Il tragico costo dell’estate in carcere: malori, patologie e suicidi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 luglio 2023 Siamo nel pieno della calura estiva, e in carcere si soffre e si muore. Come di consueto, questo è il periodo in cui nella vita quotidiana aumentano i malori, si acuiscono le patologie e si verificano più suicidi. Nei penitenziari, i problemi si amplificano, soprattutto con le attuali condizioni strutturali e il sempre più evidente sovraffollamento. L’ultima morte quella di un detenuto di 44 anni che si è impiccato ieri nel carcere di Torino, all’interno della sua cella. Circa un mese fa era stato dimesso dalla Sezione Psichiatra VII Padiglione A e, successivamente trasferito al padiglione B, XI Sezione. Sempre ieri è da registrare la morte, la cui causa è ancora da accertare, ma molto probabilmente dovuta a un infarto, di Giuseppe Petrella, un cinquantunenne recluso nel carcere di Benevento che avrebbe finito di scontare la pena a ottobre. Tuttavia, due giorni prima, nel carcere di Poggioreale, era morto un giovane algerino di soli 24 anni, le cui cause sono ancora da stabilire. Dall’inizio dell’anno, abbiamo raggiunto quota 33 suicidi, con un totale di oltre 68 decessi in carcere. Secondo il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, i dati a livello nazionale e regionale sono preoccupanti. Durante i mesi estivi di luglio e agosto, si registra un aumento delle morti in carcere dovute a infarti, malattie e suicidi. Per Ciambriello è necessario agire sulla prevenzione, piuttosto che limitarsi a commemorare queste tragedie. Esistono numerosi sintomi di disagio e problematiche sanitarie che fungono da campanelli d’allarme, e monitorarli e intervenire tempestivamente è fondamentale. Oltre a ciò, le condizioni di vita fisiche, ambientali e igienico- sanitarie all’interno dei penitenziari, unite al sovraffollamento e alle temperature elevate, sono fattori che contribuiscono all’aumento delle forme di autolesionismo. L’assenza di figure di supporto e di aiuto sociale rende ancora più difficile per i detenuti affrontare le difficoltà quotidiane e le sfide emotive che derivano dalla privazione della libertà. Ciambriello denuncia la cinica indifferenza e la mancanza di coraggio politico nei confronti delle problematiche carcerarie. Il Garante campano sottolinea che la riforma della giustizia dovrebbe includere un capitolo significativo sul sistema carcerario stesso, coinvolgendo non solo gli agenti penitenziari, ma anche gli educatori e tutti coloro che operano nel settore privato e nel volontariato sociale. Ma è altrettanto interessante ricordare che il Garante Nazionale delle persone private della libertà ha sollevato una questione cruciale riguardo ai suicidi all’interno delle carceri italiane che non possiamo ridurre in modo semplicistico alle sole condizioni materiali degli istituti penitenziari o al sovraffollamento. Un aspetto che emerge è il suicidio di coloro che sono prossimi alla liberazione, magari dopo aver scontato una lunga pena. Questo gesto estremo non può essere ragionevolmente attribuito esclusivamente al degrado delle strutture o alla densità della popolazione detenuta, elementi che si sono sperimentati per tutto il periodo di detenzione. Anche chi si toglie la vita poche ore o pochi giorni dopo l’ingresso in carcere (15 casi su un totale di 85 suicidi nel 2022, di cui 10 entro le prime 24 ore) sembra essere determinato non tanto dall’impatto con le condizioni della prigione, quanto dalla percezione di essere caduti in un ‘buco nero’ senza vie d’uscita. Questo ‘buco nero’ è chiaramente percepito da coloro che decidono di suicidarsi poco prima della fine della pena. La mancanza di prospettive di un effettivo reinserimento nella vita sociale, di riferimenti di sostegno e di possibilità di superare lo stigma sociale viene avvertita come una realtà inalterata. È per questo motivo che la morte di coloro che sono vicini a tornare in libertà interpella in modo implacabile l’intera società civile: sia le reti di sostegno sociale che l’intera comunità sembrano assenti rispetto al dovere civico di reintegrare coloro che hanno concluso la loro pena. Questa riflessione solleva importanti questioni sulla natura complessa del sistema penitenziario e sulle sfide che affronta. Non possiamo limitarci a guardare solo alle condizioni materiali delle carceri, ma dobbiamo affrontare il problema in modo più ampio, considerando il contesto sociale in cui operano i detenuti. Il reinserimento sociale dovrebbe essere un obiettivo primario, e il sostegno emotivo e psicologico dovrebbe essere garantito a tutti i detenuti, specialmente a coloro che si avvicinano alla fine della pena. La responsabilità non ricade solo sulle istituzioni penitenziarie, ma anche sulla società nel suo insieme. Solo attraverso un approccio più ampio e inclusivo possiamo sperare di affrontare efficacemente il problema dei suicidi nelle carceri italiane e garantire una reale opportunità di riscatto per coloro che hanno scontato la pena. È giunto il momento di riconoscere che il sistema carcerario non può essere considerato un ‘buco nero’ dalla società, ma piuttosto un luogo in cui si svolge un lavoro importante e delicato per la riabilitazione e il reinserimento dei detenuti. La riforma del sistema penitenziario dovrebbe essere una priorità politica e sociale, affrontando soprattutto le questioni emotive che influenzano la vita delle persone recluse. Senza dimenticare che il carcere, in un Paese moderno e civile, dovrebbe essere considerato l’estrema ratio. Carceri, l’introspezione è libertà: i percorsi di consapevolezza dietro le sbarre di Associazione Liberation Prison Project La Repubblica, 13 luglio 2023 Sono 15 le carceri italiani in cui l’Associazione Liberation Prison Project (LPP) ha avviato percorsi di consapevolezza per le persone detenute e il personale carcerario, realizzati grazie ai fondi 8xmille dell’Unione Buddhista Italiana. L’introspezione può contribuire a realizzare il principio rieducativo dell’articolo 27 della Costituzione: l’Associazione Liberation Prison Project, nata nel 1996 negli Stati Uniti per iniziativa di una monaca buddhista, offre percorsi di consapevolezza nelle carceri italiane, rivolti sia alle persone detenute sia al personale (come educatori e agenti di polizia penitenziaria), ma anche a ex-detenuti e familiari. Un’attività basata sulla convinzione che anche nei luoghi di detenzione è possibile lavorare sul piano dello sviluppo personale e della conoscenza di sé, sul proprio “essere umano”. Percorsi ispirati alla laicità. LPP si ispira alla filosofia buddhista ma i percorsi - di gruppo e individuali - sono del tutto laici e riguardano in primis l’allenamento alla consapevolezza, ovvero la centratura della mente nel “qui e ora”, l’ascolto di se stessi, con una presenza non giudicante. Oggi i percorsi di LPP, iniziati nel 2009, sono presenti in 15 istituti penitenziari, tra cui spicca il carcere di Milano-Bollate con ben 5 gruppi, ma anche Torino, Monza, Pavia, Lodi, Padova, Modena, Pisa, Volterra, Livorno, Velletri, Trani, Alghero, Palermo, Treviso. Una diffusione in continua crescita anche nel 2023. L’iter formativo degli operatori. Gli operatori che entrano in carcere e conducono i percorsi di consapevolezza devono seguire un rigoroso iter formativo che favorisce l’acquisizione di elementi teorici e pratici per operare in un contesto non facile, dovendo instaurare relazioni con la direzione penitenziaria, la popolazione detenuta, i funzionari e gli agenti di polizia penitenziaria. Oggi gli operatori attivi sono in tutto 22, e tengono gruppi settimanali composti da 10-15 persone. Una proposta adatta a tutti. “Gli operatori devono addestrarsi molto ed essere motivati, perché non è un confronto facile; devono essere prima di tutto ‘autentici’ ed esercitare una forma di comprensione ma senza dimenticare le vittime dei reati. Sono dei guerrieri di compassione”, commenta Lara Gatto, presidente di Liberation Prison Project Italia, che continua spiegando come LPP accolga qualunque persona detenuta mostri interesse per il percorso: “È una proposta adatta a tutti perché fondata su aspetti che caratterizzano ogni essere umano; non importa l’estrazione sociale, la provenienza geografica, culturale o religiosa”. I principali obiettivi. I percorsi di Liberation Prison Project hanno tra gli obiettivi principali quello di contribuire a generare ambienti più pacifici, dentro e fuori dal carcere; in particolare sono stati avviati gruppi rivolti alla gestione della rabbia per i “nuovi giunti”, le persone appena arrivate in carcere e i “dimittendi”. Una realtà no-profit. LPP è una delle piccole realtà non profit che l’Unione Buddhista Italiana sostiene: l’impatto delle attività finanziate con l’8xmille è evidenziato nell’Impact Report 2022, primo rapporto di sostenibilità realizzato da una confessione religiosa in Italia e disponibile sul sito. Baluardo Quirinale: nel match tra politica e giustizia Mattarella non sarà spettatore di Ugo Magri La Stampa, 13 luglio 2023 Negli stessi minuti in cui Giorgia Meloni riaffermava da Vilnius l’intenzione di tirare diritto sulla giustizia, e ieri pomeriggio intimava alle toghe di non distrarre il manovratore, il presidente della Repubblica stava incontrando al Quirinale i massimi vertici della magistratura italiana. Per dirsi che cosa, non è dato sapere: c’è un comunicato, sì, ma piuttosto scarno. Vi si specifica semplicemente che Sergio Mattarella ha incontrato Margherita Cassano, primo presidente della Cassazione, e Luigi Salvato, procuratore generale presso la Suprema Corte. Né dal Colle sono filtrate indiscrezioni al riguardo. Tuttavia l’accavallarsi degli eventi, per quanto forse casuale, è significativo di suo. Proviamo a interpretarne il senso: proprio mentre il sistema giudiziario si sente sotto attacco, e addirittura Palazzo Chigi accusa parte della magistratura di fare opposizione strisciante al governo, con l’Anm furibonda sul piede di guerra, ecco il capo dello Stato che riceve nel suo salotto giudici e procuratori al più alto grado; non certo per rampognarli, come qualcuno da destra magari proverà a insinuare; semmai il contrario, per fugare certi timori, per tranquillizzare i magistrati, per rassicurarli che, fino a quando lassù ci sarà un Garante, nessuna loro delegittimazione verrà tollerata, l’equilibrio tra poteri sarà sempre salvaguardato. Insomma, un chiaro segno di vicinanza. Altro significato del colloquio, ancora più netto: in questo match tra politica e giustizia Mattarella sarà tutto tranne che spettatore. La posta è troppo alta per tenersene fuori. Nelle forme dovute il presidente scenderà in campo facendo pesare la propria opinione attraverso quella che, con un anglicismo, viene definita dai giuristi “moral suasion”, cioè l’arte di persuadere con l’autorevolezza del ruolo. Una prima occasione si presenterà stasera, quando la premier salirà sul Colle per un appuntamento ormai purtroppo di routine, l’ennesima riunione del Consiglio Supremo di Difesa dedicato alla guerra in Ucraina. Il summit coi vertici militari è fissato alle 17 e durerà un’oretta almeno; dopodiché è possibile, anzi probabile, che una volta congedati i generali Mattarella e Meloni vogliano approfittarne per fare un “punto nave” e fissare alcune coordinate politiche. Ieri sera non era stato formalizzato alcun appuntamento, ma a organizzarlo è sufficiente un attimo. Dunque ci sarà il vis-à-vis. Una volta che presidente e premier si ritroveranno di fronte, il discorso inevitabilmente cadrà sulla riforma Nordio di cui sul Colle è incominciato il vaglio. Mattarella dovrà autorizzarne la presentazione alle Camere e sulla sua decisione non sussistono dubbi: sarà certamente un via libera, il presidente ci metterà la firma perché non è mai accaduto nella storia della Repubblica che una riforma in embrione venisse bocciata prima ancora dell’esame parlamentare. Veti preventivi del Quirinale sarebbero concepibili, secondo gli esperti della materia, soltanto in caso di riforme francamente “eversive” tipo (per assurdo) il ritorno alla Monarchia o l’instaurazione di un regime dittatoriale, e non è questo il caso. Inoltre si sa, durante l’esame parlamentare un testo può venire riscritto da cima a fondo, cosa che spesso capita; alle volte lo stesso governo può farsi parte diligente, cambiando gli aspetti più controversi (il ministro Guardasigilli, a quanto risulta, è disponibile a confrontarsi nel merito); in astratto può perfino accadere che non se ne faccia più nulla, che strada facendo la voglia svapori e che il ddl sulla giustizia aggiunga una croce nel malinconico cimitero delle riforme mai nate. Tutti motivi per cui non sarà Mattarella a mettersi di traverso, specie in questa fase. Il presidente rivendica il diritto di decidere a conclusione dell’iter, se e quando il testo approvato dalle Camere arriverà sulla sua scrivania. Intanto, però, dalla lettura del ddl stanno emergendo svariate criticità. Da quanto è dato sapere, riguardano soprattutto l’abolizione dell’abuso d’ufficio: novità che va incontro alle richieste bipartisan degli amministratori