Ogni persona ha diritto alla speranza di Rita Bernardini* Il Riformista, 12 luglio 2023 Un Paese dove poco (o nulla) si discute e poco (o nulla) si riflette su come vengono spesi i soldi dei cittadini per assicurare a tutti il servizio “giustizia”. Sono possibili nuove e diverse forme di collaborazione tra autorità giudiziaria, istituzioni penitenziarie, servizi sociali per avviare percorsi rieducativi e di effettivo reinserimento sociale; ogni persona ha diritto alla speranza. È quanto ha affermato Margherita Cassano, primo presidente della Corte di Cassazione in un convegno tenutosi a Firenze all’inizio di questa estate rafforzate da un’altra sua dichiarazione: “La restrizione della libertà personale mediante la custodia in carcere deve costituire l’extrema ratio”. Parole tanto importanti quanto lontane - e proprio per questo io credo rilasciate pubblicamente - dalla realtà conosciuta da chi ha a che fare con l’esecuzione penale nel nostro Paese. Un Paese dove poco (o nulla) si discute e poco (o nulla) si riflette su come vengono spesi i soldi dei cittadini per assicurare a tutti il servizio “giustizia”, missione che forse più di altre è a fondamento di uno Stato che voglia definirsi di diritto. Il budget del ministero per il 2023 prevede un costo totale di 9 miliardi e 374 milioni di euro così ripartiti: il 58,7% per la giustizia civile e penale, il 33,9% per l’amministrazione penitenziaria, solo il 2,9% per la giustizia minorile e di comunità, il 4,5% per tutte le altre voci di gestione amministrativa. Stride quanto poco sia previsto per le pene e misure alternative. Appena 280 milioni compresi gli stanziamenti per la giustizia minorile. Se pensiamo allo stato della giustizia civile e penale in Italia - con milioni di cause pendenti e con la loro irragionevole durata che ci vede costantemente condannati in sede europea - è scandaloso quanto poco viene destinato a tale missione soprattutto se paragonato al rilevante budget dell’amministrazione penitenziaria. E questo al netto delle riforme che dovrebbero essere fatte e che, anzi, sono necessarie. Si dirà che questa distribuzione di risorse offra comunque più sicurezza ai cittadini. Tutte le statistiche ci dicono, invece, che le carceri producono tra il 70 e l’80 per cento di recidiva. Chi visita e conosce gli istituti penitenziari sa che non potrebbe che essere così considerato che la permanenza nelle patrie galere rarissimamente offre seri percorsi di recupero verso il reinserimento sociale. Diversa è la prospettiva per coloro che riescono ad accedere alle misure alternative al carcere: qui la recidiva si abbassa notevolmente. Anche se non esistono studi sistematici, dai dati forniti dagli Uffici per l’esecuzione penale esterna è indicativo quello della revoca della misura per commissione di reato: siamo sotto all’1%. I soggetti interessati all’area dell’esecuzione penale sono 57.520 persone detenute (al 30/06/23) e 80.136 persone in carico agli UEPE tra misure alternative e di comunità (al 15/05/23). C’è poi l’esercito dei “liberi sospesi” - oltre 100mila persone con una condanna sotto i 4 anni con pena sospesa - che attende (spesso anni) che il magistrato di sorveglianza decida o la destinazione in carcere o la misura alternativa. Non vi sembra che sia giunto il momento di aumentare in modo significativo le risorse destinate all’amministrazione della giustizia civile e penale e di incentivare - a discapito del carcere - quanto viene destinato alle misure alternative e di comunità? È chiaro che per far questo occorrerebbe diminuire sensibilmente la popolazione detenuta riservando il carcere a persone veramente pericolose e destinando risorse importanti alle pene e misure per il reinserimento sociale avvalendosi sempre di più del patrimonio costituito dal privato sociale. Quando finisce la pena in carcere, inizia l’altra pena, durissima, di provare a ritrovare un posto nella società con il peso dello stigma di essere stato un detenuto. Il “trattamento” ricevuto in carcere in genere ha acuito i problemi soprattutto per i consumatori problematici di droga, per chi ha problemi psichiatrici o semplicemente comportamentali, per chi è straniero o povero, per chi deve rientrare in famiglie disagiate che non hanno trovato alcun sostegno da parte delle istituzioni locali o per chi una famiglia che ti possa accogliere non ce l’ha più. Ci sono anche norme mai attuate, per esempio quelle che nell’ordinamento penitenziario prevedono l’istituzione dei Consigli di Aiuto Sociale (dall’art. 74 all’art. 78), mai creati dal 1975 mentre dovrebbero essere attivi presso il capoluogo di ciascun circondario di tribunale. Eppure, i Cas hanno per legge la specifica finalità del reinserimento sociale. Spesso persino lo Stato vacilla quanto a rispetto delle regole in vigore. Si pensi alla condanna nel 2013 (sentenza Torreggiani) per violazione sistematica e strutturale dell’art. 3 della Convenzione Edu, cioè per trattamenti inumani e degradanti. È l’ora che lo Stato inizi un percorso di “rieducazione” per reinserirsi nel mondo dello “Stato di diritto”, è l’ora della riparazione e della riconciliazione e ciò può avvenire solo se ognuno di noi decide di fare la sua parte in un percorso complesso che richiede dedizione e amore. *Presidente dell’Associazione “Nessuno Tocchi Caino” La giustizia delle buone intenzioni di Sergio Segio Il Manifesto, 12 luglio 2023 A detta dei propugnatori, la giustizia riparativa “è una modalità alternativa di risoluzione dei conflitti, ma alternativa non nel senso di sostitutiva”, “non intende sostituirsi alle sentenze dei giudici” (Niccolò Nisivoccia, il Manifesto, 7 luglio 2023). Puntualizzazione più che necessaria, dato che, divenuta legge organica all’interno del diritto penale, non ne costituisce una fuoriuscita, divenendo piuttosto un’articolazione complementare e persino supplementare del modello retributivo. Non risponde, insomma, a quell’esortazione a “pensare ad alternative alla pena, non solo a pene alternative” venuta dal cardinal Martini, cui pure si ispirano autorevoli fautori della nuova legge. Nell’applicazione concreta, le relative norme diverranno semmai uno scalino (o “scalone”) in più nel già lungo e scivoloso percorso trattamentale del reo. Se la pena reclusiva è contenimento (e umiliazione) dei corpi, ora si aggiunge un’intrusione nell’anima, indagata al fine di “riscatto”: parola ambivalente che ben rende la paradossale continuità e contiguità tra giustizia retributiva e paradigma riparativo. Vi saranno peraltro sottoposti non solo i colpevoli, ma anche i semplici indagati o imputati (D.L. 10 ottobre 2022, n. 150, Titolo IV, art. 42.1.c); col rischio che tale percorso possa essere utilizzato surrettiziamente a fini di confessione e collaborazione con gli inquirenti, dato che il “Dovere di riservatezza”, la “Inutilizzabilità” e la “Tutela del segreto” (artt. 50, 51, 52) consentono eccezioni. La normativa è, al tempo stesso, ambigua ed esplicita laddove stabilisce contraddittoriamente che: “La partecipazione al programma di giustizia riparativa e l’eventuale esito riparativo sono valutati ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno, della concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione della liberazione condizionale”. Salvo dire subito dopo che: “Non si tiene conto in ogni caso della mancata effettuazione del programma, dell’interruzione dello stesso o del mancato raggiungimento di un esito riparativo” (Titolo V, art. 78 c. 2). Pur necessitando di una trattazione ben più ampia, si può convenire che la traduzione dei principi riparativi all’interno della “riforma Cartabia” origina da buone intenzioni. Non di meno, si può essere certi che ciò produrrà arretramento per i diritti dei reclusi e per un diritto penale minimo e mite. È stato così già in precedenza, con il “Lavoro di pubblica utilità sostitutivo” che consente di utilizzare manodopera detenuta senza alcuna remunerazione. Norma che ha comportato un “ritorno del lavoro forzato gratuito” e che costituisce un “nuovo paradigma emendativo-riparativo di giustizia: basato sull’idea che il condannato, già privato della libertà personale, debba anche “riscattarsi” (Giuseppe Caputo, L’altro diritto, n. 6/2022). Un lavoro forzato ma, naturalmente, dichiarato “volontario”. Il che dovrebbe far capire come potrà tradursi per un detenuto - ovvero, in questo caso, il soggetto debole e ricattabile - quel “consenso libero, consapevole, informato” previsto per accedere al programma riparativo, al cui termine il giudice potrà concedere una diminuzione o sospensione della pena. La nuova legge, imperniata sulla centralità della vittima, semplicemente non tiene poi in conto che la gran parte è detenuta per le leggi sulle droghe e sull’immigrazione. Che “esito riparativo” andrebbe richiesto per quel tipo di reati? E quali le parti offese cui dare il potere, pur indiretto e mediato, di incidere sulla durata della pena? In definitiva, si può parlare di eterogenesi dei fini, laddove la logica riparativa risulta inscritta e ancillare in una risposta penale sempre più dilatata. Nei decenni scorsi si è passati dallo Stato sociale a uno “Stato penale”. Ora vi si sta affiancando un surrogato di “Stato etico”. Animali e detenuti in carcere: la riabilitazione funziona per entrambi di Florinda Ambrogio buonenotizie.it, 12 luglio 2023 Gli animali varcano le porte del carcere per i percorsi di riabilitazione dei detenuti e la loro presenza all’interno delle strutture detentive è ormai considerata un’efficace forma di risocializzazione, tanto da diventare anche una possibilità lavorativa per i soggetti in espiazione di pena. In Italia come all’estero ha vinto il concetto che l’interazione con gli animali ha sia benefici terapeutici che funzioni educative. Accarezzare un quattrozampe abbassa la pressione sanguigna, favorisce la produzione di endorfine, serotonina e prolattina - gli ormoni associati al benessere al piacere e alla felicità - e aumenta il senso di armonia, riduce stress e aggressività, rafforza il sistema immunitario e facilita le relazioni sociali. Lo sanno bene i numerosi detenuti sia in Italia che all’estero che, grazie a specifici progetti di riabilitazione, hanno avuto la possibilità di relazionarsi con gli animali migliorando la qualità della vita all’interno del contesto carcerario rendendo meno gravoso il disagio mentale dovuto alla reclusione. Il beneficio non è a senso unico. “L’ossitocina, l’ormone delle coccole, viene rilasciata non solo negli esseri umani, ma anche negli animali”, lo dice al quotidiano tedesco Frankfurter Rundschau Andrea Beetz, psicologa che ha lavorato per oltre quindici anni nel campo degli IAA -Interventi Assistiti con gli Animali - e che insegna presso il Dipartimento per l’Educazione Speciale di Rostock e il Dipartimento di Biologia Comportamentale di Vienna. “L’interazione uomo-animale presenta importanti valenze emozionali, cognitive, formative, assistenziali e terapeutiche che vanno promosse, tutelate e valorizzate all’interno della società. Per portare a eccellenza tali valenze si ritiene indispensabile promuovere un rapporto uomo-animale che sia equilibrato e consapevole, caratterizzato da reciprocità e corretta espressione etologica nel rispetto delle specifiche individualità”. Questo si legge all’art. 2 della Carta Modena: Carta dei valori e dei principi sulla Pet Relationship, che nel 2022 ha visto la partecipazione dei massimi esponenti, esperti ed Enti in materia di relazione uomo-animale e dei diritti da salvaguardare di entrambe le parti. Animali e detenuti: vite connesse, un aiuto reciproco Nel penitenziario di Poarta Alba, il secondo più grande della Romania e che comprende al suo interno un’unità ospedaliera per detenuti con problemi psichiatrici, “con il progetto “Vite connesse” di Save the Dogs and Other Animals abbiamo voluto portare beneficio sia agli animali che alle persone fragili dei