave anomalia”, vale a dire “il rigetto delle richieste, nonché la riforma e l’annullamento delle decisioni del magistrato ove assumano, anche in rapporto agli esiti delle decisioni e delle richieste adottate dai magistrati appartenenti al medesimo ufficio, carattere di marcata preponderanza e di frequenza rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”. “E’ evidente - commenta Costa - che se un magistrato ha mille atti e si stabilisce che c’è grave anomalia quando ne ha 501 non accolti o ribaltati, significa fare coriandoli di questa delega”. La bozza del decreto va anche oltre, stabilendo che “non costituiscono in ogni caso gravi anomalie la riforma del provvedimento o il rigetto della richiesta determinata dalla decisione del magistrato motivata in difformità dal consolidato orientamento giurisprudenziale, che pure abbia dimostrato di conoscere e col quale si sia confrontato”. Qui Enrico Costa sbotta: “Il magistrato creativo, che si fa bocciare tutto perché fa arrestare le persone e se le vede tutte liberate dal Riesame perché ha una sua particolare tesi dei gravi indizi di colpevolezza, può farla franca semplicemente scrivendo di sapere qual è l’orientamento prevalente. Ma stiamo scherzando?”. E chissà se intanto Nordio sia informato di tutto ciò. Peggio dell’autocomplotto di Meloni c’è solo il complottismo dell’Anm di Claudio Cerasa Il Foglio, 15 luglio 2023 Peggio del ridicolo autocomplotto della politica c’è solo il pericoloso complottismo dei magistrati. La scorsa settimana, la maggioranza di governo ha denunciato goffamente la presenza di un famigerato “assedio” della magistratura finalizzato a indebolire l’esecutivo. Le forme con cui la maggioranza ha denunciato l’accaduto sono quelle che conoscete. Prima è stata autorizzata la diffusione di una velina attribuibile a Palazzo Chigi (“fonti di Chigi dicono che”). Poi sono stati autorizzati alcuni ministri a parlare del tema (“le inchieste contro di noi sono sospette”, ha detto il ministro Lollobrigida a questo giornale). Infine, è stata la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ad aver legittimato il contenuto della velina (la quale velina accusava una parte della magistratura di “svolgere un ruolo attivo di opposizione”) lasciando però intendere che il caso giudiziario più sospetto, quello per così dire “più politico” tra i vari con cui la maggioranza sta facendo i conti, è quello che riguarda il sottosegretario Delmastro. “Credo - ha detto Meloni - che il giudice non dovrebbe sostituirsi al pm formulando l’imputazione quando il pm non intende esercitare l’azione penale”. Sul Foglio, abbiamo definito l’assedio evocato dalla maggioranza come una barzelletta. Come qualcosa di più simile a un autocomplotto che a un complotto. E il modo in cui il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha scelto di gestire il caso del figlio accusato di violenze sessuali dimostra che l’autocomplotto della maggioranza è sempre più un tema all’ordine del giorno (una volta completato l’interrogatorio di garanzia fatto al figlio, il presidente La Russa dovrebbe forse interrogare se stesso per capire se negare le indagini sulla sim del figlio intestata al presidente del Senato sia un modo per aiutare il figlio o un modo per trasformare l’inchiesta in un affare di stato). Una settimana dopo la scombinata evocazione dell’assedio, la scena di fronte alla quale ci si ritrova oggi somiglia molto a una “self fulfilling prophecy”: una profezia che si autoavvera. Il numero uno dell’Anm, il magistrato Giuseppe Santalucia, ieri in una intervista a “Radio Anch’io” ha evocato la presenza di un allarme democratico e ha scelto di schierare i magistrati italiani su una posizione estremista. “Fare dell’azione penale un’azione discrezionale, e certamente prima o poi sotto il controllo politico, la vediamo una cosa pericolosa per la democrazia”. Giorni prima, lo stesso Santalucia aveva espresso profondo sdegno per le posizioni della maggioranza offrendo un ulteriore spunto di riflessione: “Non si arretra - ha detto Santalucia - quando si tratta di difendere i valori della Costituzione”. Si potrebbe dire che entrambe le affermazioni di Santalucia rasentano il ridicolo. Sia perché ad aver trasformato in questi anni l’azione penale in un atto del tutto discrezionale è stata proprio la magistratura, che in alcuni casi ha utilizzato i suoi pieni poteri in modo arbitrario, senza dover rendere conto a nessuno dei propri errori, senza dover rendere conto a nessuno delle proprie scelte, senza dover rendere conto a nessuno dei numerosi casi in cui l’adozione della custodia cautelare è stata arbitrariamente utilizzata come strumento di pressione investigativa, senza dover rendere conto a nessuno delle indagini fuffa aperte grazie a norme vaghe, opache, indefinite, che permettono di trasformare un atto in un crimine sulla base di un sospetto non supportato dai fatti e senza dover rendere conto a nessuno delle inchieste costruite facendo affidamento esclusivamente non sulla forza delle prove ma sulla forza del processo mediatico. Sia perché coloro che si sono autodefiniti, non si capisce su quale base costituzionale, i “difensori della costituzione” sono gli stessi che generalmente la Costituzione la calpestano ogni giorno, rendendo un orpello della democrazia l’articolo 27 della Costituzione - l’imputato non deve essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva - e facendo di tutto per evitare, come prescrive l’articolo 111 della Costituzione, che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, all’interno di un percorso che garantisca alla persona accusata di un reato di essere informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e di avere diritto a una durata ragionevole del processo. La questione più interessante del discorso di Santalucia però è un’altra. Ed è la scelta di “attivare” due espressioni che nella storia recente dei rapporti tra la magistratura e la politica non hanno mai portato a nulla di buono. Un governo nemico della Costituzione, si è detto. Un governo pericoloso per la democrazia, si è aggiunto. Un governo “eversivo”, ha aggiunto ieri, dall’alto dei suoi infiniti successi giudiziari, il magistrato Nino Di Matteo, uno dei protagonisti della non fortunata saga legata alle inchieste sulla trattativa stato-mafia (zeru tituli), secondo il quale oggi vi sarebbe “un disegno unico nelle riforme del governo che attuano il programma fondativo di Forza Italia e affondano le radici nel disegno della Loggia P2”. Un governo che potrebbe fare regali alla mafia, ha aggiunto infine l’onorevole Scarpinato, magistrato palermitano in forza al Movimento 5 stelle, convinto che l’abolizione di un reato che il governo non vuole abolire, quello sul concorso esterno in associazione mafiosa, “eleverebbe di molto il rischio di privare lo Stato di un importante strumento di contrasto alla mafia”. Non sono elementi come gli altri. Sono gli elementi ricorrenti del complottismo giudiziario. Elementi che puntano a sollecitare una forma di resistenza da parte della magistratura che nella storia recente del nostro paese è stata diverse volte attiva e non solo passiva. E d’altronde, se la politica viene descritta come eversiva, come pericolosa per la democrazia, come dannosa per la Costituzione, come letale per la lotta alla mafia. E se la magistratura ha il dovere morale di occuparsi non solo di chi commette reati ma anche di chi mette a rischio la Costituzione. Se tutto questo è vero, è lecito temere che i pubblici ministeri più d’assalto possano usare i propri poteri discrezionali per indebolire, whatever it takes, chi sta provando a indebolire il tessuto democratico del nostro paese, miscelando le ipotesi di reato incerte con l’azione penale obbligatoria e giocando con un mix che, come denunciato mesi fa su questo giornale da Luciano Violante, “offre purtroppo ai magistrati la possibilità di utilizzare ipotesi di reati evanescenti per concentrarsi più sulle persone da indagare che sui reati da dimostrare” (funziona così, disse ancora Violante: “Si usa un’ipotesi di reato non ben limitata, si apre un’indagine su una persona, si cerca tutto ciò che in una persona possa essere considerato rilevante dal punto di vista della morale oltre che del penale e si usa il circo mediatico per dare legittimità alla propria azione”). Alla luce di tutto questo, verrebbe da dire che, riforme a parte, la maggioranza di governo avrebbe un modo chiaro per fare ordine: ristabilire i confini netti tra potere giudiziario e potere politico attraverso un rafforzamento dell’articolo 68 della Costituzione, l’autorizzazione a procedere per le indagini contro i parlamentari, svuotato trent’anni fa da un Parlamento ostaggio del potere giudiziario. In mancanza di questa volontà politica, l’unico modo per evitare che l’assedio giudiziario passi dalla fase della barzelletta a quella della realtà è invitare i magistrati non ideologizzati, quelli per capirci che hanno stroncato le velleità delle procure militanti con le loro sentenze (vedi la boiata della trattativa stato-mafia), a non aver paura, a farsi coraggio e a ricordare ai procuratori d’assalto che una magistratura che fa politica, individuando nemici da abbattere, è una magistratura che ogni giorno compie un passo ulteriore per calpestare la Costituzione, per minacciare