L’argine del Colle alle menzogne di questa politica di Donatella Stasio La Stampa, 14 luglio 2023 Nel saggio “Verità e politica”, Hannah Arendt scrive che la sincerità non è annoverata tra le virtù politiche mentre “le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico ma anche dello statista”. Fortunatamente i fatti hanno una loro ostinatezza e talvolta si impongono anche attraverso gesti. Come l’incontro di mercoledì al Quirinale tra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e i vertici della magistratura italiana: quel gesto ha fatto giustizia - è il caso di dire - delle menzogne politiche sulla magistratura accreditate per giorni e giorni, con tanto di comunicati stampa, da “fonti” anonime di Palazzo Chigi e del ministero della Giustizia, e successivamente rivendicate dalla premier nella conferenza stampa a Vilnius. Forse Giorgia Meloni era stata male informata dai suoi consiglieri giuridici, ingannata a sua volta sui fatti; certo è che ha contribuito ad amplificare ulteriormente l’ingannevole rappresentazione di un complotto della magistratura ai danni del centrodestra in vista del voto europeo del 2024. Quanto più una menzogna politica è amplificata, tanto più chi ne è l’artefice finisce per credere che sia vera; ma attenzione, avverte la Arendt, “l’ingannatore che inganna sé stesso perde ogni contatto non solo con il proprio pubblico ma anche con il mondo reale” e finisce per “fare scelte più (auto)distruttive, adottare le politiche più assurde, pur non avendo deliberatamente progettato un piano di distruzione”. Perciò è auspicabile che nell’incontro di ieri, Mattarella abbia riportato la premier alla realtà dei fatti. Distruzione non è parola grossa se pensiamo che in gioco c’è lo stato costituzionale di diritto, di cui la magistratura autonoma e indipendente è un pilastro. Se un attacco c’è stato, è stato “alla” magistratura, e non “della” magistratura, che nelle vicende Santanchè e Delmastro ha agito correttamente, in base alla legge e alla fisiologia del processo penale. Questi sono i fatti. E il gesto di Mattarella è servito anzitutto a rimetterli in ordine. Partendo da qui si comprende meglio la vicinanza espressa dal presidente ai magistrati, di cui hanno dato conto i giornali, ma si coglie anche un altro aspetto di quel gesto fortemente simbolico, quasi un argine istituzionale doveroso, per il garante della Repubblica e della Costituzione, contro il tentativo di delegittimare la magistratura con la menzogna politica. Da settimane, mesi, una certa narrazione politico-istituzionale-mediatica manipola i fatti, descrive come anomale alcune iniziative giudiziarie e inveisce contro l’Associazione nazionale magistrati che da sempre partecipa al dibattito pubblico sulle riforme della giustizia. Come una palla di neve, questa narrazione rischia di diventare valanga e di travolgere i principi dello stato di diritto. Mattarella fa da barriera a questo tentativo sciagurato di devastazione delle istituzioni, frutto di ignoranza e/o di pregiudizio ideologico. Meloni non è una giurista ma una politica navigata circondata da giuristi, a cominciare dai suoi due ascoltatissimi sottosegretari, Giovanbattista Fazzolari e Alfredo Mantovano, quest’ultimo magistrato ma con una lunga storia politica nelle file di Alleanza nazionale e poi di Fratelli d’Italia (per inciso, e a proposito di fatti, ci sarebbe da interrogarsi anche sulla narrazione secondo cui le toghe politicizzate sono sempre e solo quelle “rosse” mentre nulla si dice di chi milita in ben altre aree politiche…). Né Fazzolari né Mantovano, evidentemente, hanno consigliato prudenza alla premier nelle sue esternazioni né tanto meno l’hanno messa in condizione di conoscere i fatti, così come li ha doverosamente ricostruiti Mattarella e anche gran parte della stampa nazionale (si veda il puntuale articolo di ieri su questo giornale di Paolo Colonnello). Così facendo l’hanno esposta al grottesco, come grottesca, e gravissima nelle sue implicazioni istituzionali, era stata la comunicazione delle “fonti” di palazzo Chigi e di via Arenula contro i magistrati. Tra l’altro, l’imputazione coatta nei confronti del sottosegretario Delmastro ha rivelato (se mai ce ne fosse ancora bisogno) un altro fatto, e cioè quanto siano già “separati” giudici e pubblici ministeri, autonomi l’uno dalle valutazioni dell’altro. Non dei burocrati, dai quali Dio ce ne scampi, ma interpreti della legge, della cui applicazione sono chiamati a rispondere. Potere di controllo - come la stampa - non certo incontrollato. L’inclinazione a trascurare il dato di fatto, e a “fabbricare la verità”, sostituendo, attraverso la menzogna sistematica, un vero e proprio mondo fittizio a quello reale è, spiega Hannah Arendt, una caratteristica dei totalitarismi. Emblematica è infatti la riscrittura della storia che quei regimi hanno fatto. Naturalmente la nostra democrazia, per quanto fragile, non teme questa deriva e tuttavia lo scontro tra verità e politica, che dal ventennio berlusconiano ad oggi si ripropone, non può farci sottovalutare i rischi della menzogna politica. Forse la verità non sarà mai una virtù politica. Forse, come dice la Arendt, i fatti sgraditi possiedono un’esasperante ostinatezza che può essere scossa soltanto dalle pure e semplici menzogne. Ma il gesto di Mattarella dimostra che fare argine si può e si deve. Occorre un costume, istituzionale, culturale, sociale, orientato al massimo rispetto dei valori di una democrazia costituzionale. In Europa e nel mondo - non ci stanchiamo di ripeterlo - alcune maggioranze politiche insofferenti ai controlli sul proprio operato cercano di svuotare i poteri che quei controlli esercitano, trasformando le democrazie in autocrazie. Perciò tutti abbiamo il dovere di arginare la menzogna politica, per affermare, là dove è possibile e pur con tutti i suoi limiti, la verità dei fatti. Sui pm altolà di Mattarella a Meloni. La guerra sulla giustizia deve finire di Daniela Preziosi Il Domani, 14 luglio 2023 Un’ora di incontro tra il presidente della Repubblica e la premier, dopo il Consiglio supremo di difesa. Si è parlato delle questioni internazionali e del conflitto. Ma anche dello scontro con la magistratura. La comunicazione di palazzo è blindata. Ma Mattarella spera in toni più concilianti da parte del governo. Firmerà la riforma e la manderà all’esame del parlamento. Del resto il testo cambierà, come annuncia Nordio. Attenzione alle critiche che vengono dall’Europa: potrebbero impattare sul Pnrr. Gli uomini del presidente blindano i contenuti del colloquio fra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni al Quirinale. Filtra pochissimo: è iniziato alle 18 e 50 allo studio alla Vetrata, è durato un’ora scarsa. Toni cordiali, ma è un’annotazione di rito. Si è svolto alla fine di un Consiglio Supremo di difesa che ha confermato la posizione italiana, già portata al vertice di Vilnius, della necessità “di una forte iniziativa per richiamare l’attenzione dell’Ue e della Nato sull’Africa”. L’Italia è il principale paese d’approdo dei flussi migratori della rotta del Mediterraneo centrale, per lo più dalle coste libiche e tunisine, e nei primi mesi del 2023 c’è stato “un picco” di arrivi rispetto al quale il governo della destra ha scoperto, dopo gli anni della propaganda, di non poter fare nulla da solo. Ma dell’incontro riservatissimo fra il presidente e la premier Meloni l’oggetto è difficile da ricostruire. In queste ore si attende la firma del Colle sul ddl giustizia. Arriverà presto, forse già in settimana. Eppure per valutare la delicatezza del confronto bastano già le premesse. E il contesto: gli scontri fra governo e opposizione, gli attacchi alla stampa, in corso da una settimana e proseguiti ancora giovedì al senato con l’ennesima richiesta delle dimissioni della ministra Santanchè. Per esempio basta il fatto che l’invito era filtrato già il giorno prima, a differenza dei precedenti e della proverbiale discrezione del presidente della Repubblica. Nei giorni delle polemiche sui casi Santanché, Delmastro e La Russa, i corridoi del Colle sono rimasti silenziosi. Eppure lassù è innegabile la preoccupazione per i toni ruvidi fra governo e magistrati innescati, nella fase recente, con i comunicati anonimi di palazzo Chigi e di via Arenula del 5 luglio. Altro indizio, la convocazione a sorpresa, mercoledì sera, dei vertici della Cassazione, poco dopo la conferenza stampa di Giorgia Meloni a Vilnius. Nella lingua dei segni quirinalizi, esprime la solidarietà con i magistrati sotto attacco: prima anonimo, appunto, con le note di palazzo, poi rivendicato, nella conferenza della premier e in un’intervista a Libero del ministro Nordio (in cui ha detto, fra l’altro: “La politica si è chinata davanti alle critiche della magistratura”). Nessun dubbio che il presidente firmerà la riforma sulla giustizia. Del resto non si tratta di un decreto, e l’unico ddl che Mattarella non ha firmato è stato nel 2017: introduceva misure contro il finanziamento delle imprese delle mine a grappolo ma, per un errore materiale, si poneva “in contrasto con le convenzioni di Oslo e di Ottawa”. L’esempio è utile a ricordare che il presidente è per Costituzione il garante dei trattati internazionali. E il testo della riforma è già sotto osservazione della Commissione Europea, che nel suo ultimo Rapporto sullo stato di diritto ha segnalato che in Italia “è stata presentata una proposta di legge che mira ad abrogare il reato di abuso di ufficio pubblico e a limitare la portata del reato di traffico di influenze: queste modifiche depenalizzerebbero importanti forme di corruzione e potrebbero compromettere l’efficace individuazione e lotta alla corruzione”. La Commissione ci guarda, dunque. E Mattarella deve vigilare. Una mossa falsa potrebbe ulteriormente rallentare la già lenta e travagliata attuazione del Pnrr. Il testo sarà emendato. Il Guardasigilli stesso ha annunciato modifiche al funzionamento dell’avviso di garanzia, con riferimento al caso Santanchè, e dell’imputazione coatta, con riferimento a quello del sottosegretario Delmastro. Quest’ultimo episodio, per il ministro, “dimostra l’irrazionalità del nostro sistema”. Eppure, al contrario, la possibilità dell’imputazione coatta è precisamente l’espressione dell’indipendenza del giudice dal pm. Insomma dal governo arrivano segnali contraddittori. Così come dalla conferenza della premier a Vilnius, in cui da una parte negava l’intenzione di guerra ai magistrati ma dall’altra annunciava che comunque avrebbe tirato dritto. Qual è la vera intenzione di Meloni: abbassare i toni, e farli abbassare ai suoi facinorosi, procedere confrontandosi e ascoltando le voci istituzionali; oppure andare avanti a strappi, con il rischio che, allora sì, il testo venga rinviato alle camere? Sta qui il cuore del confronto fra il presidente e la presidente. Le opinioni del primo si conoscono dai suoi discorsi ufficiali. Il prossimo 28 luglio sarà a Palermo alla commemorazione del giudice Rocco Chinnici, ucciso dalla mafia. Possibile che in questa occasione possa dire qualche parola su cui il governo potrà, se vuole, meditare. Difficilissimo invece che giovedì si sia parlato del caso La Russa: si tratta di un fatto personale della seconda carica dello Stato, in cui il presidente della Repubblica non ha alcun motivo di entrare. Il che ha però un risvolto: la responsabilità degli sviluppi di questa vicenda ricade per intero sulle spalle della premier. Il Colle frena Meloni: lotta alla criminalità, non si può arretrare di Andrea Colombo Il Manifesto, 14 luglio 2023 Colloquio “ad ampio raggio” dopo il vertice Nato a Vilnius, il capo dello Stato è preoccupato per lo scontro tra il governo e le toghe. Nella riunione del Consiglio supremo di difesa, sul Colle, l’argomento è l’esito del vertice Nato a Vilnius. Quando i due più autorevoli partecipanti, i presidenti della Repubblica e del Consiglio, si appartano per un colloquio “costruttivo e ad ampio raggio”, come filtra dal Quirinale. Sul tavolo finisce però giocoforza anche la giustizia. Non solo e forse neppure come argomento principale: il 27 luglio è in programma la visita della premier a Washington e per quanto manchino ancora due settimane non c’è argomento più centrale di quello. Che Mattarella sia preoccupato per la tempesta che si è addensata sulla giustizia è evidente: mercoledì era stato il Quirinale stesso a far capire che l’incontro del capo dello Stato con i vertici della Cassazione aveva un significato simbolico che andava molto oltre l’ordinario, era cioè una manifestazione di solidarietà con la magistratura, e ad anticipare il colloquio di oggi con Giorgia Meloni, che è durato oltre un’ora. Segno chiaro che il capo dello Stato ritiene urgente che i toni si abbassino da tutte le parti e che il nuovo scontro tra politica e magistratura venga sedato sul nascere. “È interesse di tutti, anche dello stesso governo”, dicono senza perifrasi dal Quirinale. La preoccupazione del presidente non riguarda solo i rapporti tra poteri dello Stato, capitolo già delicatissimo, ma anche quelli con l’Europa e in un momento come questo, con il Pnrr al palo e la riscrittura del Patto di stabilità dietro l’angolo, la faccenda è altrettanto delicata. Per l’Europa non abbassare di un millimetro la guardia nel contrasto a criminalità e corruzione è imperativo e lo è tanto più con i miliardi del Pnrr di mezzo. Nel ddl giustizia l’abolizione secca dell’abuso d’ufficio rischia di confliggere anche formalmente con le norme europee. La cancellazione del traffico di influenze non pone problemi formali, ma è un segnale che Bruxelles potrebbe prendere male. La rimodulazione del concorso esterno annunciata dal guardasigilli Nordio e smentito dal sottosegretario Mantovano sarebbe ben peggio: per l’Europa sarebbe un segno evidente di cedimento nel contrasto alla criminalità. Uno degli obiettivi che il presidente si proponeva di raggiungere con il colloquio di ieri era proprio capire se il governo intende davvero procedere su quella via. I contenuti del faccia a faccia con Meloni sono ovviamente coperti dalla doverosa discrezione, ma ci si può immaginare facilmente la posizione della premier sulla base di quanto affermato dal sottosegretario a lei più vicino, Alfredo Mantovano: “Modificare il concorso esterno in associazione mafiosa non è un tema in discussione, il governo non farà alcun passo indietro nella lotta alla criminalità organizzata. Ci