territori dove l’organizzazione opera - racconta Sara Turetta, Founding President presso Save the Dogs and other Animals e autrice del libro “I cani, la mia vita” - nella convinzione che il destino di chi vive ai margini della società sia unito dalla medesima mancanza di diritti. Solo tenendo tutto insieme è possibile rendere il mondo un posto migliore”. Dopo anni di detenzione, la maggior parte dei detenuti ha difficoltà a svolgere anche le più semplici attività quotidiane, con un calo dell’autostima e dell’autocontrollo. “Vite connesse” è un progetto innovativo, e ha come obiettivo quello di migliorare la vita dei detenuti e degli animali bisognosi che non hanno nessun altro che possa aiutarli. “Attraverso gli Interventi Assistiti con Asini, ad esempio, - continua Turetta - viene offerta ai detenuti un’opportunità di socializzazione e di partecipazione alla comunità e, al tempo stesso, gli equini salvati beneficiano delle cure dei detenuti” Favorire il miglioramento dell’autocontrollo, della stima e della fiducia in sé stessi sviluppando l’empatia, sono gli obiettivi specifici degli interventi. “Durante gli incontri preliminari di pianificazione - conclude Sara Turetta - si è rilevato anche un grande interesse da parte dei detenuti nei confronti dei numerosi cani e gatti randagi che vivono nel carcere. Partendo da questo coinvolgimento, sono state messe a punto attività capaci di motivarli alla cura e alla compassione verso gli animali, l’ambiente e la comunità. I detenuti hanno realizzato oggetti con materiali di recupero per cani e gatti che sono stati donati alle persone più bisognose della comunità e alle famiglie dei detenuti durante le visite in carcere”. Per combattere il randagismo felino, nell’Istituto di pena Pendleton Correctional Facility, nello stato americano dell’Indiana, gli attivisti per i diritti degli animali dell’organizzazione Animal Protection League hanno deciso di dare vita al programma F.O.R.W.O.R.D. (Felines and Offenders Rehabilitation with Affection, Reformation and Dedication) portando i gatti dei rifugi fuori dalle loro gabbie e tra le braccia dei prigionieri. Questo speciale programma offre la possibilità ai detenuti di occuparsi dei gatti randagi altrimenti destinati all’eutanasia, dando loro tutto quello di cui necessitano. La possibilità di prendersi cura di qualcuno che dipenda interamente da loro, ha generato eccellenti risultati: la maggior parte dei detenuti mantiene una buona condotta perché ha trovato un amico sincero che li ha fatti uscire dalla routine carceraria, amico che, il più delle volte, porteranno con sé una volta reinseriti nel contesto sociale. Un ottimo strumento di riabilitazione per far sì che, durante il periodo di detenzione, le persone imparino il concetto di responsabilità ricevendo, nel contempo amore e attenzioni. Considerevoli sono gli esempi anche nello Stivale: nella casa circondariale del carcere di Bollate, a Milano con il progetto “Cavalli in carcere”, ad esempio, si formano i detenuti per attività di scuderia e con il programma “Cani dentro e fuori”, organizzato dal Dipartimento veterinario dell’Università Statale di Milano, si preparano le persone recluse a diventare dog sitter professionisti e nel contempo si educano i cani randagi per l’adottabilità. Anche nella Casa circondariale di Velletri, a Roma, è stata portata avanti un’iniziativa chiamata “Cani qui dentro?” dove l’incontro di due entità emarginate dalla società - pitbull aggressivi e detenuti - crescono, si rieducano a vicenda e si danno forza. In tutte queste attività di formazione si seguono diligentemente le “Linee Guida Nazionali in materia di Iaa”, tutelando gli animali da eventuali situazioni stressogene, grazie a continui monitoraggi con visite cliniche e comportamentali. Progetti di riabilitazione che vedono insieme detenuti, guardie penitenziarie e associazioni di volontari uniti con lo scopo di risocializzare e comunicare, vedendo, negli animali, un’opportunità rieducativa dal valore inestimabile. Riforma della giustizia, tra governo e toghe è tregua: e l’Anm fa marcia indietro di David Romoli L’Unità, 12 luglio 2023 Il sindacato dei magistrati dice di non volere lo scontro e torna a toni concilianti per ricucire con l’esecutivo. Che fa la voce grossa ma terrà la separazione delle carriere nel cassetto. Sembra l’ennesimo colpo nel botta e risposta tra politica e magistratura ma lo è solo in superficie. Sotto il pelo dell’acqua l’Anm fa il possibile per raggiungere subito una tregua con il governo e chiudere l’incidente prima che diventi grave nella sostanza e non solo nell’apparenza. Il presidente Santalucia strilla con quanto fiato ha in gola che le toghe non hanno mai voluto e cercato lo scontro: “È un’accusa così infondata, generica e anonima da rendere difficile persino difendersi”. Il segretario dell’Associazione Casciaro è anche più chiaro: critiche tecniche sì, quelle i magistrati se del caso possono e devono muoverle, però “spetta ovviamente solo alle forze politiche legittimate dal consenso popolare decidere quali siano le riforme più appropriate”. Se non ci fossero alle spalle gli ultimi decenni sarebbe l’enunciazione dell’ovvio e corretto rapporto tra poteri dello Stato, così come sancito dalla Costituzione. Dopo una lunghissima epoca segnata da invasioni di campo reciproche e di ogni tipo è un’affermazione molto meno banale e più conciliante. Se la premier ha avuto l’impressione di essere oggetto di un attacco, e ce la ha avuta eccome, si è sbagliata: questo il messaggio dell’Anm. Il Colle ha sul tavolo il nuovo ddl Nordio di riforma della giustizia, quello che tra le altre cose cancella il reato di abuso d’ufficio. È arrivato tardi non per il viaggio del presidente, come da immancabile alibi, ma perché per il governo mettere mano alla giustizia è sempre un’impresa e già il ritardo in questione segnala tutta l’incertezza e l’imbarazzo del governo quando si muove sul terreno più minato che ci sia. Su cosa farà il presidente può esserci suspense solo nella mente di chi è fuori dalla realtà: bocciare un ddl in partenza sarebbe una mossa da guerra nucleare, oltre tutto assolutamente ingiustificata. Se su alcuni particolari il presidente riterrà opportuno consigliare correzioni lo farà lontano dai riflettori, ricorrendo alla moral suasion e puntando sulla possibilità di emendare il testo in aula. Certo non partiranno dal Colle bordate che possano aumentare la tensione. Il governo, da parte sua, sembra deciso a evitare la sola mossa che renderebbe lo scontro inevitabile. Al ministero della Giustizia sulla separazione della carriere tutto è fermo. Gli ufficiali di FdI confermano che la misura “fa parte del programma”. Però non ora. A suo tempo. Alla fine del percorso riformatore, come una specie di ciliegina sulla torta. Il problema è che trattandosi di una riforma costituzionale i tempi sono di per sé molto lunghi, il che, se l’obiettivo fosse davvero arrivare alla separazione, consiglierebbe all’opposto di muoversi celermente. La realtà è che il vero provvedimento della discordia, appunto la separazione delle carriere, è su un binario morto e con ogni probabilità ci resterà per l’intera legislatura. La faccenda, del resto, è in mano al sottosegretario Mantovano, magistrato e molto vicino alla magistratura, con un’influenza diretta sulla corrente più forte che ci sia oggi tra i togati. Nei giorni scorsi, con l’abituale discrezione, si è dato da fare per svelenire il clima: è assolutamente certo che continuerà a farlo. Lo spettro della separazione delle carriere resterà in campo solo come strumento di condizionamento, da brandire come minaccia perenne. Gli estremi per arrivare alla tregua che tutti vogliono ci sarebbero tutti. Eppure il caso non è chiuso e non si chiude. La tensione non scema, alimentata anche da un silenzio della premier che inizia dopo giorni di mutismo ad apparire imbarazzante, oltre che molto imbarazzato, quasi increscioso. Il problema della destra, più che varare davvero una riforma radicale, sembrano essere le polemiche quotidiane, gli attacchi dei giornali, la resistenza rumorosa ma nella sostanza poco consistente di una magistratura che non è più quella del 1994 e non ha più la forza che vantava nei decenni precedenti. In un simile contesto la puntata di ieri di Report, con un nuovo affondo sul caso Santanchè, era attesa nei palazzi del governo con molta più trepidazione degli esiti del direttivo dell’Associazione nazionale magistrati. È la sindrome dell’assedio, propria di un partito piccolo e sempre sotto scacco come era il Msi ma anche sino a un paio d’anni fa la stessa FdI. Quella che ha precipitato il governo in una situazione scabrosa che sarebbe stato facilissimo evitare e che ora gli impedisce di uscirne. Carriere separate, tutto rinviato all’autunno. “Ma basta con gli scontri” di Simona Musco Il Dubbio, 12 luglio 2023 Previsto per oggi un incontro sul cronoprogramma della riforma della Giustizia: prossime tappe prescrizione e intercettazioni. Congelata, ma solo temporaneamente. La separazione delle carriere, ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio in un’intervista a Libero, si farà, ma non esiste ancora alcun testo, ha sottolineato, confermando quanto sostenuto dal Dubbio nei giorni scorsi. Se ne riparlerà con l’autunno, fanno sapere fonti di via Arenula, e oggi sono previste riunioni sul cronoprogramma della riforma della Giustizia, partita con un primo pacchetto che ha faticosamente imboccato la strada di Palazzo Madama per approdare alla Commissione presieduta da Giulia Bongiorno. Ma quella che vuole dividere pm e giudici rimane la riforma più delicata, la più rappresentativa di un programma di governo che sulla giustizia si gioca forse la propria tenuta. Solo una settimana fa a rilanciarla con vigore era stato il sottosegretario Andrea Delmastro, poi travolto, pochi giorni dopo, dall’imputazione coatta per rivelazione d’ufficio nel caso Donzelli, che ha fatto gridare allo scandalo un’anonima fonte di Palazzo Chigi. E da lì è partita la guerra tra politica e toghe, arricchita dai casi Santanché e La Russa e da nuove note impersonali partite dal ministero della Giustizia, che fonti interne attribuiscono a chi “vorrebbe intestarsi le riforme”. Con quelle note e con le dichiarazioni rilasciate dall’Anm, che lamentava il tentativo di delegittimazione dell’esecutivo, si è dato il via ad un botta e risposta fatto di accuse reciproche, che affondano le proprie radici nel pacchetto di riforme già approvate dal consiglio dei ministri; dichiarazioni poi edulcorate per evitare un implosione che potrebbe rivelarsi fatale. Anche perché la partita vera si giocherà tutta attorno a questa “riforma di civiltà” - così l’ha definita Delmastro -, che si farà, giurano tutti i partiti di maggioranza. E nel dirlo sembrano voler ricordare di avere il coltello dalla parte del manico - “le leggi le fa il Parlamento, i magistrati le applicano” - gettando contemporaneamente acqua sul fuoco invitando ad evitare gli scontri. Tutto, dunque, sembra far propendere per una strategia della tregua, in attesa che Giorgia Meloni pronunci le prime parole su una polemica tanto aspra da rendere surreale il suo silenzio e che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella firmi il ddl Nordio, prima tappa di una riforma della Giustizia che sembra destinata a viaggiare a rilento. Sulla road map ci sono ancora gli interventi sulla prescrizione e le intercettazioni e solo dopo si penserà alla riforma più odiata dai magistrati. Che potrebbe però rischiare di non vedere mai la luce, dati i tempi necessari per una modifica costituzionale sulla quale difficilmente si potrà viaggiare con il piede sull’acceleratore, data l’esigenza di riformare, contemporaneamente, anche il Csm. “Noi fino adesso non l’abbiamo proposta - ha detto dunque Nordio -. Esiste una proposta in Parlamento depositata da altre forze politiche. Una