il nostro tessuto democratico e per perdere credibilità. La vicepresidente dell’Anm, Alessandra Maddalena, due giorni fa ha accusato il governo di essere deciso “a delegittimare la magistratura, offrendo ai cittadini l’immagine di pubblici ministeri e giudici faziosi”. Verrebbe da dire che, vista la storia recente della nostra Repubblica, a trovare un modo per delegittimare la magistratura, offrendo ai cittadini l’immagine di pubblici ministeri faziosi, ci ha pensato in questi anni brillantemente la stessa magistratura. Con indagini fuffa. Con inchieste a orologeria. Con pataccari trasformati in eroi. E con ipotesi di reato evanescenti utilizzate per concentrarsi più sulle persone da indagare che sui reati da dimostrare. Peggio del ridicolo autocomplotto della politica c’è solo il pericoloso complottismo dei magistrati. Una nuova procedura d’infrazione e rischio di deferimento alla Corte Ue di Emanuele Bonini La Stampa, 15 luglio 2023 Carenze nei diritti di assistenza legale al momento dell’arresto, magistrati onorari senza tutele in materia di diritto del lavoro. Il sistema di giustizia dell’Italia, per cui l’Unione europea da anni chiede riforme e correttivi, si arricchisce di altri elementi di criticità che valgono all’Italia l’avvio di una nuova procedura d’infrazione e la decisione di portarne avanti un’altra, già aperta, col rischio di deferimento alla Corte Ue. L’Italia non garantisce a sufficienza, allo stato attuale, la presenza dell’avvocato difensore al momento degli interrogatori né la possibilità, per le persone in stato di privazione di libertà, adeguata comunicazione a familiari, datori di lavoro o autorità consolari, anche in caso di procedimenti a carico di minori. Senza contare che i vari magistrati onorari (giudici di pace e di tribunale) continuano a non godere di uno status di “lavoratore” in quanto riconosciuti come “volontari”. La Commissione europea chiede di rimettere mano a tutto questo, e in fretta. Richiami che arrivano proprio mentre il la maggioranza si appresta a presentare la proposta di riforma della giustizia, oggetto di confronto tra capo di governo e capo dello Stato. Quello che succede nell’ordinamento tricolore è che la direttiva del 2013 sul diritto della giusta difesa non è stata integrata nel quadro normativo nazionale. Se da una parte l’Ue intente l’accesso a un difensore sin dalle prime fasi del procedimento per indagati e imputati in procedimenti penali, per le persone oggetto di un mandato d’arresto europeo (Mae), e far sì che quanti privati della libertà personale possano comunicare con terzi, dall’altra parte in Italia tutto questo non è rispettato. Nello specifico, rileva la Commissione europea, a distanza di dieci anni dall’approvazione della direttiva, norme e autorità italiane non garantiscono l’effettiva partecipazione del difensore in occasione di interrogatori, possibili deroghe al diritto di accesso a un difensore a causa della lontananza geografica o di esigenze investigative, così come non garantiscono la possibilità per genitori e tutori di minori di essere messi al corrente della situazione e ricevere comunicazioni con i fermati. Al governo Meloni si concedono due mesi di tempo per adeguare il sistema di giustizia tricolore ai dettami a dodici stelle. Scaduti i 60 giorni, in assenza di progressi tangibili, la procedura può essere portata avanti, come nel caso dei giudici onorari. Qui Bruxelles ha concesso all’Italia molto più due mesi, ne ha aspettati dodici. A luglio dell’anno scorso è stata avviata una procedura d’infrazione per il mancato rispetto delle normative comunitarie in materia di diritto del lavoro. In materia di giustizia, il lavoro a tempo determinato e parziale di magistrati onorari, inclusi i loro orari di lavoro, fa sì che questi non godano dello status di lavoratore. Vuol dire, all’atto pratico, assenza di indennità per malattia, infortunio e gravidanza, differenze retributive e discriminazione fiscale. “I magistrati onorari non sono neppure sufficientemente protetti dalla reiterazione abusiva di contratti a tempo determinato e non hanno la possibilità di ottenere un adeguato risarcimento per tali abusi”, lamenta l’esecutivo comunitario, che avverte: se entro due mesi non si cambia registro l’Italia potrebbe essere deferita alla Corte di giustizia europea, con il rischio di multe, anche salate, in caso di condanna. L’Italia di cui ancora si attende l’ampia riforma della giustizia (la Commissione europea la chiede da anni, nelle raccomandazioni specifiche per Paese) fa dunque parlare ancora di sé per la sua giustizia. Non in bene. Firenze. Detenuto si impicca: cronaca di un suicidio annunciato di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 15 luglio 2023 Il 47enne, con problemi mentali, ci aveva già provato. Sei morti in meno di un anno a Sollicciano. Il garante Fanfani: “Quel carcere è inumano, va chiuso. I lavori in corso? Resterà tutto uguale”. Sarebbe dovuto uscire in autunno dopo sei anni di carcere e invece T.R, detenuto marocchino di 47 anni, si è tolto la vita giovedì sera nella sua cella a Sollicciano. Aveva più volte minacciato il suicidio, spesso veniva visto con qualche filo o qualche piccola cordicella attorno alla gola, si era procurato vari tagli nel corpo per autolesionismo, aveva ingerito in passato delle pile stilo. Aveva problemi di salute mentale. Era stato più volte ricoverato in ospedale, dove però era lui stesso a rifiutare le visite. Un passato da muratore, aveva preso strade sbagliate ed era finito in arresto. Aveva una moglie marocchina e cinque figli, nati e cresciuti a Firenze. Uno di loro, nei giorni scorsi, era andato a trovare il padre in carcere, lo aveva visto in condizioni drammatiche, lasciato andare a se stesso, aveva detto al padre di tirarsi su e aveva segnalato il problema agli agenti. Eppure suo padre si è lasciato andare, impiccandosi nel bagno della cella con un laccio artigianale attaccato alle inferriate. Nulla ha potuto il suo compagno di cella e neppure gli agenti che sono intervenuti poco dopo. È il sesto suicidio nel penitenziario fiorentino dall’inverno del 2022. Il nostro è uno degli istituti di pena con il più alto tasso di suicidi. A comunicare ieri mattina la notizia di questo decesso è stato il sindacalista Antonio Mautone, segretario Uil Pa Polizia Penitenziaria di Firenze: “Purtroppo questo suicidio è solo l’ultimo di una serie di episodi analoghi che si sono verificati negli ultimi anni nell’istituto fiorentino, che verte in una situazione indegna per un paese civile. Proprio l’altro giorno abbiamo denunciato la presenza di blatte e che persistono ancora condizioni di insalubrità in tutti gli ambienti detentivi e di lavoro e in particolare dove alloggia il personale come le caserme”. Già da tempo sono iniziati i lavori di ristrutturazione del carcere, anche se ci vorranno ancora mesi prima di portarli a compimento. A gennaio del 2022 l’ex ministra della giustizia Cartabia aveva stanziato 11 milioni per i lavori di ammodernamento della struttura, nonostante il sindaco Nardella più volte abbia chiesto demolizione e poi rifacimento. Secondo Mautone, i detenuti con fragilità estreme “dovrebbero essere maggiormente seguiti e aiutati nell’esecuzione del loro percorso detentivo e speriamo che l’evento di ieri indirizzi l’attenzione di tutte le figure preposte ad evitare altri suicidi”. Secondo l’ex cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo, direttore dell’ufficio per la pastorale nelle carceri della diocesi, “corriamo il rischio di considerare i detenuti non più esseri umani, non è tollerabile che a Sollicciano ci siano stati 6 suicidi in meno di un anno, il rischio è che possano essercene altri”. Parole dure anche dal garante regionale Giuseppe Fanfani: “Sollicciano va chiuso perché è un luogo inumano. I lavori di ristrutturazione? Resterà uguale”. Parma. Detenuto 42enne si toglie la vita col gas in cella parmapress24.it, 15 luglio 2023 Si è tolto la vita in carcere in via Burla a Parma, mercoledì 12 luglio: lui, un 42enne detenuto parmigiano avrebbe inalato in modo letale il gas del fornelletto. Sulla vicenda indaga la Procura: è stato un altro detenuto a tentare di salvare il 42enne, dopo aver sentito odore di gas uscire dal bagno della cella. L’uomo avrebbe riempito di gas un sacchetto di plastica, perdendo la vita. I soccorritori del 118 sono arrivati sul posto ma per il 42enne non c’è stato nulla da fare. Viterbo. Morto il detenuto 72enne colpito da un malore in cella Corriere di Viterbo, 15 luglio 2023 Non ce l’ha fatta D. B., il detenuto 72enne finito in manette nella mattinata di mercoledì 7 giugno per il furto e ricettazione di auto e di cellulari. L’uomo era stato colto da un malore subito dopo essere stato rinchiuso presso il carcere di Mammagialla ed era stato trasportato d’urgenza nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Belcolle. Il 7 luglio scorso a rendere note le gravissime condizioni di salute in cui l’uomo versava il suo legale, l’avvocato Luigi Mancini, in apertura dell’udienza del processo che vedeva il 72enne imputato per i reati di furto e ricettazione di auto e telefonini. Il 72enne era anche imputato in un altro procedimento con l’accusa di tentata violenza aggravata su una adolescente. L’uomo l’avrebbe adescata a ottobre 2020, mentre la giovanissima