locali ma, per come è stata formulata, potrebbe configgere con le normative europee. Altri potenziali pericolosi cortocircuiti riguardano il “traffico di influenze”, reato su cui s’è abbattuta la scure di Nordio. Con un’aggravante, secondo i giuristi di casa al Quirinale: nel momento in cui siamo sotto stretta osservazione a Bruxelles per via del Pnrr e dei miliardi che non sappiamo spendere, cancellare certi reati non sarebbe un bel vedere sul terreno del rigore morale. Daremmo una cattiva rappresentazione di noi. Di tutto questo Mattarella parlerà con Meloni. Se stasera troveranno il tempo di confrontarsi, il presidente esporrà i suoi dubbi col tono costruttivo di sempre. Rivendicherà in particolare l’importanza che la giustizia non torni ad essere un campo di battaglia. In pubblico la premier promette che non farà guerra alle toghe; ma abbassare il volume, farà intendere il presidente, è un imperativo per tutti, nessuno escluso. Il messaggio ai magistrati (e anche ai suoi) di Massimo Franco Corriere della Sera, 13 luglio 2023 Giorgia Meloni ha negato un conflitto con le toghe. Ma questo non significa che le tensioni non esistano. Forse Giorgia Meloni non parlava solo ai giudici, ma anche alla sua maggioranza quando ieri ha negato un conflitto con la magistratura. “Non c’è da parte mia”, ha precisato. E “chi confida in un ritorno dello scontro resterà deluso”. Non significa che le tensioni non esistano, né che scompariranno presto. Alla fine del vertice Nato a Vilnius, in Lituania, la premier ha blindato il ministro Daniela Santanchè e il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro: seppure solo per alcune “anomalie” procedurali che sostiene di avere accolto “con stupore”, senza entrare nel merito. Dettaglio vistoso, e in apparenza contraddittorio, ha anche rivendicato la nota anonima di Palazzo Chigi che cinque giorni fa parlava di una magistratura “all’opposizione” del governo in vista della campagna elettorale per le Europee del 2024. Ma la sensazione è che Giorgia Meloni stia cercando di evitare un peggioramento ulteriore dei rapporti. Pur tenendo ferma la volontà di una separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, si è augurata che la riforma sia fatta “col contributo” dei magistrati. Insomma, Palazzo Chigi sembra proporre una tregua, ma alle proprie condizioni. Le uniche parole esplicitamente critiche sono state per il presidente del Senato, Ignazio La Russa: la carica istituzionale più alta di FdI. Meloni ha spiegato che comprende il dolore di “Ignazio” per l’inchiesta per stupro su uno dei suoi figli. Ma “non sarei intervenuta nel merito della vicenda”. E “tenderei a solidarizzare per natura con una ragazza che denuncia. Non mi pongo il problema dei tempi”. È una presa di distanza che ha lo scopo di disarmare i suoi critici distinguendo tra le varie questioni, e cercando di sottrarle alla polemica politica. Operazione arrischiata, anche se lascia in sospeso qualunque decisione futura. Dire, come ha fatto la premier, che non basta un avviso di garanzia per provocare le dimissioni di un ministro, è una posizione difficilmente contestabile. Di più, è il segno di una cesura rispetto agli anni di un populismo giudiziario dal quale pochi sono stati immuni. Il problema si porrebbe se Daniela Santanchè, titolare del Turismo, fosse rinviata a giudizio. Le opposizioni, però, la accusano di avere mentito al Parlamento. E questo le porta a puntare il dito contro di lei e contro Meloni che la difende. Non bastasse, la Lega si dice pronta a “prendere atto” di un passo indietro di Santanchè. La preoccupazione della premier, ieri, era quella di uscire dall’angolo di un silenzio imputatole dagli avversari come reticenza o, peggio, fuga. Voleva recapitare un messaggio almeno in parte distensivo alla “stragrande maggioranza di magistrati” che cercano di capire quale sarà alla fine la riforma della giustizia. Ma è chiaro che si tratta dell’inizio di una partita difficile, e non della sua archiviazione. Lo schiaffo di Meloni alle toghe: “Abbiamo un programma e lo realizzeremo” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 luglio 2023 Sulla riforma della Giustizia la premier tira dritto e appoggia il guardasigilli. E ai magistrati dice: “Non è una punizione”. Finalmente ieri la premier Giorgia Meloni ha rotto il silenzio e, sollecitata dai cronisti nella conferenza stampa al termine del vertice Nato a Vilnius, ha parlato finalmente di giustizia e degli ultimi accadimenti di queste settimane, ossia i casi Daniela Santanché, Ignazio La Russa e figlio, Andrea Delmastro delle Vedove e lo scontro con la magistratura associata. Durante l’incontro con i giornalisti dedicato principalmente a questi temi, invece che a quelli oggetto dell’incontro nella capitale lituana, la premier ha esordito: “Noi abbiamo un programma chiaro, un mandato che ci è stato dato dai cittadini, lo realizzeremo perché siamo persone che mantengono gli impegni e conveniamo che in Italia la giustizia ha bisogno di correttivi, va resa più veloce, efficiente, deve essere e apparire imparziale”. Per quanto concerne le comunicazioni del sindacato delle toghe ha detto: “Mi hanno sorpreso in queste ore alcune dichiarazioni dell’Associazione nazionale magistrati”. Per poi ripetere quanto detto in questo ultimi giorni da diversi esponenti delle tre forze che compongono la maggioranza: “Non c’è uno scontro tra governo e magistratura, quasi come se queste nostre posizioni, che sono appunto posizioni che portiamo avanti da sempre, avessero una sorta di intento punitivo da parte del governo nei confronti della magistratura”. Giorgia Meloni si è detta “sorpresa che l’Anm interpreti in modo apocalittico il nostro programma come un intento punitivo, separare le carriere significa dare più efficienza alla magistratura e garantirne la terzietà. Qual è il nesso tra una polemica che nasce su un fatto specifico e la separazione delle carriere? Le due cose non sono legate. Sono due materie completamente diverse, consiglio prudenza perché su questo piano si va verso un dibattito che non aiuta, nessuno è custode del bene o del male”. Fatta questa cornice è poi entrata nel merito dei casi singoli che stanno coinvolgendo una ministra, il presidente del senato, e un sottosegretario, tutti di Fratelli d’Italia. In merito a questo capitolo ha debuttato: “Mi riconosco nella nota di Chigi” che tanta polemica aveva suscitato perché da più parti era partita l’accusa che nessuno voleva mettere la faccia su quelle dichiarazioni in cui si affermava che è “lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”. In merito sempre ad essa: “La nota Chigi non è riferibile al tema La Russa in alcuna misura, ma al combinato disposto fra l’imputazione coattiva (coatta, ndr) a Delmastro, che è una cosa che guardo con stupore, di fronte una richiesta di archiviazione, una scelta lecita giuridicamente ma un fatto che non avviene quasi mai; nel momento in cui avviene nei confronti di un sottosegretario, io ne assumo la consapevolezza, esattamente come rispetto all’avviso di garanzia alla Santanché. Il fatto che si apprenda dai giornali non è normale in uno stato di diritto. Se saltano le regole uno si deve interrogare sul perché”. E poi ancora: “Mi sono limitata a prendere atto di quelle che mi sono sembrate delle anomalie, ma sono tre casi diversi e vanno valutati ciascuno a sé”. Ed infatti quanto alla vicenda che coinvolge Leonardo Apache La Russa, accusato di violenza sessuale da una ventiduenne della Milano bene, e le dichiarazioni a caldo di suo padre Ignazio che lo ha ‘interrogato’ e già assolto, Meloni ha proseguito: “comprendo molto bene da madre la sofferenza del presidente del Senato anche se non sarei intervenuta nel merito della vicenda. Io tendo a solidarizzare per natura con una ragazza che ritiene di denunciare e non mi pongo il problema dei tempi (si riferisce al fatto che la seconda carica dello Stato abbia stigmatizzato il fatto che la denuncia sia arrivata quaranta giorni dopo la presunta violenza, ndr). Ma anche qui bisogna andare nel merito di cosa accaduto, mi auguro che la politica possa starne fuori. Noi abbiamo approvato un ddl che è passo avanti per la tutela delle vittime. Spero di aver chiarito il mio punto di vista sulla materia per evitare di mandare avanti presunti scontri che dal mio punto di vista non esistono”. Quanto al caso Santanchè ha osservato tra l’altro che “si tratta di una questione complessa che non compete alle trasmissioni tv. La ministra sta facendo il suo lavoro molto bene, la vicenda sarà chiarita nelle aule dei tribunali, il problema è semmai la notizia di un’indagine attraverso un quotidiano il giorno che la ministra deve riferire in Parlamento” e ha rilevato, ragionando su ipotetici scenari futuri, che “un avviso di garanzia non rende automatiche le dimissioni di un ministro, a maggior ragione con queste modalità”. In sostanza per la Presidente del Consiglio “non c’è alcuna volontà di aprire un conflitto. Non da parte mia” benché rivendicare quanto detto dalla ‘fonti di Governo’ rappresenti l’opposto di un gesto di pacificazione, o almeno di tregua. Comunque la premier vuole altresì evitare il “rischio di scivolare su un dibattito che non aiuta” perché “non penso che vada messo insieme quello che il governo ha nel proprio programma sulla giustizia e le scelte che i magistrati fanno su casi specifici”. Dunque la riforma della giustizia andrà avanti, “non contro i magistrati”, anzi “speriamo - ha aggiunto - di poterlo fare con il contributo dei magistrati”. Invece sulla riforma dell’imputazione coatta, che ha coinvolto il suo sottosegretario alla Giustizia Delmastro che ha riferito al suo ex coinquilino Donzelli dettagli sulla carcerazione dell’anarchico Alfredo Cospito, poi riportati nell’Aula della Camera, la premier ha concluso: “Mi sono informata su quante sono in Italia le imputazioni coatte, mi è stato risposto che sono una percentuale irrilevante. Il giudice non deve sostituirsi al pubblico ministero. Ne parlerò con Nordio, credo sia giusto confrontarsi”. Nordio: “Nessun intento punitivo nella riforma. Ma senza separazione il codice Vassalli è vuoto” di Simona Musco Il Dubbio, 13 luglio 2023 Il Guardasigilli: “Sono 30 anni che si gioca sull’equivoco che così si assoggetta il pm alla politica”. E sulla riforma di abuso d’ufficio e traffico di influenze insiste: “il nostro arsenale contro la corruzione è il più severo di tutta Europa: abbiamo ben 36 norme”. Se si vuole il processo accusatorio allora lo deve essere fino in fondo. E quindi è necessario adottare il “modello anglosassone”, l’unico che consentirebbe al codice Vassalli di reggere. A dirlo, ieri, è stato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, intervenuto all’evento “La giustizia in piazza”, promosso da Fratelli d’Italia a piazza Vittorio. Il Guardasigilli ha elencato i presupposti necessari, ovvero “separazione delle carriere, discrezionalità dell’azione penale, la distinzione tra il giudice del fatto e il giudice del diritto, tra il jury che emette il verdict e il judge che emette la sentence, ritrattabilità dell’azione penale e il fatto che il pm sia monopolista dell’azione penale e sia lui a decidere se portare avanti l’accusa o farla cadere, cosa impossibile in Italia”. In Italia, invece, il codice include principi “incompatibili con il processo accusatorio”, come l’unicità delle carriere e l’imputazione coatta, finita nel mirino del governo dopo la decisione del gip di Roma su Andrea Delmastro, accusato di rivelazione di segreto. Una decisione legittima, ha sottolineato Nordio, perché prevista nel nostro codice, ma è il nostro codice che non è stato capace di “rispettare” i principi del processo accusatorio. “Nessuna contrapposizione, nessuna azione punitiva” nei confronti delle toghe, ha assicurato il ministro, secondo cui “un sistema processuale deve essere coerente. O noi portiamo alle estreme conseguenze i principi del codice Vassalli oppure ritorniamo al vecchio codice Rocco del 1930”. All’ex collega Gian Carlo Caselli, secondo cui, con la separazione delle carriere, il governo vuole assoggettare i pm alla politica, il Guardasigilli ha risposto seccamente: tra le due cose, ha sottolineato, non c’è nessuna correlazione e “sono 30 anni che si gioca su questo equivoco. Nell’ordinamento inglese il pm è indipendente ed è l’avvocato dell’accusa” e in quello americano “è addirittura elettivo, non risponde al governo, ma agli elettori”. E in caso di indagini lunghe, costose che non portano a nulla, “come ahimè accade in Italia, se ne va a casa, ma non perché lo manda a casa il governo, ma perché lo mandano a casa gli elettori”. Non reggono, secondo il ministro, nemmeno gli allarmi relativi alla cancellazione dell’abuso di ufficio e alla riforma sul traffico di influenze. Nel primo caso, ha evidenziato, “parlano le carte”: a fronte di “5mila” iscrizioni l’anno sono meno di una decina le condanne. Si tratta, dunque, di un “reato residuale”, un “dispendio di energie” che provoca la paralisi della pubblica amministrazione e sofferenze personali. “Il reato è stato modificato tante volte negli ultimi 20 anni - ha aggiunto - e il risultato è stato sempre lo stesso: una marea di indagini e zero condanne. Abolirlo era l’unica soluzione possibile”. Per quanto riguarda il traffico di influenze, invece, “abbiamo inasprito le pene e abbiamo rimodulato il testo secondo i principi di tassatività e tipicità, che devono essere caratteristici della struttura di una fattispecie penale, mentre prima era un reato assolutamente evanescente. Lo abbiamo rimodulato per renderlo più specifico e abbiamo aumentato le pene per rendere la deterrenza ancora più forte”. All’Europa, ha concluso il ministro, quello che interessa è che “l’arsenale normativo e repressivo della corruzione e della mala gestio amministrativa sia coerente ed efficiente e il nostro arsenale è il più severo di tutta Europa”, con 36 norme contro la corruzione. “Quando ne abbiamo parlato con Didier Reynders”, commissario europeo della Giustizia, “è rimasto convinto che la nostra attitudine repressiva contro la corruzione sia assolutamente in linea con le norme europee”. E a chi lo accusa di voler abolire il concorso esterno risponde: “Non esiste come reato, è una creazione giurisprudenziale. Una forma evanescente che è un ossimoro: il concetto di concorso esterno è contraddittorio - ha detto - perché se sei concorrente non sei esterno e se sei esterno non sei concorrente. Noi sappiamo benissimo che si può essere mafiosi all’interno dell’associazione e favoreggiatori all’esterno. Allora va rimodulato” il concetto: la fattispecie non è strutturata ed è un fatto puramente tecnico. Le vere riforme non si fanno con la pancia ma con la testa di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 13 luglio 2023 Il presidente del Consiglio dei ministri ha “scoperto” finalmente che la magistratura vuole contestare e contrastare la maggioranza di governo e quindi fa tenerezza a chi si occupa da anni di questi problemi ma al tempo stesso fa rabbia. Questa complessa problematica che è alla base di riforme concrete che dovrebbero essere fatte per la giustizia non vengono minimamente comprese e affrontate da una classe dirigente priva di strategie, di una corretta visione del rapporto istituzionale tra i poteri dello Stato. La verità è che la magistratura sin dal 1970 ha teorizzato e programmato la sua funzione di contrasto in vari articoli e in prese di posizione contro il “consociativismo” di quel periodo tra la Dc e il Pci che faceva venir meno l’opposizione politica e “costringeva” la magistratura ad assumere quel ruolo. La magistratura ha seguito quella indicazione e quelle direttive e oggi mancando totalmente l’opposizione in Parlamento la magistratura ritiene di dovere sul piano sociale e politico avere una funzione di supplenza e ingaggiare una lotta sui problemi politici, sociali e culturali. Nell’ultimo numero della rivista Questione giustizia, organo ufficiale della corrente di Magistratura democratica, il direttore scrive: “In moltissimi casi della vita sociale ed economica è il giudiziario ad intervenire in esclusiva, o almeno in prima battuta, nella ricerca di soluzioni di problemi inediti talora incancreniti dalla paralisi e dall’inerzia della politica…. e quindi c’è bisogno di una magistratura che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone…”. Si conferma una funzione di “potere” e si concretizza la prevalenza del giudiziario sul legislativo e sulla politica. La rabbia, invece, è che dopo aver sollecitato per un lungo periodo questa funzione anomala della magistratura da parte delle opposizioni, prima dal Pci, poi da Cinque stelle e dalla stessa Meloni, la quale dice o fa dire che non ha alcuna intenzione di fare la fine di Berlusconi: (era quindi consapevole della strumentalità e della pretestuosità di tante indagini di quel periodo!), ora tutti, toccati sul vivo, reagiscono e reagiscono male. Non ci si rende conto che il contrasto tra la politica, il complesso delle istituzioni e la magistratura non è una bega né un complotto ma un problema serio delicatissimo che hanno tutte le democrazie moderne caratterizzate da una giurisprudenza che prevale sulla legge. Riconosco che la Dc negli anni 80/ 90 non capì il problema che in quel periodo era appena accennato, Berlusconi preferì alimentare lo stillicidio giudiziario a cui è stato sottoposto rispondendo con invettive a volte inopportune e l’attuale maggioranza, non ponendosi nessun problema sistematico o istituzionale, contesta le regole, le funzioni, le procedure della magistratura peggiorando la situazione. Naturalmente la magistratura approfitta per dire che la si vuole delegittimare, ma essa vive di questo contrasto e accresce il suo potere e nessuno si rende conto che la delegittimazione è reciproca. Lo scontro tra politica e magistratura comincia dall’antica Roma, ma oggi è patologico perché la crisi della politica è grave e ha consentito una supplenza piena dei magistrati. Il Parlamento nel 1992 ha rinunciato alla sua immunità che era per la difesa delle sue prerogative, e dunque perché meravigliarsi? La magistratura si oppone da sempre a qualunque riforma perché difende il suo “potere” che si è sostituito all’”ordine autonomo” che la Costituzione gli aveva assegnato e riforme, come la Cartabia e quelle solo annunziate da Nordio non risolvono il problema di fondo del ruolo della magistratura, del rapporto della sacrosanta indipendenza del giudice con una necessaria responsabilità, del suo ruolo, della funzione del Csm che la magistratura interpreta impropriamente come “organo di autogoverno” per privilegiare una totale autonomia che è “separatezza” senza coordinamento istituzionale. Le vere riforme sono queste e non si fanno per reazione: a seguito di fatti di cronaca per ripicca: in politica quando si approfitta dei guai degli avversari si ricorre a un giustizialismo rancoroso che mette in evidenza la crisi del diritto e il decadimento delle istituzioni. Per fare solo un esempio separazione delle carriere tra pm e i giudici di cui si parla da anni, non può essere una minaccia: se la magistratura fosse un po più accorta e libera” dovrebbe auspicarla! L’attuale governo, per restare all’attualità, ha fatto proposte mediocri e contraddittorie con aggravamento di pene di per sé assurde e con invenzione di reati per caratterizzare lo Stato come “Stato etico” non laico, né “liberale”. Naturalmente va a rimorchio della magistratura che teorizza un ruolo etico- politico, vuole condannare il male, la corruzione, la devianza e far prevalere il bene sul male: uno “Stato etico” e un giudice etico sono egualmente pericolosi. Per fare un solo esempio eclatante al riguardo quando si vuole stabilire che la maternità surrogata sia reato universale si imbocca una strada pericolosa non in linea con la tradizione giuridica e istituzionale del nostro Paese. Orbene sono queste le problematiche alla base di riforme vere e concrete dell’ordinamento giudiziario che non vengono minimamente comprese né affrontate per determinare un rapporto diverso tra i poteri dello Stato. Il governo contrasta la decisione di un gip “giudice “che non accoglie la richiesta del pubblico ministero in contrasto con quanto si è sempre auspicato, e a ragione, per il generale e inevitabile appiattamento del giudice sul pm: la polemica è dunque miope e senza costrutto. Si chiede da anni la distinzione marcata tra pm e giudice perché si richiede la decisione del giudice che non è parte ma terzo quindi al di sopra delle parti; si contesta al ministro del Turismo il fatto che abbia ricevuto o no l’avviso di garanzia che è da addebitare agli inquirenti, ma in questo modo si alimenta uno scontro e si tace sulle riforme fondamentali per la democrazia. Per questo l’invito al ministro Nordio che parte coralmente dal nostro giornale, di inquadrare la problematica vera delle riforme che lui ben conosce. Lo scontro governo-magistrati arriva al Csm di Liana Milella La Repubblica, 13 luglio 2023 I togati di Area: “Dall’esecutivo grave accusa contro la gip del caso Delmastro”. La pressante richiesta della corrente di sinistra a difesa del giudice delle indagini preliminari di Roma, vittima di una aggressione politica, in forza di “fonti anonime”, da parte di Palazzo Chigi e via Arenula, che ipotizzavano una manovra elettorale in vista delle europee. Il caso Delmastro approda al Csm. Perché, appena iniziato il plenum, la corrente di sinistra di Area, con i suoi sei consiglieri togati, ha chiesto che il Consiglio apra immediatamente la cosiddetta “pratica a tutela” della magistrata di Roma, Emanuela Attura, che nelle sue funzioni di giudice per le indagini preliminari, ha chiesto alla procura l’imputazione coatta per il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Per la procura invece Delmastro andava archiviato, perché sebbene le carte sul caso Cospito fossero segrete, tuttavia lui non si era reso conto di questo obbligo di segretezza. Peraltro, proprio il Guardasigilli Carlo Nordio, in Parlamento, aveva sostenuto la tesi che le carte non fossero segrete perché il vincolo di segretezza viene apposto dallo stesso ministero che, a suo dire, non lo aveva fatto. Peccato che - da sempre - i rapporti di Nic e Gom, i servizi segreti che operano nelle carceri, sono segreti, in quanto diretti all’autorità giudiziaria che, a sua volta, indaga su queste informazioni. È il caso su cui si è scatenata la tempesta politica e l’ennesimo scontro tra Palazzo Chigi, via Arenula, e la magistratura. Il Guardasigilli Nordio sta addirittura pensando di modificare, proprio sull’onda di questo caso, i poteri dei giudici per le indagini preliminari, togliendo loro la possibilità di fare l’imputazione coatta. Un atteggiamento che contrasta con l’idea garantista dello stesso Nordio di dare maggiore potere proprio a questi giudici, addirittura portandoli da uno a tre, per controllare e intervenire sul lavoro dei pubblici ministeri. Ma vediamo che cosa scrivono le toghe di Area in difesa della collega, la gip Attura. Lei sarebbe “stata indebitamente accusata di appartenere a una frangia della magistratura tacciata di svolgere un ruolo attivo di opposizione politica nei confronti del governo in carica, in vista della campagna elettorale per le prossime elezioni europee”. Un’accusa che corrisponde a quanto hanno affermato, con messaggi alle agenzie, le “fonti anonime” di Palazzo Chigi e di via Arenula che parlavano proprio di questo, di una campagna della magistratura scatenata a favore ovviamente della sinistra politica in vista delle europee. Si può leggere ancora nel comunicato di Area: “Si tratta di una grave e ingiustificata accusa di perseguire, tramite un provvedimento giudiziario, degli obiettivi politici, mettendo in discussione l’imparzialità della decisione e l’indipendenza della magistrata”. I consiglieri della corrente di sinistra dei giudici Francesca Abenavoli, Marcello Basilico, Maurizio Carbone, Geno Chiarelli, Antonello Cosentino, Tullio Morello riportano integralmente le considerazioni attribuibili alle “fonti anonime” che parlano anche di una decisione “inusuale” valutabile come “una forzatura”. Ovviamente non si tratta affatto di questo perché, nella dinamica tra il pubblico ministero che chiede una misura cautelare o un arresto o un’archiviazione è prassi che il gip possa intervenire con assoluta ampiezza. Ed proprio la riforma Cartabia appena un anno fa ha ulteriormente ampliato i poteri del gip, il quale adesso può anche ordinare al pubblico ministero di accelerare la sua indagine, di procedere alla decisione sul suo indagato, deve rispettare i tempi, e addirittura può anche stabilire che non ci sono gli elementi per andare al processo. Riforma ovviamente in chiave garantista, che contrasta con la levata di scudi del governo, sia a Palazzo Chigi sia via Arenula, sul caso Delmastro. Ovviamente il caso è imbarazzante per il governo Meloni perché l’imputazione del sottosegretario, e il processo che ne può conseguire, può comportare anche l’obbligo per Delmastro, un obbligo morale innanzitutto, di lasciare via Arenula, visto che sarebbe contraddittorio avere un sottosegretario che nel contempo si trova sotto processo a Roma. Csm contro il governo: “Sul caso Delmastro gravi accuse alla Gip” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 13 luglio 2023 Le toghe replicano alla nota di Palazzo Chigi in cui si parlava di “ruolo di opposizione”. La corrente progressista Area chiede l’apertura di una pratica a tutela della giudice. Anche il Consiglio superiore della magistratura si occupa della giudice romana Emanuela Attura, nel mirino del governo per aver disposto l’imputazione coatta sul caso di Andrea Delmastro Delle Vedove. Il sottosegretario alla giustizia aveva rivelato al collega di partito Giovanni Donzelli documenti riservati sull’anarchico Alfredo Cospito, ricevuti dall’amministrazione penitenziaria e poi usati per attaccare il Pd in Parlamento. L’iniziativa è venuta, in apertura della riunione del plenum, dalla corrente progressista Area, che ha chiesto formalmente l’apertura di una pratica a tutela della gip Attura. Il motivo è che “è stata indebitamente accusata di appartenere a una frangia della magistratura tacciata di svolgere un ruolo