separazione netta delle carriere esigerebbe una riforma costituzionale, come una riforma netta del Consiglio superiore della magistratura. Questo è però nel programma di governo”. In Parlamento sono attualmente depositate, complessivamente, cinque proposte. Quattro - quelle di Jacopo Morrone (Lega), Tommaso Calderone (FI), Enrico Costa (Azione) e Roberto Giachetti (Iv) - sono state accorpate alla Camera, mentre al Senato pende quella della leghista Erika Stefani. Ma dal 29 marzo non si muove nulla in Commissione. Tutti - da Forza Italia alla Lega, passando per FdI - promettono di voler fare riforme per e non contro, ma rilanciano comunque l’odiata separazione. La Lega, con una nota, ripropone l’intero pacchetto elettorale, auspicando l’approvazione di una riforma fatta per unire “garantismo e certezza” ma che includa anche “la separazione delle carriere”. “Una sfida da vincere - continua la velina -, per rendere l’Italia più moderna e credibile anche a livello internazionale”. Ma “all’insegna della rispettosa collaborazione” e “e nel rigoroso rispetto sia dell’obiettivo finale che delle prerogative costituzionali di ogni soggetto”. Un concetto ribadito anche da FI, che con il senatore Pierantonio Zanettin - che in Commissione Giustizia mira a portare a casa anche il sorteggio temperato per l’elezione dei componenti togati del Csm - rimarca al Dubbio di non voler rinunciare alla riforma. “Per noi rimane una priorità - dice. Abbiamo quattro anni abbondanti, dunque possiamo lavorarci. Però è una riforma costituzionale che richiede dei tempi: sarebbe il caso di riprenderla in mano. In questo momento, dopo tutta la tensione che c’è stata, ci vuole un po’ di calma. È inutile alimentare ulteriori attriti tra politica e magistratura. Ma ci auguriamo che si raggiunga questo traguardo”. Inutile fare guerre, dunque, “anche perché se si alzano troppo i toni non si combina niente - conclude -. Speriamo che arrivi presto in Commissione il primo pacchetto di riforme per metterci a lavoro su un testo che per noi è un buon punto di partenza”. Giustizia, due articoli della riforma proposta da Nordio suscitano i dubbi di Mattarella di Marzio Breda Corriere della Sera, 12 luglio 2023 Abuso d’ufficio e traffico di influenze, sono i punti su cui è perplesso il Presidente della Repubblica. Ma Mattarella firmerà per dovere d’ufficio (nella storia repubblicana non ci sono precedenti contrari). Il governo dice che quello preparato dal ministro Carlo Nordio è solo “l’anticipo” di una ben più vasta riforma della giustizia, e che la parte corposa la vedremo tra l’autunno e l’inverno. Eppure, già nella decina di articoli che formano il disegno di legge allo studio del Quirinale non mancano nodi tali da suscitare la perplessità di Sergio Mattarella. Dubbi platonici, comunque. Nessuna criticità costituzionale. Il presidente firmerà per dovere d’ufficio (nella storia repubblicana non ci sono precedenti contrari) l’autorizzazione a presentare alle Camere il ddl. Che, ripetono annoiati sul Colle, non è un decreto legge subito operativo e avrà dunque davanti a sé un percorso parlamentare non breve e suscettibile fino all’ultimo di aggiustamenti. Alcuni dei quali magari riservatamente segnalati dal Colle, nella logica della “leale collaborazione tra poteri” che va sotto il nome di moral suasion. I problemi più sensibili, per il capo dello Stato, e che potrebbero chiamarlo in causa - se, in sede di ratifica finale, il testo restasse com’è oggi - sembrano concentrati soprattutto su due articoli della miniriforma. Quello che fa scomparire l’abuso d’ufficio e quello che riduce in modo drastico la portata del traffico d’influenze. Considerando il crescente orientamento anticorruzione della legislazione europea, far calare l’eclissi su questi reati ci esporrebbe a critiche e tensioni con Bruxelles. Ciò che fa riflettere Mattarella, nella consapevolezza che l’Italia non ha bisogno di nuove prove di forza. Si tratta, infatti, di abrogazioni incompatibili - dal punto di vista della coerenza giuridica e perfino morale - con lo spirito del tempo. Basta sfogliare una raccolta di leggi e un archivio di giornale per sincerarsi di quanto siano diffuse, e detestate dalla gente, quelle forme di illegalità. Che riassumiamo nella loro formulazione per comodità del lettore. La prima ipotesi di reato è regolata dall’articolo 323 del codice penale e riguarda i casi in cui un pubblico ufficiale agisce in modo arbitrario, abusando dei suoi poteri o funzioni, per ottenere un vantaggio personale o arrecare un danno a un terzo o alla collettività. Alla seconda ipotesi si riferisce invece l’articolo 346 bis e si verifica quando, di fronte a iter burocratici nell’ambito della pubblica amministrazione, un soggetto o più soggetti sfruttano conoscenze influenti in tale ambito per ottenere favori e agevolazioni, spesso anche pagando somme di denaro. A sostegno della doppia cancellazione c’è una maggioranza politica trasversale, cui si appellano moltissimi sindaci, bersagli principali di inchieste che quasi mai si concludono con condanne. E la stessa inconcludenza si verifica nei processi per traffico d’influenze. Questioni sulle quali s’interroga pure la magistratura, oberata e minata nella propria credibilità da questo tipo d’indagini che sfociano nel nulla. È possibile che Mattarella e la premier Meloni ne parlino, tra molte altre cose, in un incontro previsto per domani al Quirinale. Piraino (Mi): “L’Anm si fermi. Lo scontro col governo giova a chi vuole il caos” di Giulia Merlo Il Domani, 12 luglio 2023 Il segretario di Mi, Angelo Piraino, chiede di interrompere l’escalation di botta e risposta tra Anm e governo. “Capisco la reazione, ma così non se ne esce”. “Le note contenevano accuse gravi e condivido tutto quello che è stato detto nel merito dal presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia. Ma ora bisogna fermarsi e capire cosa sta succedendo”. “La maggioranza ha la legittimazione popolare a varare le riforme che ritiene più adatte. La magistratura, invece, ha tutto il diritto di analizzare le riforme, discuterne e instaurare un dialogo col governo. Ma nel merito, mai con toni da opposizione politica”. Dopo gli scontri di questi giorni tra governo e Anm, ora “bisogna interrompere questa escalation di botta e risposta. Fermiamoci e dialoghiamo”, è l’appello di Angelo Piraino, segretario generale del gruppo moderato di Magistratura indipendente. Lo scontro era inevitabile dopo le esternazioni di palazzo Chigi e via Arenula? La questione andrebbe impostata diversamente. Da una parte ci sono note non firmate, sassi lanciati nascondendo la mano. Dall’altra parte, invece, c’è stata un’ansia di rispondere che ha fatto inevitabilmente salire il livello dello scontro, con dichiarazioni reciproche dal tenore sempre più belligerante. In risultato è una preoccupante tensione tra la politica e la magistratura, in cui però stanno prevalendo le ali estreme di entrambi i mondi. Secondo lei le note del governo non meritavano una risposta forte? Non sto dicendo questo. Dico però che si trattava di note attribuite a non meglio precisate fonti, quasi delle grida manzoniane direi. Capisco la reazione dell’Anm e non prendo assolutamente le distanze, ma credo che alzando il livello dello scontro si fanno gli interessi solo di chi vuole fare confusione. Quindi l’Anm è caduta in un tranello mediatico? Le note contenevano accuse gravi e condivido tutto quello che è stato detto nel merito dal presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia. Le sue parole e i suoi toni erano conseguenti al tenore delle note, ma se si cade nel botta e risposta non se ne esce. Ora è arrivato il momento fermarsi e di capire quello che sta succedendo. Quello che sta emergendo è un ritorno dello scontro tra politica e magistratura. Non è così? Io registro che questa maggioranza ha la legittimazione popolare a varare le riforme che ritiene più adatte. La magistratura, invece, ha tutto il diritto di analizzare le riforme, discuterne e instaurare un dialogo col governo. Ma nel merito, mai con toni da opposizione politica. Ecco: non voglio che la magistratura venga iscritta come controparte politica, ma è quel che succederà se si continua in questa direzione. Secondo le famose fonti di governo, sarebbe ritornata la giustizia a orologeria per fermare la riforma di Nordio... Quale riforma? Ho detto che questa maggioranza ha la legittimazione forte per fare le riforme, ma ad oggi non si sono viste. Il ddl di Nordio punta a risolvere problemi specifici ma non ha il sapore di una riforma di sistema. Per ora ci sono state solo manifestazioni di intenzioni. Nel concreto, però, il governo sta dicendo che le toghe mettono sotto scacco la politica con le inchieste. Esiste davvero un modo per dialogare su questo? Io credo di sì. Le faccio un esempio: è statisticamente inevitabile che avvengano indagini su esponenti politici, ma un dialogo costruttivo potrebbe consentire di riflettere sull’efficacia di soluzioni passate, come quella dell’immunità parlamentare che per quarant’anni ha risolto il problema. A volte un intervento mirato ma ben calibrato può risultare ben più risolutivo di riforme di più ampia portata. All’apice della polemica, il governo ha ribadito di voler procedere alla separazione delle carriere ed è stato letto come un intento ritorsivo. È così? Anche questo mi sembra frutto di questo clima di tensione. Si tratta di una proposta di riforma che viene da lontano, perché contenuta anche nel programma elettorale di centrodestra, ma è stata letta alla luce dell’oggi e del clima pesante che si respira. È ovvio però che quando avremo qualche testo, lo valuteremo e diremo la nostra in chiave di dialogo. Fermo restando che chi delibera è il parlamento. La magistratura non può e non vuole invadere il campo della politica. Il ministro annuncia da mesi un testo di riforma sistematico, che però ancora non ha visto la luce... Forse è un bene che ci sia l’estate di mezzo. Questo clima di tensione rischia di avvelenare i pozzi, perché qualunque riforma venga varata rischierà di non essere valutata per quello che è. Lo diceva Luigi Einaudi: occorre conoscere per deliberare, perché le soluzioni non maturate e non ragionate partoriscono nuovi grovigli e rinnovate urgenze di porre rimedio a mali peggiori. Come si supera la crisi di questi giorni, allora? Il mio desidero è che si interrompa l’escalation, ci si sieda al tavolo e si dialoghi, magari contando tutti fino a dieci prima di parlare. Il governo si è impegnato con gli elettori per fare le riforme, vorrei che ci sia la serenità giusta per valutarle sulla base del loro effettivo contenuto. “Tornare all’autorizzazione a procedere”. La proposta del giudice Angelo Piraino di Ermes Antonucci Il Foglio, 12 luglio 2023 “Per riequilibrare i rapporti tra politica e magistratura si potrebbe reintrodurre l’istituto dell’autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari”, dice il segretario di Magistratura indipendente. “Per riequilibrare i rapporti tra politica e magistratura si potrebbe reintrodurre l’istituto dell’autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari”. La proposta non viene da un politologo o da uno storico, ma, a sorpresa, da un magistrato: Angelo Piraino, segretario di Magistratura indipendente. “Le tensioni nei rapporti fra politica e magistratura - dichiara Piraino al Foglio - derivano molto spesso, come di recente, dal fatto che periodicamente e inevitabilmente ci sono iniziative giudiziarie che coinvolgono esponenti politici e vengono viste come interferenze. In passato queste vicende non venivano vissute con le stesse tensioni di oggi. Da qui la proposta sull’autorizzazione a procedere”. Qualcuno, dottor Piraino, potrebbe contestarle la proposta sostenendo che in passato la politica ha abusato di questo strumento... “L’immunità parlamentare - replica il segretario di Mi - nasce storicamente come una prerogativa a tutela del Parlamento, per evitare che quest’ultimo possa essere condizionato da iniziative esterne, ed è conosciuta in tantissimi ordinamenti occidentali. Con essa tutto viene ricondotto nell’ambito della responsabilità politica. Se una maggioranza abusasse di questa prerogativa ne risponderebbe davanti agli elettori”. Negli ultimi giorni si sono manifestate tensioni fra governo e magistratura attorno alle vicende che riguardano il ministro Santanchè e l’onorevole Delmastro. Oggettivamente, la reazione del ministero - fatta di note provenienti da “fonti di Via Arenula” - è stata alquanto singolare. “Ma chi sono queste fonti? In democrazia è importante saperlo. A me sono sembrate come l’atto di chi lancia il sasso e poi nasconde la mano”, dice Piraino. “Tra l’altro, queste uscite sono coincise con un momento in cui la tensione già era abbastanza alta, in virtù delle vicende precedenti, come quella di Artem Uss. C’era una corda scoperta ed è stato facile farla vibrare. La domanda che mi pongo io è: ma chi ha l’interesse a far vibrare quella corda?”