stava portando a spasso il suo cagnolino in viale Bruno Buozzi. Reggio Emilia. Detenuto incappucciato e pestato: 10 agenti accusati di tortura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 luglio 2023 Tortura e falsificazione delle relazioni di servizio. La Procura della Repubblica di Reggio Emilia ha dato esecuzione a un’ordinanza che ha portato alle misure cautelari nei confronti di 10 agenti di Polizia penitenziaria in servizio presso la Casa circondariale di Reggio Emilia. L’operazione è stata condotta con il supporto del Nucleo Investigativo Centrale e dei Nuclei Investigativi Regionali dell’Emilia Romagna, di Padova e di Milano del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Gli agenti sono accusati di violenze, torture e falsificazione di documenti in relazione a un detenuto di origine tunisina. Come Il Dubbio ha già riportato, tutto parte dalla denuncia di un detenuto presentata tramite l’avvocato Luca Sebastiani. Nella denuncia si dichiara che il 3 aprile scorso lo avrebbero fatto stendere sul pavimento, con la faccia rivolta verso terra, poi gli avrebbero coperto il volto con un tessuto e colpito con dei pugni. Dopodiché lo avrebbero portato in cella di isolamento. Nei giorni successivi il 40enne è stato portato all’ospedale Santa Maria Nuova, e non avrebbe riportato ferite gravi. Il presunto pestaggio - segnalato dal difensore civico di Antigone anche al garante regionale Roberto Cavalieri - è stato immortalato dalle telecamere interne, i cui filmati sono appunto passati al vaglio degli inquirenti. Secondo quanto riferito dall’avvocato Sebastiani, che ha incontrato per un colloquio, il detenuto presentava delle lesioni al volto. Il reato di tortura è stato indicato nella denuncia in riferimento all’uso della presunta violenza da parte degli agenti, specie quando lui sarebbe stato messo in posizione prona da più poliziotti. Il Gip ha accolto la qualificazione giuridica dei fatti presentata dalla Procura, ritenendo che gli indagati abbiano commesso il delitto di tortura e lesioni ai danni del detenuto. Inoltre, sono accusati di falso ideologico in atto pubblico per aver redatto tre relazioni di servizio in cui avrebbero attestato un diverso svolgimento dei fatti. L’ordinanza applica la misura coercitiva dell’obbligo di presentazione alla Procura e la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio e servizio per i 10 agenti coinvolti. Le indagini svolte dalla Procura hanno portato alla luce una serie di violenze e maltrattamenti subiti dal detenuto, che hanno incluso torture e lesioni fisiche. Le prove raccolte, comprese testimonianze e documentazione video, hanno permesso alla Procura di avanzare le accuse e richiedere le misure cautelari nei confronti degli agenti. Secondo il racconto del procuratore Gaetano Paci il detenuto è stato brutalmente aggredito dagli agenti penitenziari. Incappucciato con la federa di un cuscino, è stato fatto cadere con uno sgambetto e poi immobilizzato a terra. Gli agenti lo hanno successivamente colpito con calci e pugni in viso e sul corpo, oltre a calpestarlo ripetutamente. Il procuratore descrive una sequenza da film dell’orrore, una serie di atti che vanno ben oltre qualsiasi forma di trattamento legittimo nei confronti di un detenuto. Le prove a sostegno delle accuse nei confronti degli agenti includono i filmati delle telecamere di sicurezza, che mostrano chiaramente l’aggressione subita dal detenuto. Inoltre le testimonianze di altri operatori e detenuti presenti durante il pestaggio hanno fornito ulteriori dettagli sugli eventi. Queste prove concrete hanno permesso al procuratore di avanzare le denunce contro gli agenti coinvolti, dimostrando la gravità delle azioni commesse. La Procura di Reggio Emilia ha quindi richiesto misure cautelari per gli agenti coinvolti nel pestaggio. Si tratta di individui con varie esperienze lavorative nel sistema penitenziario, da quelli appena assunti a quelli con vent’anni di servizio. È previsto che i 10 destinatari delle misure cautelari saranno sottoposti a interrogatori di garanzia. Questo passo è fondamentale per garantire che i responsabili di tali atti di violenza siano chiamati a rispondere delle loro azioni. Il caso di Reggio Emilia si unisce ad altri episodi di violenza istituzionale che si sono verificati in Italia. L’arresto di quattro agenti e un ispettore di polizia a Verona per presunti atti di violenza è un altro triste esempio di abusi di potere. È fondamentale che queste vicende non vengano ignorate e che le istituzioni siano intransigenti nel condannare e affrontare tali comportamenti. La senatrice Anna Bilotti del Movimento Cinque Stelle, membro della commissione Giustizia, sottolinea l’importanza di rafforzare la legge sul reato di tortura per proteggere l’integrità fisica e psicologica delle persone e promuovere una società basata sulla civiltà e il rispetto reciproco. L’importanza di rafforzare di tale legge si scontra però con la proposta di modifica presentata dalla deputata di Fratelli d’Italia Imma Vietri per abrogare gli articoli 613- bis e 613- ter del codice penale. L’eliminazione di quegli articoli avrebbe due conseguenze negative: da un lato, renderebbe meno gravi e talvolta giustificabili gli abusi commessi dalle forze dell’ordine contro le persone private della loro libertà; dall’altro, metterebbe l’Italia in conflitto con gli obblighi internazionali assunti da ormai 35 anni e manderebbe un messaggio preoccupante alla comunità internazionale che cerca di combattere la tortura. Come ha ricordato Luigi Manconi, all’epoca senatore del Partito democratico che fu il primo firmatario della proposta di legge nel lontano 2013, il dibattito per l’introduzione ebbe una accelerazione a seguito della condanna da parte della Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia per le violenze degli apparati di polizia messe in atto durante i giorni del G8 di Genova (2001), in particolare per il comportamento tenuto in occasione dell’irruzione notturna nella scuola Diaz. Ma anche a seguito del caso Cedu “Irino e Renne c. Italia”, ovvero la condanna per i fatti avvenuti al carcere di Asti. Come sappiamo la legge che ha introdotto il reato di tortura è stata emanata nel 2017. Le differenze cruciali che hanno fatto della proposta iniziale una legge parziale sono essenzialmente tre. L’ex senatore Manconi le riassume così. La prima. Il reato è comune e non proprio: ovvero attribuibile a chiunque e non imputabile solo ai pubblici ufficiali e a chi esercita un pubblico servizio. Un reato, dunque, che non deriva dall’abuso di potere di un funzionario dello Stato ma da una qualunque forma di violenza tra individui. La seconda. La necessità che vi sia una pluralità di violenze e di minacce e il ripetersi di più condotte perché si verifichi la tortura. La terza. La pretesa che vi sia una verificabilità oggettiva del trauma psichico derivante da tortura. Eppure, nonostante le imperfezioni, dal 2017 a oggi, il reato di tortura è stato contestato a numerosi imputati in diversi procedimenti giudiziari. Nel contempo non è assolutamente vero che l’uso della forza si traduce in tortura. Diversi i casi archiviati, perché i magistrati stessi hanno reputo l’uso legittimo. Come non ricordare il fatto - denunciato dal Garante nazionale nel 2019 dell’uso degli idranti nei confronti di un detenuto chiuso dentro la cella? Il detenuto, preso da una evidente esagitazione, aveva rotto il portellino dello spioncino e gli agenti volevano che lui consegnasse il pezzo di ferro e il fornelletto che aveva in dotazione. Siccome lui non aveva eseguito l’ordine, gli agenti avrebbero aperto l’idrante, indirizzando il getto d’acqua in ogni angolo della cella. Fatto denunciato alla procura competente che, a sua volta, ha reputato di archiviare perché non ha intravisto alcun reato. Questa è la dimostrazione che gli agenti, agendo in buona fede, non corrono alcun rischio. Reggio Emilia. Detenuto pestato dagli agenti. Il Garante: “Carceri come campi di battaglia” di Maria Elena Gottarelli La Repubblica, 15 luglio 2023 Dieci poliziotti, inchiodati dalle videocamere, sono stati indagati e sospesi per le torture denunciate da un carcerato tunisino, che dopo tre mesi di richieste ora ha potuto incontrare la famiglia. Dopo 12 solleciti via mail e una richiesta formale a fine aprile dell’avvocato, i familiari del detenuto tunisino di 41 anni che ha denunciato violenze e torture subite il 3 aprile scorso nel carcere di Reggio Emilia da parte di agenti della polizia penitenziaria ora sotto indagine, possono finalmente andare a fargli visita. Dopo mesi di attesa, venerdì mattina il fratello e la cognata del detenuto (difeso dall’avvocato Luca Sebastiani), che nel frattempo era trasferito a Parma in cella d’isolamento, lo hanno potuto incontrare. In giornata l’uomo dovrebbe essere nuovamente trasferito a Modena. Intanto è stato fissato per lunedì prossimo l’interrogatorio di garanzia per i dieci agenti destinatari di misure cautelari, sui 14 indagati, a vario titolo, dalla Procura di Reggio Emilia. Pesanti le accuse di tortura, lesioni personali e falso in atto pubblico per tre diverse relazioni di servizio. In una conferenza stampa indetta giovedì, il procuratore capo Calogero Gaetano Paci ha riportato la ricostruzione fornita dagli stessi inquirenti della polizia