sono altre priorità”. Capitolo chiuso e rimodulazione affondata con piena soddisfazione del capo dello Stato. Sul ddl giustizia, quello con l’abolizione dell’abuso d’ufficio in attesa di firma presidenziale, la situazione è più sfumata. Che al presidente il testo non piaccia affatto è il segreto di Pulcinella, ma al momento non intende intervenire, neppure solo con rilievi espliciti o con dichiarazioni allusive. L’ipotesi di negare la firma, poi, è pura fantapolitica. Non avrebbe senso con una legge che deve ancora passare al vaglio del Parlamento e che dunque può essere modificata e probabilmente lo sarà. Di certo però Mattarella si sta spendendo per spingere il governo ad accettare alcune modifiche, tramite emendamenti, sia per rassicurare l’Europa, sia anche come segnale di disponibilità e di conseguenza di pacificazione. Sulla posta più grossa in gioco, la separazione delle carriere, è escluso che il capo dello Stato discuta oggi un progetto che al momento non esiste. L’importante è calmare le acque e rendere così automaticamente più difficile l’eventuale decisione di scatenare una guerra totale contro la magistratura. Se non ci saranno dichiarazioni esplicite è però probabile che nei prossimi giorni Mattarella, complice anche l’anniversario della strage di via D’Amelio, trovi modo di dire chiaramente che contro la criminalità non si deve muovere neppure un passettino indietro e chi deve capire capirà. Mafia e concorso esterno, il governo scarica Nordio di Mario Di Vito Il Manifesto, 14 luglio 2023 Retromarcia di Mantovano dopo le accuse di Maria Falcone. Insorge anche il fratello di Borsellino. Libera: va difeso da attacchi strumentali e interessati. La riforma della giustizia del governo Meloni si arricchisce ogni giorno di nuove suggestioni. Prima si parla di intercettazioni, poi di avvisi di garanzia, dopo ancora di imputazione coatta. Adesso è il turno del concorso esterno in associazione mafiosa, anche se, ancora una volta, la supposta necessità di rivedere, riformulare, cancellare, trasformare è qualcosa più di una battuta. Da quando lunedì è uscita una sua intervista su Libero il ministro della Giustizia Carlo Nordio spiega e argomenta: “il concorso esterno è un reato evanescente” che andrebbe “completamente rimodulato secondo i criteri di concorso di persona nel reato”, ha detto al quotidiano diretto da Alessandro Sallusti. A seguire, mercoledì sera, alla festa meloniana “Piazza Italia” a Roma, tutto d’un fiato: “Il concorso esterno non esiste come reato, è una creazione giurisprudenziale. Cioè la Cassazione, i giudici, hanno inventato questa formula abbastanza evanescente, che a rigore di logica, vorrei dire popperiana, è un ossimoro”. Questo perché, a suo dire, “se sei concorrente non sei esterno, e se sei esterno non sei concorrente. Noi non vogliamo eliminare, noi sappiamo benissimo che si può essere mafiosi all’interno dell’organizzazione e si può essere favoreggiatori all’esterno dell’organizzazione, ma allora va rimodulato completamente il reato, che in questo momento non esiste né come tassatività né come specificità perché non è nel codice”. La prima parte della frase è in evidente contraddizione con la seconda, e comunque non si capisce bene in cosa consisterebbe questa rimodulazione totale, fatto sta che questa insistenza del ministro da sola è bastata per riaprire le dighe di una polemica ormai storica sul punto. Su tutte a far rumore è la voce di Maria Falcone, sorella del giudice ucciso a Capaci: “La considero un’offesa gravissima perché ricordo bene il grande lavoro di Giovanni per arrivare a questo primo passo importantissimo per poter indagare sui fatti di mafia”. Segue a ruota anche Salvatore Borsellino, che pure vede nell’uscita di Nordio un tradimento di suo fratello Paolo e ricorda come alle sentenze di condanna per Marcello Dell’Utri e Antonino D’Alì si sia arrivati proprio in virtù del concorso esterno, reato che, conclude Falcone, “resta fondamentale per colpire i colletti bianchi che colludono con l’organizzazione mafiosa”. Critica verso Nordio anche l’associazione Libera, secondo cui “è necessario difendere il concorso esterno dagli attacchi interessati e strumentali che periodicamente si manifestano e oggi si ripropongono, con l’obiettivo di dimezzare l’antimafia circoscrivendola all’ala militare dell’organizzazione criminale e tenendo fuori i “colletti bianchi” complici o collusi”. Va detto che Nordio non è nuovo a uscite spericolate, considerazioni gratuite e retromarce clamorose (vedi il 41 bis, definito “tomba per vivi” nel 2019 e pochi mesi fa, durante il caso Cospito, difeso a spada tratta come se fosse un architrave dello stato di diritto). Di questo carattere “evanescente” (parola di Pietro Grasso) devono esserne consapevoli anche dalle parti del governo, e infatti il sottosegretario Alfredo Mantovano liquida la questione con una battuta che certo non denota grande considerazione per il ministro: “Io affronterei i problemi determinanti della giurisprudenza dell’oggi, nella direzione di rendere più chiara e incontrovertibile la materia del contrasto alla criminalità mafiosa. Non riaprirei altri discorsi, sul concorso esterno la giurisprudenza è consolidata”. Intanto, in commissione antimafia, il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia ha difeso il concorso esterno, “che esiste dal 1930”, in quanto “strumento molto utile”. “Quindi possiamo rivisitare la sua area di applicazione - ha aggiunto - ma solo individuando delle fattispecie ulteriormente tipizzate dal punto di vista della legge penale. Immaginare altre forme di riesame del concorso esterno o abolizione dell’istituto tout court mi pare davvero difficile”. Stesso discorso per le intercettazioni (salvo quelle a strascico, definite da De Lucia “deleterie”) e per l’abolizione dell’abuso d’ufficio, l’elemento più concreto sin qui prodotto da quando Nordio è in via Arenula: “Al di là dei vincoli europei, si crea un vulnus a un sistema. Le nostre perplessità sull’abolizione dell’abuso d’ufficio sono molto forti”. Al di là delle interviste e delle feste di partito in cui il ministro della Giustizia si abbandona a battute e discorsi assai superficiali sulle idee più strampalate, quello che davvero preoccupa i magistrati è il tema della separazione delle carriere. Giorgia Meloni, anche da Vilnius, ha ribadito come la cosa sia “uno degli obiettivi della legislatura”. Non se ne parla per adesso, dunque, ma se ne parlerà prima o poi. E a quel punto la guerra tra governo e giudici scoppierà per davvero. Il dialogo impossibile tra Governo e magistrati di Paolo Pandolfini Il Riformista, 14 luglio 2023 Dopo otto mesi la riforma di Nordio è nella palude degli emendamenti. “Siamo disponibili a collaborare”. È questo, in estrema sintesi, il messaggio lanciato ieri dai vertici dell’Associazione nazionale magistrati a Giorgia Meloni. Con due distinte interviste, la prima sulla Stampa e la seconda sul Corriere, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ed il segretario nazionale Salvatore Casciaro, hanno voluto tendere la mano alla premier, dichiarandosi pronti per discutere un programma condiviso di riforme in materia di giustizia. Il ghiaccio era stato rotto il giorno prima proprio da Meloni che, nella conferenza stampa al termine del vertice Nato di Vilnius, aveva affermato che “non c’è alcuno scontro tra governo e magistratura”, sottolineando poi di essere rimasta sorpresa che l’Anm avesse interpretato in modo “apocalittico” il suo programma di governo in tema di giustizia. “Nessun intento punitivo, ma solo più efficienza alla magistratura per garantirne la terzietà”, aveva aggiunto, ricordando di essere solo “limitata a prendere atto di quelle che sono anomalie”. Meloni aveva trovato il tempo per dare una ‘stoccata’ ad Ignazio La Russa che aveva commentato quanto accaduto al figlio Apache: “Comprendo bene da madre - ha dichiarato Meloni - la sofferenza del presidente del Senato, anche se non sarei intervenuta nella vicenda”. “Colgo nelle parole della premier spunti incoraggianti di dialogo”, ha quindi commentato ieri il giudice di Cassazione Santalucia, esponente del raggruppamento progressista della magistratura. “Apprezzo che dica di non volere uno scontro con la magistratura e di voler fare le riforme non contro di noi ma con il nostro contribuito”, ha aggiunto Santalucia, evidenziando da parte della premier il “riconoscimento della legittimazione dell’Anm a intervenire nel dibattito pubblico come interlocutore qualificato. Cosa che era stata negata”. Come si ricorderà, nelle scorse settimane, era stato il ministro Carlo Nordio ad affermare che il suo interlocutore ‘unico’ in materia di giustizia era il Consiglio superiore della magistratura e non l’Anm. “Continuamente chiediamo riforme per velocizzare i processi”, è stato, invece, il commento di Casciaro, sostituto procuratore generale in Cassazione ed esponente di Magistratura indipendente, il gruppo conservatore delle toghe. Gli animi si erano surriscaldati dopo che erano stati diffusi dei comunicati ‘anonimi’, attribuiti ad imprecisate fonti di Palazzo Chigi e via Arenula, molti duri nei confronti delle ultime iniziative prese dalla magistratura contro esponenti della maggioranza. “Le ferite restano profonde perché con una nota anonima si è accusata la magistratura di collusione sovversiva con una fazione politica”, ha allora voluto rimarcare Santalucia. Rasserenati gli animi, la ‘road map’ del Ministero in tema di riforme della giustizia è totalmente differente da quella dell’Anm. Di fatto, non c’è alcun punto in comune fra l’agenda di Nordio e quella del sindacato delle toghe. È questo, certamente, non aiuta. L’elenco degli elementi di contrasto è lunghissimo. Ad esempio, partendo proprio dal recente caso del sottosegretario Andrea Delmastro, con l’imputazione coatta da parte del gip, dopo la richiesta di archiviazione del pm. Nordio vuole abolirla, l’Anm no. Toglierla significherebbe “abolire l’azione penale obbligatoria che è presidio di legalità e uguaglianza”, dicono però le toghe. Nordio vuole abolire l’abuso d’ufficio? L’Anm è convinta che il reato vada mantenuto e che nella sua ultima formulazione, quella del 2020, i problemi interpretativi siano stati tutti risolti. Il procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato, sul punto, ha affermato che con l’interpretazione giurisprudenziale anche le residue ‘criticità’ saranno tutte presto risolte. Nordio vuole riaprire i tribunali che erano stati chiusi durante il governo Monti? Per l’Anm sono già troppi quelli attuali e molti andrebbero, anzi, accorpati. E poi le intercettazioni telefoniche: nessun abuso, come dice sempre Nordio, la legge in vigore voluta dal suo predecessore Andrea Orlando ha messo ordine e non c’è bisogno di altri interventi, fanno sapere dall’Anm. Lo stesso dicasi per il traffico d’influenze, reato che Nordio vuole modificare in senso restrittivo anche se i magistrati affermano che potrebbero esserci problemi con l’Europa se passasse tale orientamento. Il dato di fondo, comunque, è che a distanza di otto mesi dall’insediamento del governo, il Guardasigilli non ha ancora inciso in maniera significativa in un settore quanto mai delicato come quello della giustizia. Adesso, dopo il via libera del Consiglio dei ministri al dl di riforma Nordio, bollinato dal Mef, il testo, dieci articoli, sarà incardinato al Senato. I tempi della discussione, affermano tutti i commentatori, si preannunciano lunghi. Sfumata l’approvazione entro l’estate, se ne riparlerà - forse - in autunno. Sono già pronti, a tal riguardo, numerosi emendamenti sia dalla maggioranza che dall’opposizione che potrebbero anche stravolgere in radice l’impianto voluto da Nordio. Non resta che attendere gli eventi. Mantovano frena Nordio, la guerra con i magistrati fa solo perdere tempo di Claudia Fusani Il Riformista, 14 luglio 2023 Palazzo Chigi raffredda le tensioni sulla riforma della giustizia. Il Quirinale non nasconde l’irritazione per le scivolate di La Russa e per l’atipica nota stampa bollinata dal governo. L’ultimo getto d’acqua gelata l’ha dovuto lanciare ieri pomeriggio. Mentre tornava in un ufficio a palazzo Chigi dalla pausa pranzo ha trovato i giornalisti sotto al portone ed ha acceso l’idrante direttamente sulla scrivania del ministro della Giustizia, il suo collega Carlo Nordio. Rivedere il reato di concorso esterno in associazione mafiosa? “Io affronterei i problemi determinati dalla giurisprudenza dell’oggi” ha precisato il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Alfredo Mantovano e “andrei, invece, nella direzione di rendere sempre più chiara e incontrovertibile la materia del contrasto alla criminalità mafiosa. Eviterei, insomma, di aprire altri discorsi”. Punto, fine. Finisce così la fuga in avanti del ministro Guardasigilli che parlando a “Piazza Italia”, la festa politica di Fratelli d’Italia, aveva acceso un altro incendio nel territorio periglioso della giustizia. Non è chiaro se Alfredo Mantovano - che prima di essere chiamato a palazzo Chigi era giudice in Cassazione - fosse a conoscenza o avesse letto o magari anche scritto l’ormai famosa “nota di fonti di palazzo Chigi” che ha scatenato il nuovo conflitto con le toghe. Una cosa è certa: dal 7 luglio il sottosegretario ha indossato gli scomodi ma anche nobili panni del pompiere. Quello che lima, corregge, suggerisce marce indietro anche se poi non vengono così bene come quella tentata dalla premier Meloni nella conferenza stampa di Vilnius. Il Presidente della Repubblica e il sottosegretario alla Presidenza, Sergio Mattarella e Alfredo Mantovano: per questioni generazionali oltre che per formazione giuridica, i due hanno l’obiettivo di disinnescare, prima che scappi di mano, la riedizione non prevista del decennale scontro politica-magistratura. Mattarella era in America Latina la scorsa settimana quando è scoppiato il triplo putiferio Santanchè-Delmastro-La Russa, mentre la ministra giurava in aula di non essere indagata e invece lo è per falso in bilancio e bancarotta, mentre un gip decideva legittimamente che il sottosegretario alla Giustizia che è anche avvocato penalista non poteva non rendersi conto della gravità di aver reso pubblici atti riservati del Dap sulla vicenda Cospito e mentre il Presidente del Senato assolveva il figlio Leonardo dalla denuncia per violenza sessuale “perché la ragazza era drogata, consenziente e anche in ritardo