attivo di opposizione politica nei confronti del governo in carica, in vista della campagna elettorale per le prossime elezioni europee. Si tratta di una grave e ingiustificata accusa di perseguire, tramite un provvedimento giudiziario, degli obiettivi politici, mettendo in discussione l’imparzialità della decisione e l’indipendenza della magistrata”. Il riferimento esplicito è alla nota anonima di Palazzo Chigi di una settimana fa, cui è seguita una “campagna mediatica”, fino alla rivendicazione della velina da parte della premier Meloni. Nella richiesta depositata al comitato di presidenza del Csm, i sei consiglieri di Area (secondo gruppo per dimensione dopo la conservatrice Magistratura Indipendente) riportano integralmente il testo della nota anonima, oltre a citare altri commenti di esponenti del governo, che hanno definito “inusuale” e “forzata” la decisione della giudice. Secondo il regolamento interno del Csm, le pratiche a tutela dei magistrati vengono assegnate dal comitato di presidenza alla prima commissione, oggi presieduta dal laico Enrico Aimi (ex deputato di Forza Italia, poi passato a Fratelli d’Italia, giunto al Csm dopo la mancata elezione alla Camera nel 2022). La commissione dovrà valutare se ci sono gli estremi per una presa di posizione pubblica a difesa della gip, ovvero “comportamenti lesivi del prestigio dell’indipendente esercizio della giurisdizione, tali da provocare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria”. La pratica verrà aperta se otterrà la maggioranza dei voti dei sei componenti della commissione. Dove sono rappresentati esponenti di tutte le correnti e due laici: oltre al presidente Aimi, c’è il costituzionalista Michele Papa, indicato dal Movimento 5 Stelle. Se la pratica venisse aperta, inizierebbe un’istruttoria da concludere con una proposta al plenum di una delibera che stigmatizzi i comportamenti contro la giudice. In ogni caso, si tratterebbe di una delibera priva di conseguenze concrete, ma dal forte peso simbolico. Anche il voto preliminare in commissione sarà un test. Anche perché la vicenda mette in imbarazzo la parte della magistratura più vicina al governo. Se difende la giudice, affossa il governo “amico”. Se non la difende, perde consensi nella sua base. Un clima esacerbato rischia peraltro di ostacolare il cammino della riforma della giustizia presentata dal ministro Nordio. Il Csm dovrà esprimere un parere. Il vicepresidente Fabio Pinelli auspica un parere tecnico e moderato. Difficile, in questo clima. La contromossa di Fratelli d’Italia è sponsorizzare il pm anti ‘ndrangheta Nicola Gratteri come procuratore di Napoli. Il Csm deciderà nelle prossime settimane, ma i consiglieri laici di destra si sono già apertamente schierati. E hanno indotto i consiglieri togati di Magistratura Indipendente, con cui ormai fanno maggioranza di blocco, a convergere su Gratteri per dare un segnale di inflessibilità antimafia. Un altro segnale politico è la decisione, sostenuta dallo stesso blocco di destra, di sanzionare il giudice calabrese Emilio Sirianni, esponente di Magistratura Democratica. Intercettato al telefono con l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, a cui dava consigli con linguaggio a dir poco colorito, era stato assolto in tre diverse sedi. Ma ieri il Csm lo ha rimosso dall’incarico di presidente della sezione lavoro del tribunale di Catanzaro. Il procuratore capo Lo Voi: “Il traffico degli stupefacenti a Roma è quasi fuori controllo” di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 13 luglio 2023 In commissione antimafia il procuratore capo lancia l’allarme sull’enorme giro di affari della droga e del riciclaggio. “Emergono nuove mafie e la procura è senza 22 pm”. L’emergere di ulteriori e sempre diverse associazioni criminali e il traffico di droga sempre più difficile da contrastare fanno scopa a Roma con le difficoltà di organico della Procura, dove ad oggi mancano 22 dei 90 magistrati previsti. Sono alcuni dei temi principali toccati dal procuratore capo Francesco Lo Voi nella sua audizione di ieri in commissione Antimafia. Nel territorio romano e laziale “la situazione del traffico di stupefacenti, nonostante l’impegno, gli arresti e le indagini, se non è fuori controllo poco ci manca ed è veramente preoccupante, per la semplice ragione che l’offerta enorme risponde a un’altrettanta enorme domanda”, spiega Lo Voi, che a Roma si è insediato due anni fa. Una audizione molto attesa, la sua, proprio per le peculiarità della criminalità capitolina e degli enormi interessi in ballo. L’ascesa delle nuove mafie - “A Palermo i nigeriani operavano ma con il consenso di Cosa Nostra”, ha sottolineato il procuratore capo per fare un raffronto con il suo precedente incarico. “Qui a Roma se c’è una componente nigeriana, per fare un esempio di mafia non di origine nazionale, si muove volendo affermare la propria presenza, a parità di posizione rispetto alle altre o in associazione con alcune, se è il caso sopraffacendole, ma con uso del metodo mafioso”. I numeri “prodotti” dall’antimafia capitolina descrivono bene questo fenomeno: un totale di quasi 2.000 indagati noti nel periodo 1 luglio 2022 - 30 giugno 2023, con una attuale pendenza di 8.036 indagati nell’ambito di 461 procedimenti penali. In questo quadro, Lo Voi indica quale sarà il prossimo gruppo con cui fare i conti da punto di vista investigativo: “A Roma la mafia sudamericana non ha ancora caratteristiche di presenza paragonabili alle altre ma comincia ad essere presente in modo significativo e per qualche aspetto preoccupante”. Non l’unica banda emergente: “Ci sono anche gruppi paramafiosi come i georgiani ed altri, e questo perché Roma ha un territorio molto vasto ed offre una disponibilità di denaro che fa gola”. Manca il 25% dei magistrati - Assieme all’enorme traffico di droga Lo Voi cita non a caso anche un’altra emergenza che con lo spaccio va di pari passo come corollario “necessario”: “Il riciclaggio di denaro nel territorio laziale e in particolare romano sta trovando uno sviluppo multiforme ed estremamente pericoloso, perché non è solo lavaggio ma anche reinvestimento”, dice il capo dei pm romani. “Questo reato non è una fattispecie che crea allarme sociale ma si traduce nella penetrazione della criminalità nei mercati e nella loro alterazione. Dal più semplice, la ristorazione, e poi a salire e scendere da questo”. A fronte di tutto ciò, Lo Voi non può che sollevare uno dei grandi problemi del suo ufficio, la mancanza di personale: “L’organico della Procura di Roma vive una situazione deficitaria. Anziché avere i 90 sostituti previsti dalla pianta organica, ne mancano di fatto ben 22, è il 25% e significa che tre quarti dei colleghi si fanno carico del lavoro del restante quarto. Ho dovuto coinvolgere in alcune attività anche i componenti della direzione distrettuale antimafia, altrimenti non riuscivamo a coprire le udienze”. Rapina di lieve entità (10 euro), sì alla prevalenza dell’attenuante sulla recidiva di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2023 Lo ha stabilito la Corte costituzionale, con la sentenza n. 141 depositata martedì, dichiarando l’illegittimità dell’art. 69, quarto co., del Cp, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante dell’art. 62, n. 4, Cp sulla recidiva dell’art. 99, quarto co., Cp. Al fine di irrogare una pena non sproporzionata alla gravità del reato, la Corte costituzionale (sentenza n. 141 depositata oggi) ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 69, quarto comma, Cp, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante per la speciale tenuità del danno patrimoniale (articolo 62, n. 4, cod. pen.) sulla recidiva (articolo 99, 4 co., Cp.). Il caso era quello di un uomo che rischiava cinque anni di carcere dopo essere stato rinviato a giudizio per rapina (articolo 628, primo comma, cod. pen.) per avere costretto due dipendenti di un supermercato a consegnargli la somma di dieci euro mediante l’uso di minaccia, consistita nelle frasi “se non mi date 10 euro torno con la pistola” e “ti spacco la testa”. Secondo il rimettente benché sussistessero gli estremi della circostanza attenuante all’imputato era stata però correttamente contestata la circostanza aggravante della recidiva. In un simile caso, sempre per il giudice a quo, l’esigenza di adeguare la pena all’effettivo disvalore del fatto giustificherebbe la dichiarazione di prevalenza dell’attenuante sulla recidiva. Infatti, anche il minimo edittale di cinque anni di reclusione costituirebbe una pena “del tutto sproporzionata rispetto alla condotta commessa, consistita nel conseguimento di un profitto di dieci euro con pari danno per la parte offesa”. Il ragionamento del Gip di Grosseto convince la Consulta. L’effetto “calmierante” di tutte le circostanze attenuanti, osserva la Corte, ivi compresa quella relativa al danno patrimoniale di particolare tenuità (articolo 62, numero 4, cod. pen.), “rispetto all’elevato minimo edittale previsto dal legislatore per i delitti di rapina ed estorsione è però destinato a essere sistematicamente eliso, allorché all’imputato venga contestata la recidiva reiterata”. In tal caso, infatti, l’articolo 69, quarto comma, cod. pen. non consente al giudice, salve le possibili diminuenti connesse alla scelta del rito, di commisurare una pena inferiore al minimo edittale, e dunque a cinque anni di reclusione. Del resto, ricorda la Corte, la “pressione punitiva” rispetto al delitto di rapina è cresciuta negli anni ed è “ormai diventata estremamente rilevante”, al punto che dovrebbe essere oggetto di una “attenda considerazione da parte del legislatore”. Vi rientrano infatti anche condotte di modesto disvalore: “non solo con riferimento all’entità del danno patrimoniale cagionato alla vittima, che può anche ammontare a pochi euro sottratti alle casse di un supermercato; ma anche con riferimento alle modalità della condotta, che può esaurirsi in forme minimali di violenza”. Ebbene, anche rispetto a simili fatti, la disciplina vigente impone una pena minima di cinque anni di reclusione: “una pena che risulterebbe, però, manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva dei fatti medesimi - anche in rapporto alle pene previste per la generalità dei reati contro la persona -, se l’ordinamento non prevedesse meccanismi per attenuare la risposta sanzionatoria nei casi meno gravi”. Si tratta di considerazioni, continua la decisione, che “valgono anche rispetto a tutti gli altri delitti cui può trovare applicazione la circostanza attenuante in esame”. La particolare tenuità del danno patrimoniale “determina, di regola, una sensibile riduzione del contenuto di disvalore dei reati che offendono il solo patrimonio” di cui il giudice “deve poter tenere conto nella commisurazione del trattamento sanzionatorio”. “Circostanza, quest’ultima, che nulla ha a che vedere con la gravità oggettiva e soggettiva del singolo fatto di reato, cui la pena - in un sistema orientato alla “colpevolezza per il fatto”, e non già alla “colpa d’autore”, o alla mera neutralizzazione della pericolosità individuale - è chiamata a fornire risposta”. “Anche rispetto alla circostanza attenuante di cui all’art. 62, numero 4), cod. pen. - conclude la Corte - si impone, pertanto, una nuova declaratoria di illegittimità costituzionale del meccanismo disegnato dall’art. 69, quarto comma, cod. pen., sulla falsariga di quelle che l’hanno preceduta, sì da porre in condizioni il giudice di non dover necessariamente irrogare una pena manifestamente sproporzionata al disvalore del singolo fatto di reato, in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.”