penitenziaria reggiana che si sono occupati del caso coordinati dalla pm Maria Rita Pantani. Fondamentali per ricostruire la dinamica sono state le immagini delle telecamere di sorveglianza interne al penitenziario che, riporta il procuratore, hanno ripreso i pestaggi e le umiliazioni subite dal detenuto, “incappucciato con una federa di un cuscino, messo a terra con uno sgambetto e poi ripetutamente preso a pugni, pedate, trattenuto pancia a terra per gli arti superiori e inferiori, percosse. Gli hanno camminato sopra gli arti con gli scarponi, per immobilizzarlo fuori da ogni norma consentita”. Sul punto, è intervenuto anche il garante regionale per i diritti dei detenuti Roberto Cavalieri, che giovedì ha incontrato il detenuto a Parma e, sentito da Repubblica, ha condannato nettamente le violenze denunciate: “Se confermati - ha detto - questi fatti indicano un tipo di violenza quasi militare da parte degli agenti, che si sarebbero comportati come una vera e propria squadra”. Questo non significa, per il garante, “che tutto il sistema della polizia penitenziaria sia marcio, non è così e lo dimostra il fatto solo in Emilia-Romagna si verificano migliaia di contatti al giorno tra agenti e detenuti”. Per il garante “il corpo di polizia penitenziaria nel suo complesso è sano, tant’è vero che è stata proprio la polizia penitenziaria a svolgere le indagini” - ma esiste un problema a monte, che deriva dai contesti di grave difficoltà in cui versano carceri come quella di Reggio Emilia, descritta da Cavalieri come “una zona calda” già da diverso tempo. “Basti pensare al fatto che nel 2022 a Reggio Emilia, il numero di aggressioni da parte dei detenuti nei confronti degli agenti è stato pari a quello di Parma, dove però il numero di detenuti è esattamente il doppio”. Le carceri si trasformano così “in veri e propri campi di battaglia”, dove, però, le vittime note sono (quasi) sempre solo gli agenti, che ad ogni episodio fanno rapporto. Mentre “non esistono dati certi sulle violenze subite dai detenuti”, che più difficilmente sporgono denuncia, come è avvenuto in questo caso specifico. Ma per una voce che si leva, ad oggi è impossibile determinare quante non oltrepassano le mura carcerarie. E allora, “le carceri vanno innanzitutto rese luoghi di maggiore benessere sia per i detenuti che per gli agenti. Poi serve promuovere la riconoscibilità degli operatori di polizia penitenziaria da parte dei detenuti, tramite un numero identificativo. Le carceri vanno rese luoghi di maggiore trasparenza”. Sul tema è intervenuto anche il senatore di Azione-Italia Viva, Ivan Scalfarotto che ha puntato il dito contro l’abrogazione del reato di tortura promossa da FdI: “Solo pochi mesi fa FdI ha presentato una proposta di legge sull’abrogazione del reato di tortura - ha detto - come dimostrano i fatti di Reggio Emilia, si tratta invece una norma indispensabile, che deve restare nell’ordinamento anche nell’interesse dei tanti agenti della polizia penitenziaria che operano quotidianamente nelle nostre carceri con professionalità e abnegazione”. Sassari. Decidono se può tenere le foto dei genitori morti: l’ultima violenza dei giudici su Cospito di Frank Cimini L’Unità, 15 luglio 2023 Per capire qualcosa dell’amministrazione della giustizia, delle carceri e in definitiva di questo paese va considerato che il prossimo 14 settembre davanti al tribunale circondariale di Torino sarà celebrata un’udienza apposita per stabilire se l’anarchico Alfredo Cospito abbia diritto o meno di tenere in cella nel carcere di Sassari Bancali le foto dei suoi genitori defunti. Cospito, recentemente condannato a 23 anni di reclusione per i pacchi bomba di Fossano dalla Corte di assise di appello di Torino (di qui la competenza anche su foto sì è foto no), aveva la disponibilità delle immagini, poi tolte e restituite quando era ospite del supercarcere di Opera. Una volta tornato dopo il lunghissimo sciopero della fame a Sassari arrivava la decisione di toglierle da parte della direzione che le mandava alla Corte del capoluogo piemontese. Qui i giudici decidevano di trattenerle. Il difensore avvocato Flavio Rossi Albertini presentava reclamo. Se ne discuterà il 14 settembre insieme alla possibilità per Cospito di poter avere due lettere in entrata. Non c’è ancora una motivazione del “trattenimento” da parte dei giudici ma solo le scarne ragioni descritte dai responsabili del carcere di Sassari che l’avvocato definisce “risibili”. Insomma bisogna discutere della “pericolosità” delle foto equiparate di fatto a pistole coltelli e fucili. Tutto ovviamente rientra nell’applicazione dell’articolo 41bis del regolamento penitenziario disposto dal ministro Marta Cartabia nel maggio dell’anno scorso, confermato dal Tribunale di Sorveglianza di Roma dove prima o poi si svolgerà una nuova udienza perché il ministro Carlo Nordio non ha risposto all’istanza della difesa di revocare il carcere più duro. Siamo ben oltre anche la tortura del 41bis perché si tratta di un accanimento per far pagare a Cospito la battaglia con il digiuno (che ha portato danni neurologici guaribili solo in parte) fatta non solo per sé ma soprattutto per gli altri 750 reclusi murati vivi. Per giunta giusto adesso che di Alfredo Cospito non si parla più tranne un breve accenno dei giornali nella vicenda dell’imputazione coatta per il sottosegretario Andrea Del Mastro imputato di aver violato il segreto in una indagine nata da un esposto presentato in procura a Roma da Sinistra e Verdi. Una sorta di regolamento di conti tra i partiti sulla pelle di un anarchico detenuto condannato persino a non potersi ricordare dei volti dei genitori. Dunque una pena accessoria, come se non bastassero impossibilità di leggere tutto quello che vuole e di scrivere articoli per le riviste dell’area anarchica oltre alle pochissime ore d’aria. “La felicità non è un’utopia” di Chiara Dino Corriere Fiorentino, 15 luglio 2023 Armando Punzo dal 28 è in scena con “Atlantis” insieme con i suoi detenuti del carcere di Volterra. Stavolta ci insegna che si può essere felici stabilmente. Come chi persegue la conoscenza. Può esistere la felicità come stato dell’animo permanente? Non effimero dunque e non causato da interferenze esterne, momentanee e magari casuali? Da questa domanda, per di più fatta nel carcere di Volterra dove opera e fa teatro da 35 anni Armando Punzo con la sua Compagnia della Fortezza parte - dopo 8 anni di ricerca attraverso Shakespeare e Borges lungo un movimento ascensionale che, dai moti dell’anima descritti dal bardo di Stratfordupon-Avon passava al realismo magico del poeta argentino per approdare all’homo felix di Naturae - per portare in scena (dal 28 luglio al 3 agosto, durante un mini-festival che si terrà nella cittadina della Fortezza medicea) la prima tranche di un nuovo lavoro. Questa volta siamo ad Atlantis (un mondo immaginario? ndr) la cui prima puntata si chiama appunto Permanenza. Punzo, partiamo da lei. È fresco di Leone d’Oro alla Carriera alla Biennale del teatro di Venezia (il 17 giungo). Emozionato? Contento? “Sì, beh certo. È un grande riconoscimento. Trentacinque anni di lavoro per trasformare un carcere noto per condizioni di vita difficili, anzi difficilissime, a un luogo che è modello per altri non sono stati vani. Un riconoscimento come questo non va solo a me. Ma all’utopia della Compagnia della Fortezza, che ha creduto fortemente nella possibilità di trasformare un luogo di detenzione nato per sopprimere la libertà, in un terreno di coltura per questa stessa libertà. Questo premio mi dice e ci dice che le utopie sono possibili. E questo ha molto a che fare con il nuovo spettacolo”. Atlantis - Capitolo 1 La permanenza, sua la drammaturgia e sua la regia. Ce ne parla? “Dopo 8 anni di progetto legato a Naturae, dopo aver conosciuto attraverso questo progetto-spettacolo, i moti dell’animo dell’uomo anche più bassi e aver cercato di trovare la felicità, adesso lavoriamo su un progetto drammaturgico che vuole ipotizzare questa stessa felicità come una condizione permanente”. E funziona? È possibile essere stabilmente felici? “C’è un approccio diciamo infantile alla vita che ci dice che sì, è possibile, frequentare questo stato d’animo stabilmente. Ed è lo stesso approccio che hanno alcuni personaggi della storia - del pensiero e della scienza - che hanno creduto nelle utopie. Che si sono continuati a porre domande. Hanno voluto progredire nella conoscenza e hanno scoperto cose incredibili”. Seguo la sua traccia. Dunque felicità e conoscenza se non sono proprio sinonimi hanno delle parentele strette... “In un certo senso sì”. Come si traduce questo nello spettacolo? “Venite a vederlo”. Ci dia qualche istruzione per l’uso... “Immaginate Lui. Lui come personaggio astratto e molto reale. Lui come me e come i circa 80 attori/detenuti di Volterra che partecipano al progetto, lui come ciascuno di noi che si confronta con grandi personaggi. Per il momento stiamo interrogando Galileo, Leonardo, Burroughs, Einstein, ma anche artisti come Fontana, o i primi esponenti dell’astrattismo. Stiamo leggendo Bloch e il suo libro, immenso, che s’intitola Il principio speranza, e che ci invita a non perdere mai di vista l’utopia, a coltivare la speranza e a non fermarsi al dato di realtà troppo spesso paravento di chi non vuole mettersi in