nella denuncia”. Il Capo dello Stato era in missione all’estero mentre “fonti di palazzo Chigi” vergavano la nota che accusa “certa magistratura di fare politica e di aver iniziato la campagna elettorale per l’Europee” e di farlo “per impedire le riforme che noi faremo perché sono nel programma”. Roba da fa tremare i polsi a qualunque giurista. Al netto di un presunto sospetto tempismo di alcune toghe (i tre fatti sono in realtà scollegati uno dall’altro), non esiste che palazzo Chigi faccia uscire una nota bollinata come quella. Dal Quirinale si fa notare come in realtà “il presidente La Russa in quei giorni non avesse avuto la supplenza della carica in assenza del Capo dello Stato”. Significativo che non gli fosse stata data. E comunque già nello scorso fine settimana è iniziato il delicato lavoro della mediazione. Mantovano ha fatto filtrare di aver provato fin da subito a spegnere il fuoco trovando però un muro davanti a sé. Allora l’ha presa alla larga. “Dobbiamo uscire da un revival di contrapposizioni che non fa bene a nessuno” ha detto già la sera del 7 luglio. Poi ha mandato avanti il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani: “Non serve a nessuna passare l’estate a parlare di questi fatti. Sono altri i temi di cui ci dobbiamo occupare”. Distensiva, anche per questione di parrocchia, l’intervista del sottosegretario di Forza Italia Francesco Paolo Sisto: “Basta con le guerre di religione dal sapore vintage”. Più difficile è stato far ragionare il ministro Nordio. In un crescendo partito da “basta con la politica che s’inginocchia alla magistratura” per arrivare all’ipotesi della modifica dell’imputazione coatta e della revisione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa”, Mantovano ha dovuto dare uno stop netto e gelido: “Non è il caso aprire altri fronti”. Nordio avrà compreso? Deve farlo, al di là del sarcasmo quando si dice “onorato” dei rilievi del Colle sull’ultima (ma la prima di Nordio) riforma della giustizia. Il ddl in queste ore avrà il via libera del Quirinale che riguarda - è importante chiarirlo - solo l’autorizzazione a presentare il testo in Parlamento (avvio dell’iter al Senato). Saranno poi i parlamentari a correggere eventuali punti critici. La riforma Nordio prevede l’abolizione del reato di abuso di ufficio ma non la separazione delle carriere tra giudici e magistrati che è una riforma costituzionale. Giorgia Meloni ha promesso che si farà, senza fretta però, “nell’arco della legislatura”. Già, la premier. L’auspicio di Mantovano era che la conferenza stampa di Vilnius avesse toni diversi. Bene che sia arrivata la netta presa di distanza da La Russa. Un po’ meno bene su Delmastro perchè in realtà Meloni ha accusato il gip di fare politica. E infatti il Csm vuole aprire una pratica a tutela. È anche vero che la premier non poteva smentire se stessa a pochi giorni dalla famosa “Nota” che infatti ha dovuto rivendicare con un filo di voce. Comunque, adesso voltare pagina e andare avanti. Anche perché, appunto, Mattarella si è mosso ed è stato chiaro: finchè io sono qua nessuna delegittimazione sarà tollerata, l’equilibrio tra poteri sarà sempre salvaguardato ed io sarà sempre pronto a mettere in campo la mia moral suasion. È questo il significato dell’invito al Colle, mercoledì sera, dei supremi giudici di Cassazione, la presidente Margherita Cassano e il procuratore generale Luigi Salvato. Ed è stato anche questo il significato del faccia a faccia tra il Capo dello Stato e la premier ieri sera una volta concluso il Consiglio supremo di difesa. Ci sono altri problemi. La guerra con i magistrati fa solo perdere tempo. Soprattutto, sopire e troncare. Troncare e sopire. Nordio: “Sì alla separazione delle carriere. Il concorso esterno? Ecco come intervenire” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 14 luglio 2023 Il ministro della Giustizia: “Avanti con la separazione delle carriere, esiste in tutto il mondo”. Sul caso Delmastro: “L’imputazione coatta la critico da 25 anni: è un residuo del vecchio codice”. Ministro Carlo Nordio. Perché vuole porre mano all’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa? Non è voluta da Giovanni Falcone? “Premetto che questo argomento non fa parte del programma di governo, ma poiché in un dibattito mi è stata chiesta la mia opinione sono ben lieto di ripeterla”. Qual è? “Tra il 2002 e il 2006 ho presieduto la Commissione per la riforma del codice penale, con autorevoli accademici, magistrati e avvocati, e ho studiato tutto ciò che era stato scritto in materia”. E cosa ne avete dedotto? “Praticamente all’unanimità la Commissione ha concluso che il concorso esterno andava tipicizzato con una norma ad hoc, perché non esiste come fattispecie autonoma nel codice, ma è il frutto di una interpretazione giurisprudenziale che coniuga l’art 110, sul concorso, con il 416 sull’associazione”. E questo cosa comporta? “Ha comportato un’estrema incertezza applicativa. Tanto che la Cassazione ha cambiato piu volte indirizzo, e ancora fatica a trovare una definizione convincente”. E quindi? “Le voci per introdurre una norma tipica sono quasi universali nel mondo universitario e forense. Cito per tutti il professor Giovanni Fiandaca, sui cui testi si sono formate due generazioni di giuristi, che auspica fortemente una formulazione specifica di questo reato”. L’opposizione e suoi colleghi chiedono di mantenere questo strumento utile. “Non mi stupisco che arrivino bordate dall’opposizione: la politique n’a pas d’entrailles. E nemmeno dalla stampa più critica, che leggo sempre con benevola indulgenza. Mi sorprende che arrivino da magistrati, che da tecnici del diritto dovrebbero sapere che il concorso esterno è ormai, per dirla con Churchill, un enigma dentro un indovinello avvolto in un mistero”. Non teme di favorire la criminalità organizzata? “La mia interpretazione è anche più severa della loro, perché anche chi non è organico alla mafia, se ne agevola il compito, è mafioso a tutti gli effetti. Tant’è che quando ho diretto l’inchiesta sulle Br venete negli anni ‘80 abbiamo sempre contestato il reato associativo anche a chi si prestava a semplici contatti, dal soccorso medico al volantinaggio, e li abbiamo tutti fatti condannare come appartenenti alla banda armata”. Allora cosa critica? “Che il concetto di concorso esterno è un ossimoro: o si è esterni, e allora non si è concorrenti, o si è concorrenti, e allora non si è esterni. Se si affrontassero questi argomenti con animo freddo e pacato, e non con polemiche sterili, troveremmo una soluzione”. Quale? “La formulazione proposta da Giuliano Pisapia: scrivere una norma ad hoc molto semplice e molto chiara”. C’è uno scontro politica-magistratura? “Dopo le polemiche originate dalle mie prime critiche sull’interferenza della magistratura sul ddl prima di averne letto il testo, ho ricevuto i rappresentanti dell’Anm. È stato un incontro estremamente cordiale dal punto di vista personale, anche se esistono idee diverse sulle riforme da fare. Ci siamo concentrati più sui temi condivisi, come l’efficienza della giustizia e l’implementazione delle risorse, che su quelli dove la pensiamo diversamente”. Pace fatta? “Il confronto continuerà. Sono stato magistrato per quarant’anni, e mi sento ancora tale. Ho citato Terenzio: amantium irae amoris integratio est, i dissidi degli amanti sono un’integrazione dell’amore”. Perché l’imputazione coatta di Delmastro è stata vista dal governo come anomala? “L’imputazione coatta, indipendentemente dal caso attuale, la critico da 25 anni: è un residuo del vecchio codice - quando c’era il giudice istruttore - inserito nel nuovo Vassalli per un compromesso: il legislatore non ha avuto il coraggio di attuare compiutamente il sistema accusatorio, dove il pm è monopolista e arbitro dell’azione penale”. Perché pensa sia irrazionale? “Perché, dopo l’imputazione coatta, in tribunale non arriva, come un tempo, un fascicolo completo di tutte le indagini, ma un fascicolo vuoto, e il giudice deve chiedere al pm di illustrare le ragioni dell’accusa. Ma che farà il pm, se lui stesso aveva chiesto il proscioglimento? Non potrà certo smentire sé stesso. E il processo collasserà con spreco di tempo e tante sofferenze inutili”. La imbarazza che pm e gip hanno ritenuto segrete le relazioni della polizia penitenziaria al contrario di ciò che disse lei in Parlamento? “Figuriamoci se mi sono sentito in imbarazzo. Le interpretazioni normative sono così volatili che la stessa Cassazione più volte ne ha dato di opposte sulla medesima norma. Aspettiamo il seguito”. Si accelera sulla separazione delle carriere? “La separazione delle carriere è consustanziale al processo accusatorio voluto da Vassalli, partigiano antifascista pluridecorato, socialista e garantista. Purtroppo, come ho detto, è stato attuato a metà. Essa esiste in tutto il mondo anglosassone, e non mina affatto l’indipendenza della magistratura requirente. Tuttavia richiede una revisione costituzionale, e quindi il cammino è più lungo. Comunque fa parte del programma di governo, e sarà attuata”. Ma cosa c’entra con l’efficienza della giustizia? “Separazione delle carriere significa anche discrezionalità dell’azione penale e facoltà del pm di ritrattarla. Tutte cose che in questo momento la Costituzione non consente. Ma se fossero attuate eviterebbero almeno un trenta per cento dei processi che si rivelano inutili e dannosi e rallentano la celebrazione di quelli più importanti e quindi la giustizia sarebbe più celere”. Mafia, il governo frena Nordio sulle modifiche al concorso esterno. Rilancio sulla criminalità organizzata di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 luglio 2023 Ipotesi decreto per correggere una sentenza della Cassazione che mette a rischio i processi. Il governo non intende seguire il ministro della Giustizia nella sua “fuga in avanti” sulla “rimodulazione” del concorso esterno in associazione mafiosa. “C’è una giurisprudenza consolidata, non riaprirei altri discorsi”, taglia corto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, uno dei due magistrati (insieme a Nordio) arruolati nell’esecutivo Meloni. Piuttosto, lascia intendere che ci sarà un intervento che va nella direzione opposta al paventato abbassamento della guardia nel contrasto alla criminalità organizzata; addirittura un decreto legge per rimediare ai possibili danni prodotti da una recente sentenza della Corte di cassazione che mette in discussione la matrice mafiosa di alcuni delitti (compresi gli omicidi) quando non è contestato il reato associativo. Nonostante ci sia l’aggravante di favorire la camorra, la ‘ndrangheta o Cosa nostra. Si tratta dei “problemi determinati dalla giurisprudenza dell’oggi” che Mantovano richiama per allontanare l’attenzione da quelli della giurisprudenza di ieri evocati dal Guardasigilli Nordio a proposito del concorso esterno. Che peraltro non è un reato previsto dal codice penale, quindi non c’è nulla da abolire o modificare; si tratta di una costruzione giuridica immaginata dai tempi del pool antimafia di Falcone e Borsellino, ma addirittura fin dagli anni Trenta del Novecento, come ha ricordato ieri il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia davanti alla commissione antimafia: “Mi pare difficile non ricorrere più a uno strumento che si è rivelato utile e corretto”. Se si vuole immaginare qualche riforma, trattandosi di una materia “oggettivamente delicata”, si può prendere spunto dalla “giurisprudenza molto consolidata” e trasformarla in una nuova norma, “ma sul versante dell’associazione mafiosa, nel senso di individuare ulteriori forme tipizzate di condotte che non sarebbero più concorso esterno ma una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa”. In ogni caso, fa capire Mantovano, l’argomento non è all’ordine del giorno. Il fatto che per arrivare alla “giurisprudenza consolidata” si siano impiegati anni significa che se ne può dibattere, dunque non c’è una sconfessione di Nordio. Ma è meglio occuparsi d’altro. Anche per dare l’immagine di un governo che intende rafforzare e non indebolire il contrasto alle mafie. Per esempio intervenendo su un altro fronte aperto non dal governo o dal Parlamento, bensì dalla stessa magistratura. A settembre 2022, infatti, è stata emessa dalla prima sezione penale della Corte di cassazione una sentenza in cui è stato dichiarato illegittimo l’uso di alcune intercettazioni disposte e realizzate secondo il regime meno rigoroso che si applica ai delitti di criminalità organizzata: per disporle non servono “gravi indizi” di reato, basta che siano “sufficienti”; e i decreti di autorizzazione possono durare fino a 40 giorni anziché i 15 stabiliti per i reati comuni. Secondo il ragionamento della prima sezione che su questo punto hanno accolto il ricorso degli imputati, per accedere al regime previsto per i “delitti di criminalità organizzata” occorre “la contestazione di una fattispecie associativa”, lasciando fuori gli altri reati “per quanto commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416 bis”, cioè per favorire le associazioni mafiose. Un ragionamento giuridico che - come segnalato da molte Procure distrettuali e dalla stessa Procura nazionale antimafia - rischia di far saltare molti processi in corso istruiti e celebrati secondo precedenti interpretazioni. “Mettere in discussione il concetto di criminalità organizzata significa creare un certo allarme in tutto il sistema”, insiste Mantovano. Non solo per le intercettazioni, “ma anche per le aggravanti speciali, i benefici penitenziari, le pene e così via”. Significa, in soldoni, indebolire il “doppio binario” secondo cui per i reati di criminalità è più facile condannare e più difficile (se non impossibile) avere accesso ai benefici. E in attesa che a dirimere la questione posta dal nuovo verdetto siano le Sezioni unite della Cassazione (com’è successo per il concorso esterno), il governo sta studiando la possibilità di intervenire d’urgenza con un decreto legge. Le prime riunioni tra i tecnici degli uffici coinvolti si sono già svolte. Per dare “una definizione di criminalità organizzata attraverso una legge, come quarant’anni fa per definire l’associazione mafiosa”, ha spiegato Mantovano in questi incontri. E forse anche per uscire dall’angolo del confronto-scontro con l’Associazione nazionale magistrati, per una singolare coincidenza: nel collegio di cinque giudici che ha emesso la sentenza finita nel