. Entrando nel merito del primo pacchetto di riforma Nordio, non crede che questo intervento sia stato sovraccaricato di importanza? “E’ un intervento legislativo che mira a risolvere alcuni problemi specifici, come due reati contro la Pubblica amministrazione, le garanzie nella fase delle misure cautelari, divieti di pubblicazione delle intercettazioni. Però sono interventi, non è una riforma. Una riforma è qualcosa di più organico”. Per Piraino “ci sono degli aspetti da valutare”: “Ad esempio, togliendo l’abuso d’ufficio potrebbero restare privi di sanzione comportamenti che riguardano la sfera dei concorsi pubblici. Il commissario di concorso pubblico che favorisce un parente o un amico per l’assunzione, senza il reato, potrebbe non essere sanzionato sul piano penale”. “L’interlocuzione con la magistratura ci deve essere, perché vivaddio siamo in una democrazia - afferma Piraino - Però, tengo sempre a distinguere tra le scelte dei valori, che spettano alla politica, e l’attività della magistratura, che non può essere libera nei fini, perché è soggetta alla legge. Il contributo lo diamo nel momento in cui indichiamo quali potrebbero essere le conseguenze di un intervento, ma è chiaro che le scelte poi le fa il Parlamento”. Sembra esserci un grande assente in tutto questo dibattito: le risorse per la macchina giudiziaria. “Questo è il tasto più dolente di tutti. Anche la riforma Nordio sembra rendersene conto, laddove posticipa l’entrata in vigore delle norme che riguardano l’aumento del numero dei giudici che devono valutare l’adozione della misura cautelare, in attesa delle necessarie assunzioni dei magistrati. Questa proposta, però, è difficilmente compatibile con i piccoli tribunali. Per fare un processo con misura cautelare, tenuto conto dell’incompatibilità delle funzioni, serviranno oltre venti magistrati. Su questo tema si dovrebbe avere la libertà di discutere serenamente, senza l’ansia di pensare che ci sia un’intenzione punitiva da una parte rispetto all’altra”. Qui torniamo alla vicenda dei comunicati stampa veicolati per conto di “fonti di Via Arenula”. “La domanda che mi pongo io è: perché?”, insiste Piraino. “Il paradosso è che si veniva da una riunione tra il ministro Nordio e l’Anm che invece era stata caratterizzata da toni assolutamente ragionevoli, distesi e improntati al dialogo. Poi sono arrivate queste note, non attribuibili al ministro come avete scritto sul vostro giornale. Per questo chiedo: cui prodest?”. L’ossessione delle carriere separate che mina l’indipendenza delle toghe di Gian Carlo Caselli La Stampa, 12 luglio 2023 Interferenze nelle decisioni dei magistrati e richiesta di azioni disciplinari. L’obiettivo finale del Guardasigilli: sottoporre i pm al controllo del potere esecutivo. Carlo Nordio ha deciso di dare sfogo alla voglia di rivalsa verso gli ex colleghi con alcune uscite che rivelano una chiara insofferenza per l’indipendenza della magistratura. A Milano viene messo agli arresti domiciliari con braccialetto - e non in carcere - un imprenditore russo, poi fuggito evitando l’estradizione negli Stati Uniti. Il Ministro prende cappello e chiede l’azione disciplinare contro i giudici, invadendo un campo che deve essere riservato esclusivamente alla giurisdizione (l’interpretazione delle norme e la valutazione del fatto). Poi con una nota anonima (una prassi innovativa?) Chigi e via Arenula attaccano duramente un Gip di Milano che ha osato applicare la legge chiedendo al Pm l’imputazione coatta di un Sottosegretario alla giustizia. In questo modo il Governo pretende che sia segreto - anche per la magistratura - soltanto quel che pare a lui. Infine vi è il caso della Procura europea (Eppo), organo giudiziario sovranazionale con competenza su tutto il territorio europeo, la cui missione riguarda anche la gestione dei fondi del Pnrr. L’attuale rappresentante italiano in Eppo è in scadenza e il Csm ha indicato per la sostituzione tre magistrati. Una qualificata commissione europea ha stilato - con una rigorosa e trasparente procedura - una graduatoria fra i tre, trasmettendola per la nomina definitiva al Consiglio dell’Unione Europea. In questa sede il Governo italiano, non si sa con quali motivazioni, è intervenuto per imporre l’ultimo in graduatoria, a differenza di tutti gli altri Paesi che hanno favorito la nomina del primo. Ora, poiché requisito base dell’Eppo è indubbiamente la sua indipendenza, sia dalle istituzioni europee sia dagli Stati nazionali, anche in questo caso emerge un “vulnus” all’indipendente esercizio della giurisdizione. Ma il piatto forte - più volte annunziato - è la separazione delle carriere tra Pm e giudici, ossessione di gran parte degli Avvocati e ora anche del Governo. Che però dovrebbe mettersi d’accordo con se stesso. La richiesta di separazione si basa sull’assunto che un giudice non controllerebbe con sufficiente rigore l’operato di un Pm che è suo collega. Ma se si aggredisce il Giudice che contraddice il Pm ordinandogli l’imputazione coatta, si smentisce la pretesa ragion d’essere della agognata separazione. Un po’ di coerenza, senza baloccarsi con ameni testa-coda, non guasterebbe. Nel merito, la separazione delle carriere fa sorgere dubbi sulla qualità della nostra democrazia. Un corpo separato di Pm - inevitabilmente - è destinato a perdere l’indipendenza dal potere esecutivo. Non è democraticamente ammissibile un tertium dotato di autonomia tra ordine giudiziario ed esecutivo, perché un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (circa 2.000 unità), altamente specializzato e preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale, o è compensato dall’ancoraggio alla giurisdizione o deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica. In altre parole, separazione delle carriere significa dipendenza del Pm dal potere esecutivo: e lo conferma candidamente lo stesso Nordio, posto che la richiesta di azione disciplinare nel caso dell’imprenditore russo è motivata anche con la mancata valutazione di una nota del Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti e del nostro Ministero che chiedevano la custodia in carcere…. È allora evidente che escludere ripercussioni della separazione sull’ indipendenza della magistratura diventa una battuta da cabaret. In sostanza, conviene mantenere l’ancoraggio del Pm alla cultura della giurisdizione (che nel nostro sistema è una garanzia), o lasciarlo travolgere dall’attrazione nella cultura del potere esecutivo? Per rispondere, basta chiedersi che differenza fa, di fronte ai misteri e/o depistaggi dei servizi deviati o ai casi di maltrattamenti ad opera di forze di polizia, purtroppo emersi anche di recente, avere un Pm-giudice o un Pm-funzionario ministeriale. Senza fare gli apprendisti stregoni alla rincorsa di carriere separate. Scontro al Senato, il Pd chiede le scuse di Delmastro e abbandona la commissione Giustizia di Liana Milella La Repubblica, 12 luglio 2023 Si riaccende la protesta dem contro il sottosegretario: “Inaccettabili e infamanti le parole contro di noi”. De Raho (M5S) attacca Meloni sull’uso di fonti anonime. Ci risiamo. Al Senato si materializza di nuovo lo scontro durissimo tra il Pd e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Prima in commissione Giustizia e poi in aula dove si vota il decreto imbrattatori. I Dem chiedono ripetutamente che Delmastro vada via perché, nella nota vicenda Cospito, li ha “offesi”. Il capogruppo in aula Francesco Boccia chiede espressamente che Delmastro si scusi con il Pd. E dice: “Se non lo farà, noi lasceremo l’aula e le commissioni”. E poi polemizza con i meloniani. “FdI deve dirci se sta difendendo un uomo, un indagato o la propria idea di come si vive nelle istituzioni. Sappiamo che è cambiata la natura del gruppo politico al quale appartiene il sottosegretario, un tempo di fronte a un reato così grave sarebbero stati intransigenti”. Ma in aula, Delmastro per evitare l’incidente, si limita a esprimere con un “conforme” il parere del governo rispetto a quello della commissione. E a quel punto il Pd resta in aula. Ma lo stesso scontro era andato in onda nel pomeriggio in commissione Giustizia dove si stava discutendo della futura legge elettorale del Csm, il sorteggio proposto dal forzista Pierantonio Zanettin. Ma non appena Delmastro ha fatto il suo ingresso nella seduta il Pd ha abbandonato i lavori. Come dice la vice presidente del Senato Anna Rossomando “niente di nuovo sul fronte occidentale”. E aggiunge: “Avevamo chiesto al sottosegretario di ritrattare l’inaccettabile e infamante attacco che aveva rivolto al Pd, cosa che a tutt’oggi non è mai avvenuta. E quindi non cambia neppure il nostro atteggiamento”. Delmastro lascia cadere la protesta e dice: “Niente di nuovo sotto il sole”. A lasciare l’aula sono, oltre Rossomando, anche il capogruppo Alfredo Bazoli e Walter Verini, componente della commissione Antimafia. componente della commissione Antimafia. Proprio da Verini arriva una reazione durissima: “Aspettiamo ancora le scuse da Delmastro. Disse che eravamo andati a fare l’inchino ai mafiosi. Una frase gravissima. Infamante. Una cosa del genere la disse anche un suo collega al Senato. Protestammo anche con lui, che il giorno dopo disse di non avere mai voluto accostare il Pd alle mafie. Per noi questa cosa finì lì. Al di là del pesante giudizio politico sui noti comportamenti del sottosegretario, che rimane anzi si è aggravato, quella frase è al di là del bene e del male”. Ovviamente la reazione dei Dem è collegata a quanto è avvenuto sul piano giudiziario, perché dopo la richiesta di archiviazione della procura di Roma, che riconosceva Delmastro una sorta di inconsapevolezza del segreto sulle carte dei servizi segreti delle carceri, la nuova decisione della gip Emanuela Attura, nonché le polemiche che ne sono seguite, hanno ovviamente cambiato la situazione. C’è da tener conto che proprio il Guardasigilli Carlo Nordio sarebbe intenzionato ad inserire nel suo disegno di legge attualmente ancora alla firma del capo dello Stato, la norma che vieta proprio ai giudici per le indagini preliminari di contrapporsi al pubblico ministero in caso di sua richiesta di archiviazione. Verrebbe meno la cosiddetta “imputazione coatta”, cioè l’obbligo per il pubblico ministero di accettare la richiesta del giudice delle indagini preliminari che rileggendo il fascicolo non ha condiviso proprio la richiesta di non procedere con il giudizio. Sul piano politico il Pd rimprovera a Delmastro soprattutto la sua scelta di non fare assolutamente marcia indietro sul pano politico rispetto agli attacchi pubblici nell’aula della Camera all’inizio di febbraio, fatti dal suo compagno di casa Giovanni Donzelli, nella sua veste istituzionale di capogruppo di Fratelli d’Italia, proprio in quanto disponeva delle carte passategli dà