gioco. Stiamo studiando I quattro maestri di Vito Mancuso (Socrate, l’educatore. Buddha, il medico. Confucio, il politico. Gesù, il profeta ndr.) tutti portatori di una utopia che non si riesce a mettere in pratica fino in fondo, per cercare il quinto maestro. Questa volta non vogliamo neanche portarla in scena la parte negativa dell’uomo. Vogliamo altro”. Un lavoro immenso ma bellissimo. Lei, Punzo, può dirsi felice? “Direi di sì. Quello che faccio mi rende felice”. E chi lavora con lei, in carcere, chi è detenuto, come reagisce di fonte a chi, come lei, parla loro di felicità in un luogo come quello? “Alt. I detenuti non sono loro. Sono io, te, persone, ognuna diversa, c’è chi è interessato a quello che dico e che facciamo e chi non lo è. A questo progetto, per dire, partecipano in 70/80 circa. Chi non se la sente semplicemente non partecipa”. A proposito di utopie. A che punto è il progetto del Teatro Stabile di Volterra? “È pronto il progetto di fattibilità. Aspettiamo il parere della Soprintendenza. A fare il teatro sarà l’architetto Mario Cucinella, ci vuol pazienza ma andiamo avanti”. Appunto, pazienza: lei da 35 anni si è auto-recluso in carcere. Tutti i giorni dalle 9 alle 19 e anche più. Perché e quanta resistenza trova alla sua utopia? “Mi sono “chiuso” in carcere, come dice lei, per svelare a me stesso le mie prigioni interiori. Quanto alle resistenze ne trovo molte. Ma da tutti, dal sistema che è fatto non solo di detenuti ma da tutti noi che consideriamo le prigioni un buco nero, e questo vale anche per chi ci lavora. Ribaltare questo assunto è utopia. Ma lei lo sa che spesso chi crede nell’utopia è considerato un cretino?”. Chi crede in qualcosa in generale è considerato un sempliciotto. È vero... “Appunto. Ecco perché è stato così importante il Leone d’Oro. Ribalta questo assunto”. Andiamo un po’ più indietro nel tempo. Ma lei com’è che ha scelto il teatro? “Guardi, ho iniziato a fare teatro sin dal primo anno di Università. Studiavo lingue all’Orientale e non mi piaceva nulla di quello che avevo attorno, anche se la mia era una famiglia normale, perbene. Ma non ero felice. E volevo provare a esserlo”. La responsabilità politica e il metro dell’etica pubblica di Edmondo Bruti Liberati Corriere della Sera, 15 luglio 2023 Si può attivare un giudizio anche per fatti che non abbiano rilevanza penale. L’opinione pubblica, l’informazione, liberamente valuterà se condividere o meno. “Arimortis, spesso abbreviata in arimo è un’espressione utilizzata prevalentemente in Lombardia; è convenzionalmente in uso tra i bambini durante i loro giochi, allo scopo di invocare una sospensione del gioco e/o attività in corso per piccoli “incidenti” quali stringa slacciata, richiamo materno per merenda et similia. È l’equivalente del time-out negli sport agonistici”. Così Wikipedia. Un milanese di adozione osa proporre dalle colonne del “quotidiano di Via Solferino”, di fronte alle polemiche di questi giorni su politica e giustizia: arimortis! Non vuol dire negare i problemi, né salomonicamente dire che tutti hanno un po’ di torto e un po’ di ragione, ma solo: un attimo di pausa per riflettere sui fondamentali. Cominciamo con un auspicio: si rinunci all’uso dell’espressione “indagini ad orologeria”. Si dice che un orologio fermo (analogico, oggi dobbiamo aggiungere) almeno due volte al giorno segna l’ora esatta, ma un orologio le cui lancette impazzite girino vorticosamente non segnerà mai l’ora esatta. Per polemizzare contro una indagine della magistratura, abbiamo visto di tutto. Indagini avviate nell’imminenza di una delle tante scadenze elettorali (nazionali, regionali, comunali del nostro paese, nonché europee) sono accusate di voler influire sulle urne. Indagini post-elezioni sono accusate di non voler rispettare il risultato delle urne (sulla base di un sondaggio tra gli elettori dei partiti di governo invitati ad esprimere la loro opinione su quella singola indagine?). Forse, come sentivamo nelle cronache di Ruggero Orlando da Cape Canaveral bisognerebbe stabilire (con legge annuale?) una “finestra” per il “lancio” di indagini in un tempo ben distante sia dalla precedente che dalla successiva scadenza elettorale, peraltro con un necessario computo calibrato che assegni punteggi di valore diversi a seconda del tipo di elezioni e del bacino elettorale. Indagini penali e responsabilità politica. La politica si riappropri del suo ruolo, faccia un passo avanti e valuti comportamenti attribuiti a suoi esponenti secondo il metro dell’etica pubblica, indipendentemente e a prescindere dai profili penali. La politica decida dove fissare l’asticella dell’etica pubblica: può attivare un giudizio di responsabilità politica anche per fatti che non abbiano rilevanza penale o all’opposto può non attivare questo giudizio di fronte a fatti penalmente rilevanti, ma ritenuti di non particolare gravità. L’opinione pubblica, l’informazione liberamente valuterà se condividere o meno. Due passati governi tecnici hanno alzato e di non poco l’asticella del livello di etica pubblica. Il ricordo va a due ministre che in diversi governi si sono dimesse per casi di non particolare gravità. Nella vicenda che coinvolge una attuale ministra la confusione è totale. Laddove la politica, il governo, dovrebbe assumere la responsabilità “politica”, una valutazione autonoma sui fatti, il dibattito si svolge come in una esercitazione degli studenti di un corso di procedura penale sul “certificato dei carichi pendenti” e sulla informazione di garanzia. Una situazione surreale, ma almeno ricordiamo i fondamentali. La persona interessata può in qualunque momento richiedere alla Procura della Repubblica se esistano iscrizioni, indagini a suo carico (art. 335 cpp). La segreteria della Procura rilascia un certificato che prevede due alternative: “Risultano le seguenti iscrizioni suscettibili di comunicazione” ovvero “Non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione”. La seconda risposta tiene conto del fatto che, in particolari circostanze, la Procura può disporre la “segretazione” dell’iscrizione e quindi questa risposta, come ben sanno gli avvocati difensori, vuol dire che non ci sono iscrizioni o che ci sono iscrizioni “segretate”. La “scadenza” di questo certificato è ancora più breve di quella del latte fresco, perché è fissata, come per Cenerentola, alla mezzanotte. Lo stesso certificato, richiesto il giorno dopo avrebbe potuto portare l’altro risultato. L’”informazione di garanzia” (art.369 cpp) deve essere notificata all’indagato solo quando il pubblico ministero deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere. A questo punto non vi è più segreto: piuttosto che inseguire un segreto che non vi è più e che non vi deve più essere, non sarebbe meglio adoperarsi per valorizzare il significato di “garanzia” e la correlativa presunzione di innocenza? Fermo restando il diritto/dovere dei media di pubblicare una notizia di evidente interesse generale ove l’indagato sia un personaggio pubblico. Non meno surreale la caccia alla fuga di notizie. Che la ministra Santanché fosse indagata per falso in bilancio lo ha scritto il Corriere il 2 e 3 novembre 2022, concetto ben evidenziato nel titolo: nessuna fuga di notizie, ma solo un attento e preparato cronista, che ha saputo interpretare notizie ed atti non segreti facendo semplicemente 2+2. I non pochi lettori del Corriere (tra i quali è da supporre anche qualche esponente politico), che non hanno visto alcuna smentita, sapevano già da tempo quello che ora è sembrato nebuloso nel dibattito parlamentare. Falso in bilancio, bancarotta, reati societari richiedono indagini sofisticate e non brevi: a maggior ragione “presunzione di innocenza” perché, per i vari meccanismi tesi a circoscrivere le dichiarazioni di fallimento quando è possibile “salvare” le aziende, il pubblico ministero potrebbe concludere con una richiesta archiviazione. Sempreché non intervenga poi un GIP ad ordinare una imputazione coatta… Anche qui richiamo ai fondamentali. La possibilità per il Pm di archiviare fuori di ogni controllo del giudice, prevista dal codice Rocco è stata oggetto di uno dei primi interventi della ristabilita democrazia: nel settembre del 1944, in piena guerra e quando gran parte del Paese è ancora controllata dal nazifascismo, il governo Bonomi ripristina il controllo del giudice. E persino nel sistema statunitense ove il prosecutor statale, eletto dai cittadini, gode di un’illimitata discrezionalità nell’archiviare notizie di reato, una volta formulata l’imputazione, se vuole chiudere il caso con il nolle prosequi, deve richiedere l’autorizzazione al giudice. Migranti. L’allarme Unicef: morti 289 bambini nel 2023, 11.600 arrivati in Italia da gennaio di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 15 luglio 2023 Frontex: 1.900 migranti scomparsi nel Mediterraneo nel solo mese di giugno. L’Agenzia Ue specifica che la rotta più pericolosa resta quella che va dalla Libia (o dalla Tunisia) all’Italia. “Le traversate marittime rimangono estremamente pericolose. Secondo i dati dell’Oim, nel solo mese di giugno sono scomparse nel Mediterraneo quasi 1.900 persone, la maggior parte lungo la rotta del Mediterraneo centrale”. Lo afferma in una nota Frontex, l’Agenzia europea per la protezione dei confini. Il dato viene diffuso nelle