. Con la sentenza n. 94 del 2023 la Corte aveva dichiarato illegittimo, per contrasto con i medesimi parametri oggi evocati, l’art. 69, quarto comma, cod. pen. nella parte in cui, relativamente ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, prevedeva il divieto di prevalenza di qualsiasi circostanza attenuante sulla recidiva reiterata di cui all’articolo 99, quarto comma, cod. pen.. In quella occasione la Corte ha ripercorso tutte le decisioni in cui ha ritenuto incompatibile con la Costituzione, e segnatamente con il principio di proporzionalità della pena desumibile dagli articoli 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., il meccanismo del divieto di prevalenza di singole circostanze attenuanti rispetto all’aggravante della recidiva reiterata, riconducibile alla regola generale di cui all’articolo 69, quarto comma, cod. pen. Toscana. Madri e bambini nelle carceri, rafforzare esecuzione pena in strutture esterne cittametropolitana.fi.it, 13 luglio 2023 Il Consiglio regionale approva a maggioranza una mozione del Partito democratico. Il primo firmatario Iacopo Melio: “Impedire l’accesso dei bambini nelle carceri, cercare strutture alternative. Intendiamo assicurare un’adeguata tutela della genitorialità e dell’infanzia, anche nel corso dell’esecuzione penale”. Impedire l’accesso dei bambini nelle carceri, rafforzando l’utilizzo di strutture esterne quale modalità di esecuzione della pena inflitta alle madri. Il Consiglio regionale della Toscana ha approvato una mozione presentata dal Partito democratico per un “percorso legislativo di modifica della normativa vigente volto ad impedire la permanenza in carcere o in istituti di custodia attenuata di minori a seguito di madri detenute”. Il primo firmatario è il consigliere Iacopo Melio, con il capogruppo Vincenzo Ceccarelli, Valentina Mercanti e Anna Paris. L’atto d’indirizzo è stato approvato a maggioranza con 20 voti a favore (Pd, Italia Viva, Movimento 5 stelle) e 2 voti contrari (Lega). Nella mozione, come ha spiegato Iacopo Melio nell’illustrazione all’Aula, si richiama “la convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e la convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori. Intendiamo assicurare un’adeguata tutela della genitorialità e dell’infanzia, anche nel corso dell’esecuzione penale”. La custodia in carcere di genitori, si legge nella mozione, “coinvolge in molti casi le vite dei minori, che vedono a rischio il diritto alla protezione e alle cure necessarie per il proprio benessere, a scapito della tutela dell’interesse superiore del bambino ritenuta in assoluto preminente”. “La legge 62 del 2011 prevede che il ministero della Giustizia possa stipulare con gli enti locali convenzioni volte a individuare strutture idonee per essere utilizzate come case famiglia protette senza maggiori oneri per la finanza pubblica”. La mozione impegna quindi la Giunta regionale “ad attivarsi nei confronti del Governo e del Parlamento affinché, in considerazione degli investimenti in via di realizzazione sui vari territori regionali finalizzati all’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case-famiglia protette e in case-alloggio, sia di nuovo proposto un percorso legislativo di modifica della legge 62/2011, volto a impedire, in considerazione dell’interesse preminente dei minori e dell’equilibrato sviluppo delle relazioni genitoriali, l’accesso dei bambini nel carcere mediante una disciplina tesa a rafforzare l’utilizzo di tali strutture esterne quale modalità di esecuzione della pena”. Torino. Dimesso dalla psichiatria, si uccide in cella. Aveva già tentato il suicidio un mese fa di Luca Monaco La Repubblica, 13 luglio 2023 Si tratta del secondo caso in due settimane al carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Il mese scorso aveva già tentato il suicidio Angelo Libero, il detenuto di 44 anni che ieri alle 15 è stato trovato morto nella sua cella nell’ XI sezione del carcere Lorusso e Cutugno di Torino: si è impiccato durante “il passeggio”, mentre il compagno di cella era in cortile. A trovare il corpo senza vita del quarantaquattrenne sono stati gli agenti della polizia penitenziaria durante la conta pomeridiana dei detenuti. Libero avrebbe terminato di scontare la condanna definitiva in ottobre. Era un paziente con una doppia diagnosi psichiatrica e come tale avrebbe dovuto essere curato in una struttura dedicata, fuori dal carcere. Invece è la seconda vittima del carcere, a Torino, nell’arco delle ultime due settimane. Perché solo il 29 giugno scorso una donna di 52 anni si è suicidata nella sezione femminile: sarebbe uscita il 21 agosto. Libero “circa un mese fa - afferma il segretario del Sappe Piemonte Vicente Santilli - era stato dimesso dalla sezione psichiatra, nel padiglione A ed era stato trasferito nel padiglione B, XI sezione”. Il corridoio è speculare “a quello della decima sezione, dove una recente visita del Comitato europeo per la prevenzione della tortura aveva indicato quattro celle come molto problematiche - ricorda Michele Miravalle di Antigone - Torino è in una situazione difficile, amministrazione, enti locali, sanità e società civile unissero le forze”. Torino. Suicidio in carcere, parla il Garante: “È il momento delle decisioni” di Massimo Massenzio Corriere di Torino Angelo Libero aveva 44 anni ed era un uomo fragile. Ieri si è tolto la vita nel carcere di Torino impiccandosi con un cappio rudimentale legato al letto a castello della sua cella. È il secondo suicidio in due settimane fa, dopo quello di Grazia Orlarey, 52 anni, che si era impiccata nella sezione femminile a poche settimane dalla sua scarcerazione. Anche Angelo avrebbe lasciato molto presto la casa circondariale delle Vallette. Doveva scontare una pena di un anno e un mese per omicidio stradale e inizialmente aveva ottenuto i domiciliari. Quel lungo periodo di isolamento, però, ha riportato a galla vecchi fantasmi e antiche fragilità che sembravano sopite. Da febbraio era in attesa di essere collocato in una comunità esterna e, in ogni caso, a ottobre sarebbe tornato libero. “L’ho incontrato la scorsa settimana e domani sarei andato a trovarlo per comunicargli che finalmente una comunità aveva dato la disponibilità a ospitarlo- racconta il suo difensore, l’avvocato Pier Lorenzo Tavella. Ad agosto, con ogni probabilità, sarebbe uscito. Era una persona che non doveva stare in carcere”. Quelli di Graziana e Angelo sono i primi due suicidi dell’anno, si aggiungono ai 4 del 2022, dopo Foggia è il numero più alto registrato in una struttura penitenziaria italiana. Numeri che devono indurre a una riflessione, sottolinea il garante Mellano: “Quest’ultimo atto disperato e drammatico deve interrogare le istituzioni politiche, a cominciare dalla Regione, in quanto responsabile dell’autorità penitenziaria. Lunedì ci sarà la visita in carcere della commissione Sanità, al termine di un lavoro iniziato a marzo. Credo sia il momento di tradurre la conoscenza del problema in atti e decisioni politiche. Occorre un incontro fra il presidente Cirio e l’amministrazione penitenziaria per trovare una soluzione. Che non si trovi una comunità per un detenuto che aspetta da mesi una ricollocazione non è accettabile”. Sassari. Tolte di nuovo a Cospito le foto del padre e della madre di Frank Cimini Il Dubbio, 13 luglio 2023 Sono state ritolte, dopo che erano state restituite, ad Alfredo Cospito le foto dei suoi genitori che teneva in cella. A Opera erano state ridate. A Sassari Bancali la nuova decisione con invio delle foto alla Corte di Assise di Appello di Torino che di recente ha condannato l’anarchico a 23 anni di reclusione per i pacchi bomba di Fossano. La corte del capoluogo piemontese ha trattenuto le immagini. L’avvocato Flavio Rossi Albertini ha presentato reclamo. Ci sarà un’udienza per decidere se Cospito ha diritto di poter tenere le foto del padre e della madre. Sembra una vicenda surreale ma è forte il sospetto di un accanimento per il clamore si suscitato dal lunghissimo sciopero della fame durato sei mesi e che ha causato danni neurologici che quantomeno in parte non saranno più recuperati. Le foto dei genitori sono trattate dalle autorità come se fossero armi pericolosissime che Cospito sarebbe pronto a usare. La battaglia dell’anarchico contro l’applicazione del 41bis del regolamento penitenziario non solo per se anche per se ma soprattutto per gli altri 750 reclusi costretti a “sperimentarlo” continua a dare fastidio. Mentre di Cospito ormai appena si accenna nelle cronache del caso di Andrea Del Mastro il sottosegretario alla Giustizia per il quale il gup di Roma ha ordinato l’imputazione coatta. Una vicenda in cui i partiti si combattono per regolare i loro conti sulla pelle di un anarchico ristretto al carcere più duro perché potrebbe tenere collegamenti con una organizzazione che di fatto non esiste. Nel procedimento contro il sottosegretario la difesa Cospito punta a costituirsi parte civile come danneggiata dal reato nel caso in cui l’accusa dovesse restare in piedi. Ovviamente non è detto che la richiesta sia accolta dai giudici. Cospito resta in attesa della fissazione dell’udienza sulle foto ma anche di quella del Tribunale di Sorveglianza di Roma per discutere del ricorso contro il 41bis dopo che il ministro Carlo Nordio non aveva risposto all’istanza della difesa sull’argomento. Bari. Torture a un detenuto con malattie psichiatriche, condannati un agente e un medico di Chiara Spagnolo La Repubblica, 13 luglio 2023 Tre anni anni e sei mesi di reclusione per un sovrintendente della polizia penitenziaria, un anno e due mesi per un medico dell’infermeria del carcere e assoluzione per un altro agente di polizia penitenziaria. Lo ha disposto il gup del Tribunale di Bari, Rossana de Cristofaro, al termine del processo di primo grado celebrato con rito abbreviato. I tre erano stati rinviati a giudizio con altre 12 persone, fra agenti e medici della casa circondariale del capoluogo pugliese, per le presunte torture avvenute il 27 aprile 2022 a danno di un detenuto con patologie psichiatriche. Secondo l’accusa, sei agenti della polizia penitenziaria avrebbero torturato il detenuto allora 41enne dopo che questi aveva dato fuoco a un materasso nella sua cella. Le violenze sarebbero iniziate lungo il percorso dalla cella all’infermeria, con il personale che sarebbe intervenuto “con violenze gravi e agendo con crudeltà” prima scaraventando il l’uomo sul pavimento, poi colpendolo con calci e schiaffi sulla schiena, sul torace, sui fianchi e sul volto, “sottoponendolo per circa quattro minuti a un trattamento inumano e degradante”. Uno degli agenti, per tenere fermo il detenuto, lo avrebbe bloccato mettendosi di peso sui suoi piedi. Livorno. Il Garante dei detenuti in visita al carcere di Porto Azzurro toscanaindiretta.it, 13 luglio 2023 “Gravi carenze di personale per l’Area educativa e quella sanitaria”. A distanza di poco più di un anno dalla missione regionale in Toscana del maggio 2022, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è tornato in visita nel carcere di Porto Azzurro: ha riscontrato “segni di un positivo cambiamento nella direzione dello sviluppo delle potenzialità della Casa di reclusione, che ne avevano fatto, in passato, un modello di istituzione penitenziaria orientata alla riabilitazione e al reinserimento sociale. Tutto ciò nonostante la permanenza di gravi criticità”, si legge in una nota. La visita, condotta dal presidente Mauro Palma con la componente del Collegio Emilia Rossi, era finalizzata a verificare la situazione rispetto alle condizioni di complessiva criticità di gestione rilevate lo scorso anno, anche in considerazione della nota mancanza, a tutt’oggi, di una Direzione titolare stabile. “Permangono alcuni nodi critici: una grave carenza di organico nell’Area educativa, con le ovvie ricadute sulla realizzazione dei programmi individuali di trattamento e della tempestività delle relazioni di sintesi; una gravissima carenza del personale medico dell’Area sanitaria, tanto più rilevante per una popolazione che sconta pene lunghe ed è soggetta all’ingravescenza delle patologie con l’avanzare dell’età, che costringe, in assenza del Nucleo traduzioni, all’impegno del personale di Polizia penitenziaria nella traduzione delle persone detenute all’ospedale locale per ogni visita specialistica; una scarsità dell’offerta lavorativa per una popolazione detenuta di 317 persone in esecuzione di pene definitive”. “È cambiata, tuttavia - rileva il garante - l’attenzione da parte della Direzione e del Comando attuali verso tali problemi e la volontà di impegno attivo per il loro superamento, a cominciare dalla ricerca di opportunità lavorative che un tempo costituivano la ricchezza dell’Istituto e di cui sono rimaste le tracce nei grandi ambienti delle lavorazioni, oggi in stato di abbandono. Tre sono le esperienze esistenti: la falegnameria, l’orto e il laboratorio a Dampaì, al cui pregio si contrappone il fatto che occupano in tutto meno di 20 persone. Le potenzialità per una rinascita del ‘carcere modello’ oggi ci sono e sarebbe imperdonabile che si perdessero per l’inerzia dei soggetti, istituzionali e civili, che hanno gli strumenti per realizzarla: l’impegno di risorse da parte dell’Amministrazione penitenziaria, in primo luogo, e quello delle energie economiche e sociali esterne, è quindi urgente quanto necessario”. Trieste. Risocializzare e includere i detenuti, nasce un fondo privato ansa.it, 13 luglio 2023 Intesa tra la Fondazione CRTrieste e Ufficio esecuzione penale esterna. Un fondo destinato alle realtà del Terzo settore a sostegno delle attività di risocializzazione e inclusione di persone imputate o condannate a lievi misure penali da scontare all’esterno del carcere, è stato stanziato dalla Fondazione CRTrieste che in tal senso ha sottoscritto un protocollo d’intesa con l’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna (Udepe) di Trieste e Gorizia preposto alla attivazione di tali progetti. Fanno parte di queste iniziative, ad esempio, i lavori socialmente utili che alcune persone con carichi penali svolgono, gratuitamente, in associazioni del Terzo settore. Oggi nel corso di una conferenza stampa è stata illustrata l’iniziativa. Il fondo, costituito da 20 mila euro, sarà utilizzato per sostenere i costi delle associazioni di volontariato e senza scopo di lucro del Terzo settore: attrezzature, spese per la realizzazione di progetti, e coperture assicurative. I progetti di risocializzazione e inclusione riguardano persone sottoposte a “misure di comunità” che, nell’ambito della “giustizia riparativa” sancito dalla Riforma