Delmastro. Ma non basta, perché dall’opposizione, con l’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, oggi deputato di M5S, ecco una durissima critica alla premier Meloni per gli attacchi alla magistratura veicolati attraverso fonti anonime. “Siamo di fronte a un conflitto tra poteri dello Stato, ad una democrazia sempre più debole - dice Cafiero intervenendo alla Camera - in cui la magistratura viene messa sotto accusa e le viene impedito di svolgere il proprio ruolo. La premier Meloni venga in aula a riferire, deve dire se quelle note sono a sua firma, se la responsabilità di quelle parole è sua. Il conflitto tra poteri e quanto di peggio possa accadere in una democrazia”. Per chi imbratta c’è il carcere: in Senato sì al ddl “ecovandali” Il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2023 Passa in Senato, con 85 sì, 53 no e 5 astenuti, il disegno di legge presentato dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano per punire gli eco-vandali. Il ddl aggrava le sanzioni per chi distrugge, disperde, deteriora monumenti e beni culturali con maxi-multe fino a 60mila euro. Il provvedimento intende sanzionare anche i turisti che danneggiano i beni culturali con incisioni e graffiti. In caso di “danno a siti, teche, custodie e altre strutture adibite all’esposizione, protezione e conservazione di beni culturali esposti in musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato (…) è prevista la pena della reclusione fino a sei mesi”. Una stretta, quella del ddl eco-vandali, che non convince le opposizioni. La senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi attacca in Aula: “Stiamo approvando un disegno di legge che interviene, aggravando un sistema sanzionatorio già esistente, nei confronti di gruppi specifici di oppositori che esprimono dissenso attraverso atti non violenti”. Anche la senatrice del Movimento 5 Stelle Ada Lopreiato, capogruppo in commissione Giustizia, nella dichiarazione di voto ha spiegato: “La proposta del governo renderebbe irragionevole, enormemente afflittivo e probabilmente incostituzionale il trattamento sanzionatorio del danneggiamento o dell’imbrattamento dei beni culturali”. Il senatore Ivan Scalfarotto ha invece annunciato che il gruppo di Italia Viva si astine dal voto, parlando di “panpenalismo dilagante”. Dai banchi del Pd, durante la discussione, è spuntato un foglio con scritto “Chiedi Scusa” rivolto al sottosegretario Delmastro, presente in Aula. Si tratta di una protesta che va avanti da quando Delmastro chiese ai dem di spiegare “l’inchino ai mafiosi” durante la visita in carcere dell’anarchico Alfredo Cospito. Ora il testo passa alla Camera. Reati economici? In Italia i detenuti sono pochissimi di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 12 luglio 2023 Sapete quante persone sono in galera in Germania per “economic-financial offences”? Ben 4.604: poco meno del numero degli spacciatori. E in Italia? La miseria di 345. Pari allo 0,9. Numeri alla mano, Daniela Santanchè potrebbe avere buoni motivi per non dolersi troppo alla prospettiva d’avere a che fare per lo “scandalo Mirabilia” con la giustizia italiana su cui da anni dice peste e corna. E così non dovrebbero dolersi tanti traffichini che da sempre fanno i furbi, a prescindere dalla tessera politica, sulla bonarietà, diciamo così, di un sistema come il nostro che nel tempo ha consentito a imprenditori e faccendieri di cavarsela spesso con una ramanzina per reati puniti altrove in modo assai più severo. Basti sfogliare il dossier di Space, con le Statistiche penali pubblicate la settimana scorsa dal Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria. Condotto dal gruppo di ricerca dell’Università di Losanna guidato da Marcelo Aebi. E mettere a confronto gli ultimi dati (2022) dei detenuti ospiti delle prigioni europee con quelli di questo e quel paese. Un esempio? I reclusi per reati di droga nelle prigioni germaniche sono 6.205 pari al 14% dell’intera popolazione carceraria tedesca. Quelli condannati per gli stessi reati e in cella in Italia sono il doppio: 11.927, pari al 31,6% pari a due volte la percentuale tedesca. Qualche baldo securitario, acerrimo nemico della cannabis libera, esulterà: “Buttiamo via la chiave anche noi!”. Ma proviamo a rovesciare la prospettiva e verificare la severità italiana sui reati economici e finanziari che regolano davvero la vita di un paese. Andando a vedere ad esempio cos’è successo a Markus Braun, il fondatore e Ad del colosso informatico tedesco Wirecard. Arrestato e incarcerato nel giugno 2020 con l’accusa di “aver gonfiato i dati di bilancio e il fatturato per far apparire la sua società più forte e più attraente per gli investitori e la clientela” vantando un paio di miliardi di euro inesistenti, rischia 15 anni di reclusione. E lì li fanno davvero. Come successe tempo fa a Uli Hoeness, condannato a passare tre anni nel penitenziario bavarese di Landsberg per evasione fiscale nonostante fosse il presidente del Bayern Monaco e fosse stato campione d’Europa e del mondo con la nazionale. Sapete quante persone sono in galera in Germania per “economic-financial offences”? Ben 4.604: poco meno del numero degli spacciatori. E in Italia? La miseria di 345. Pari allo 0,9%. Contro la media europea del 3,9% (il quadruplo) che sale in Germania addirittura al 10,8. Dodici volte di più. Strage di via D’Amelio, antimafia in piazza ma ancora una volta divisa di Alfredo Marsala Il Manifesto, 12 luglio 2023 Le immagini e i video della polizia in antisommossa che sbarra la strada ai manifestanti impedendo di raggiungere l’albero, dove stava per concludersi la cerimonia ufficiale con Maria Falcone sul palco, per il fronte antimafia sceso in piazza quel giorno rappresentano ancora “una ferita aperta”. Quel pomeriggio del 23 maggio, il comitato promotore del corteo alternativo non s’aspettava che a pochi passi dal ficus - simbolo delle stragi del ‘92 - spintoni, manganelli e urla segnassero nel peggiore dei modi la cerimonia conclusiva della giornata della memoria per eccellenza, tra l’imbarazzo persino di quegli agenti esperti di ordine pubblico che quei volti di sindacalisti, studenti e ragazzi dei centri sociali li conoscono bene da tanti anni. Il cartello di sigle sindacali, associazioni e movimenti ci riproverà il 19 luglio. Per l’anniversario della strage di via D’Amelio, il Comitato ha deciso di tornare in piazza con un altro corteo per rendere omaggio a Paolo Borsellino e agli agenti di scorta Emanuela Loi, Walter Cosina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Come quasi due mesi fa, il Comitato ha chiesto l’autorizzazione alla questura. “Non siete Stato voi, ma siete stati voi” era lo slogan della manifestazione finita nel modo in cui nessuno degli organizzatori s’immaginava. “Basta Stato mafia”, invece, è l’urlo della mobilitazione preparata per ricordare il giudice Borsellino e gridare lo sdegno per i tanti processi e i depistaggi che a distanza di 31 anni non solo non hanno reso giustizia ma hanno disvelato intrecci di un sistema perverso tutt’oggi coperto d’omertà, fatto di politici, mafiosi, servizi segreti deviati, terrorismo nero. La manifestazione partirà alle 15 proprio dall’albero Falcone, lì dove il 23 maggio s’è consumato lo strappo “inedito” con lo Stato. Durante il percorso il corteo farà delle tappe, i particolari dell’iniziativa saranno resi noti in una conferenza stampa il 17 luglio, alle 10.30 in via D’Amelio davanti l’ulivo della memoria. A promuovere la manifestazione sono Officina del Popolo, Attivamente, Our Voice, Rappresentanti degli studenti dell’I.S. Majorana, Cgil Palermo, Arci Palermo, sindacato studentesco Regina Margherita, Fa.se. Cannizzaro, sindacato studentesco Parlatore Kiyohara, Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, Radio Aut, Collettivo Rutelli e Usb Palermo. Hanno già aderito Agende Rosse, Casa di Paolo, Anpi, Awakening, La Casa di Giulio, Rifondazione Comunista Palermo, Collettivo rivolta popolare, Sunia Palermo, Voci nel Silenzio, Unione Inquilini, Sinistra Italiana, Giovani Comunisti/e, Forum Sociale Antimafia, Coordinamento Palermo Pride, Arcigay Palermo, Antimafia Duemila, WikiMafia, Consulta per la pace, la non violenza, i diritti umani, il disarmo, Mir Palermo, Punto pace Pax Christi, Udu Palermo, Centro Studi Paolo e Rita Borsellino. Per il segretario della Cgil di Palermo Mario Ridulfo e il responsabile del dipartimento legalità e associazionismo Rosario Rappa “la mobilitazione lega lotta alla mafia e lotta per i diritti, perché le due cose camminano assieme”. “Diciamo che non bastano le sole celebrazioni ma servono impegno quotidiano e coerenza dei comportamenti a cominciare dai comportamenti di quanti sono chiamati a ricoprire cariche pubbliche, istituzionali - dicono - Nessun compromesso, nessuna zona d’ombra può esserci ancora a Palermo. Adesso non basta più celebrare, occorre partecipare e costruire una nuova stagione di mobilitazione e di impegno, coniugando alla lotta alla mafia la lotta per tutti i diritti umani, sociali, di genere e trans genere. Perché i diritti o sono di tutti o non sono di nessuno”. L’appello della Cgil alla partecipazione è rivolto a tutte le diverse realtà dell’impegno sociale e antimafia: “Ci rivolgiamo sia alle realtà storiche, che negli anni hanno avuto il grande merito di costruire coscienza e partecipazione sul tema della lotta alla mafia, sia a quelle più giovani che promuovono un nuovo impegno intersezionale”. L’iniziativa si concluderà col momento di silenzio in via D’Amelio nell’ora della strage, alle 16.59. Poche ore dopo, invece, prenderà il via la fiaccolata organizzata dalla destra palermitana, da piazza Vittorio Veneto fino a via D’Amelio. E’ prevista la presenza della presidente della commissione antimafia Chiara Colosimo e dei ministri di Fratelli d’Italia Andrea Abodi e Nello Musumeci. Corte costituzionale. L’attenuante della tenuità può vincere la recidiva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2023 Non deve sempre soccombere l’attenuante della particolare tenuità del danno nei confronti dell’aggravante della recidiva. A cancellare questa “stortura” del Codice penale è arrivata ieri la sentenza della Corte costituzionale n. 121, scritta da Francesco Viganò. La Consulta, chiamata in causa dal Gup di Grosseto, ricorda il perimetro applicativo dell’attenuante, i reati contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, trai quali spiccano i delitti di estorsione e rapina, per i quali la pena minima prevista è assai elevata, 5 anni. E la sentenza sottolinea che le condotte comprese in queste fattispecie sono non raramente di modesto disvalore: non solo con riferimento all’entità del danno patrimoniale provocato alla vittima, che può anche ammontare (come nel caso approdato sino alla Corte) a pochi euro sottratti alle casse di un supermercato; ma anche con riferimento alle modalità della condotta, che può esaurirsi in forme minime di violenza (come una lieve spinta) oppure nella semplice prospettazione verbale di un male ingiusto, senza uso di armi odi altro mezzo di coazione. “Anche rispetto a simili fatti - osserva la Corte - la disciplina vigente impone una pena minima di cinque anni di reclusione: una pena che risulterebbe, però, manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva dei fatti medesimi, anche in rapporto alle pene previste per la generalità dei reati contro la persona, se l’ordinamento non prevedesse meccanismi per attenuare la risposta sanzionatoria nei casi meno gravi”. L’effetto di mitigazione della pena tipico di tutte le circostanze attenuanti, compresa quella del danno patrimoniale di particolare tenuità, rispetto all’elevato minimo edittale previsto dal legislatore peri delitti di rapina ed estorsione è però destinato a essere sistematicamente azzerato, quando all’imputato è contestata la recidiva reiterata, evento che spesso si verifica