stesse ore in cui è stata annunciata una nuova missione a Tunisi della premier Giorgia Meloni con la presidente Ue Ursula von der Leyen e il primo ministro olandese Mark Rutte. I 1.900 migranti “scomparsi” (e dunque da considerarsi morti) conteggiati da Frontex rappresentano uno dei peggiori degli ultimi anni: su di esso pesa la tragedia del peschereccio naufragato a 47 miglia dalle coste greche. Il Mediterraneo centrale rimane la principale rotta migratoria verso l’Ue e rappresenta quasi la metà di tutti i rilevamenti alle frontiere nel periodo gennaio-giugno. Il numero di rilevamenti è salito a quasi 65.600, il numero più alto su questa rotta per questo periodo dal 2017 e quasi il 140% in più rispetto a un anno fa. La pressione maggiore - sottolinea Frontex - arriva dunque da Libia e Tunisia. Secondo quanto riferiscono i dati diffusi da Unicef, nello stesso periodo di tempo (da gennaio a giugno 2023) 289 bambini hanno perso la vita in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa (11 bambini morti o scomparsi ogni settimana). L’organizzazione stima che 11.600 bimbi - una media di 428 bambini a settimana - sono arrivati sulle coste dell’Italia dal Nord Africa da gennaio. Questo dato rappresenta un aumento di due volte rispetto allo stesso periodo del 2022, nonostante i gravi rischi corsi. La maggior parte dei bambini parte dalla Libia e dalla Tunisia, dopo aver affrontato viaggi pericolosi da Paesi dell’Africa e del Medio Oriente. E proprio a largo di Sfax, in Tunisia, ieri la Guardia Costiera locale ha recuperato 13 corpi nel salvataggio di un barchino con circa 40 persone a bordo. Riveste dunque ancor maggiore importanza la missione che Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen e Mark Rutte si apprestano a compiere a Tunisi. Il presidente Kais Saied ha chiesto aiuti economici in cambio del controllo sulle partenze dei migranti, Bruxelles ha messo sul piatto fin da subito 900 milioni di euro ma resta irrisolto il nodo degli aiuti che il Fondo Monetario internazionale tiene bloccati. Quest’ultimo chiede riforme in campo economico (tra cui l’abolizione di sussidi) in cambio dei nuovi crediti, riforme che però Tunisi non è disposta a concedere. Su Kais Saied pesano inoltre le accuse di aver instaurato un regime autoritario e di aver adottato una politica durissima nei confronti dei migranti che entrano nel Paese dal Sahara; video diffusi da organizzazioni umanitarie hanno documentato in questi giorni le violenze a cui sono sottoposti i migranti bloccati nella zona di Sfax. Migranti. Meloni fa il gioco dell’autocrate Saied di Karima Moual La Stampa, 15 luglio 2023 Tenere il più possibile lontani dai nostri occhi i migranti, le loro disgrazie, le loro ferite, i loro corpi, i loro volti e le loro storie di miseria, povertà e ingiustizia, costi quel che costi. Come può essere commentato se non in questo modo, l’avvio verso un nuovo memorandum d’intesa tra Tunisia e Europa con la madrina Giorgia Meloni, silenziando e girando le spalle alla violenza, il razzismo, l’abuso di potere ai danni dei migranti subsahariani, testimoniato in questi mesi da rapporti e infine dalle ultime immagini di Sfax, dove la caccia al nero è ormai istituzionalizzata da quello stesso discorso del presidente Kais Saied del 22 febbraio 2022. È il giorno in cui dicendo di trattare in un Consiglio dei ministri la gestione dell’immigrazione nel Paese, ha parlato di sostituzione etnica, di orde di immigrati africani da fermare perché fonte di crimini, e se non bastasse, come il peggiore dei complottisti, ha dichiarato al suo popolo come la presenza africana sia un’impresa criminale ordita all’alba di questo secolo per cambiare la composizione demografica della Tunisia, al fine di trasformarla in un Paese solo africano (quindi nero, perché questa è la vecchia e sempre attuale ossessione) e offuscare le sue radici arabo islamiche. Orgoglio populista razzista arabo islamico contro tutti dunque. Una propaganda eccellente per nascondere i motivi veri del default del presidente. Ma Kais quando parla lo fa in modo deciso. E lo ha detto senza battere ciglio e senza fare un passo indietro, ben sapendo che il razzismo arabo verso i neri è vivo e vegeto e basti fare un giro sui social per tastare con mano i numerosi video e i commenti razzisti, complottisti e violenti contro i migranti subsahariani che in questi anni sono aumentati in tutto il Maghreb, con la differenza che è soprattutto dalle coste tunisine che si ambisce ad arrivare prima in Europa. Infatti la risposta a Tunisi non è tardata ad arrivare. Le violenze sono aumentate un giorno dopo l’altro, nel silenzio assordante di chi in questi mesi prova a spendersi in accordi economici e politici con Tunisi, diventata una meta calda per arrivi sulle nostre coste, perché appunto, i migranti bisogna tenerli lontani, costi quel che costi. L’ipocrisia europea sta tutta concentrata in questo modus operandi, dove si è molto bravi a impartire lezioni di democrazia e diritti dall’alto, ma anche molto lesti a girare le spalle sugli stessi, quando ci sono interessi che in quel momento sembrano più importanti. Impotenti e miopi, politicamente parlando, verso la gestione di un tema epocale come quello delle migrazioni, quando ancora una volta sembra che ci sia solo la bussola europea, che in questo caso è nelle mani di Giorgia Meloni, perché la nostra premier si sta intestando il nuovo accordo con il presidente tunisino, l’uomo che si sta distinguendo in questi pochi anni di potere come il nuovo autocrate di Tunisi. Un gelido populista che non solo sdogana il razzismo arabo verso i subsahariani, come neri e africani da tenere alla larga perché inferiori, ma a Tunisi ha messo in soffitta la parola “democrazia” incarcerando oppositori politici e limitando la stampa. Eppure, nonostante tutto questo e nonostante il Paese sia quasi sull’orlo del baratro, per una crisi economica senza precedenti - anche per scelte economiche e politiche sbagliate - a Kais Saied, Giorgia Meloni ha deciso di riservargli un posto d’onore con la cornice europea. La nostra premier, insieme alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, tornerà domenica in Tunisia con il primo ministro dei Paesi Bassi per firmare i dettagli di un accordo da un miliardo di euro, volto a combattere il traffico di esseri umani e sostenere l’economia al collasso del paese, dicono. Eppure non c’è una parola su come accompagneranno questa ennesima somma di denaro, che serve a esternalizzare le frontiere europee in Africa, al rispetto dei diritti umani, dei migranti subsahariani ma anche degli stessi tunisini, che bisogna ricordarlo, continuano a vedere i loro diritti mutilati senza che nessuna batta un colpo. Nelle stesse ore in cui molti migranti subsahariani dopo i fatti di Sfax vengono deportati senza acqua né cibo nel deserto con la frontiera libica, e anche qui le immagini sono dolorose e raccapriccianti, le manifestazioni per la liberazione degli oppositori politici sono imponenti davanti alla Corte di appello di Tunisi. Mario Paciolla, quel “suicidio” mai indagato di Gianpaolo Contestabile e Simone Ferrari Il Manifesto, 15 luglio 2023 Tre anni fa un burocrate annunciava ai genitori che il figlio si era impiccato in Colombia. Lavorava alla missione di pace dell’Onu. Il 16 luglio del 2020 un impiegato delle Nazioni Unite telefona ad Anna e Pino, genitori di Mario Paciolla. Con toni sbrigativi, comunica che Mario si è suicidato a San Vicente del Caguán, in Colombia, e domanda ai genitori se sono interessati al rimpatrio della salma. Paciolla lavorava nella Missione di Pace dell’Onu e quel 16 luglio avrebbe dovuto fare ritorno in Italia. “Mario era proiettato al futuro”, dicono i genitori, “l’ultimo atto che compie è l’acquisto di un biglietto per tornare a casa. Poche ore prima di morire aveva comunicato via mail all’ambasciata che stava lasciando la Colombia”. Secondo Anna e Pino, durante le chiamate nei giorni antecedenti al 16 luglio Paciolla aveva manifestato, preoccupato, “la necessità di tornare a casa al più presto”. Nonostante l’autopsia eseguita in Colombia propendesse per l’ipotesi del suicidio, sono emersi fin da subito elementi contraddittori. La possibilità di svolgere ulteriori analisi medico-legali è stata ostacolata dai depistaggi del capo della sicurezza della Missione, Christian Thompson, che ha ripulito l’appartamento prima dell’intervento della polizia locale. Anna e Pino hanno scritto una lettera alle Nazioni Unite per chiedere spiegazioni: “La mancata comunicazione all’ambasciata italiana della morte di un proprio cittadino e la fretta con la quale è stata fatta pulizia con la candeggina sono comportamenti che esigono spiegazioni, così come la scelta di gettare nella discarica gli oggetti appartenuti a Mario e le sue agende, mai ritrovate”. Dopo il rientro della salma in Italia, il medico legale Vittorio Fineschi ha svolto una seconda autopsia, dalla quale emergono dettagli che smentirebbero l’ipotesi del suicidio. Le ferite post mortem, la posizione della sedia su cui si sarebbe impiccato, lo strangolamento previo alla morte per asfissia, l’altezza della grata a cui è stato appeso il lenzuolo sono alcuni degli elementi che portano Fineschi a determinare che con “ragionevole certezza” Mario non si è suicidato. Nonostante ciò, la procura di