mirino del governo c’era anche (sebbene non nelle vesti di relatore) Giuseppe Santalucia, il presidente dell’Anm che appena una settimana fa ha polemizzato direttamente proprio con “l’ex collega” oggi sottosegretario a Palazzo Chigi, a proposito di “interferenze giudiziarie nella politica”. Quello che Nordio dimentica di Armando Spataro La Repubblica, 14 luglio 2023 Il ministro vuole rimodulare il concorso esterno in associazione mafioso. Ma quel reato ha una genesi e una storia molto precise oltre a una solida giurisprudenza. È ormai un rito quello di aprire i giornali ogni mattina ed andare subito alla ricerca delle novità che il ministro Nordio ha in mente per riformare la giustizia. Giovedì, ad esempio, l’ennesima sorpresa di segno negativo: si vuol “rimodulare” il concorso esterno in associazione di stampo mafioso, “un reato evanescente, un ossimoro”. L’ossimoro, secondo l’Enciclopedia Treccani, è una figura retorica che consiste nell’unione sintattica di due termini contraddittori, in modo tale che si riferiscano ad una medesima entità. L’effetto è quello di un “paradosso apparente”, come quello di “ghiaccio bollente”. Vediamo allora se il “concorso esterno” è compatibile o meno con il reato di associazione di stampo mafioso. E facciamolo partendo dalla storia della risposta giudiziaria italiana al terrorismo degli anni di piombo. Come è noto, il sequestro di Aldo Moro nella primavera del 1978 colse la magistratura in gran parte impreparata, ma proprio quel tragico evento determinò l’iniziativa autonoma di pubblici ministeri e giudici istruttori che, operando nelle aree più colpite dal terrorismo, diedero vita a un coordinamento spontaneo tra gli uffici giudiziari e di polizia interessati dal fenomeno, fino alla creazione, al loro interno, di gruppi specializzati nel settore del terrorismo. Nel corso di tali frequenti incontri, quei magistrati elaboravano anche indirizzi giurisprudenziali da applicare in modo uniforme. Furono così definiti, in quella sede i requisiti tecnici del concorso “esterno” nel reato di banda armata (previsto da una norma ormai desueta del Codice Penale) e del concorso “morale” dei capi delle associazioni terroristiche per gli omicidi ed i ferimenti commessi e rivendicati. Quanto al concorso “esterno” furono incriminati vari soggetti che, pur non facendo parte delle Brigate Rosse o di altre organizzazioni, pur non vivendo in clandestinità con false generalità e pur non girando armati e non partecipando ad attentati e rapine, ponevano in essere comportamenti finalizzati a favorire il raggiungimento dei fini - di cui erano consapevoli e che condividevano - di quelle associazioni criminali: l’instaurazione delle dittatura del proletariato! Si pensi ad avvocati che facevano da tramite tra clienti detenuti e militanti liberi (persino ricercati) o a chi si attivava per prendere in locazione appartamenti destinati ad essere basi (o “covi”, come allora si diceva) per latitanti e clandestini. I giudici, Corte di Cassazione inclusa, accolsero quelle tesi con motivata convinzione, così che esse diventarono la stabilizzata base giuridica per affermare in seguito anche la responsabilità dei concorrenti esterni in associazione mafiosa e dei componenti delle varie commissioni e “cupole” per i più efferati delitti di mafia. Non è fuori luogo, a tal proposito, citare il fatto che, nel periodo finale degli anni di piombo, un gruppo di magistrati siciliani (tra cui Giovanni Falcone) che si occupavano di mafia partecipò a vari incontri con i colleghi che trattavano il terrorismo: ciò fecero non certo perché esistessero collegamenti fra Brigate Rosse, Cosa nostra, ‘ndrangheta o camorra, ma per conoscere le modalità del coordinamento spontaneo da loro realizzato e per condividere ed approfondire gli orientamenti giurisprudenziali in tema di reati associativi. Si rivelò, dunque, di portata storica, il recepimento, in relazione al reato di associazione di stampo mafioso (art. 416 bis c.p.), dei citati orientamenti elaborati in ordine al concorso “esterno” nel reato di banda armata (art. 306 c.p.), sicché iniziarono ad essere incriminati e definitivamente condannati per associazione mafiosa anche coloro che, per “convergenza di interessi” e pur non formalmente “battezzati” o “affiliati”, avevano posto in essere condotte stabilmente finalizzate a supportare le associazioni mafiose nel perseguimento dei propri scopi che essi stessi condividevano da altra sponda. Dov’è l’ossimoro nordiano? E dove la evanescenza del concetto di “concorso esterno”? Il reato di concorso “esterno”, tra l’altro, non è affatto una previsione contenuta in una specifica - e “rimodulabile” - norma del codice penale. Non è prevista dall’articolo 110 del codice penale, che parla solo di persone che concorrono nel reato, né nel delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso o di qualsiasi altro genere. Dunque, trattandosi di interpretazione della legge e di indirizzi giurisprudenziali, è sperabile che il ministro Nordio eviti di coltivare progetti di rimodulazione ardita del concorso esterno in associazione mafiosa che consente da decenni di colpire la zona grigia della criminalità mafiosa, cioè la più pericolosa. A meno che non si voglia inibire ai magistrati interpretazioni della legge sgradite all’esecutivo, come si sono permessi di fare recentemente giudici di Milano e Roma. “Il concorso esterno in associazione mafiosa è al limite della legalità giuridica...” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 14 luglio 2023 L’appello del giurista Vincenzo Maiello: “La politica trovi coraggio e metta mano a una “norma” fumosa e cervellotica”. Ogni giorno che passa la giustizia offre nuove tracce su cui discutere. Tra queste la possibilità, paventata mercoledì scorso dal guardasigilli Carlo Nordio, di modificare il concorso esterno in associazione mafiosa. È giunta l’ora, secondo il professor Vincenzo Maiello, nell’Università di Napoli “Federico II”, che il legislatore se ne occupi seriamente. Professor Maiello, il dibattito sulla giustizia si fa sempre più acceso e non mancano le contrapposizioni. Due giorni fa, il ministro Nordio ha sottolineato l’esigenza, a proposito del processo accusatorio, dell’adozione del “modello anglosassone”. Si riuscirà ad intervenire in tal senso? Premesso che non esiste un modello processuale esportabile senza gli adattamenti che reclamano le tradizioni culturali, le esperienze storico-politiche e le peculiarità costituzionali dei singoli paesi e ordinamenti. Più realisticamente, andrebbe, allora, considerato quel che potrebbe e dovrebbe esser fatto per portare a compimento la riforma codicistica del 1988, nelle sue strutture portanti divenuta diritto costituzionale in seguito alla riformulazione dell’articolo 111 della Carta. In questa prospettiva, il cantiere degli interventi normativi dovrebbe annoverare la rivisitazione di snodi fondamentali del processo e dei suoi riferimenti ordinamentali: separazione delle carriere dei magistrati, riconfigurazione del sistema delle impugnazioni, estensione dei poteri negoziali di definizione delle regiudicande, riaffermazione dell’immediatezza e tutela dell’esigenza dell’immutabilità del giudice (della prova e della decisione), riscrittura del procedimento probatorio con sanzioni rigorose a difesa della legalità dell’acquisizione delle informazioni processuali. Finora queste aspirazioni hanno alimentato una sorta di libro dei sogni, ritenuto specchio di un approccio ingenuo e astorico ai problemi della nostra giustizia. Spetta a quella parte della politica che, oggi, dice di richiamarsi alle matrici culturali di quel paradigma tradurlo in realtà. Ne avrebbe i numeri. Deve dimostrare di possedere la forza culturale di sostenerne l’attuazione nel discorso pubblico e sul mercato del consenso. Il guardasigilli ha anche detto che occorre modificare il concorso esterno in associazione mafiosa, definendolo “un reato evanescente, un ossimoro” e che per questo “va rimodulato”. Cosa ne pensa? Sarebbe ora che una delle frontiere avanzate del contrasto penale alle condotte di sostegno delle associazioni mafiose formasse oggetto di una disciplina parlamentare, ponendo fine ad un travaglio giurisprudenziale più che trentennale. In questa materia, la giurisprudenza ha svolto un compito paranormativo, nella latitanza colpevole del legislatore. Vorrei anche ribadire che, nelle sue espressioni di vertice, l’attività di nomofilachia ha saputo esprimere una raffinata capacità di bilanciamento fra opposte esigenze, sdoganando soluzioni ermeneutiche di indiscutibile ragionevolezza politico- criminale. Ma c’è di più. Dica pure… Il fatto è che queste soluzioni incontrano difficoltà ad essere metabolizzate dalla magistratura inquirente, prima, e dalla giurisprudenza che si trova quotidianamente impegnata sul fronte dei processi di mafia. La conseguenza è che vengono spesso assunte decisioni che aggirano i protocolli più rigorosi di legalità giurisprudenziale, se mi è consentita questa espressione, ed è così, allora, che il concorso esterno diventa un dispositivo di sfuggente identità e di evanescente accertamento, rimesso a ricostruzioni fumose e a tratti cervellotiche. Cosa suggerisce a tal riguardo? Occorre che della materia si occupi il legislatore, assumendo la responsabilità di stabilire se e come punire il favoreggiamento dei sodalizi mafiosi. Lo spettro delle soluzioni prospettabili è ampio e complesso: si vuole che il concorso esterno si trasformi in una nuova, autonoma figura di reato, oppure si reputa sufficiente la previsione come aggravante della finalità di agevolazione mafiosa? Nel primo caso, va deciso se affidarsi ad una figura generale di sostegno associativo, ovvero a specifiche incriminazioni di peculiari condotte di collusione. Ancora, se costruire fattispecie di condotta di più facile accertamento, pur se qualificate da concreta idoneità offensiva, oppure reati di evento che finirebbero per riproporre i nodi problematici della causalità. Considerata la quantità e la qualità delle questioni sul tappeto, sarebbe auspicabile che l’opera riformatrice passasse attraverso il lavoro di studio e di proposta di una apposita Commissione ministeriale aperta a studiosi, avvocati e magistrati. Negli ultimi giorni, quasi tutti gli esponenti politici sono intervenuti sulla vicenda del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, e sull’imputazione coatta che lo ha riguardato da parte del Gip del Tribunale di Roma. Tanto rumore per nulla? Un controllo giurisdizionale sull’azione resta una garanzia imprescindibile, ancor più in un sistema che si vorrebbe traghettare verso la distinzione degli statuti ordinamentali dei magistrati dell’accusa e di quelli della decisione. La separazione delle carriere taglierà il traguardo? Se non dovesse farlo, in una stagione di governo nella quale il ministro della Giustizia lo ha esplicitamente assunto come punto qualificante del proprio programma, sarebbe allora il caso di archiviarlo tra le aspirazioni storicamente non realizzabili nella specificità del contesto italiano. Secondo lei, stiamo assistendo ad uno scontro tra magistratura e governo? Nelle democrazie contemporanee la dialettica tra sfera della discrezionalità politica e ambito dei poteri di controllo delle istituzioni di garanzia appartiene, per molti versi, ad una dimensione fisiologica dell’architettura ordinamentale. Nelle esperienze degli Stati costituzionali, il rapporto tra i poteri implica una qualche fluidità delle rispettive dinamiche. Quando, però, le relazioni fra poteri registrano inusuali contrapposizioni, vuol dire che si è innanzi ad una fase di crisi, che può avere una più profonda matrice culturale e ideologica, in quanto investe i fondamenti stessi delle rispettive prerogative, oppure può essere legata al tentativo di un potere di riappropriarsi di sfere di azione finora delegate all’altro. Da Mannino a Femia, passando per Lombardo e Sorbara: tutti gli accusati di concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolti di Valentina Stella Il Dubbio, 14 luglio 2023 L’ex ministro e leader della DC venne arrestato nel 1992 e si fece nove mesi di carcere e tredici di arresti domiciliari, nel 2001 la prima assoluzione “perché il fatto non sussiste”, confermata nel 2010 dalla Cassazione dopo due appelli. Sono molti i casi noti e meno noti di persone accusate di concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolte. Una delle vicende più conosciute è quella che riguarda l’ex ministro e leader della Democrazia Cristiana, Calogero Mannino. Nel 1992 viene arrestato con l’accusa appunto di concorso esterno. Nove mesi di carcere e tredici di arresti domiciliari, e nel 2001 la prima assoluzione “perché il fatto non sussiste”. Decisione confermata definitivamente 14 gennaio 2010 dalla Cassazione, dopo due appelli. Il 6 marzo di quest’anno si è chiusa anche l’odissea giudiziaria lunga più di un decennio per l’ex governatore della Sicilia ed ex leader del Mpa, Raffaele Lombardo: i giudici della sesta sezione penale della Cassazione, infatti, hanno giudicato inammissibile il ricorso della Procura generale di Catania contro la sentenza del 7 gennaio del 2022 che ha assolto Lombardo dalle imputazioni di concorso esterno alla mafia, “perché il fatto non sussiste”, e di reato elettorale aggravato dall’avere favorito la mafia, “per non avere commesso il fatto”. Nel 2015 fu la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a ritenere illegittima la condanna per concorso esterno a Bruno Contrada perché all’epoca dei fatti contestati all’ex numero tre del Sisde quel reato non era sufficientemente tipizzato, quindi il processo sarebbe stato celebrato illegittimamente. Sempre a marzo di quest’anno i giudici della quarta Corte di appello di Palermo hanno confermato la sentenza, emessa il 30 giugno del 2016, che scagionava l’ex sindaco di Agrigento nonché ex senatore, Calogero Sodano, dall’accusa di avere stretto un patto con i boss per farsi eleggere nelle varie competizioni elettorali alle quali partecipò. Nel 2012 è stato l’ex ministro delle Politiche agricole, Francesco Saverio Romano, ad essere assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, a novi anni dall’inchiesta della Procura di Palermo. Nel 2020 fu assolto dalla Cassazione l’ex senatore Tommaso Barbato, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. La vicenda era quella relativa l’affidamento degli appalti in somma