Cartabia, mira, tra l’altro, a evitare che persone con piccoli precedenti penali, commettano nuovi reati. In Italia sono circa 121.300 le persone a carico degli uffici di esecuzione penale esterna; a Trieste sono 450 le persone “messe alla prova” in carico all’Udepe. “Tra le missioni della Fondazione, quella attinente alla dimensione del sociale è probabilmente tra le più complesse e, insieme, tra le più sfidanti”, dice il componente del CdA della Fondazione CRTrieste Francesco Peroni. Belluno. Una seconda opportunità: concluso il corso in carcere con 3 aziende di Barbara Ganz Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2023 Carcere e formazione, inclusione e opportunità. Lo scorso aprile è partita la collaborazione tra l’Associazione degli industriali bellunesi e la Casa circondariale del capoluogo all’interno del Progetto per il Sociale. Dopo un seminario rivolto alle aziende associate - incentrato sulle opportunità di una tale sinergia che si è svolto nei mesi scorsi -è stato avviato un vero e proprio percorso di formazione, per dare ai detenuti partecipanti la possibilità di apprendere alcune nozioni base per inserirsi nel mondo del lavoro una volta terminato il periodo della pena detentiva. E ora ill ciclo formativo è giunto al termine con la consegna degli attestati di partecipazione. Una iniziativa sperimentale - nata dalla collaborazione tra Confindustria Belluno Dolomiti e l’Istituto penitenziario del capoluogo - che si inserisce all’interno del grande Progetto per il Sociale avviato negli ultimi anni dall’Associazione degli industriali proprio per favorire l’inclusività in azienda a tutti i livelli. Gli attestati sono stati consegnati da Flavio Mares, consigliere delegato al Sociale di Confindustria, alla direttrice della casa circondariale Tiziana Paolini e al capo area educativa Lina Battipaglia. È stato un percorso importante dove si sono abbattute tante barriere, non solo materiali”, afferma Mares. “Ogni persona può avere una seconda opportunità e diventare una risorsa per la comunità. È una questione sia etica che economica”. Il progetto formativo è stato suddiviso in due momenti. Nel primo i corsisti hanno imparato a predisporre il proprio curriculum vitae e a sostenere un colloquio di lavoro; in questo sono stati supportati dai rappresentanti di tre importanti aziende del territorio come Ceramica Dolomite Spa, Epta Spa e Sest Spa - Lu-Ve Group. Il secondo momento invece è stato dedicato ai temi della sicurezza a cura di Certottica Group tramite i formatori della sua nuova business unit ABLE Education - Centro Sviluppo Competenze Belluno Dolomiti”. I partecipanti sono stati suddivisi in gruppi per consentire lo svolgimento della didattica nel massimo rispetto delle normative e dei regolamenti penitenziari. È stato un confronto diretto e arricchente, dove si sono messe al centro competenze e aspettative, al di là di ogni pregiudizio”, prosegue Mares. “Per questo, con la direttrice Paolini e la dottoressa Battipaglia - che ringrazio per la grande disponibilità - abbiamo condiviso la necessità di riproporre nuove iniziative di dialogo e scambio anche in futuro. La convinzione è che la nostra montagna debba diventare un laboratorio di inclusione dove nessuno viene lasciato indietro. Ringrazio anche le aziende partecipanti: hanno dimostrato umanità e lungimiranza”. Novara. In carcere si insegna il mestiere di muratore: una seconda possibilità per i detenuti di Cecilia Colli lavocedinovara.com, 13 luglio 2023 Un progetto pilota nato dalla sinergia tra Senfors e Ance in collaborazione con la casa circondariale di Novara, il Comune e il Provveditorato alle carceri. Dieci detenuti del carcere di Novara stanno seguendo un corso professionalizzante per imparare il mestiere di muratore. All’interno dell’istituto penitenziario costruiranno una rampa per disabili, un campo da bocce in trasformando alcuni spazi detentivi in luoghi di socializzazione e altri lavori si vedranno in futuro. Si tratta di un progetto pilota nato dalla sinergia tra Senfors, Sistema Edile Novarese Formazione e Sicurezza e Ance, Associazione nazionale costruttori edili. “Il corso ha l’obiettivo di creare competenze professionali che i detenuti, una volta terminato il loro periodo di carcerazione, potranno spendere all’esterno e iniziare una nuova vita” ha spiegato ieri la direttrice della casa circondariale Rosalia Marino, insieme all’assessore comunale alle Politiche Sociali Teresa Armienti, il presidente di Ance Novara Vercelli Luigi Falabrino, Cristian Borghese, Gianni Marani e Davide Commisso rispettivamente presidente, vicepresidente e direttore di Senfors. “C’è fame di manodopera nel nostro settore che non si attinge nelle università, ma nei gradi inferiori delle scuole. Per noi questa è una grande opportunità” ha aggiunto Falabrino. L’interesse da parte dei detenuti non manca: “In 58 hanno presentato la domanda per partecipare al corso; solo 10 sono stati ammessi, tra i 30 e i 40 anni che hanno dimostrato maggiori manualità nel settore edilizio e che sono più vicini alla fine della pena” ha spiegato il comandante della Polizia penitenziaria, Daniele Squillace. Questa settimana i detenuti hanno terminato le 40 ore di teoria sul tema della sicurezza e dispositivi; ora si darà avvio alle altre 40 di pratica. Al termine riceveranno un attestato che potranno mostrare ai centri per l’impiego una volta usciti. “Il nostro compito è quello di creare un ponte tra il carcere e l’esterno, riuscendo a fare in modo che le persone che entrano qui possano uscire migliori - ha aggiunto la direttrice Marino -. Qui a Novara siamo in una specie di isola felice: in undici anni abbiamo avviato diversi percorsi di recupero con Assa per la pulizia delle strade e la manutenzione del verde”. Un concetto ribadito anche dal provveditore alle carceri di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Rita Monica Russo: “Un’esperienza già provata a Cuneo con buoni risultati. Novara è un fiore all’occhiello e questi progetti sono la dimostrazione che, nonostante ci sia poco personale, le cose si vogliono fare bene”. Trento. “Per una giustizia di comunità”, una giornata dedicata alle carceri vitatrentina.it, 13 luglio 2023 Sarà una giornata dedicata alle carceri e alla giustizia, quella di sabato 15 luglio a Trento. Dopo una visita al carcere di Trento, prevista in mattinata, infatti, l’associazione Nessuno tocchi Caino propone, alle ore 16 in via Dordi 8, la conferenza dal titolo “Alternative al carcere. Per una giustizia di comunità”, presieduta da Filippo Fedrizzi, Presidente della Camera Penale di Trento e membro dell’Osservatorio Carcere UCPI, alla quale parteciperanno una lunga serie di ospiti. Durante l’incontro sono previsti gli interventi di Rita Bernardini, Presidente di Nessuno tocchi Caino; Veronica Manca, del direttivo CP Trento, membro dell’Oss. Carcere UCPI; Vanni Ceola, dell’Ordine degli Avvocati di Trento; Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino; Antonia Menghini, Garante per i detenuti e docente di Diritto penale presso l’Università di Trento; Maria Coviello, Presidente di APAS ODV Trento; Fabio Valcanover, Nessuno tocchi Caino; Vincenza Carbone, Presidente della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia; Carlo Scaraglio, Presidente Dalla Viva Voce; Elisabetta Zamparutti, Tesoriera di Nessuno tocchi Caino. L’appuntamento sarà l’occasione per fare il punto sulla situazione del carcere trentino, attraverso testimonianze dall’interno e dalle misure di comunità, e portare avanti il progetto dell’istituzione di un apposito provveditore per il carcere, con sede e competenza sugli istituti di penali della Regione Trentino-Alto Adige. Come spiega l’avvocato Fabio Valcanover, il provveditore, che ora ha sede a Padova, “opera nel settore degli istituti e servizi per adulti sulla base di programmi, indirizzi e direttive disposti dal Dipartimento stesso, in materia di personale, organizzazione dei servizi e degli istituti, detenuti ed internati, e nei rapporti con gli enti locali, le regioni ed il Servizio sanitario nazionale”. Il provveditorato regionale, inoltre, “può affidare, con contratto d’opera, la direzione tecnica delle lavorazioni a persone estranee all’Amministrazione penitenziaria, le quali curano anche la specifica formazione dei responsabili delle lavorazioni e concorrono alla qualificazione professionale dei detenuti, d’intesa con la regione, presiede le Commissioni Regionali per il lavoro penitenziario e può ricevere reclami da parte di detenuti e internati”. Palermo. I giovani detenuti diventano sceneggiatori, all’Ipm proiezione del film a cui hanno preso parte palermotoday.it, 13 luglio 2023 Giunge al termine il progetto dell’associazione centro studi Pianosequenza “Officine Malaspina” finanziato dal dipartimento per le Politiche giovanili e il Servizio civile universale della Presidenza del consiglio dei ministri. Il mondo del cinema entra dentro al carcere minorile e travolge i giovani ospiti dell’istituto Malaspina di Palermo facendogli immaginare un futuro diverso, il loro riscatto sociale. Giunge al termine il progetto dell’associazione centro studi Pianosequenza “Officine Malaspina” finanziato dal dipartimento per le Politiche giovanili e il Servizio civile universale della Presidenza del consiglio dei ministri. I ragazzi nei due anni del progetto hanno scritto la sceneggiatura di un film e aiutato nella realizzazione del set. Adesso hanno potuto osservare il lavoro a cui hanno preso parte finalmente realizzato. Il film si chiama Scianél e l’anteprima è stata proiettata dentro al Malaspina ieri. Spettatori speciali i giovani detenuti che hanno assistito alla proiezione assieme al cast tecnico e artistico del film. In carcere per la proiezione si sono recati i protagonisti del film Lollo Franco e la piccola Giulia Fragiglio (Scianél). Presente parte del cast tra cui gli attori Maurizio Bologna, Nicola Franco, Stefania Blandeburgo, Daniele Verciglio, Anna Alario, Simona Tomasello, Marilena Salemi, Marialisa Pagano, Giulia Giarraffa e Ivan Canfarotta. Regista e ideatore del progetto è Luciano Accomando, a fare da tramite tra ragazzi e troupe ci hanno pensato la direttrice dell’Istituto penitenziario minorile Malaspina Clara Pangaro e le educatrici Maria Mercadante e Laura Costa. “E’ stato un progetto molto intenso che ha visto una grande partecipazione di oltre 40 giovani detenuti - osserva il regista Luciano Accomando - i ragazzi mi hanno dato una grandissima mano nel rivedere i dialoghi rendendoli più palermitani, con l’uso del dialetto, e tutti gli oggetti di scena presenti nel film sono stati realizzati nel laboratorio di scenografia avviato dentro al carcere”. Prima della realizzazione del lungometraggio nell’istituto si sono svolti diversi laboratori sui mestieri del cinema: regia e sceneggiatura diretto dallo stesso Luciano Accomando con la sceneggiatura messa a punto assieme ad Azzurra Sichera e ai ragazzi del Malaspina. Poi, i laboratori di ripresa e fotografia guidati da Antonino Rao, scenografia con Alessia D’Amico ed Emilia Gagliardotto, suono con Mirko Cangiamila. “I ragazzi hanno avuto la possibilità di confrontarsi con i capi reparto del film - aggiunge Accomando - per comprendere come realizzare un’opera in tutte le sue molteplici sfaccettature. L’ultimo laboratorio è stato sulla critica ed estetica cinematografica per far comprendere loro il linguaggio e la grammatica del cinema”. Interviene la presidente dell’associazione centro studi Pianosequenza Patrizia Toto: “L’attività dell’associazione - dice - questa capacità di riuscire a lavorare nel sociale e nel mondo della cultura, è una scelta vincente. In questo modo si riescono a coinvolgere delle professionalità che hanno una sensibilità artistica ma anche e soprattutto una sensibilità sociale. Il cinema riesce in questo modo ad essere d’esempio e da stimolo”. Il film qualche segno lo ha già lasciato. “Voglio fare l’attore”, “Appena esco da qui mi piacerebbe lavorare nel mondo del cinema”, “Mi sono sentito parte di qualcosa”; sono solo alcune delle testimonianze dei ragazzi. La cinepresa è la loro finestra sul mondo. La voglia di riscatto è tanta per dei ragazzi che spesso vengono da contesti che non forniscono alcuna alternativa e che adesso questa alternativa l’hanno trovata dentro al carcere. “La visione del film è stato l’ultimo tassello di questo lungo percorso che ha permesso ai giovani ospiti dell’istituto di vedere attualizzati nella “pellicola” i lavori da loro realizzati nei laboratori - dice la direttrice dell’Ipm, Clara Pangaro - Con Officine Malaspina i giovani ospiti dell’istituto sono stati infatti coinvolti in un complesso e articolato viaggio formativo in un settore professionale interessante e attuale, consentendo loro di acquisire competenze professionali e di fare esperienza nell’ambito dei mestieri legati al mondo del cinema. Emozione ed entusiasmo ieri sera hanno caratterizzato la proiezione del film e attraverso gli occhi della protagonista i ragazzi ha fatto potuto anche loro sognare un futuro diverso come parte attiva della comunità sociale”. Lavoro, se i giovani diventano