Roma, che aveva avviato un’indagine per omicidio contro ignoti, lo scorso maggio ha chiesto l’archiviazione. In segno di protesta, un gruppo di attivisti ha organizzato, con la famiglia di Mario, un flash mob fuori dal tribunale. Le legali Motta e Ballerini si sono opposte all’archiviazione e chiedono che vengano considerate le incongruenze scientifiche, “assolutamente non spiegabili con il suicidio”. “Alla luce di questi fatti - dichiarano Anna e Pino - il silenzio dell’Onu ci insospettisce e ci addolora”. Secondo i genitori, il movente della morte di Paciolla va ricercato nel suo contesto lavorativo. La Missione delle Nazioni Unite in questi anni è stata al centro di diverse polemiche. Il capo della missione Carlos Ruiz Massieu sarebbe stato favorito nella sua ascesa come diplomatico da alcuni parenti, membri della potente famiglia messicana De Gortari-Ruiz Massieu, invischiata in scandali legati a narcotraffico, riciclaggio di denaro, corruzione e diversi omicidi. La famiglia rappresenta l’élite politica messicana che ha governato il paese per decenni in un contesto di violazione sistematica dei diritti umani con la sparizione forzata di migliaia di civili. Lo stesso Ruiz Massieu è stato oggetto di denunce anonime provenienti dall’interno della Missione, in cui si descrive un clima organizzativo caratterizzato da abusi di potere e cattiva gestione dei conflitti. In questo senso, stride il fatto che non siano stati presi provvedimenti nei confronti di Cristian Thompson, l’ex militare, consulente della sicurezza per imprese e per l’agenzia statunitense Usaid, che ha infranto i protocolli interni dell’Onu ripulendo la scena del presunto crimine e ha fatto sparire gli effetti personali di Mario. Thompson continua a lavorare nella Missione ed è stato spostato dalla località di San Vincente del Caguán alla capitale Bogotá, dove ora si occupa di gestire la sicurezza della Missione a livello nazionale. Sulla sua scrivania passano le mail di tutti i team di lavoro che operano in Colombia. Alla luce dei depistaggi, della lentezza del sistema giudiziario e del silenzio dell’Onu, la lotta per la verità e la giustizia per Mario è diventata in questi tre anni una battaglia civile che ha permesso, raccontano Anna e Pino, “l’incontro con il presidente Mattarella, i banner nelle Case Comunali, l’aula nell’istituto Orientale a lui dedicata, la targa affissa nel Kobe Park, la collana di letteratura colombiana edita da Cafiero e Marotta, il murale di Mario ritratto da Jorit al liceo Vittorini, la copertina dedicata a Mario della rivista Confronti, le panchine arancioni di Latina e Ronchi dei Legionari”. I genitori di Paciolla visitano spesso associazioni e istituti scolastici italiani per parlare dell’impegno di Mario. “Molto è stato realizzato in collaborazione con il collettivo Giustizia per Mario Paciolla, con il comune di Napoli, con consorzi e associazioni locali, con il mondo del basket. La gente comune che ci ha dimostrato vicinanza e affetto”. L’impegno di Anna e Pino ricorda la storia dei movimenti latinoamericani di familiari di vittime di violazioni dei diritti umani. I loro sforzi per esigere verità e giustizia per il figlio aiutano a diffondere una cultura politica di pace e una coscienza civile di resistenza, mantenendo vivi, al contempo, gli ideali di solidarietà di Mario. Tunisia. La svolta xenofoba: dal modello solidale ai pogrom contro i migranti di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 15 luglio 2023 Nel 2011 accolse a braccia aperte 140 mila libici in fuga dalla guerra civile. Ora per la crisi economica il presidente-gendarme Saied si arma del razzismo sostenuto da Meloni e Ue. La Tunisia non è nuova all’emergenza profughi, ma ben diversa è l’accoglienza. Nel marzo del 2011 colonne interminabili di uomini (soprattutto maschi) in fuga dalla Libia dopo l’inizio degli scontri che misero fine al regime di Gheddafi attraversarono la frontiera con la Tunisia a Ras Jdir. Non erano profughi nel senso classico, non fuggivano da una guerra conclamata e nemmeno dalla fame, ma da scontri e saccheggi avevano messo a rischio la loro vita e soprattutto il posto di lavoro. Proprio un lavoro e ben retribuito questi profughi erano andati a cercare in un paese più ricco del loro. Già nei primi giorni si calcolavano in circa 140mila gli arrivi mentre altre decine di migliaia si accalcavano alla frontiera. L’ondata di profughi si riversava su una Tunisia fragile e debole che affrontava un’incerta transizione dopo la cacciata di Ben Alì. Eppure, dopo il primo momento di sorpresa, la reazione dei tunisini era stata straordinaria, avevano avuto uno slancio di solidarietà e generosità commovente. Lungo la strada mentre ci avvicinavamo al confine, si notava l’arrivo di tunisini con beni di prima necessità, soprattutto i panettieri con i loro furgoncini carichi di baguette. Naturalmente si sono subito attivate anche le agenzie internazionali oltre alle istituzioni tunisine, l’esercito aiutava a garantire il coordinamento e lo stoccaggio delle merci. Oltre ai tunisini che tornavano a casa, i profughi erano egiziani, indiani, vietnamiti, turchi, cinesi, nepalesi, thailandesi, bengalesi, ghanesi e sudanesi, soprattutto. A ridosso del confine c’erano anche etiopi ed eritrei che temevano, per il colore della pelle, di essere scambiati per mercenari assoldati da Gheddafi. Una grande differenza rispetto ai profughi di oggi è che coloro che fuggivano dalla Libia volevano ritornare nei loro paesi di origine e chiedevano ai rispettivi governi di inviare navi e aerei per il rimpatrio. Quindi, in gran parte, non erano profughi ma “transitanti”, così li definiva Samir Abdemoumen, del ministero della sanità tunisino, che si appellava alla comunità internazionale perché fornisse i mezzi per il rimpatrio. E questo era anche l’appello di tutti gli operatori del campo allestito a Chocha, dove si ammassavano le merci per i futuri arrivi. A Chocha sarebbero poi arrivati anche libici in cerca di asilo politico. Naturalmente la transitorietà dei profughi non rassicurava la Tunisia visto che la situazione in Libia stava precipitando e aveva anche provocato l’interruzione dell’arrivo di merci libiche vendute nell’immenso suq di Ben Guendane e della benzina commerciata in taniche lungo la strada. Intanto l’aeroporto di Djerba e il porto di Zarzis erano diventati bivacchi per gli espatriati dalla Libia in attesa di tornare a casa. Non solo. In quei giorni di mare calmo, sembrava una tavola blu, sulla spiaggia di Ogla, che dal porto di Zarzis si estende per chilometri, un gruppo di giovani scrutava l’orizzonte e soprattutto aspettava che si spostasse una nave da guerra tunisina. Era cominciata allora la partenza dei barconi per l’Italia, che avveniva alla luce del sole, di mattina o di sera, in un posto nemmeno tanto isolato, davanti a un gruppo di villette. Bastava versare mille dollari, lasciare un numero di cellulare e aspettare la chiamata per la traversata verso Lampedusa. All’inizio erano tunisini che preferivano non affrontare l’incertezza del dopo Ben Alì, mentre altri trovavano il loro riscatto nello zelo con cui accoglievano i profughi. Poi si sono aggiunti anche profughi provenienti dalla Libia che invece di aspettare il rimpatrio tentavano la traversata. Coloro che arrivavano dalla Libia in genere avevano soldi, se non erano stati derubati dai poliziotti libici. Cosa è cambiato da allora per alimentare nei tunisini, non in tutti per la verità, l’ostilità verso i profughi che arrivano dall’Africa subsahariana? Non il colore della pelle, non l’origine, forse l’incertezza per il futuro che però c’era anche nel 2011, ma allora si lottava per una Tunisia democratica. Certo, la delusione per una rivoluzione che non ha portato i risultati sperati, la pesante crisi economica, che alimenta inevitabilmente la guerra tra poveri, ma soprattutto il ritorno di un regime autoritario e dittatoriale. La xenofobia non nasce dal basso viene inculcata dal presidente della Repubblica Kais Saied che alimenta i suoi fallimenti assumendo tutti i poteri e creando nemici esterni, popoli del sud che fuggono dalla guerra, fame e povertà e cercano un futuro in Europa. Paradossalmente è proprio questo atteggiamento di gendarme dell’Africa che fa di Saied un interlocutore privilegiato della premier Meloni e dell’Ue, che con soldi e armi mirano a una nuova colonizzazione del continente africano. E il pressing su Saied, perché blocchi i migranti, continua domenica con la nuova visita a Tunisi di Giorgia Meloni con Ursula von der Leyen e Mark Rutte. Del resto il governo italiano può vantare di avere in comune con il premier tunisino lo spettro della “sostituzione etnica”. La guerra oltre le sbarre dei giornalisti russi di Jacopo Agostini Il Manifesto, 15 luglio 2023 La testimonianza di reporter resistenti che nella Russia di Putin non abbassano la testa. Con l’invasione dell’Ucraina ai giornalisti russi è vietato pronunciare la parola “guerra” e scrivere testi diversi dalla posizione ufficiale del governo. Ma non tutti si allineano ai diktat del potere. Sono oltre 250, infatti, i media indipendenti ai quali è stato bloccato il sito web, molti giornalisti sono stati dichiarati “agenti stranieri” e i giornali e le riviste per cui lavoravano etichettati come “indesiderabili”. In questo clima sono