urgenza per la rete idrica campana tra il 2006 e il 2010: secondo la Direzione distrettuale antimafia, ad essere sistematicamente favorite erano le aziende vicine al clan dei Casalesi, sulla base di un presunto accordo tra Barbato, all’epoca funzionario in Regione nel settore della gestione dei servizi idrici, e Franco Zagaria (poi deceduto), cognato del boss Michele Zagaria. Come non ricordare il caso di Marco Sorbara: arrestato il 23 gennaio 2019 nell’ambito di un’operazione anti ndrangheta in Valle d’Aosta, ex consigliere regionale della Valle d’Aosta venne condannato in primo grado per concorso esterno alla ‘ndrangheta. Assolto poi definitivamente dalla Cassazione dopo 900 giorni di custodia cautelare tra carcere e domiciliari. Poi c’è il caso di Giorgio Magliocca: “di processi ne ho subiti 39 e in uno ho dovuto conoscere per 11 mesi l’inferno del carcere preventivo. L’accusa, del resto, non lasciava scampo: concorso esterno in associazione mafiosa. In più, l’essere stato collaboratore del ministro Mario Landolfi e poi in Campidoglio di Gianni Alemanno finì per conferire al mio arresto un clamore altrimenti “immeritato” per un 35enne sindaco di un piccolo paese del Casertano. Ma ne sono uscito a testa alta: assolto “perché il fatto non sussiste”. Così come non è sussistito nelle altre 38 volte in cui la giustizia si è occupata di me”, ha raccontato sul sito dell’Associazione Italiana Vittime di Malagiustizia. Giuseppe Pagliani, riporta il sito Errorigiudiziari.com, “era consigliere provinciale capogruppo del Pdl a Reggio Emilia. Lo arrestarono con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Fu costretto a passare ventitré giorni dietro le sbarre, prima di ottenere la scarcerazione grazie al Tribunale del Riesame. Solo dopo sette anni di processi, l’assoluzione definitiva con formula piena. E un risarcimento per ingiusta detenzione”. Sempre lo stesso sito racconta la vicenda di Rocco Femia. “Arrestato da innocente con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Esposto alla gogna mediatica come referente della ‘ndrangheta. Lui, politico locale stimato, professore di liceo, sportivo provetto, soprattutto persona onesta. Condannato due volte, costretto a dieci anni di calvario, 1825 giorni in carcere e quattro processi prima di arrivare alla verità: era innocente”. C’è poi la storia di Giuseppe Gravante, ex consigliere comunale di Castel Volturno. Arrestato con l’accusa di aver favorito uno dei clan più potenti e sanguinari della sua zona. Costretto al carcere da innocente. Alla fine, solo alla fine, assolto e risarcito per ingiusta detenzione. L’ultima vicenda, ma solo per questione di spazio, che ci offre il sito creato dai giornalisti Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi è quella di Rocco Commisso, “38 anni, gestore e istruttore di una scuola guida a Siderno, una passione per le arti marziali e una parentela molto stretta con un personaggio molto noto alle forze dell’ordine - è il figlio del boss Giuseppe Commisso, detto “Il Mastro” - viene arrestato il 12 maggio 2012. Per questo finisce due anni e mezzo in carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Ma è innocente. Se il carattere di una donna vittima diventa attenuante in un omicidio di Elena Stancanelli La Stampa, 14 luglio 2023 Quando una donna denuncia uno stupro ci occupiamo subito di come era vestita. L’obiettivo è quello di derubricare l’accaduto da reato a simpatica marachella. Può il carattere della vittima diventare una circostanza attenuante in un omicidio? Ovviamente no. Nessun Tribunale oserebbe affermare che uccidere un bambino insonne e isterico sia meno grave che ucciderne uno placido e sorridente, o che sia un po’ più legittimo accoppare un genitore insopportabile o un capo ufficio senza cuore. L’unica circostanza attenuante, in un omicidio, è la legittima difesa, con tutte le difficoltà di attribuzione che comporta. Ma questo non vale per le donne. Del resto per le donne si fa eccezione spesso, quando si tratta di reati. Che a subire un reato sia una femmina consente aggiustamenti impensabili nel caso di un maschio. Immaginate come reagiremmo a sentire che è stata alleggerita la condanna per rapina a qualcuno perché il rapinato indossava delle orribili ciabatte, ciabatte che avevano dato adito a un equivoco, che istigavano al reato. Rideremmo, penseremmo a un colpo di sole da parte di avvocati o giudici. Se invece una donna denuncia uno stupro la prima cosa della quale ci occupiamo è come era vestita. Segue una disamina delle sue relazioni sessuali/amorose e una rapida valutazione della sua moralità. L’obiettivo è quello di derubricare l’accaduto da reato a simpatica marachella. Ci hanno fatto credere che fosse complicato separare in maniera netta uno stupro da semplice cattivo sesso. Ci hanno detto: siete sicure? Abbastanza, direi. Ogni donna sa che capitano delle volte in cui si fa del cattivo sesso, qualche volta anche contro voglia perché è più complicato dire no che non sbrigare in fretta la pratica. Ogni donna sa che quella cosa lì non somiglia neanche lontanamente a uno stupro. La si scorda in fretta, non fa male, qualche volta diventa addirittura una scusa per rifarlo, e magari viene meglio. Ripeto: non somiglia neanche lontanamente a uno stupro se non nella testa di uomini malati di mente, siano essi avvocati, giudici o amici dell’accusato. Il sesso, anche il peggiore, e lo stupro non appartengono alla stessa categoria semantica. Il primo è vita, il secondo è morte, violenza, annientamento. Ve ne dico un’altra che farebbe molto ridere se non fosse vera, se non fosse accaduta ieri, nel nostro paese. Se non potesse accadere a ciascuna di noi. Un uomo uccide una donna poi la fa a pezzi e sparge i pezzi in un bosco. Una donna con la quale aveva una relazione di qualche tipo. Viene condannato, ma la sua pena viene ridotta perché quella donna, quella che ha fatto a pezzetti e nascosto tra le foglie, col suo comportamento lo aveva esasperato. “Fontana (l’omicida) si è reso conto che la giovane e disinibita Carol si era in qualche misura servita di lui per meglio perseguire i propri interessi personali e professionali e che lo avesse usato e ciò ha scatenato l’azione omicida”. Questo scrivono i giudici nella motivazione. Facciamo un gioco: quanti di voi si sono sentiti usati una volta nella vita, quanti hanno avuto a che fare con una persona disinibita, quanti hanno percepito di colpo l’arrivismo di quella persona della quale, fatalmente, si erano innamorati? Quasi tutti noi? “A spingere l’imputato non fu la gelosia ma la consapevolezza di aver perso la donna amata, accompagnata dal senso di crescente frustrazione per essere stato da lei usato e messo da parte”. E qui la percentuale si alza: tutti? Gli altri, pochi, sono molto fortunati. Quanti di noi hanno preso quella persona, l’hanno fatta a pezzi e l’hanno nascosta tra le foglie del bosco? Nessuno direi, per fortuna. Perché questo è il patto sociale: ci si incontra, ci si innamora, e quasi sempre questo innamoramento si trasforma in delusione. A quel punto ci si allontana. Ma questo, lo abbiamo detto, non vale per le donne. O almeno può non valere, se la follia omicida incontra l’ottusità di chi deve giudicarla. Perché, ci chiediamo, perché questo trattamento non viene riservato agli uomini? Recuperiamo la storia dell’indovino Tiresia. Fu la dea Era ad accecarlo, perché aveva visto una cosa che non doveva vedere. Grazie a una storia complicata di serpenti era stato trasformato in una donna e come donna aveva vissuto per sette anni. In quegli anni aveva visto, anzi sperimentato sul suo corpo, il piacere femminile. Interrogato su quella esperienza aveva risposto che non c’era proprio storia: il piacere sessuale di una donna è nove volte più grande di quello di un uomo. La dea si infuriò (perché aveva rivelato un segreto che doveva rimanere nascosto) e per vendicarsi lo accecò mentre Zeus, per risarcirlo, gli donò la capacità di prevedere il futuro (più un danno che un dono). Aveva ragione Era: la prima regola del piacere femminile è che non si parla del piacere femminile. Crea invidia nei maschi e fa crollare tutto quel castello di bugie su cui abbiamo costruito la complicata convivenza: la potenza, l’erezione, l’armamentario maschile che conosciamo. E che sappiamo (ma non lo diciamo) fragilissimo. Di questo parla la sentenza di ieri: della paura dei maschi (non tutti, ma quei giudici sicuramente sì) che quelle nove volte diventino, come è stata per secoli la potenza virile, la dote di chi comanda. Che le donne comandino, finalmente, e sulla base del piacere. Che meravigliosa rivoluzione sarebbe. Dubbi sulle carceri greche: la Cassazione annulla un’altra estradizione brindisireport.it, 14 luglio 2023 Il provvedimento della Corte d’Appello di Bari riguarda un cittadino albanese, accusato di narcotraffico. Le condizioni carcerarie in quel Paese non sono conformi ai trattati internazionali in materia di diritti fondamentali dell’uomo. Per la giustizia italiana le carceri greche non sono conformi ai trattati internazionali in materia di diritti fondamentali dell’uomo. Ieri (mercoledì 12 luglio 2023), la sesta sezione della Corte di Cassazione ha emesso un provvedimento con il quale ha annullato una sentenza della terza sezione penale della Corte di Appello di Bari, che accoglieva la richiesta della Procura della Repubblica greca nei confronti di un cittadino albanese residente in Italia. Si tratta di B.M., residente ad Altamura, nel Barese. In Cassazione l’uomo è assistito dagli avvocati Uljana Gazidede (del Foro di Bari) e Raffaele Missere (del Foro di Brindisi). Non è il primo caso: nel febbraio scorso la stessa sezione della Cassazione aveva esaminato e deciso su un ricorso per violazione di legge in materia di mandato di arresto europeo. A proporre il ricorso era stato sempre l’avvocato Raffaele Missere, difensore di S.B., cittadino albanese. Gli ermellini annullarono, con rinvio, la decisione emessa dalla Corte di Appello di Lecce, con la quale si stabiliva che S.B., dovesse essere consegnato alla autorità giudiziaria greca. Il motivo? La mancanza di qualsiasi accertamento sulle condizioni carcerarie in Grecia, in rapporto ai parametri stabiliti nelle convenzioni internazionali, e in difesa dei detenuti. Infatti, da qualche mese, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione, interessandosi di casi di richieste di estradizione da parte della repubblica ellenica nei confronti di cittadini albanesi o comunque extracomunitari, ha annullato diversi provvedimenti emessi dalle Corti di Appello territoriali e ordinato al giudice del rinvio accertamenti circa le condizioni carcerarie in Grecia. Dopo tali accertamenti le Corti di Appello Italiane, e in particolare la Corte di Appello di Lecce, hanno rigettato la richiesta di estradizione, ritenendo che le condizioni carcerarie in Grecia non siano conformi ai trattati internazionali in materia di diritti fondamentali dell’uomo. Adesso, dell’ultimo caso di annullamento deciso dalla Corte di Cassazione, si interesserà una sezione diversa della Corte di Appello di Bari, rispetto a quella che ebbe ad emettere il provvedimento annullato con rinvio. Il cittadino albanese B.M. deve rispondere, in Grecia, di reati legati al narcotraffico. Parma. Detenuto inala gas e muore in via Burla Gazzetta di Parma, 14 luglio 2023 Inutile l’estremo tentativo del compagno di cella di salvargli la vita. Un detenuto parmigiano di 42 anni è morto, mercoledì pomeriggio, dopo aver inalato gas. La procura ha aperto un fascicolo. Torino. Detenuto si impicca in cella, sarebbe uscito a ottobre: “Era un soggetto fragile” di Gianni Giacomino La Stampa, 14 luglio 2023 Aveva 43 anni, il suo avvocato aveva chiesto giusto ieri un incontro per capire se il suo assistito poteva essere trasferito. Angelo Libero, 43 anni, sarebbe uscito dal carcere a ottobre. Era rinchiuso nella XI sezione padiglione B del “Lorusso e Cutugno” dopo che, un mese fa, era stato dimesso dalla sezione psichiatrica. Ma ieri alle 13,40 Libero ha deciso che non valeva più la pena di vivere. Ha assicurato un laccio all’angolo superiore del letto a castello e si è lasciato andare. Il personale di polizia, insieme ai medici e agli infermieri di turno nella struttura hanno cercato di rianimarlo. Niente da fare. “Proprio ieri avevo chiesto un colloquio per riuscire a capire se il mio assistito potesse essere ospitato in una struttura all’esterno del carcere, anche se non è mai una cosa semplice - spiega l’avvocato Pierlorenzo Tavella. Ma per lui sarebbe stato davvero opportuno visto che era un soggetto molto fragile”. Dietro le sbarre il 43enne torinese era finito per una storia legata ad un omicidio stradale. Aveva poi ottenuto i domiciliari in una casa di Beinasco. Ma, lo scorso gennaio, il tribunale di sorveglianza aveva revocato i domiciliari per le continue violazioni. L’ultimo dramma nella casa circondariale torinese ha provocato parecchio sconforto sia negli agenti che negli altri detenuti. “Siamo stanchi di denunciare la gravissima carenza di organico - attacca Leo Beneduci, il segretario generale del sindacato Osapp. Tutti i giorni gli agenti della penitenziaria sia maschile che femminile devono assicurare più posti di servizio nei reparti detentivi, al nucleo traduzioni e piantonamenti e al repartino delle Molinette. Contemporaneamente devono garantire anche tre servizi, con gravissimo pericolo per la sicurezza. La situazione sta divenendo davvero sempre più pericolosa qualcuno ci aiuti”. “L’ennesimo suicidio in carcere dimostra come i problemi sociali e umani permangono nei penitenziari, al di là del calo delle presenze - analizza Vicente Santilli, il segretario piemontese del Sappe. E si consideri che negli ultimi 20 anni la polizia penitenziaria ha sventato, nelle carceri del Paese, più di 25mila tentati suicidi ed impedito che quasi 190mila atti di autolesionismo potessero avere conseguenze peggiori”. Torino. Meno diseguaglianze, più presenza delle forze dell’ordine e carceri civili di Stefano Lo Russo* Corriere di Torino, 14 luglio 2023 I dati presentati dal Prefetto consentono un po’ di ottimismo. E non soltanto per i numeri. Il calo dei reati è una cosa positiva, ma sono contento anche perché mi sembra che la questione sicurezza assuma una dimensione più largamente condivisa anche nell’approccio culturale. E anche la politica, per lo meno quella parte che ha davvero interesse al bene