nella prassi, rispetto a questa specifica tipologia di imputati, ricorda la Consulta. L’attuale divieto di prevalenza dell’attenuante sull’aggravante della recidiva impedisce così al giudice, con l’eccezione delle possibili diminuenti collegate alla scelta del rito, di prevedere una pena inferiore al minimo edittale, e dunque a cinque anni di reclusione. Tanto più che deve essere escluso che “il giudice sia tenuto a non applicare l’aggravante della recidiva, in presenza di una più accentuata colpevolezza e pericolosità dell’imputato, soltanto per evitare di dover irrogare una pena eccessiva rispetto al disvalore del fatto”. Emilia Romagna. Emergenza caldo, il Garante regionale chiede interventi nelle carceri bolognatoday.it, 12 luglio 2023 Tra le richieste, una “diversa modulazione degli orari di permanenza all’aria aperta, evitando le ore più calde” e dei “menu giornalieri che contemplino alimenti consigliati durante la stagione estiva”. Il garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri, assieme ai garanti dei comuni di Piacenza, Parma, Bologna e Rimini, ha inviato una lettera a Gloria Manzelli, provveditrice dell’Amministrazione penitenziaria regionale, e a Manuela Mirandola, presidente del Tribunale di sorveglianza, per chiedere di mettere in campo interventi per alleviare l’emergenza caldo nelle carceri dell’Emilia-Romagna. Le richieste dei garanti - “Diversa modulazione degli orari di permanenza all’aria aperta, evitando le ore più calde e valutando uno slittamento in avanti delle ore d’aria pomeridiane; previsione di menu giornalieri che contemplino alimenti consigliati durante la stagione estiva; possibilità di acquistare, tramite l’impresa di mantenimento, ventilatori a batteria di piccole dimensioni (al netto del rispetto delle condizioni di sicurezza); apertura del blindo delle celle durante l’orario notturno per far circolare l’aria; ampliamento della possibilità di utilizzare frigoriferi nei reparti detentivi e potenziamento, nei cortili di passeggio, della funzionalità dei punti idrici a getto e dei nebulizzatori”, sono le richieste contenute nella lettera. “Tenuto anche conto del fatto che nel periodo estivo si accentua l’insorgenza di situazioni di rischio e disagio per la popolazione detenuta”, Cavalieri e i garanti di Piacenza, Parma, Bologna e Rimini, chiedono anche “di prevedere un aumento della corrispondenza telefonica”. Sardegna. Nelle carceri aria irrespirabile e situazione a rischio per il troppo caldo linkoristano.it, 12 luglio 2023 Sdr lancia l’allarme: “Il caldo torrido di questi giorni, con picchi fino a 45 gradi, rende impossibile la vita dentro le celle e nelle sezioni a detenute, detenuti e a chi opera nei penitenziari. Circostanza che rende tutte le persone dietro le sbarre più insofferenti e suscettibili, specie se in condizioni di salute precarie. Il rischio è quello di vedere raddoppiati gli atti di autolesionismo e le aggressioni. Urge una circolare del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per aumentare le ore all’aria aperta e promuovere le pene alternative”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” facendosi interprete del disagio segnalato da diversi familiari delle persone private della libertà rinchiuse a Cagliari-Uta. “Nelle celle, soprattutto in quelle in cui ci sono più persone - hanno sottolineato i familiari - non si riesce a riposare durante la notte per il caldo. Durante le ore diurne si boccheggia e si aspetta con ansia l’ora d’aria, ma anche nei passeggi è quasi impossibile trovare refrigerio perché il cemento si surriscalda e mancano tettoie per potersi riparare dal sole”. “I cambiamenti climatici con temperature che raggiungono vette incredibili anche a causa dell’umidità - evidenzia Caligaris - trasformano le celle in piccole fornaci. Una condizione di disagio con cui sono costretti a convivere specialmente gli Agenti che effettuano il servizio nelle sezioni. D’altro canto i passeggi, le aree all’aperto dove i detenuti possono accedere per due ore al giorno, sono scatole di cemento senza nessun supporto. Impraticabili soprattutto durante le ore pomeridiane perché in estate le pareti diventano incandescenti e spesso lo sono anche in inverno per la pioggia e il freddo. In queste condizioni ovviamente diventa difficile per chiunque fruire dell’ora d’aria”. “Con il caldo estivo e la riduzione delle attività trattamentali, dovute anche alle ferie del personale, nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta, con 575 detenuti per 561 posti regolamentari, si accresce il rischio - ricorda l’esponente di SDR - di amplificare il malessere dovuto alla convivenza forzata e agli spazi ridotti, senza dimenticare il disagio psichico. Nella landa desolata, dove si erge il carcere di Cagliari, al caldo si aggiungono spesso odori sgradevoli dovuti alle aziende operanti nella vicina area industriale, che rendono il clima ancora più insopportabile. La strada da percorrere, per limitare i disagi in ogni carcere da Bancali a Massama, da Alghero a Badu ‘e Carros, è duplice. Da un lato dotare gli spazi all’aperto di infrastrutture che possano alleviare il problema del sole a picco e dall’altro favorire l’accesso alle misure alternative. La pena della perdita della libertà non può essere ulteriormente aggravata da condizioni di vita insopportabili”. Benevento. Detenuto morto in carcere. Il Garante Ciambriello: “Serve una riforma” ottopagine.it, 12 luglio 2023 Il Garante dei detenuti della Campania interviene dopo il caso del 51enne morto. In Italia dall’inizio di quest’anno ci sono stati 67 morti, di questi 33 sono suicidi. In Campania, dall’inizio dell’anno ad oggi ci sono stati 2 suicidi e 3 morti con cause ancora da accertare l’ultimo è Giuseppe Petrella 51 anni morto il 10 luglio nel carcere di Benevento. Su quest’ultima morte sta indagando la Magistratura di Benevento, per il medico legale si tratta di infarto però il corpo è stato trasferito all’ospedale San Pio di Benevento per autopsia. Giuseppe sarebbe uscito dal carcere ad ottobre per fine pena. “Colpiscono i dati nazionali e regionali, durante il periodo di luglio e agosto crescono le morti nelle carceri per infarti, malattia e suicidio. Occorre prevenire piuttosto che solo ricordare queste morti. Ci sono tanti sintomi sanitari che sono campanelli di allarme, è necessario monitorarli ed intervenire. Inoltre, le condizioni di vita fisiche, ambientali, igienico sanitarie, il sovraffollamento, le temperature elevate, insieme alla mancanza di figure sociali di aiuto e sostegno, contribuisco all’aumento anche di forme di autolesionismo. Sul carcere la politica è cinica e pavida, la riforma della giustizia deve prevedere un capitolo importante sulla riforma del carcere e di tutti coloro che ci lavorano a partire dagli agenti, dagli educatori, dalle persone che operano nel privato sociale e volontariato”. Così il Garante campano delle persone sottoposte a misura restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello. Milano. Cascone: “Troppi i ragazzi invisibili. Si fanno notare con i reati” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 12 luglio 2023 Tribunale dei minori, l’addio del procuratore capo: per vent’anni è stato ai vertici del Tribunale dei Minori di Milano e da otto è procuratore capo. Si trasferisce a Bologna come Avvocato generale della Corte d’Appello. Gli scatoloni del trasloco da una parte, i colleghi della vita milanese dall’altra e poi il Questore, il Prefetto, la presidente della Corte d’Appello e la presidente del Tribunale per i minorenni dove per vent’anni è stato ai vertici e negli ultimi otto, Procuratore capo. Oggi è l’ultimo giorno di lavoro per Ciro Cascone che si trasferisce a Bologna come Avvocato generale della Corte d’Appello. Quali emozioni nel lasciare l’ufficio dopo tanti anni? “Sono contento per la nuova avventura ma mi dispiace andarmene in un momento così critico. Il processo civile telematico obbligatorio entrato in vigore il 30 giugno si profila come uno scoglio enorme. In Procura abbiamo 4.000 fascicoli pendenti da centinaia di pagine che dovremmo digitalizzare da soli, non essendo state assegnate forze straordinarie. In aggiunta il nuovo programma informatico mal si concilia con la nostra strumentazione e nessuno di noi ha avuto una formazione adeguata. Le risorse sono insufficienti. La sintesi è che siamo burocraticamente in stallo mentre il lavoro vero, quello operativo, procede a ritmi serratissimi su molti fronti”. Il primo di questi fronti? “Le ondate di minori stranieri non accompagnati che non si integrano anche perché le comunità sono sature e sguarnite di educatori esperti. Anche quando a fronte di sforzi sovrumani si trova una sistemazione spesso scappano, tornano a Milano, e noi li ritroviamo quando commettono reati. Risultano senza fissa dimora più di un quinto dei rei complessivi dell’ultimo anno, il 20 per cento: una percentuale enorme”. Qual è la fotografia dei reati, secondo gli ultimi dati della Procura? “Da giugno 2022 a giugno 2023 il 69% dei reati, tipicamente rapine con coltellini e spaccio, è stato commesso dalle cosiddette baby gang formate per il 72% da stranieri e italiani di seconda generazione”. Quali misure sono state adottate più di frequente? “Nel 35% dei casi abbiamo dovuto ricorrere al carcere, nel 40% all’inserimento in comunità. Per il 22% dei ragazzi ci siamo affidati ai domiciliari che non sempre si rivelano la migliore soluzione”. In vent’anni di lavoro con i minori, cosa ha notato? “La società sta cambiando, non sempre in meglio. I problemi classici dei ragazzi si sono acuiti, abbiamo una povertà educativa che fa paura, tanti malesseri per cui il Covid è stato solo un detonatore, derive psichiatriche difficilissime e non vedo interventi adeguati per affrontarli. Servirebbe una mappatura di questo malessere a partire dalla dispersione scolastica, fenomeno che sfugge di mano. Se un ragazzo non va scuola diventa incapace di usare il pensiero critico, incapace di riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, incapace di ascoltare e autocontrollarsi: sarà pronto soltanto ad agire”. I presidi sociali fanno acqua? “Sono ragazzi invisibili non solo per la scuola e per le famiglie con cui non comunicano, ma anche per le istituzioni. Se il Tribunale e la Procura per i minorenni vengono lasciate così povere di risorse, da dove si pensa di partire? In estate in giro per i quartieri popolari, pensiamo a San Siro, ci sono migliaia di adolescenti che per ragioni di famiglia non possono partire in vacanza e non hanno niente da fare perché mancano attività organizzate. La speranza è che non si mettano a delinquere. Non ci si rende conto che i ragazzi devianti si traducono in costi sociali enormi per la nostra comunità”. Udine. Isola ecologica e più servizi nel nuovo carcere di Alessandro Cesare Messaggero Veneto, 12 luglio 2023 Lavori fino al 2024. Trovati gli archivi di cento anni fa: saranno digitalizzati. ll garante: “Abbiamo chiesto altri fondi alla Regione”. Nuovi servizi da attivare, una ristrutturazione degli spazi da completare, una storia da riscoprire. Ë diversificata l’azione del garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine, Franco Corleone, che ieri ha voluto fare il punto della sua attività nella sede dei Servizi Sociali di viale Duodo. Insieme a lui i consiglieri comunali Chiara Gallo e Anna Paola Peratoner. Corleone è partito da una recente visita al carcere di via Spalato con il sindaco, Alberto Felice De Toni: “Ci sono stati degli impegni presi da parte del primo cittadino ha assicurato d garante - innanzitutto quello di costituire uno sportello Anagrafe per qualche ora alla settimana, in quanto molti detenuti hanno bisogno di assistenza sui documenti e sulla residenza. Senza dimenticare il tema dei permessi di soggiorno. In seconda battuta - ha aggiunto - abbiamo bisogno di svecchiare la biblioteca del carcere, ma è necessaria