diverse le reazioni: in molti hanno abbandonato la Russia per aprire le loro redazioni in Lettonia, nei Paesi Bassi, in Georgia e in altri Paesi. Ci sono invece altri che hanno deciso di rimanere in Russia. Da ricordare che nel marzo del 2023 il reporter americano del Wall Street Journal Evan Gershkovich è stato arrestato dalle autorità con l’accusa di spionaggio. È la prima volta che un giornalista americano viene arrestato dai tempi della Guerra Fredda. Da sei anni viveva in Russia, nell’ultimo si era occupato della guerra in Ucraina. Ne parliamo con alcuni giornalisti di Proect, Dozhd, Important Stories che ci descrivono la loro vita, il loro lavoro e la censura nel paese. “Non so come reagirei se qualcuno mi rubasse delle informazioni e minacciasse di fare male alla mia famiglia” - Yulia Lukyanova sognava di diventare giornalista dalla seconda media. All’epoca pensava che avrebbe scritto di Mosca, sua città natale, e che non si sarebbe mai occupata di giornalismo politico. Invece sei anni dopo è entrata a far parte di Proect, un media indipendente specializzato in giornalismo d’inchiesta. “Ad ispirarmi è stato nel 2016 il Panama gate. Ho frequentato tutti i seminari di giornalismo investigativo che erano a disposizione. Quando mi sono laureata alla scuola di giornalismo, ero decisa a continuare su questa strada” spiega. Proect si occupa soprattutto di questioni sociali, del sistema educativo, di quello sanitario e del sistema politico russo. Quando i suoi colleghi hanno iniziato a investigare su alcuni alti funzionari russi, un giorno alcuni di loro si sono visti arrivare la polizia a casa, sono stati sottoposti a fermo e in seguito rilasciati. È stata una svolta. Nel 2012 la Russia approva una legge sugli agenti stranieri: istituisce un registro dove inizialmente entrano le organizzazioni no profit e, dal 2017, i media. Alla fine del 2020, alla lista vengono aggiunti i singoli individui. Le persone e le organizzazioni che vi vengono inserite devono dichiarare più volte all’anno le loro entrate, sottoporsi a verifiche e accompagnare tutti i messaggi di testo, video e post sui social media con una didascalia che attesti che sono agenti stranieri. Nel 2015 viene poi approvata una legge sulle organizzazioni indesiderabili. L’obiettivo è controllare le attività che possono rappresentare una minaccia per le fondamenta e la sicurezza del sistema costituzionale russo. A queste organizzazioni è impedito di operare in Russia, pena sanzioni amministrative e penali. Lo status di “organizzazione indesiderabile” criminalizza qualsiasi repost, link di routine e soprattutto le donazioni. Una legge criticata per il suo obiettivo: reprimere l’attivismo civico in Russia e isolarlo dai suoi partner internazionali. Il 15 luglio 2021 Proect entra nella lista come “organizzazione indesiderabile”, il governo nega di fatto al sito di operare nel paese e vieta a qualsiasi russo di collaborarvi. È stato il primo media a venire etichettato in questo modo. Yulia Lukyanova, insieme ad altri giornalisti della testata Proect, viene inserita nella lista degli agenti stranieri. In risposta la giornalista si dimette e, tre settimane dopo, lascia la Russia per timore di essere interrogata dalla polizia. “Nessuno dei miei colleghi sapeva in quel momento cosa sarebbe successo con i giornalisti di un’organizzazione indesiderabile poiché eravamo i primi ad essere colpiti da un tale provvedimento. Potevamo andare incontro a un interrogatorio, e non so come avrei reagito se mi avessero estorto delle informazioni minacciando di fare del male ai miei famigliari” confessa. Maria Borzunova invece collabora col canale televisivo Dozhd che nel gennaio del 2014 lancia un sondaggio in diretta col quale si chiedeva “Leningrado avrebbe dovuto arrendersi per salvare centinaia di migliaia di vite?”. La domanda fece scandalo in Russia e tutti gli operatori via cavo e via satellite eliminarono Dozhd dalle loro reti. Già a marzo, il proprietario degli stabilimenti televisivi si era rifiutato di rinnovare il contratto di locazione con il canale. A Maria non sembrava giusto. A suo parerei il sondaggio in diretta era stato utilizzato come pretesto per distruggere il canale televisivo che stava seguendo le proteste in Russia e gli eventi in Ucraina. “La repressione del giornalismo indipendente è stata sistematica. Siamo stati periodicamente sottoposti a ispezioni senza preavviso, a minacce da parte del “Roskomnadzor” (l’Agenzia esecutiva federale russa responsabile del monitoraggio, del controllo e della censura dei mass media) e durante una delle nostre trasmissioni la polizia è venuta a interromperci e a interrogarci” racconta. Nell’agosto 2021 il Ministero della Giustizia ha inserito Dozhd nel registro degli “agenti stranieri” e nel marzo 2022 “Roskomnadzor” ne ha bloccato il sito web. Con la guerra in Ucraina, come ha scritto Agentstvo, almeno 150 giornalisti hanno lasciato la Russia. Ora Maria gestisce un proprio canale personale. Il 5 marzo, la Procura generale ha dichiarato anche la testata Important Stories “organizzazione indesiderabile”. La giornalista Alesya Marokhovskaya che vi lavorava dal 2020 è stata inserita nel registro degli agenti stranieri. “Quando ero a Mosca, ho rispettato la legge sugli agenti stranieri: ho affisso cartelli, ho inviato rapporti, ho cercato di seguire le regole per rimanere in Russia il più possibile e fare il mio lavoro. Dopo che il nostro giornale è stato dichiarato indesiderabile, ho mandato tutti a quel paese e ho deciso che non avrei più fatto questi giochetti”, dichiara. Alesya ha lasciato la Russia il 1° marzo, in contemporanea il caporedattore di Important Stories è stato avvisato che la presenza di agenti stranieri in Russia non era raccomandabile. Maria Borzunova invece è fuggita il giorno successivo, per timore del carcere che spetta ai giornalisti che “oltrepassano il limite”. Con un’altra legge, varata il 4 marzo 2022, la Duma di Stato prevede sanzioni penali e multe salate per chi diffonde informazioni consapevolmente false sull’esercito russo. In Russia è quindi vietato scrivere dell’uccisione di civili, del bombardamento di obiettivi civili in Ucraina e della morte dei militari russi. La violazione della legge prevede fino a 15 anni di carcere: diverse decine di persone stanno già scontando la pena. Gli imputati hanno ripetutamente denunciato torture, violenze, minacce, pressioni e maltrattamenti da parte delle forze di sicurezza. Nello stesso giorno, la Duma ha anche vietato il discredito delle Forze Armate. Per la prima violazione è prevista la responsabilità amministrativa, per la reiterazione la responsabilità penale. In particolare, i tribunali stanno multando le persone che chiamano “guerra” la guerra in Ucraina piuttosto che “un’operazione militare speciale”, coloro che mettono like sui social network a post e commenti. Per questo sono già stati avviati almeno 5.846 procedimenti amministrativi e 49 penali. In totale, almeno 34 giornalisti sono stati coinvolti nel “caso antiguerra”. Ad esempio, la giornalista Maria Ponomarenko è stata condannata a sei anni di carcere per il suo post sulla distruzione del Teatro Drammatico di Mariupol. “Prima ancora che venissero approvate le leggi sul discredito e sui falsi, girava voce che ci sarebbe stato un articolo che prevedeva il carcere per tutti i giornalisti che coprono gli eventi in modo obiettivo. In molti hanno tentato di fuggire prima dell’approvazione di questa legge. Solo ora ripensandoci ho capito che per le autorità era importante spingere tutti i giornalisti indipendenti fuori dalla Russia nella prima settimana”, sottolinea Borzunova. 639 persone, organizzazioni no-profit e non governative sono state aggiunte al registro degli agenti stranieri - metà delle quali dall’inizio della guerra di Ucraina. Nuovi agenti vengono aggiunti ogni venerdì e sono 94 le organizzazioni e i media inseriti nella lista delle organizzazioni indesiderate, un terzo delle quali dall’invasione russa in Ucraina. Nonostante la difficoltà, molti giornalisti anziché fuggire scelgono di rimanere in Russia. Vasily Romensky è uno di loro. Negli ultimi sei anni ha lavorato col canale televisivo Dozhd. “Ho capito che un gran numero di russi non vuole e non può lasciare la Russia: sono nati qui, non hanno soldi, non conoscono le lingue straniere. Con la mia presenza, lancio loro un barlume di speranza, anche se per me è difficile rimanere” sottolinea. Per lui il 24 febbraio 2022 non ha cambiato nulla nella vita dei reporter russi. “Le leggi sulla censura esistevano già, solo che prima di tale data non erano destinate a chiunque, ma nei confronti di chi, ad esempio, scriveva di terrorismo e contro il Ministero della Difesa” aggiunge. Yulia Lukyanova, Alesya Marokhovskaya e Maria Borzunova sognano di tornare in Russia ma solo dopo che nel paese verrà abolita la censura. Yulia è certa che la dittatura cadrà solo con la morte di Vladimir Putin e spera di poter scrivere il reportage del suo funerale. Vasiliy Romenskiy è sicuro che in Russia ci sono e ci saranno sempre giornalisti che proseguiranno il loro lavoro. Allo stesso tempo, però, ammette la possibilità di dover partire nel caso in cui corra il pericolo reale di finire in prigione: “Voglio evitarla, perché mi sarebbe impossibile lavorare dal carcere” l’amara conclusione.