comune, inizi a trattarla in modo più adeguato evitando semplificazioni e banalizzazioni a fini elettorali, ma impostando azioni in modo sinergico e integrato. In questo Paese, in questo territorio, nella nostra città, la prima fonte di sicurezza da ripristinare è quella sociale, soprattutto dopo la crisi economica e pandemica, che ha lasciato strascichi evidenti. La prima mossa da mettere in campo è quindi la riduzione della diseguaglianza, una maggiore possibilità di accedere ai servizi, a possibilità di lavoro e di integrazione. E gli interventi del PNRR e di rigenerazione urbana, tra le tante cose devono operare in questa direzione. C’è poi una seconda componente della legalità, né disgiunta né da contrapporre in termini ideologici: il presidio e il controllo del territorio. Serve un maggior sforzo, anche in termini percettivi. I dati dei reati sono in calo anche per la presenza visibile delle forze dell’ordine e per interventi maggiormente coordinati. La strada imboccata è quella giusta, dobbiamo proseguire. C’è poi un terzo aspetto di cui si parla meno ma che invece credo sia fondamentale anche per una politica integrata della sicurezza: che cosa succede dopo l’arresto? come gestisce il nostro Paese la situazione carceraria? Torino e la sua città metropolitana hanno case circondariali evidentemente non adeguate e svolgere uno dei fini principali per cui esistono: la rieducazione del detenuto. Anche questo è sicurezza. Quando una persona delinque, viene perseguita, arrestata e condannata, ma entra in un luogo che purtroppo, anziché lavorare in maniera positiva per rieducarla, genera a fine pena nuova criminalità abbiamo un fallimento del sistema che si ripercuote su tutti i cittadini. Occorre affrontare con decisione anche la questione carceraria, in particolare a Torino. Ne ho parlato recentemente nel mio incontro a Roma con il Ministro Nordio che mi ha dato su questo piena disponibilità a lavorare in sinergia con le istituzioni territoriali. In sintesi, in materia di legalità, credo si possa lavorare su questi punti per una nuova stagione di concordia tra istituzioni nazionali e locali, coinvolgendo anche gli attori sociali, economici e il terzo settore -e a Torino ci stiamo lavorando con energia - integrando tra loro azioni atte a migliorare la sicurezza sociale e ridurre le diseguaglianze, rafforzando il presidio del territorio e il contrasto alla criminalità e ponendo una maggior attenzione al tema dell’efficienza della giustizia e alle condizioni carcerarie. Tre componenti di una strategia che se ragionate in termini integrati possono fare la differenza. *Sindaco di Torino Reggio Emilia. Accuse di tortura su un detenuto, dieci agenti sospesi di Filippo Fiorini La Stampa, 14 luglio 2023 I fatti risalgono allo scorso 3 aprile e si svolgono nella casa circondariale di Reggio. Obbligo di firma e sospensione dai pubblici uffici per 10 agenti della polizia penitenziaria di Reggio Emilia. Lo ha chiesto la procura della città emiliana e ha ottenuto l’ok dal giudice, accusandoli dei reati di tortura, lesioni e falso ideologico, ai danni di un detenuto tunisino di 40 anni. I fatti risalgono allo scorso 3 aprile e si svolgono nella casa circondariale di Reggio. Secondo quanto denunciò all’epoca il 40enne, una ventina di agenti lo aveva obbligato a spogliarsi e sdraiarsi a pancia in giù sul pavimento, incappucciandolo e colpendolo per diversi minuti con pugni alla schiena. Successivamente, il detenuto era stato trasferito in isolamento e poi presso un altro carcere. Nel referto medico redatto a valle dell’episodio dall’ospedale Santa Maria Nuova, erano state riportate ferite minori. Uno dei rapporti redatti dagli agenti di penitenziaria, invece, dava conto di precedenti atti autolesionistici commessi dall’uomo contro se stesso. Sono però tre le relazioni di servizio che, secondo i Carabinieri di Reggio e il procuratore Gaetano Calogero Paci, “attestavano un diverso svolgimento dei fatti”. Oltre al Nucleo Investigativo dell’Emilia-Romagna, all’inchiesta hanno collaborato anche gli omologhi di Padova e Milano, possibilmente perché in queste località sono stati trasferiti alcuni dei denunciati, che nell’esposto originale erano circa 20. Per un pubblico ufficiale riconosciuto colpevole del reato di tortura, la pena può arrivare fino ai 12 anni di carcere. Introdotto nell’ordinamento italiano nel 2017, lo scorso 24 marzo alcuni parlamentari della coalizione di governo hanno presentato alla Camera una proposta per abrogarlo, sostenendo che, così come è attualmente scritto “potrebbe comportare la pericolosa attrazione di tutte le condotte dei soggetti preposti all’applicazione della legge, in particolare del personale delle Forze di polizia che per l’esercizio delle proprie funzioni è autorizzato a ricorrere legittimamente anche a mezzi di coazione fisica”. Reggio Emilia. “Non esce dalla cella”. Il Garante: “Isolato? Da chiarire” di Stella Bonfrisco Il Resto del Carlino, 14 luglio 2023 Roberto Cavalieri, Garante regionale dei detenuti, ieri ha incontrato nella casa circondariale di Parma la vittima del pestaggio avvenuto il 3 aprile scorso nel carcere di Reggio Emilia, da parte dei quattordici agenti di polizia penitenziaria sospesi con l’accusa di tortura e lesioni. Il detenuto di origine tunisina, dopo l’aggressione è stato trasferito a Parma e dopo un periodo d’isolamento è ora in sezione. “Ho voluto sincerarmi personalmente che la situazione fosse tranquilla dopo la notizia della sospensione degli agenti - ha detto Roberto Cavalieri. - Ho parlato con il detenuto, senza che nessun altro fosse presente al colloquio, che non ha manifestato alcuna situazione di stress. E io non ho notato nessuna tensione nel contesto in cui ora si trova. Ha aggiunto che non può uscire dalla cella, ma non mi è chiaro se per sua volontà o per disposizione della direzione, quindi cercherò di approfondire le motivazioni di questa restrizione”. Oggi e nei prossimi giorni il garante regionale dei detenuti ha comunque assicurato che si recherà quotidianamente in carcere per verificare le condizioni del detenuto. “Rispetto alla questione dell’isolamento, a cui in un primo momento il detenuto era stato sottoposto, dovrà essere il suo legale a richiedere alla Procura una valutazione sulla necessità del provvedimento”: ha aggiunto Roberto Cavalieri. Sembra infatti che la decisione del massimo grado di restrizione potesse essere la risposta alla denuncia del detenuto dopo il pestaggio. Quindi la circostanza è da chiarire. “Come garante - ha precisato Cavalieri - era nelle mie prerogative accertare che la Procura si occupasse di indagare, come ha fatto, sull’episodio. E ora accertare le condizioni del detenuto”. Rimini. Carcere, l’incubo della prima sezione dove sono violati i diritti umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 luglio 2023 Pessime condizioni igienico sanitarie, docce in comune non funzionanti a causa degli scarichi sempre bloccati, scarafaggi, sovraffollamento. Nel corridoio viene raccolta la spazzatura di tutti i detenuti della sezione: il contenitore è sempre pieno e dallo stesso proviene un forte odore, motivo per il quale non è possibile sostare nel corridoio e i detenuti passano molto tempo all’interno delle celle. Ed ora che il caldo si fa sentire, la questione diventa sempre più drammatica. Parliamo della condizione della prima sezione del carcere di Rimini, da sempre denunciata dalle visite effettuate dalla delegazione del Partito Radicale guidata da Ivan Innocenti e dalla Camera penale riminese. Nonostante le varie denunce arrivate fino al consiglio comunale, nulla è cambiato. Nel contempo arrivano i risarcimenti per il trattamento disumano e degradante che subiscono i reclusi nella famigerata sezione. Recentemente c’è stata una ordinanza emessa dal magistrato dell’ufficio di Sorveglianza di Bologna, che ha evidenziato le gravi violazioni dei diritti umani che si verificano all’interno della prima sezione di questo istituto penitenziario. E lo ha fatto soprattutto constatandolo di persona. Sovraffollamento, condizioni igienico- sanitarie precarie e trattamenti inumani sono solo alcune delle problematiche. La situazione del carcere riminese richiama l’attenzione sull’importanza di garantire dignità e rispetto per coloro che scontano una pena detentiva, come sancito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla Costituzione italiana. Il detenuto che ha presentato il reclamo, ha subito una detenzione prolungata per oltre tre anni, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che proibisce trattamenti inumani o degradanti. Nell’ordinanza si fa riferimento alle condizioni estremamente critiche presenti nella Prima sezione, tra cui il sovraffollamento delle celle, la mancanza di acqua calda e di docce funzionanti, l’infestazione di scarafaggi e il degrado igienico- sanitario generale. Inoltre, viene sottolineato che la promiscuità tra il bagno e la cucina rende le condizioni ancora più inumane. Ma il magistrato di sorveglianza evidenza anche altri aspetti. Nonostante gli spazi di detenzione siano stati dichiarati conformi alle norme ha sottolineato che tali calcoli non hanno tenuto conto degli spazi occupati dai letti, che riducono ulteriormente lo spazio effettivamente disponibile per i detenuti. Inoltre, le osservazioni contenute nel reclamo, confermate da un’ispezione dei tecnici della prevenzione dell’Ausl, hanno rivelato una serie di criticità igienico- sanitarie che hanno superato la soglia del trattamento inumano e degradante, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’analisi del magistrato ha messo in evidenza che, anche considerando gli spazi formali di detenzione, questi non tengono conto della presenza dei letti, che riducono ulteriormente lo spazio libero di movimento dei detenuti. Questa considerazione è fondamentale per comprendere l’entità effettiva dello spazio disponibile nelle celle. Considerando anche l’occupazione dei letti, le dimensioni delle camere si riducono drasticamente, arrivando a soli 1,76 metri quadrati per le camere da quattro detenuti, 3,01 metri quadrati per le camere da tre detenuti e 5,51 metri quadrati per le camere doppie. Come già detto, le osservazioni contenute nel reclamo presentato dal detenuto sono state confermate dai tecnici della prevenzione dell’Ausl durante un’ispezione effettuata nel dicembre 2021. Gli specialisti hanno segnalato una serie di criticità non risolvibili con interventi di ordinaria manutenzione. Tra queste, vi erano tracce di umidità su pareti e soffitto nelle aree docce, bagni delle celle utilizzati anche come angolo cottura e condizioni igienico-sanitarie molto scadenti, con un evidente rischio per la salute dei detenuti. La Corte di Cassazione stessa ha sottolineato che la promiscuità di spazi in cui i detenuti utilizzano il bagno, mangiano e dormono è una circostanza di particolare rilievo, in quanto influisce sulla salubrità dell’ambiente. La presenza di gravi carenze, ancora irrisolte, ha contribuito senza dubbio ad intensificare la sofferenza dei detenuti e ha superato la soglia del trattamento inumano e degradante, violando così l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Queste condizioni, unitamente all’evidente promiscuità degli spazi e alle criticità igienico- sanitarie, hanno reso la condizione detentiva ancora più difficile e dolorosa per i detenuti. Diverse personalità e organizzazioni si sono schierate a favore della chiusura della Prima sezione del carcere di Rimini. Ivan Innocenti, componente del Consiglio generale del Partito Radicale, ha sottolineato che, nonostante alcuni progetti positivi promossi dalla direttrice del carcere, la Prima sezione rimane un luogo terribile e di tortura. Anche l’avvocata Annalisa Calvano dell’Osservatorio carcere Camera penale di Rimini ha affermato che le condizioni presenti sono inumane e degradanti. Il neo insediato garante dei Diritti delle persone private della libertà del comune di Rimini, l’avvocato Giorgio Galavotti, ha dichiarato che la situazione della Prima sezione è intollerabile e richiede un intervento immediato. Egli sottolinea che un trattamento carcerario del genere viola l’articolo 27 della Costituzione italiana, che sancisce il diritto alla rieducazione del condannato e vieta trattamenti inumani. In un gesto di vicinanza e ascolto, Galavotti ha deciso di recarsi in carcere ogni venerdì pomeriggio per ascoltare le testimonianze dei detenuti. Le gravi carenze nella Prima sezione del carcere di Rimini richiedono un’azione immediata e risolutiva da parte delle autorità competenti. È fondamentale affrontare le criticità igienico- sanitarie, garantire spazi adeguati e rispettare i diritti umani fondamentali dei detenuti. L’ordinanza del magistrato di Sorveglianza rappresenta un importante passo avanti nell’evidenziare le condizioni inumane e degradanti che persistono all’interno di questa sezione del carcere. È responsabilità delle istituzioni competenti adottare misure concrete per risolvere le problematiche evidenziate da tempo da Ivan Innocenti del Partito Radicale e la camera penale, assicurando un ambiente di detenzione che sia rispettoso della dignità umana e che promuova la rieducazione e la reintegrazione sociale dei detenuti. A interessarsi della vicenda è anche Roberto Cavalieri, garante della regione dell’Emilia Romagna. Meno di un mese fa ha visitato nuovamente il carcere di Rimini, in particolare la famigerata prima sezione: nulla è cambiato e presenta le medesime condizioni descritti dall’ordinanza della magistratura di sorveglianza. Ha provato a sensibilizzare la commissione comunale, spiegando che l’unico rimedio è che tutti i detenuti presenti nelle sezioni facciano reclamo. Forse solo in questo modo, le autorità competenti saranno costrette ad intervenire. Napoli. Ciambriello: “Chiediamo qualità della pena accanto alla certezza” alanews.it, 14 luglio 2023 Il Garante campano dei detenuti: “Due giornate di confronto per accendere i riflettori. Queste due giornate di confronto tra gli 81 garanti dei detenuti vogliono accendere i riflettori sul carcere. In questo momento in Italia ci sono 57.230 detenuti. Saranno due giornate di lavoro importanti per noi anche per verificare i temi di diritto alla salute, il tema della salute mentale, il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione, all’affettività e anche all’habitat. Il nostro è un ruolo di garanzia, dobbiamo verificare