capri espiatori di Stefano Lepri La Stampa, 13 luglio 2023 Non era per colpa del Reddito di cittadinanza che i ristoranti non riuscivano a trovare camerieri? Ora il Reddito di cittadinanza non c’è più ma parecchie imprese continuano a lamentarsi della carenza di personale. Dimenticando di colpo ciò che si proclamava ieri, ora si ripiega sul confortevole luogo comune di sempre, che i giovani hanno poca voglia di lavorare. Intendiamoci: il problema esiste. In molti Paesi avanzati i posti di lavoro vacanti sono numerosi: per fenomeni difficili ancora da inquadrare che hanno certo a che fare con la passata pandemia, ma non solo con essa. In Italia, secondo i dati Istat, dal secondo trimestre del 2021 sono bruscamente aumentati a livelli non visti da oltre un decennio e solo adesso calano un po’. Però in Italia un aspetto è particolarmente evidente: i salari offerti vengono percepiti come non attraenti, specie in questo momento in cui i prezzi corrono. Meglio guadagnare poco che non guadagnare nulla, sentenzierà qualcuno. Normalmente sul mercato del lavoro dopo un po’ di tempo domanda e offerta si aggiustano incontrandosi a metà strada. Al momento, non sembra facile. Ha raccontato a chi scrive un piccolo imprenditore romano: “Ho bisogno di un giovane che mi aiuti. Gli offro un impiego a termine da trasformare in posto fisso appena si sarà impratichito e dimostrato capace. La paga mi pare buona, a giudicare da quello che vedo in giro. Ma non va. Uno, per esempio, mi ha detto che preferisce fare come suo fratello, che campa vendendo video su Tik Tok”. Il caso, seppur leggermente bizzarro, aiuta a rendersi conto delle due facce del problema salariale in Italia. Da un lato, le imprese sostengono che hanno scarse risorse per retribuire meglio. Purtroppo, i dati generali confermano: se il Prodotto lordo (pro capite) dell’economia italiana resta oggi ancora inferiore a quello che era nel 2007, perché mai i salari dovrebbero essere più alti di allora? Dall’altro lato, l’insoddisfazione crescente dei giovani si nutre del vivere in una economia globale dinamica, cittadini di un Paese che, se stenta a produrre reddito, è ricco in patrimonio accumulato e può sfruttarlo. Tanto per dirne una, un giovane che non giudica attraenti i posti di lavoro in offerta può dedicarsi ad affittare appartamenti ai turisti. Un’Italia in difficoltà con la globalizzazione è riuscita a restare competitiva (esporta più di quanto importi) comprimendo il costo del lavoro. Questa “svalutazione interna”, come gli economisti la chiamano, che i Paesi sotto programma del Mes (Grecia, Portogallo, Irlanda) dovettero attuare di botto dopo la crisi del 2010-2011, noi l’abbiamo tenacemente attuata da soli, fino a tutt’oggi. Non si può proseguire così. La difficoltà di oggi ad assumere dipendenti, pur se potrebbero attenuarsi nei prossimi mesi, provano che ormai la stagnazione dei salari non è più un rimedio valido. Benché i sindacati italiani siano debolissimi (lo sanno) in qualche modo un riaggiustamento delle retribuzioni si impone (come sanno gli imprenditori più accorti). Altrimenti, si approfondirà la spaccatura tra i giovani che vanno all’estero (in cerca di migliori paghe e, soprattutto, di più attraenti carriere) e i giovani che restano, frustrati dalle basse paghe o da impieghi di risulta che non richiedono grandi applicazioni di capacità intellettive, dunque pronti a consigliare a fratelli e sorelle minori che studiare non serve a molto. Non sono problemi facili da risolvere, per nessuno. Ma almeno si smetta di inventarsi capri espiatori. Migranti. L’unico confine da difendere è quello del diritto di Gianfranco Schiavone L’Unità, 13 luglio 2023 Italia ancora condannata a risarcire uno straniero vittima nel 2020 di riammissione informale in Slovenia alla frontiera triestina. Una prassi contraria alla Costituzione e al diritto internazionale, che Piantedosi promette di riprendere come e più di prima. Il 9 maggio 2023 il Tribunale di Roma con ordinanza (n. RG 3938/22) ex art. 702 bis c.p.c. della giudice Damiana Colla condannava per la seconda volta il Governo italiano, riconoscendo al ricorrente un cospicuo risarcimento per aver subito la prassi, riconosciuta illegittima sotto plurimi profili, delle cosiddette “riammissioni informali” attuate prevalentemente tra maggio 2020 e gennaio 2021 al confine italo-sloveno. La vicenda, provata in giudizio, riguarda un cittadino straniero, cui è stata successivamente riconosciuta la protezione internazionale, respinto al confine triestino e riconsegnato alla polizia slovena il 17 ottobre 2020 nonostante avesse espressamente chiesto asilo (circostanza riconosciuta dall’amministrazione). La persona è stata poi oggetto di respingimenti a catena, condotti con metodi brutali, fino alla Bosnia dove è sopravvissuto senza ricevere alcuna accoglienza, ma vivendo in un accampamento di fortuna auto-costruito nelle campagne attorno alla città di Bihac; questo fino all’aprile 2021, quando l’uomo ritentava il “game” (espressione usata dai migranti per indicare il violento “gioco” di tentativi di entrare nell’UE e relativi respingimenti) entrando nuovamente in Italia e chiedendo asilo in una città italiana lontana dal confine. Diversamente dal caso oggetto dell’ordinanza del 18 gennaio 2021 (n. RG. 56420/20) emessa dalla giudice Silvia Albano, in relazione alla quale il Governo italiano difese il proprio operato principalmente obiettando che non v’era alcuna prova che la persona ricorrente fosse effettivamente mai stata oggetto della riammissione, nel nuovo caso di condanna i fatti sono evidenti ed accertati. Le riammissioni informali sono state più volte rivendicate come condotta legittima da parte delle autorità italiane, ma soprattutto sono state continuamente invocate da larga parte della classe politica come soluzione giusta e necessaria alla presunta “crisi” degli arrivi dei richiedenti asilo. Già il 3 febbraio 2021, a poche settimane di distanza dall’Ordinanza del giudice Albano, il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, affermava: “Questa Amministrazione regionale è intenzionata - come ha già fatto in passato - a difendere la pratica delle riammissioni nella vicina Slovenia. Una procedura che rispetta pienamente sia i principi della Costituzione italiana che quelli del diritto internazionale”. Da ultimo, il 20 aprile 2023, esercitandosi in una propria assai peculiare interpretazione giuridica, lo stesso Fedriga affermava che “è fondamentale la disponibilità, per quanto mi riguarda, non soltanto dell’Italia, come sta dimostrando, ma anche della Repubblica di Slovenia a continuare a far crescere le riammissioni in Slovenia, perché altrimenti vorrebbe dire non soltanto far arrivare immigrati irregolari nel nostro Paese quando passano per altri Paesi europei, ma negare lo stesso Diritto europeo”. E’ opportuno soffermarsi su dichiarazioni come queste per comprendere a fondo la pratica della riammissione, che è consistita in un tenacissimo tentativo di sovvertimento della legalità di cui sono stati violati persino i più basilari principi, a iniziare dall’assenza di qualsivoglia provvedimento motivato in fatto e in diritto e notificato all’interessato. Come sottolinea la giudice Damiana Colla del Tribunale di Roma “l’illegittimità della prassi è dunque evidente innanzitutto per la mancata previa emanazione di un provvedimento amministrativo notificato all’interessato ed impugnabile dinnanzi all’autorità giudiziaria (…) la carenza di un provvedimento impugnabile finisce per privare la persona sottoposta alla riammissione dei propri diritti alla difesa ed a un ricorso effettivo, in violazione dell’art. 24 della Costituzione italiana, dell’art. 3 della CEDU e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE”. Eppure, già nel luglio 2020, rispondendo alla Camera dei Deputati all’interrogazione dell’on. Riccardo Magi, l’allora sottosegretario all’Interno Achille Variati (PD) oggi parlamentare europeo, affermava con teatrale disinvoltura (si veda pure il video della seduta) che “l’esecuzione di tale tipologia di riammissione non comporta la redazione di alcun provvedimento formale, applicandosi per prassi consolidate le speditive procedure previste dall’accordo di riammissione”. La storia delle riammissioni informali, triviale neologismo finalizzato a coprire la realtà di respingimenti illegali a catena, è una storia di lungo corso che investe sia il centro destra che il centro sinistra (le riammissioni furono infatti condotte durante il governo Conte 2). Ciò mette in luce ancora una volta, analogamente a quanto accaduto in diverse altre circostanze, prima tra tutte gli accordi con la Libia, quanto profonda sia stata, e in parte lo sia tuttora, la crisi politica e culturale in cui è sprofondata la sinistra italiana rispetto all’adesione effettiva al valore supremo della difesa dello Stato di Diritto e della tutela dei diritti fondamentali della persona. Il film di Andrea Segre Trieste bella di notte, costruito raccogliendo la storia di una dozzina di rifugiati respinti dall’Italia e che hanno subito inaudite violenze lungo la rotta balcanica, solleva magistralmente il nauseabondo groviglio di responsabilità e omissioni politiche che sta alla base di una delle più opache pagine della nostra storia recente. Radicalmente prive di una base legale, delle riammissioni si è subito tentata una legittimazione giuridica invocando l’accordo bilaterale tra Italia e Slovenia sulla riammissione delle persone irregolari rintracciate nell’area di frontiera risalente al lontano 3 settembre 1996. Ma con la nuova ordinanza, il Tribunale di Roma ricorda, come aveva già fatto la giudice Albano con la sua precedente ordinanza, che tale accordo “non essendo stato mai ratificato dal parlamento italiano, non può introdurre modifiche o derogare alle leggi italiane o alle norme di derivazione europea o internazionale vigenti nell’ordinamento italiano”. Di estrema importanza risulta il rilievo della giudice Colla laddove evidenzia come, oltre che prive di provvedimento, le riammissioni sono state condotte senza la “preventiva convalida dell’autorità giudiziaria, ai sensi dell’art. 13 della Costituzione e come già previsto per i cittadini stranieri dagli artt. 10, c.2 bis e 13 c.5bis del d.lgs 286/98”. Trattandosi a tutti gli effetti di una misura che incide “profondamente sulla sfera giuridica e sulla libertà della persona interessata”, ogni allontanamento coattivo dal territorio nazionale deve infatti essere soggetto a controllo giurisdizionale come stabilito dalla Corte Costituzionale fin dal 2001 (Corte Cost. Sentenza n. 195/2001) e a nulla rileva la circostanza che la riammissione è attuata nell’arco di poche ore. Già la giudice Albano, nell’ordinanza del 18 gennaio 2021 aveva evidenziato come “A fronte dell’autorevolezza e pluralità delle fonti che danno conto delle sorti dei migranti “riammessi” in Slovenia, sottoposti di fatto a un respingimento a catena fino in Bosnia, come l’odierno ricorrente, deve ritenersi che il Governo italiano avesse tutti gli strumenti per sapere che le “riammissioni informali” avrebbero esposto i migranti, anche i richiedenti asilo, a trattamenti inumani e degradanti. La condotta delle autorità italiane è stata, pertanto, posta in essere in contrasto con obblighi di diritto interno, anche di rango costituzionale, e di diritto internazionale”. La giudice Colla sposa lo stesso corretto orientamento e, richiamando le diverse pronunce in materia da parte della Corte EDU, con estrema chiarezza richiama nella sua ordinanza, un principio giuridico tanto importante quanto usualmente indigesto all’amministrazione, ovvero che il divieto di non respingimento, che non ammette eccezioni, “si configura inoltre anche nell’ipotesi che in cui lo Stato membro [dell’UE] sia a conoscenza (o possa ragionevolmente esserlo) che il rischio reale e attuale di condotte lesive dell’integrità e dignità della persona si concretizzi non nel primo Paese in cui la persona è respinta (tappa intermedia), bensì in un altro e successivo luogo definito”. Smentendo la tristissima posizione bi-partisan sostenuta da Fedriga così come a suo tempo dal già citato Variati, che nella citata risposta all’interpellanza dell’on. Magi riteneva Slovenia e Croazia “intrinsecamente Paesi sicuri, sotto il profilo del pieno rispetto dei diritti umani e delle convenzioni internazionali in materia”, la giudice Colla ricorda come “la Corte di Giustizia UE ha più volte affermato che il diritto europeo osta a qualsiasi presunzione assoluta di rispetto dei diritti fondamentali da parte dello Stato membro designato come competente”. A fine novembre 2022 l’attuale Ministro dell’Interno Piantedosi annuncia la ripresa delle riammissioni verso la Slovenia, in attuazione del citato accordo bilaterale, seppure senza citare in modo espresso i richiedenti asilo (anzi fuggendo sul punto alle domande dei giornalisti). Ciò provoca “oltre 650 tentate riammissioni in pochi mesi, di cui 500 a carico di cittadini afghani tecnicamente inespellibili” come evidenzia una acuta e circostanziata inchiesta del mensile Altreconomia pubblicata a inizio maggio. Questa