che accanto alla certezza della pena ci sia anche la qualità della pena. Il sovraffollamento, la mancanza di personale sanitario, educatori, psicologi, ci porta a dire che il carcere purtroppo è una bomba a orologeria a miccia corta”. Lo dice Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, a margine della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale presso la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome in corso di svolgimento a Napoli. Matera. Nasce lo Spazio Giallo dedicato ai figli dei detenuti redattoresociale.it, 14 luglio 2023 Nato a Milano nel 2007 è diventato un modello adottato in diverse regioni. Il progetto è sostenuto da Enel Cuore e sarà a disposizione dei circa 100 minorenni che entrano ogni anno nel penitenziario lucano per incontrare il proprio papà. L’inaugurazione avverrà il 20 luglio. Verrà inaugurato il 20 luglio, alle ore 11, lo Spazio Giallo all’interno del carcere di Matera: è il percorso di accoglienza creato dall’Associazione Bambini senza sbarre Ets che sostiene il bambino a orientarsi e ad attenuare l’impatto con un ambiente potenzialmente traumatico. Saranno presenti il direttore d’Istituto Rosa Musicco, il comandante d’Istituto Semeraro Bellisario, il capo area pedagogica Walter Gentile, la coordinatrice della Rete Nazionale di Bambinisenzasbarre Martina Gallon, le referenti territoriali Tiziana Silletti e Marilena Savoia. Il progetto è sostenuto da Enel Cuore, la Onlus del Gruppo Enel attiva al fianco delle realtà che intervengono a tutela dei bisogni di chi vive in condizioni di fragilità e di disagio sociale, e sarà a disposizione dei circa 100 minorenni che entrano ogni anno nel carcere di Matera per incontrare il proprio papà, considerando che risponde al bisogno di 100mila bambini con il genitore detenuto in Italia e 2 milioni in Europa. Lo Spazio Giallo è il luogo fisico e relazionale per i bambini all’interno del carcere. Qui gli operatori possono intercettarne i bisogni, accoglierli in uno spazio a loro dedicato dove si preparano all’incontro con il genitore e attivare prese in carico dell’intero nucleo familiare con focus primario sul bambino. Nato a Milano nel 2007, lo Spazio Giallo è diventato un modello ed è ora attivo in rete nazionale in Lombardia, Piemonte, Marche, Toscana, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. “Lo Spazio Giallo e la sua realizzazione rispondono all’art. 2 della Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti - si legge in una nota -. La Carta viene siglata per la prima volta il 21 marzo 2014 e sempre rinnovata dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, dal ministro della Giustizia e dalla presidente di Bambinisenzasbarre. È un documento unico che riconosce formalmente il diritto di questi bambini al mantenimento del legame affettivo con il genitore detenuto in continuità con l’art.9 della Convenzione Onu sull’infanzia e l’adolescenza e nel contempo ribadisce il diritto alla genitorialità delle persone detenute e impegna il sistema penitenziario in una cultura dell’accoglienza che riconosca e tenga in considerazione la presenza dei bambini che incontrano il carcere loro malgrado. A rafforzare l’impatto della Carta - e del ruolo dell’Associazione a livello italiano ed europeo - si è anche imposta la Raccomandazione CM/Rec (2018)5, adottata ad aprile 2018 dal Consiglio d’Europa e rivolta al Comitato dei Ministri dei 46 stati membri. La Raccomandazione ha assunto come modello proprio la Carta italiana. “L’Italia è il primo Paese che ha siglato questa Carta - afferma Lia Sacerdote, presidente dell’associazione -. Una firma ed un segno forte per i 100mila figli di genitori detenuti, in sé è uno strumento radicale che ha trasformato i bisogni di questi minori in diritti, consentendo loro di non sentirsi più colpevoli e contrastando l’emarginazione sociale a cui sono esposti”. Prato. Nei circoli Arci si parla di carcere e teatro con Metropopolare notiziediprato.it, 14 luglio 2023 Si parte stasera da Cafaggio per raccontare il lavoro artistico che il collettivo artistico diretto dalla regista Livia Gionfrida porta avanti nella Casa Circondariale “La Dogaia”. Un ciclo di incontri nei circoli Arci di Prato per raccontare il lavoro artistico che il collettivo artistico Metropopolare diretto dalla regista Livia Gionfrida porta avanti nella Casa Circondariale “La Dogaia” di Prato da 15 anni. Parte stasera, giovedì 13 luglio, dalla Casa del Popolo di Cafaggio (ore 21) la serie di incontri estivi organizzati dalla compagnia teatrale per sensibilizzare e informare sul tema della detenzione e del teatro in carcere. Il calendario di incontri prosegue giovedì 20 luglio al circolo 29 martiri di Figline e martedì 19 settembre al Circolo Quinto Martini di Maliseti. Metropopolare conduce dal 2008 un progetto di ricerca, formazione e produzione teatrale all’interno del carcere di Prato, coinvolgendo professionisti dello spettacolo, detenuti ed ex detenuti. Il ciclo di incontri prevede una rassegna di tre appuntamenti sul tema del teatro in carcere, e piu? in generale sulla detenzione. Gli incontri saranno tenuti da Metropopolare e attori ex-detenuti provenienti dal laboratorio teatrale. Durante la serata racconti e testimonianze dell’esperienza di Metropopolare nelle carceri si alternano monologhi e pillole audio e video tratte dagli spettacoli realizzati all’interno del penitenziario con i detenuti partecipanti al laboratorio permanente. Il progetto è realizzato grazie al contributo del Comune di Prato. Sbagliato investire in armi i soldi del Pnrr di Massimiliano Smeriglio e Pietro Bartolo* Il Manifesto, 14 luglio 2023 Al Parlamento europeo c’è chi ha votato no. Per fare la pace servono diplomazie e negoziatori. Abbiamo votato ancora una volta no al Regolamento Asap sul sostegno alla produzione di munizioni perché continuiamo a pensare che sia sbagliato investire solo in armi e arsenali lasciati peraltro nelle mani dei singoli Stati nazionali senza far fare un passo in avanti alla politica e alla difesa comune europea. Armi costruite con i soldi del Pnrr togliendo risorse a servizi sociali e opere pubbliche. Il gruppo socialista ha fatto un gran lavoro per far togliere i fondi di coesione da questo atto. Un fatto positivo ma non basta a cambiare di segno a un regolamento sbagliato. Anche perché permangono, nel testo, richiami al fondo sociale europeo (quello con cui le regioni pagano le attività sociali e il diritto allo studio) e il fesr (quello con cui finanziamo le attività produttive). Non servono arsenali nazionali, serve più Europa e serve una Europa che sappia declinare il sostegno all’Ucraina facendo avanzare l’agenda di pace e la via del negoziato diplomatico. Evitando di lasciare da soli Papa Francesco e il cardinale Zuppi nella ricerca di uno spazio negoziale. Perché la pace non è solo una opzione etica è anche e soprattutto una scelta politica. Questa Europa non c’è, assiste silente alla escalation militare dettata dalla violenza dell’esercito russo e dalla risposta che viene dal vertice Nato di Vilnius così come dal protagonismo bellico di ogni singolo Stato europeo pronto a fornire tecnologie militari sempre più offensive e sofisticate. A cominciare da Francia e Germania. La guerra fa un salto di qualità sotto i nostri occhi, nella distrazione generalizzata della classe politica che appare impossibilitata ad assumere con determinazione la parola d’ordine “fermatevi prima che sia troppo tardi”. Balliamo su arsenali nucleari che potrebbero andare fuori controllo e osserviamo muti come se questo scenario non riguardasse la vita di milioni di persone, come se la guerra fosse solo un tema di posizionamento tattico nel circo della comunicazione politica. L’agenda di guerra inoltre determina un clima sempre più spostato a destra che vede la saldatura tra Conservatori, Popolari e destre estreme. Con la sinistra europea nell’angolo incapace di declinare con forza un altro punto di vista, un altro modo di stare sullo scenario bellico. La guerra uccide, ferisce, devasta, distrugge città, inquina, determina distratti ambientali, lacera comunità e aumenta le violenze di genere. Non è umanamente, socialmente e ambientalmente sostenibile. Crediamo sia necessario continuare a testimoniare una posizione netta, senza balbettìi nel nominare le responsabilità russe, ma con un orizzonte più ambizioso: per fare la pace non servono armi ma diplomazie e negoziatori. Questo dovrebbe essere il ruolo principale di una Europa, nata dalle ceneri della tragedia della seconda guerra mondiale, all’altezza della crisi che stiamo vivendo. *Europarlamentari di S&D Francia. Dal crimine di strada al separatismo. L’odio delle banlieue verso lo stato di Renzo Guolo* Il Domani, 14 luglio 2023 Nelle banlieue il percorso verso la marginalità di alcune fasce giovanili di origine maghrebina e subsahariana è scandito da precise tappe. Anche le donne, spesso rimaste da sole in Francia a causa della rottura con il partner o per il frequente pendolarismo di ritorno del marito, vedono ridimensionato il loro ruolo. Nel tempo la “questione banlieue” è divenuta oggetto di un acceso confronto politico, tale da indurre a una nuova classificazione di aree urbane ritenute particolarmente problematiche. Nelle banlieue il percorso verso la marginalità di alcune fasce giovanili di origine maghrebina e subsahariana è scandito da precise tappe: la vita di strada, lo spaccio, la piccola delinquenza, la trasformazione in “clienti fissi” della polizia e dei tribunali, il carcere, la radicalizzazione antagonista: per alcuni, anche la reislamizzazione in chiave jihadista. Per i maschi dei quartieri “sensibili” la strada è lo spazio comune di socializzazione. Mentre le ragazze, sottoposte a un maggiore controllo familiare e sociale e obbligate ai compiti domestici, passano buona parte del tempo in casa - condizione che, peraltro, consente loro migliore riuscita nei percorsi scolastici - i maschi si riversano all’aperto. Sospinti fuori dalle mura domestiche dalla maggiore libertà di cui godono e dal sovraffollamento tipico delle famiglie che vivono negli alloggi di edilizia popolare. La socializzazione avviene nel gruppo dei pari o nelle bande di strada. Il risultato è, tra le altre cose, la perdita di autorità agli occhi dei figli della famiglia. A partire dalla figura paterna, spesso già delegittimata per sua incapacità a fare da guida in un contesto del tutto diverso da quello d’origine. I tradizionali insegnamenti dei padri, specialmente se legati alla religione e alla cultura di provenienza, paiono del tutto inadeguati a chi vive in uno spazio metropolitano dove i codici simbolici, e la violenza, sono di altra natura. Anche le donne - in particolare quelle di origine subsahariana di prima generazione, spesso rimaste da sole in Francia a causa della rottura con il partner o per il frequente pendolarismo di ritorno del marito, tipico di quanti scandiscono il tempo sociale sui ritmi agricoli delle società africane, vedono ridimensionato il loro ruolo: la difficoltà nel comprendere le dinamiche del paese in cui si trovano a vivere, il non parlare correttamente il francese, condizione che le costringe a dipendere dai figli anche nei colloqui con gli insegnanti, ne limitano il peso. Così adolescenti e giovani non contano su figure adulte che paiono loro “squalificate” dalla società in cui vivono e reagiscono allontanandosene. L’autorevolezza genitoriale, del resto, non può essere ricostituita per via politica, come pure qualcuno invoca. Legami ormai minati alla base, si rivelano fragili in assenza di altri volani. La vita in strada espone i più giovani al contatto quotidiano con la criminalità e con la gerarchia sociale che questa struttura, prossimità che conduce allo spaccio di stupefacenti, alla ricettazione, a furti e aggressioni a scopo di rapina. In un contesto in cui disoccupazione e criminalità sono alti e reddito e istruzione bassi, la devianza è vissuta come scorciatoia per aggirare l’esclusione: almeno quella sul piano dei consumi. Riconquista repubblicana - Dopo la svolta, negli anni Novanta, della politica criminale, che ha condotto a un duro giro di vite nei confronti dei minori per cercare di arginare il fenomeno dei delitti contro la persona di cui erano spesso autori ragazzi di banlieue, quest’ultimi sono costantemente tenuti sotto pressione dalla polizia. Non è casuale che venga spesso loro contestato il reato di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, tipico “reato d’onore” prodotto delle tensioni di strada. Una spirale che, da un lato, conduce a un’aspra conflittualità giovanile con la polizia, spesso per i banlieusards il solo volto conosciuto dello Stato, insieme a quello degli insegnanti e degli assistenti sociali; dall’altro, a un’inflazione di procedimenti penali e amministrativi, sia per oltraggio e resistenza, sia per violenza illegittima da parte degli agenti accusati dai fermati di eccedere nell’uso della forza. Le “infrazioni nei confronti dei depositari della forza pubblica” sono la forma della conflittualità quotidiana nei confronti dello Stato tra la popolazione giovanile dei quartieri “prioritari”. La legge del 2017 sul “rifiuto di ottemperare”, che consente alle forze dell’ordine l’uso delle armi da fuoco in caso il conducente di un veicolo non si fermi e si presuma possa causare “in caso di fuga danni alla vita, all’integrità fisica, degli agenti di polizia, o quella di altri” - provvedimento che ha aumentato di quattro volte gli episodi mortali rispetto ai vent’anni precedenti - non ha fatto che alimentare una contrapposizione che assume talvolta i caratteri della sfida. La profilazione di polizia, che fa dei banlieusards idealtipi di soggetti a rischio devianza e conduce a pregnanti forme di controllo del territorio, chiude il cerchio. Nel tempo la “questione banlieue” è divenuta oggetto di un acceso confronto politico. Tale da indurre a una nuova classificazione, mirata a enfatizzare il livello di rischio, di aree urbane ritenute particolarmente problematiche, definite dal 2018 “quartieri di riconquista repubblicana” (Qrr): si tratta di 62 zone che si sovrappongono a circa 120 “quartieri prioritari”, nelle quali è stata disposta una maggiore dislocazione di forze di polizia incaricate di svolgere un’azione di contrasto alla delinquenza, fungere da polizia di prossimità e garantire la sicurezza quotidiana. È soprattutto nelle aree critiche delle periferie che la morsa penale si stringe attorno a “maghrebini” e “africani”, termini con i quali, nel linguaggio comune vengono genericamente indicati quanti sono nati, o sono originari, dei paesi del Maghreb: Marocco, Algeria, Tunisia; o di quelle che, sino al secolo scorso, erano le colonie di Parigi nell’ex-Africa Occidentale Francese: Mauritania, Senegal, Mali, Niger, Burkina Faso (Alto Volta), Benin (Dahomey), Costa d’Avorio, Guinea. Questa fascia della popolazione appare la più toccata dalla spirale marginalità/devianza. Gli africani sono colpiti da pene detentive in genere più elevate, nella media, di quelle inflitte ai francesi autoctoni che compiono il medesimo reato, poiché incorrono spesso nella recidiva. Ma nella maggiore durezza della repressione penale nei loro confronti incide anche la percezione, alimentata dal discorso pubblico e dal senso comune, che facciano parte di quelle che un tempo venivano chiamare “classi pericolose”. Se l’aumento dei reati compiuti da persone che vivono nei Qpv è un dato di fatto, è significativo che la percentuale sul totale nazionale degli imputati per resistenza e oltraggio sia, nel decennio che precede la rivolta delle periferie del 2005, del 25 per cento per i “maghrebini” e del 20 per cento per gli “africani”: tra i minorenni, rispettivamente, il 38 per cento e il 28 per cento. Reati che, cumulati con altri, contribuiscono a spalancare loro frequentemente le porte del carcere. Separatismo - All’opposto, crescono le denunce contro le violenze attribuite alla polizia, altro aspetto della crescente conflittualità nelle aree “sensibili”. L’accesso al contenzioso giudiziario da parte di chi non era solito ricorrervi - la “generazione dei padri” giunta in Francia tra gli anni Cinquanta e Settanta, difficilmente avrebbe chiesto a un tribunale francese di pronunciarsi sulla liceità della condotta di un uomo in divisa - ma anche l’aumento dei reati contro la forza pubblica, segnalano come sulla giustizia penale si sia scaricata, in una logica di supplenza istituzionale, la gestione della crescente conflittualità sociale tra popolazione delle periferie più disagiate e lo Stato. I processi per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, e l’azione di risarcimento danni da parte dei poliziotti che vi danno corso, scelta che “personalizza” il conflitto aggravando le tensioni di strada, diventano, in assenza di arene discorsive diverse dalle aule di tribunale, riti non solo giudiziari dai quali emerge il diffuso malessere dei giovani delle banlieue. È anche attraverso questi percorsi giudiziari, conclusi quasi sempre in maniera sfavorevole, che i giovani delle cité si radicalizzano. Durante l’iter processuale si convincono di essere vittime dell’ingiustizia. Vittimizzazione fondata sulla convinzione che le loro origini, la loro cultura, la loro religione, e lo stigma che li accompagna e li unisce in un destino comune, facciano di loro cittadini con diritti affievoliti. Considerazioni che inaspriscono il risentimento nei confronti della République e, in taluni casi, li spinge a cercare di riversare quella rabbia nell’adesione a una concezione del mondo “separatista”, come quella di taluni gruppi salafiti, o totalmente antagonista come quella veicolata da gruppi appartenenti all’islam radicale, che promettono di battersi contro l’occidente e i suoi valori. *Sociologo Tunisia, i pogrom innescati da Saied di Domenico Quirico La Stampa, 14 luglio 2023 Il presidente si è fatto rais con tecnica populista, nel Paese imperversano violenza e povertà. In questo imbrogliato scorcio della vita italiana ed europea, per le peggioranti contingenze mediterranee, da Roma si indicano alle urgenti premure finanziarie dell’Unione e del Fondo monetario le sorti traballanti della Tunisia. Paese grondante di scontento ma soprattutto di debiti; dovuti, ma questo è lasciato ai delicati e allusivi segni del linguaggio diplomatico del dire senza dire, a corrotte e asinine politiche di coloro che l’hanno sfasciata in questi ultimi non indimenticabili anni. Si ritorna, insomma, al momento in cui una sommossa piena di buona volontà ma non di progetti chiari rovesciò il tirannello locale. Erano le Primavere arabe ma ormai son quasi preistoria. Uno di questi politicanti ha nome Kais Saied: il presidente che con improntitudine neppur troppo omeopatica ha allargato i suoi poteri fino a farsi rais e uomo della Provvidenza. Tecnica populistica che bisognerà analizzare per delineare nuove tecniche di colpo di stato silenzioso. Pizzichiamo con lui una corda per noi sensibilissima: i migranti. Con questo Sayed scambiamo infatti esplicite effusioni e nuvole di incenso non solo italiane ma anche europee. Perché salvare la Tunisia significa, a non voler essere ipocriti, salvar lui. Come mai ci intenerisce tanto? Gli si vuole affidare il ruolo di setaccio dei migranti, “i subsahariani” come si dice nel gergo internazionale della cosiddetta “politica della migrazione’’. I milioni che si intende fornirgli serviranno a fermare “l’invasione’’ e a restare al palazzo di Cartagine evitando che la bancarotta inneschi una seconda rivoluzione. Le rivolte del pane da queste parti, si sa, finiscono con fughe precipitose in Arabia saudita. Per questa funzione di inesorabile setaccio gli occhi delle delegazioni dall’altra sponda si illuminano di gratitudine quando il disinvolto ex giurista riceve e fa promesse con liturgica solennità. Lui ci aggiunge la furberia del bottegaio abituato a far sospirare la merce per alzare il prezzo. Ma da Sfax, nuovo molo della disperazione, arrivano adesso alcuni filmati, che si aggiungono alle denunce di migranti abbandonati nel deserto e di “ratonnade’’ di migranti. Le nuove immagini mostrano in azione poliziotti evidentemente maneschi e ma anche tipacci, uomini di mano maneggiatori di bastoni e pugnali, cui non ripugna il sangue: teppaglia che tutti i regimi reclutano per lavori sudici. Poiché alle immagini si deve sempre aggiungere una didascalia, allora la parola perfetta per la sintesi di tutto ciò è pogrom: l’antico sistema inventato dagli sbirri autocratici per distrarre l’attenzione e trovare il bersaglio su cui scatenare la cieca rabbia popolare. Maneschi sfuggiti mano? Frange isolate? Non si direbbe. Visto che è stato proprio lui, il presidentissimo, ad indicare il 21 febbraio scorso con linguaggio esplicito e niente affatto cabalistico, nei migranti dall’Africa nera lo strumento di una “sostituzione etnica” capace di turbare la purezza della sua Tunisia. Saied ruba gli argomenti agli xenofobi che lo corteggiano, si allinea con un implacabile apartheid africano. “Respinge’’: come gli chiediamo noi a gran voce. Risolve con metodi un po’ spicci la seccatura dei “flussi primari’’, lasciandoci la più facile incombenza di ripulire gli angolini residui di quelli “secondari’’. Con lui, invece di dar una mano alla Tunisia democratica che lo vuole licenziare, non saremo certo taccagni. Tunisia. Saied e il partito nazionalista fomentano l’odio contro i migranti di Sami Ben Gharbia* La Stampa, 14 luglio 2023 Sebbene questi video tolgano il fiato, si prevedeva che ci sarebbe stata violenza contro i migranti sub-sahariani in Tunisia, esacerbata dal discorso razzista e populista del Presidente tunisino Kais Saied. Le dichiarazioni offensive del Presidente hanno causato paura tra i migranti e i tunisini neri, che ha provocato una reazione violenta contro i migranti in tutta la nazione. Resoconti e testimonianze rivelano una serie di abusi, tra cui violenze fisiche, uccisioni, detenzioni arbitrarie, sfratti, sfruttamento, discriminazione sistematica e rifiuto di accesso al cibo, all’acqua e alle cure mediche. Anche la presente ondata di repressione è indubbiamente legata all’esternalizzazione delle politiche sull’emigrazione dell’Unione Europea, con una potenziale influenza dovuta alla pressione italiana e alle azioni di lobbying del Partito Nazionalista Tunisino. Il Partito Nazionalista Tunisino, noto per la sua posizione xenofoba e di rifiuto verso i migranti sub-sahariani, ha svolto un ruolo perpetuando propaganda e discorsi razzisti contro i migranti sub-sahariani di origini africane. Questo partito, insieme al Presidente tunisino Kais Saied, ha contribuito a generare discorsi di odio e razzisti rivolti ai migranti, che hanno provocato ostilità e aggressioni contro i residenti neri in Tunisia. Il complesso rapporto con la razza e il razzismo in Tunisia è palese, poiché il paese è orgoglioso di essere la prima nazione musulmana ad aver abolito ufficialmente la schiavitù, eppure lotta con un razzismo profondamente radicato contro i neri che permea vari aspetti della società. La situazione ha prodotto violenza xenofoba, arresti da parte della polizia ed espulsioni nei confronti di migranti. È evidente che la Tunisia ha molto cammino da percorrere per considerare e affrontare il proprio problema di razzismo verso i neri e sono necessarie misure urgenti per eliminare i pregiudizi e combattere la violenza razzista. La Commissione delle Nazioni Unite ha formulato un avvertimento e una dichiarazione di procedura d’azione d’urgenza, sollecitando la Tunisia a porre fine all’incitamento all’odio e alla violenza contro i migranti sub-sahariani. La situazione ha, inoltre, indotto vari governi a organizzare voli per rimpatriare i propri cittadini. Centinaia di migranti provenienti da paesi quali la Costa d’Avorio, il Mali, la Guinea e il Senegal, hanno deciso di ritornare in patria a causa della violenza. Molti altri migranti e rifugiati sono stati sfrattati con la forza dalle loro abitazioni o hanno perso il lavoro. ONG riconosciute che operano nel campo dei diritti umani, sollecitano l’adozione di misure concrete per affrontare questa crisi, tra cui sensibilizzare il pubblico, ritenere le autorità tunisine responsabili, collaborare con altre organizzazioni per fornire assistenza e supporto alle vittime e condividere informazioni pertinenti. Le organizzazioni per i diritti umani hanno considerato insufficienti le misure annunciate dal governo tunisino per affrontare il forte aumento della discriminazione e degli abusi razzisti. È evidente che la situazione sta peggiorando e che è necessario agire urgentemente per affrontare la violenza e proteggere i diritti dei migranti sub-sahariani in Tunisia. La situazione sta peggiorando. Purtroppo, l’accettazione da parte della società locale della violenza è estremamente preoccupante. *Attivista tunisino per i diritti umani L’odissea degli afghani nelle prigioni degli Usa di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 14 luglio 2023 In fuga dai talebani a migliaia detenuti al confine con il Messico. E così il sogno americano si è presto trasformato in un incubo. Fuggiti da un paese lasciato precipitosamente in mano ai talebani dalla coalizione occidentale, Usa in primis, molti afghani tentano di raggiungere proprio gli Stati Uniti. Scappano perché le condizioni economiche dell’Afghanistan stanno peggiorando giorno dopo giorno, ma soprattutto perché in migliaia hanno lavorato con gli americani durante l’occupazione. Le opzioni per un’immigrazione legale però sono limitatissime e così intere famiglie intraprendono viaggi pericolosi per entrare in modo irregolare. Ad aspettarli c’è un sistema di detenzione composto da centri che in realtà sono delle vere e proprie prigioni mentre sulla loro testa incombe lo spettro di una possibile espulsione. Le strutture si trovano al confine tra Messico e Stati Uniti, si tratta di camerate, costruite in fretta, spoglie e con i pavimenti in cemento, dove a volte soggiornano anche cento persone sebbene la capienza massima dovrebbe essere di non più di venti. La sorveglianza è strettissima, la possibilità di contatti esterni pressoché inesistente. Il sogno americano si trasforma in incubo perché nessuno di coloro che è arrivato poteva aspettarsi un trattamento simile. Gli afgani si trovano in un limbo, sia esistenziale che geografico. Una delle poche speranze che l’istanza di asilo venga accolta e affidata a gruppi di attivisti e legali come Laila Ayub, un avvocato del gruppo afgano per i diritti degli immigrati Project ANAR la quale spiega come “nessuno correrebbe questi rischi a meno che non fosse necessario” quello che succede “è legato totalmente al fatto che non ci sono percorsi accessibili verso gli Stati Uniti”. Eppure, come detto, in molti hanno lavorato con il governo sostenuto da Washington in settori come la sicurezza e i diritti umani. Una colpa gravissima agli occhi dei talebani che li hanno fatti diventare dei bersagli dopo l’agosto 2021. La storia di chi fugge dall’Afghanistan è quasi sempre la stessa. Intere famiglie hanno visto la loro esistenza messa a rischio, hanno venduto tutti i loro beni e sono partiti, destinazione Messico in attesa di mettere piede sul suolo americano. Ma il viaggio, prima della sua meta finale, è pericolosissimo. Spesso gli immigrati devono attraversare migliaia di chilometri e almeno una dozzina di paesi. Il tragitto per tanti è cominciato su un treno verso nord attraversando l’America centrale, poi a piedi tappa dopo tappa, passando per foreste pluviali e montagne scoscese. I pericoli non finiscono qui perché i rifugiati sono preda di gruppi criminali e autorità illegittime che lungo il percorso spesso derubano le persone di soldi, documenti e dispositivi elettronici per comunicare. Si registrano anche alti tassi di violenze sessuali. Queste condizioni e storie stanno diventando la norma ma nonostante tutto il flusso continua come confermano organizzazioni che lavorano con famiglie afghane reinsediate a cominciare dal gruppo 5ive Pillars Organization. Inizialmente, quando il governo sostenuto dagli Stati Uniti è crollato, quasi 90mila afghani sono stati portati negli Stati Uniti attraverso un meccanismo noto come libertà condizionale umanitaria, uno sforzo chiamato Operazione Allies Welcome. Ma degli oltre 66mila afghani che hanno chiesto la libertà condizionale umanitaria dal luglio 2021, meno di 8mila hanno avuto le loro domande esaminate, secondo i media che si sono occupati di questa situazione. Il tasso di domande accolte è stato ancora più ridotto, solo 123. Altri programmi come lo Special Immigrant Visa (SIV), istituito per gli afgani che hanno lavorato con gli Stati Uniti, sono arretrati. I tempi di attesa possono durare anni e più di 62mila domande completate erano in sospeso a partire dal gennaio di quest’anno.