volta il tentativo maldestro si risolve in un sostanziale fallimento per la scarsa o nulla collaborazione della Slovenia sulla quale l’Italia esercita pur forti pressioni; già a marzo 2023 il nuovo tentativo di forzare la legalità al confine orientale dunque cessa, ma temo, solo provvisoriamente. Tutti i confini europei, anche quelli interni, incluso il nostro confine orientale, si configurano infatti come luoghi nel quale la certezza del diritto è totalmente assente perché sottratti di fatto al controllo giurisdizionale e nei quali è altresì impedito con ogni mezzo l’accesso alle organizzazioni di tutela dei diritti dei cittadini stranieri. Luoghi perfetti dunque nei quali poter attuare prassi illegali, che altrove è più difficile mettere in atto. Ciò spiega perché vi sia un ossessivo orientamento da parte dell’attuale politica, sia italiana che europea, a modificare, de iure o anche solo de facto, le normative dell’UE (dal codice Schengen ai regolamenti su procedure asilo) per rendere le frontiere (la cui stessa nozione giuridica viene dilatata) il luogo cruciale nel quale gestire i fenomeni migratori, esaminare le domande di asilo con procedure accelerate, respingere gli stranieri, meglio se informalmente, ovvero senza alcun controllo. Il confine terrestre italo-sloveno che corre a Trieste e Gorizia è dunque per l’Italia uno dei laboratori privilegiati di questa cupa e pericolosa strategia e di ciò è necessario essere consapevoli. Tunisia. Il dramma dei migranti: tolti dalla frontiera ma nessuno sa dove sono di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 13 luglio 2023 In Tunisia continuano le violenze contro i subsahariani. Chi è ancora libero si nasconde tra gli alberi: “Ma la polizia ci ha rubato tutto”. La strada che porta verso El Amra è una lunga striscia di cemento tutta dritta. A circa 20 chilometri da Sfax, a sinistra e destra di quell’asfalto rovente, cominciano distese di ulivi. Il tipico paesaggio tunisino, se non fosse per un piccolo particolare. A luglio 2023 è facile imbattersi in gruppi di subsahariani che tra gli alberi hanno trovato un rifugio temporaneo. C’è una ragione: da più di una settimana nella seconda città della Tunisia migliaia di persone originarie della Guinea, Camerun, Costa d’Avorio, Mali e Sudan si sono trovate senza casa, lavoro, esposte a violenze di ogni tipo e senza accesso ad acqua, cibo e cure mediche. Chi un’abitazione ce l’ha ancora vive nel terrore di perderla da un giorno all’altro. Da inizio mese a Sfax le tensioni che da anni si registravano tra la popolazione locale e la comunità subsahariana sono definitivamente esplose dopo che si è sparsa la voce della morte di un 38enne tunisino per mano di tre camerunensi. Un episodio alimentato in precedenza dal duro discorso del presidente della Repubblica Kais Saied il 21 febbraio scorso quando ha affermato che nel paese era in corso un processo di “sostituzione etnica da parte dei migranti subsahariani”. “Devo ringraziare le famiglie tunisine che abitano su questa strada per darci pane e acqua quando ci vedono camminare altrimenti non avremmo niente”. Alpha Koulibaly ha 25 anni ed è partito per il Nord Africa nel 2015. All’epoca aveva 17 anni. Il suo racconto avviene mentre insieme a suo fratello e ad altre dieci persone accompagna una donna con sua figlia di poco più di un anno a più di dieci chilometri di distanza: “Abbiamo trovato Khadija lungo la strada, stava andando nella direzione sbagliata. Un tunisino si è offerto di accompagnarla ma prima di salire in macchina le ha chiesto un rapporto sessuale. Ora la portiamo dai suoi amici e poi torniamo indietro. In mezzo ai campi ci saranno più di mille persone”. Tra andata e ritorno sono più di venti chilometri. La temperatura alle due del pomeriggio segna più di 40 gradi. Basta percorrere altri pochi chilometri per imbattersi in un incrocio insignificante. Presa la destra, poco dopo si apre uno scenario fatto di decine di case in costruzione abitate da tunisini, un chiosco che vende acqua e altri beni di prima necessità e due café. Almeno 200 persone di origine subsahariana aspettano che il tempo passi e qualcosa succeda. “Qui non va più niente - racconta un giovane ivoriano di poco più di 20 anni - da quando è cominciata la guerra una settimana fa mi trovo in questo posto senza niente. Una volta al giorno la polizia passa per rubarci soldi e telefono. Ci hanno cacciato di casa con i machete e bastoni e ora non so che altro fare. Alcuni amici sono stati arrestati, altri li hanno portati verso il deserto e non riesco più a chiamarli. Non c’è altra scelta se non aspettare qui e poi partire”. Il deserto. L’altro lato di una vicenda che a oggi quantificare con numeri esatti sembra impossibile. Sempre da inizio luglio in Tunisia si sono verificati casi di vere e proprie deportazioni di massa da Sfax lungo il confine con Algeria e Libia. Le ultime stime parlano di quasi 1200 migranti che per interi giorni non hanno bevuto, mangiato e non hanno potuto curare le ferite causate dalla violenza delle autorità locali. In un primo momento diverse agenzie di stampa e alcune segnalazioni della società civile hanno riportato che queste persone, tra cui richiedenti asilo, lavoratori, studenti universitari, bambini e neonati erano state dislocate tra le città di Medenine, Tataouine e Ben Gardane nel sud della Tunisia. Oggi la versione sembra leggermente diversa: chi è stato inizialmente “accolto” a Medenine è stato di nuovo spostato verso un luogo sconosciuto, mentre continuano a registrarsi casi di respingimenti collettivi. L’ultimo in ordine di tempo sarebbe avvenuto martedì. A OGGI sarebbero più di 150 le persone respinte verso la Libia. In alcuni video si può sentire chiedere disperatamente un po’ d’acqua. Per quanto riguarda il confine algerino, nessuno ha più notizie degli oltre 200 subsahariani trasferiti negli scorsi giorni. Il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) ha potuto verificare la notizia di due morti ma i casi potrebbero essere molti di più. Il 6 luglio il manifesto era riuscito a contattare Daina, cittadina del Camerun. Era insieme ad altre sei persone tra cui un bambino di tre anni: “Siamo stanchi, io sono l’unica che ha ancora il cellulare e si sta scaricando. Dopo non sappiamo cos’altro fare”, aveva detto. Oggi quel telefono non squilla più. In questo contesto parzialmente nuovo (negli scorsi anni si sono registrati casi di respingimenti collettivi ma mai di queste dimensioni), risuonano ancora le parole dell’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt) della sezione di Ben Gardane, che fa parte del sindacato più importante del paese. In uno scarno comunicato ha chiesto alle autorità tunisine di evacuare immediatamente i locali dove avevano trovato rifugio le persone respinte. Un segno evidente di preoccupazione rispetto a un clima di tensione diffuso in tutto il piccolo Stato nordafricano. Hanno fatto ancora più rumore le parole del presidente della Repubblica Kais Saied pronunciate il 9 luglio: “I migranti - ha detto al termine di un incontro con la prima ministra Najla Bouden Romdhane - stanno ricevendo un trattamento umano e conforme ai nostri valori. La nostra nazione non sarà destabilizzata da false informazioni e foto prese all’estero. La storia serve a sistemare le cose, il popolo tunisino ha preso la sua decisione e non indietreggerà. Queste persone si ritrovano in cerchi criminali che minacciano i paesi e i popoli coinvolti da questo fenomeno”. La Libia preoccupa l’Ue: “Dalla Cirenaica arrivi aumentati del 600%” di Marina Della Croce Il Manifesto, 13 luglio 2023 Esodo di profughi dal Sudan nel Sud-Est del paese. Tripoli blinda anche la frontiera con la Tunisia. “La Libia rimane una situazione complicata”, dice Ylva Johansson. Messo da parte per ora il dossier Tunisia dove prosegue la caccia al migrante subsahariano, l’Unione europea torna a guardare con preoccupazione alla Libia e in particolare a quanto accade nella Cirenaica controllata dal generale Kalifa Haftar. “Sappiamo che la pratica delle partenze irregolari dalla Libia orientale è aumentata del 600%”, dice la commissaria Ue agli Affari Interni parlando alla plenaria che si è tenuta ieri all’europarlamento sulle gestione dei soccorsi in mare. Solo due mesi fa, a maggio, Haftar si era presentato a Roma per una serie di incontri istituzionali. In un paio di giorni aveva visto la premier Giorgia Meloni e i ministri degli Esteri, dell’Interno e della Difesa, Tajani, Piantedosi e Crosetto, assumendo l’impegno a collaborare nel fermare le partenze dei migranti diretti in Italia. Ovviamente in cambio di aiuti, dalla fornitura di mezzi per il controllo delle frontiere alla formazione di personale. I numeri, però, come ha ricordato ieri Johansson, dicono che quell’impegno non è stato mantenuto e uomini, donne e bambini continuano a essere stipati fino all’inverosimile dentro barconi che poi prendono il mare dalle coste della Cirenaica. Viaggi che purtroppo non sono privi di rischi, come dimostrano i naufragi avvenuti a febbraio a Cutro e il 14 giugno a Pylos, in Grecia, tragedia quest’ultima costata la vita a più di 600 persone. “Chiedo a tutti di trovare un accordo sugli atti del Patto immigrazione e asilo entro la legislatura- ha proseguito Johansson -. Ricordiamoci quali sono i nostri principi fondamentali: il nostro primo obbligo è salvare vite”. Naturalmente questo non significa che a Bruxelles si stia pensando a un intervento per evitare che le tragedie si ripetano, come è stato in passato con la missione Sophia. Nelle scorse settimane è tornato a riunirsi il gruppo di contatto per la ricerca e il salvataggio che però per il momento non ha prodotto niente di concreto. E nulla fa pensare che qualcosa possa cambiare in tempi brevi. Con una sola novità rispetto al passato. Dopo anni in cui organizzazioni umanitarie e inchieste giornalistiche denunciano le violenze compiute dalla cosiddetta Guardia costiera libica a danno dei migranti, finalmente anche a Bruxelles sembrano aver finalmente aperto gli occhi. Sempre Johansson nei giorni scorsi aveva denunciato “infiltrazioni di gruppi criminali nella Guardia costiera” di Tripoli. “Vorrei chiarire - ha aggiunto ieri la commissaria - che le Guardie costiere devono svolgere le proprie responsabilità nel pieno rispetto del diritto internazionale. Ciò significa che qualsiasi dimostrazione di violenza è inaccettabile”. Una nuova emergenza intanto si è già creata in Libia dove è in corso da giorni un vero esodo di profughi in fuga dalla guerra civile in Sudan che finora ha provocato 3.000 morti, 6.000 feriti e tre milioni di sfollati. Stando a quanto riferito nei giorni scorsi dalle autorità di Rabiana, nel sud-est della Libia, centinaia di persone starebbero attraversando la regione dirette verso la costa nella speranza di riuscire a imbarcarsi. Persone per le quali le amministrazioni locali non avrebbero né le forze né i mezzi per fornire loro alloggi adeguati e assistenza. Viceversa, da parte sua il ministero dell’Interno del Governo di unità nazionale di Tripoli avrebbe organizzato nuove pattuglie con il compito di fermare quanti sono n fuga dalla guerra. Inoltre, probabilmente nel timore di dover far fronte a un flusso di migranti in arrivo anche dalla Tunisia, il primo ministro Dabaiba avrebbe ordinato la creazione di una nuova formazione militare dotata anche di 450 veicoli armati per controllare la strada costiera che da Tripoli arriva fino al valico di frontiera con la Tunisia. Bielorussia. Muore in carcere l’artista dissidente Ales Pushkin Il Manifesto, 13 luglio 2023 Il decesso in circostanze misteriose dell’oppositore di Lukashenko. Nel 1999 rovesciò letame davanti al palazzo presidenziale. Le accuse della moglie, Janina Demuch, al regime di Minsk. È morto in carcere Ales Pushkin, l’artista dissidente che nel 1999 aveva ribaltato un carro di letame fuori dal palazzo presidenziale di Minsk. Pushkin, 57 anni, è deceduto in circostanze misteriose “nell’unità di terapia intensiva della prigione” di Grodno, accusa la moglie, Janina Demuch. Le vicende giudiziarie di Pushkin iniziano nel 1999, in seguito alla sua protesta eclatante di fronte all’ufficio di Lukashensko, che l’artista prende di mira direttamente infilzando con un forcone la sua foto su una carriola carica di escrementi. Il tribunale lo condanna a due anni. Nel 2021 viene arrestato di nuovo per aver partecipato alle proteste antigovernative e viene condannato a 5 anni per incitamento all’odio e “profanazione di simboli di Stato”, a causa dell’esposizione di un ritratto di Evgeny Zhikhar, un nazionalista bielorusso collaboratore dei nazisti durante la II Guerra mondiale. In tribunale, durante la lettura della condanna, si spoglia completamente per protestare contro l’illegittimità della sentenza. Trascorre due settimane in isolamento e il successivo anno e mezzo in carcere. Finché non si ferisce allo stomaco e viene trasferito a Grodno dove ieri notte è stato trovato morto. “È chiaro che Pushkin è diventato un’altra tragica vittima del regime di Lukashenko”, ha dichiarato Svetlana Thikanovskaja, leader dell’opposizione bielorussa in esilio.