una formazione da parte del personale della biblioteca comunale. Il terzo impegno è quello riguardante l’isola ecologica, che andrebbe realizzata all’interno della struttura di Via Spalato, sensibilizzando i detenuti alla raccolta differenziata. L’ultima questione affrontata o il Comune è quella dei lavori di pubblica utilità, per i quali Corleone ha chiesto di coinvolgere i detenuti. Il Garante si è soffermato anche sulla storia del carcere udinese: in una delle cantine sono stati scoperti i registri originali dal 1920 a oggi - a raccontato Corleone. Un ritrovamento straordinario del quale abbiamo già informato l’università e il prof Andrea Zannini in particolare. Sarebbe bello riuscire a recuperare la memoria di questo luogo, digitalizzando tutto questo materiale. Magari coinvolgendo qualche detenuto, ma per riuscirci c’è bisogno di fondi. Per questo ci siamo rivolti alla Regione FVG. Una valorizzazione del patrimonio storico che il Garante sta già portando avanti per l’ex sezione femminile del carcere, dove sono iniziati i lavori di demolizione, e dove la fotografa Ulderica Da Pozzo ha in piedi un progetto di racconto della memoria di questi spazi. Per quanto riguarda il cantiere di sistemazione del carcere, del valore di 5 milioni di euro, il rifacimento dell’area di semilibertà ormai e concluso, mentre per gli altri interventi bisognerà attendere la fine del 2024. Purtroppo dobbiamo far fronte ancora alla criticità del sovraffollamento - ha chiarito Corleone -. In via Spalato ci sono 136 detenuti a fronte di una capienza di 86. E con l’arrivo del caldo le condizioni non sono ideali. Si deve fare di più per concedere misure alternative al carcere per chi va verso la fine pena, rieducandoli alla vita esterna. Corleone ha chiuso l’incontro con un invito: “Chiederemo ai nostri consiglieri regionali di sottoscrivere una proposta di legge la riapertura delle case mandamentali sotto la responsabilità del sindaco, Una misura contro il Sovraffollamento e a favore del reinserimento nella società”. Cagliari. La musica va oltre le sbarre di Maria Chiara Cugusi unitineldono.it, 12 luglio 2023 Il 3 luglio un concerto nel carcere “Ettore Scalas” di Uta (Ca) ha fatto conoscere a tutti i frutti del cammino iniziato da un gruppo di detenuti (che hanno formato la band “Free Inside”) insieme al cappellano, don Gabriele Iiriti. Tra gli spettatori anche un sacerdote che era stato aggredito da uno dei detenuti protagonisti dell’esibizione: dopo la richiesta di perdono, lo ha voluto suo ospite, come un famigliare. Grazie alla Chiesa, la musica scandisce la vita dei detenuti nella Casa circondariale “Ettore Scalas” a Uta, a una ventina di chilometri da Cagliari. Tanto da vedere la nascita nel 2020 di un gruppo musicale, formato da una decina di loro, protagonisti, lo scorso 3 luglio, di un concerto fortemente voluto dall’arcivescovo mons. Giuseppe Baturi e organizzato nella cappella del Carcere nell’ambito del Cammino sinodale dal titolo “Camminare insieme… verso la libertà”. Una musica che suona di perdono, riscatto, speranza, futuro: come nome per la loro “band” hanno scelto “Free inside” ovvero “Liberi dentro”, dal testo di una delle canzoni che loro stessi hanno scritto. “Benché rinchiusi - raccontano -, siamo comunque liberi di andare con la mente dove vogliamo”. Il tutto inizia qualche anno fa, con il laboratorio di musica - una delle attività proposte dall’area educativa trattamentale all’interno della struttura - e con l’animazione musicale della messa nei weekend. “La musica ci insegna a stare insieme, a trovare una sintonia tra di noi”. Durante il concerto, diversi brani musicali che raccontano la loro quotidianità, intervallati da alcune testimonianze sulle esperienze di vita, sul cammino compiuto in questi ultimi due anni, basato sull’ascolto e sul dialogo reciproco. Tra le storie c’è quella di Christian (nome di fantasia): disoccupato, due figlie, alla fine del 2019 arriva a commettere, insieme alla compagna, un furto in una delle parrocchie del territorio diocesano, arrivando alla colluttazione con uno dei sacerdoti presenti. E proprio quel sacerdote era lì seduto ad ascoltarlo cantare lo scorso 3 luglio, lui a cui Christian già aveva chiesto perdono e che ha voluto invitare al concerto - aperto solo ai parenti dei detenuti e ai volontari - come se fosse un suo familiare. Tra le testimonianze c’è anche quella di Paolo (nome di fantasia), che ha raccontato la gioia nell’aver consolato il suo compagno di cella, pronto per uscire ma poi nuovamente bloccato per altri 18 mesi per l’arrivo di un cumulo di pena. “Mi sono seduto vicino a lui per far sì che non vivesse quel momento di sofferenza da solo: è stato come il “camminare insieme”, che ho imparato da questo percorso sinodale”. E ancora, nelle sue parole, la gioia nell’aiutare i nuovi arrivati, cercando di dare loro consigli e vicinanza. Tutto ciò grazie a una Chiesa presente tra le mura carcerarie. “Il nostro impegno - racconta don Gabriele Iiriti, cappellano del carcere dal 2016 e direttore della Pastorale diocesana penitenziaria - manifesta il desiderio della nostra Chiesa diocesana di accompagnare il cammino, la crescita umana e spirituale di queste persone, per dare un senso alle loro giornate, ed evitarne la depressione. Le proposte non mancano - dalla musica allo studio, dalla lettura al giardinaggio -, ma noi cerchiamo di accompagnare la loro motivazione. “Lavoriamo in rete - continua - con la direzione carceraria, l’area educativo-trattamentale, la Caritas diocesana, gli altri uffici della nostra Pastorale, con le comunità terapeutiche, il Tribunale di Sorveglianza e le altre istituzioni locali”. Il nostro obiettivo è “rendere tangibile la presenza della Chiesa in questo luogo di sofferenza, creare qui una comunità cristiana misericordiosa, accogliente, che non giudichi ma dia fiducia. Una presenza di vicinanza, prossimità, speranza anche nei momenti più bui”. Diversi i progetti portati avanti dalla Diocesi, dal magazzino Caritas di beni di prima necessità, al laboratorio di uncinetto e bricolage per donne detenute, grazie ad alcuni volontari della Comunità missionaria di Villaregia, fino al progetto “Orti sociali in carcere”, insieme ad alcuni club del Rotary di Cagliari. Non manca l’attenzione fuori dal carcere con i progetti - portati avanti insieme alla Caritas diocesana - per gli affidati alle misure alternative ospitati, durante i permessi premio, nella Casa di accoglienza Leila Orrù - De Martini. Inoltre, “sarà importante far sì che il cammino sinodale - conclude don Iiriti - possa avere una continuità nella comunità, facendo sì che essa sia pronta per accogliere il detenuto una volta scontata la pena, per ascoltare la sua testimonianza, far sì che non si senta solo. Per far ciò occorre creare una mentalità, facendo conoscere la realtà del carcere, il cammino percorso, e rendendo possibile il cambiamento”. I disastri del proibizionismo di Vanessa Roghi La Repubblica, 12 luglio 2023 Nel 1923 iniziava negli Stati Uniti la cultura contro i consumatori di droghe: la scienza ne ha dimostrato i danni, ma i messaggi colpevolisti e sbagliati continuano. Anche da parte del governo italiano. Secondo lo storico statunitense David T. Courtwright, il 1923 può essere considerato a tutti gli effetti l’anno in cui viene inaugurata quella cultura proibizionista sulle droghe che oggi, malgrado un secolo di evidenze scientifiche che dimostrano quanto male abbia fatto, torna a manifestarsi nelle parole dei nostri governanti e dei loro supporter. Un proibizionismo che individua nel “drogato” sempre e comunque un soggetto da punire, un deviante e nelle droghe un’unica, indistinta, sineddoche del male. Un’idea che si sta frantumando pressoché ovunque nel mondo democratico, ma che torna con forza a diffondersi in Italia, per questioni ideologiche ma probabilmente anche per un preciso disegno politico-economico i cui contorni sono per ora comprensibili solo a chi, di questa vicenda, conosce un po’ di storia. Nel XIX secolo l’uso di sostanze era un fatto privato così la cura. Agli inizi del XX secolo, proprio come oggi, negli Usa l’allarme cresce intorno all’abuso di farmaci derivati dall’oppio dai quali sono dipendenti circa 300mila persone, un fenomeno sociale di dimensioni rilevanti a tal punto da spingere i diversi governi a intraprendere le prime forme di rehab. Riprende lo spirito americano la legge italiana del 1954, assai dura con i consumatori. Tuttavia, il fatto che esista una Costituzione democratica che vede, fra i diritti fondamentali, il diritto alla salute, fa sì che, negli stessi anni, la parola devianza venga messa radicalmente in discussione. L’idea di devianza, infatti, stabilisce un confine fra esseri umani che, prima di essere sociale, è biologico: chi devia dalla norma non solo deve essere posto nelle condizioni di non nuocere alla società ma negato come individuo perché corrotto. Il deviante, per legge, va in carcere o in manicomio fino a quando non torni a essere “normale”. Ma nessuna cura è possibile tra le mura di una prigione o di un ospedale psichiatrico, se ne accorge molto presto Franco Basaglia e chi, come lui, pensa che il concetto di devianza non solo sia infungibile in un moderno stato democratico ma che sia anche dannoso rispetto all’obiettivo di cura che ipocritamente sottintende. Per questo cambio di paradigma si arriva alle riforme degli anni Settanta che in pochi anni stabiliscono che tossicodipendenza (1975) e malattia mentale (1978) debbano essere viste entro una prospettiva di diritto alla salute gratuito e universale per tutti, e non a caso nasce il servizio sanitario nazionale (Legge 23 dicembre 1978, n. 833). Da allora la battaglia politica e culturale ha costantemente oscillato fra chi pensa che la dipendenza patologica debba essere gestita entro il quadro del diritto alla salute, pubblico e universale e chi, invece, continua a pensare al consumo di sostanze come un’attività criminosa e criminogena da reprimere con la reclusione. Consumo verso il quale i giovani sarebbero indirizzati dalle stesse campagne antiproibizioniste o dalle serie tv (vedi intervento di Giorgia Meloni il 26 giugno). Per rispondere all’assalto delle piattaforme che, secondo la premier, beatificano gli spacciatori, è stato lanciato lo spot nel quale il ct della nazionale di calcio, Roberto Mancini dice: ragazzi non drogatevi, tutte le droghe fanno male allo stesso modo. Eppure, secondo quanto dicono gli operatori del settore, quello che chiedono i ragazzi e le ragazze è esattamente il contrario: adulti che parlino con loro seriamente dei rischi connessi all’assunzione delle diverse droghe. Perché non educare a distinguere è pericolosissimo. Ma chi ha l’immensa responsabilità di prendere decisioni su questo tema non se ne rende conto. O forse se ne rende conto benissimo e sta facendo leva sul panico morale per creare un allarme sociale intorno alla diffusione della cannabis funzionale, in realtà, al definitivo colpo di grazia al sistema di cura pubblico in favore di una privatizzazione totale dei servizi. L’abbiamo già visto, lo vedremo di nuovo. Per questo occorre essere attenti e non farsi intimidire (citazione di Meloni) da chi, peraltro, rivendica un passato di opposizione su questi temi e afferma di non avere alcuna responsabilità rispetto a quanto accade oggi: la peggiore legge della storia italiana in tema di sostanze, peggiore al punto da essere stata dichiarata incostituzionale, l’ha fatta un governo di centro destra dove stava anche il partito della premier Giorgia Meloni. Legge Fini Giovanardi, 2006, III governo Berlusconi. Un disastro i cui danno sono ancora sotto i nostri occhi. Altro che serie Tv. Garante privacy: la solitudine digitale come tragedia di Vincenzo Vita Il Manifesto, 12 luglio 2023 Lo scorso giovedì 6 luglio si è tenuta la relazione annuale del presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali Pasquale Stanzione. Il titolo del testo è appropriato e denso di riferimenti impliciti: “Il potere dell’innovazione e la solitudine digitale”. Lo svolgimento del discorso va ben al di là di un mero bilancio dell’attività svolta, peraltro segnata dall’anno terribile dello strapotere delle Big Tech e del corpo a corpo ormai evidente tra umano e post-umano con Chat Gpt. Proprio il condensato degli eventi ha spostato il baricentro: nuovi individualismi e crescenti solitudini esistenziali, dentro la morsa dell’intelligenza artificiale e del consumo indotto di tecnologie che mascherano di onnipotenza un io condannato ad un’inesorabile solitudine. Le soggettività, coinvolte nel mercimonio dei dati con un baratto tra la propria libertà e un presunto guadagno economico, sono sottomesse ad un vero e proprio totalitarismo digitale. Apparati tecnologici (dal riconoscimento facciale, all’utilizzo dei dispositivi di controllo in computer e smartphone, fino ai sistemi di lettura del pensiero o delle emozioni) sempre più proprietari ed opachi, sono in una relazione oppressiva con persone private di ogni riservatezza. Quest’ultima ha poco a che fare con la mera tutela della vita privata, andando a incrociarsi con le tendenze modernissime del capitalismo delle piattaforme e alle iniquità travolgenti del plusvalore estrattivo o predatorio. La dittatura degli algoritmi comporta la coartazione delle coscienze (pensiamo al caso di Cambridge Analytica e alla truffaldina influenza sulle elezioni) e una dinamica inquietante. Qui Stanzione accenna ad una questione enorme, vale a dire la scomparsa dell’”Altro”, mentre l’epifania dei social sta nella creazione di opposte inossidabili tifoserie senza alcuna disponibilità all’ascolto. Ne derivano conseguenze persino criminose, come - purtroppo - anche recenti vicende di cronaca ci hanno mostrato. La ricerca spasmodica, drogata di like e di visualizzazioni di orrende prove estreme su youtube dagli esiti mortali, è la tragedia contemporanea nella vita delle generazioni native digitali passate dal Grande Fratello all’esibizionismo forse da lì mutuato in un battere di click. La solitudine è la condizione prima della totale sottomissione, recita la relazione, citando Michel Foucault (ma Stanzione ha fatto il ‘68?). Insomma, il Garante si pone obiettivi elevati, che assegnano un ruolo di rilievo ad un ufficio ricco di competenze, come volle dal suo nascere il maestro di tutte e di tutti, il compianto Stefano Rodotà. Quel marchio è rimasto indelebile e fu già valorizzato dal predecessore Antonello Soro. La sfida è con l’oppressiva egemonia degli Over The Top, in cui la problematica della privacy rivista e aggiornata ha una funzione determinante. Il vento, comunque, sta girando: in Europa, dopo l’ondata ultraliberista degli anni passati, qualcosa accade: il Regolamento sull’intelligenza artificiale, il Digital Services Act, il Digital Services Act, il Data Act, multe e sanzioni hanno segnato un cambiamento di paradigma. La ghiotta deregulation iniziata verso la fine del secolo scorso lascia il posto ad una maggiore cautela verso gli utenti e a una qualche risposta allo strapotere degli oligarchi. E su tale punto l’idillio tra Europa e Stati Uniti è un tiro alle fune continuo. Stanzione se la cava un po’ frettolosamente indicando una terza via tra Usa e Cina, ma la vicenda non è risolvibile con uno slogan. In simile contesto si collocano gli elementi della pratica quotidiana raccolti dalla relazione: 1351 segnalazioni per violazione dei dati personali; 9.218 reclami; 442 provvedimenti collegiali; 4.618 casi trattati dal Centro nazionale per il contrasto della pedofilia online relativi all’orrendo reato. E altro ancora: sulle intercettazioni e il diritto all’informazione, sulla tutela della salute, sulla cybersicurezza, e così via. Unione Europea. L’unica intesa è sull’aumento delle spese militari di Francesco Vignarca* Il Manifesto, 12 luglio 2023 Quanto ci costa il riarmo. A Vilnius ha preso avvio ieri un vertice Nato tra i più importanti, ed enigmatici, degli ultimi anni. A seguito dell’invasione russa in Ucraina del febbraio 2022 l’Alleanza sembrerebbe oggi in piena salute e sicuramente lontana da una routine sterile. E poco determinante, la stessa che portò il presidente francese Macron a definirla in “stato di morte cerebrale” meno di quattro anni fa. Ma una serie di elementi smentisce questa lettura poco attenta. Il primo indizio di una situazione di acque turbolente sotto una superficie calma è chiaramente la decisione di allungare il mandato, naturalmente in scadenza, del segretario Jens Stoltenberg per mancanza di accordo sul nome del successore. Evento non consueto per una organizzazione come l’Alleanza Atlantica abituata a ricambi regolari e senza scossoni. Negli ultimi giorni altro elemento di tensione si è avuto a causa della fornitura all’Ucraina di munizioni a grappolo statunitensi, con le poco usuali prese di posizione critiche (anche molto esplicite) di tanti Governi dell’Alleanza, quasi tutti aderenti alla Convenzione internazionale che proibisce questo tipo di armi inumane. E poi il dilemma sull’adesione dell’Ucraina, con gli stessi Usa titubanti ma Zelenskyj e molti “falchi” nei Paesi membri in continua pressione. Senza dimenticare il tira e molla con Erdogan sull’ammissione della Svezia (un colpo duro per tutti quelli che hanno sempre apprezzato le posizioni di neutralità politica proattiva), pare risolto solo in extremis grazie ad una contrattazione tra Ankara e Washington che ha coinvolto la fornitura dei caccia F-16 e l’appoggio all’entrata nell’Unione europea. La vera sconfitta di tutta questa dinamica, con un processo di erosione delle proprie prospettive di trasformazione in attore politico (e di difesa) internazionale iniziato con il Concetto Strategico Nato approvato l’anno scorso a Madrid e conclusosi con le decisioni di riarmo forzato che sanno sempre più avvantaggiando l’industria militare statunitense. Una questione su cui sarà opportuno ritornare a ragionare. Proprio l’aumento delle spese militari sembra essere l’unico aspetto su cui è presumibile una convergenza non solo di dichiarazioni ma anche di decisioni conseguenti. È risaputo come il tema del raggiungimento della soglia del 2% rispetto al Pil sia sul tavolo da tempo, con una prima dichiarazione in tal senso definita nel 2009 da una riunione dei ministri della Difesa e la conferma nel Summit ai capi di Stato e di governo del 2014 in Galles, dopo l’invasione della Crimea. Il trend verso quella che, diversamente dall’obbligo che viene spesso millantato, la stessa Nato considera una “guideline” non era stato però preso davvero sul serio e realizzato prima dell’inizio del conflitto in Ucraina del 2022. Le stime dell’Alleanza per il 2023 sono in tal senso significative: la Polonia con il 3,9% ha superato gli Usa (3,5%) al vertice di questa classifica, con poi Grecia, Estonia, Lituania, la neo entrata Finlandia, Romania, Ungheria, Lettonia, Regno Unito e Slovacchia sopra il 2%. Tutti gli altri sono sotto: dalla Francia all’1,9% alla Germania all’1,57% all’Italia con l’1,46% previsionale. Ma sono i valori assoluti a dare l’idea di quanto sia stata forte l’accelerazione: l’Alleanza Atlantica proietta sul 2023 un aumento annuo percentuale dell’8,3% per un totale a valori correnti di circa 1.260 miliardi di dollari (a valori costanti comparabili l’aumento netto in 10 anni è stato di circa 200 miliardi). La comparazione possibile sul 2022 grazie ai dati Sipri è chiara: la Nato (con 1.232 miliardi) spende 14 volte più della Russia (87 miliardi) e oltre 4 più della Cina (292 miliardi): come si può giustificare un ulteriore apertura della forbice (che accumulando gli anni diventa ancora più marcata) evocando come minaccia chi è chiaramente sovrastato in spesa militare? Senza peraltro che ci sia un miglioramento globale: nonostante un quasi raddoppio della spesa militare globale in questo secolo secondo il Global Peace Index negli ultimi 15 anni il mondo è diventato meno pacifico, con un aumento dei conflitti del 14% e un crollo del tasso di sicurezza del 5,4%. Su tutti questi aspetti problematici rimane il silenzio di gran parte della politica, anche progressista, sui due lati dell’Atlantico. Incapace di pensare a possibili scenari alternativi rispetto a quello che sembra ormai essere davvero un sistema di guerra (o quantomeno un sistema militarizzato) nonostante la gran mole di problemi globali che il mondo sta affrontando. Tutti chiaramente non risolvibili con le armi. Per questo è ancora più cruciale il ruolo della società civile, e non a caso proprio in concomitanza con il Vertice Nato la Campagna Sbilanciamoci, Greenpeace Italia e la Rete Italiana Pace e Disarmo hanno deciso di rilanciare una serie di richieste incentrate sullo spostamento delle risorse attualmente destinate all’ambito militare verso impieghi di natura civile più urgenti, utili ed efficaci. In collegamento con la Global Peace Dividend Initiative promossa da decine di Premi Nobel e con la Campagna Globale contro le spese militari. * Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace Disarmo L’Europarlamento contro le querele temerarie di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 luglio 2023 La direttiva permette ai giornalisti di chiedere il rapido respingimento della causa, nel qual caso sarà il ricorrente a dover dimostrare la fondatezza della denuncia. Il parlamento europeo ha compiuto ieri un ulteriore importante passo per contrastare le azioni legali frivole o temerarie intraprese contro giornalisti, media, difensori dei diritti umani, attivisti, ricercatori, vignettisti o artisti vari al fine di intimidirli, scoraggiarli o punirli per il loro lavoro di denuncia della corruzione e dell’abuso di potere. Con 498 voti a favore, 33 contrari e 105 astensioni, i deputati riuniti a Strasburgo in seduta plenaria hanno approvato il testo adottato dalla commissione Giustizia della cosiddetta direttiva anti-Slapp (Strategic lawsuit against public participation: azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica) contenente soprattutto nuove norme da applicarsi nei casi transfrontalieri in cui il denunciante, il denunciato e il tribunale sono di Paesi europei diversi, oppure quando l’articolo, il post, la vignetta, la ricerca o qualsiasi altro atto di “partecipazione pubblica” assumono rilevanza “per più di uno Stato membro e sono accessibili elettronicamente”. La direttiva, salutata dalla presidente del Parlamento europeo come un evento “storico “ (“L’Europa è libertà di espressione - ha scritto su twitter la maltese Roberta Metsola - Orgogliosa dell’Eurocamera per il voto storico su una nuova direttiva anti-Slapp. Oggi mandiamo un messaggio forte: siamo dalla parte di chi cerca la verità. I giornalisti non dovrebbero mai essere messi a tacere “), era da tempo attesa e caldeggiata soprattutto dai giornalisti e dagli attivisti di Paesi come Malta, Ungheria, Polonia, Grecia e Romania. Non a caso, la legge è stata dedicata a Daphne Caruana Galizia, la giornalista e blogger maltese assassinata con una bomba piazzata sotto la sua auto nel 2017. Ma ieri, durante un seminario specifico sul tema tenuto dalla relatrice della direttiva in commissione Libertà, la liberale rumena di Renew Ramona Strugariu, anche giornalisti di altri Paesi europei - per esempio Irlanda del Nord - hanno testimoniato la difficoltà di difendersi dalle cause temerarie che a volte durano anni e mettono a dura prova, anche economicamente, testate e cronisti. La direttiva, che è una sorta di percorso negoziale con i Paesi membri verso l’orizzonte della libertà di stampa, prevede garanzie per le vittime delle Slapp, a cominciare dalla possibilità (osteggiata dalle destre, soprattutto di Romania, Ungheria e Polonia) di chiedere il rapido respingimento della causa, nel qual caso sarà il ricorrente a dover dimostrare la fondatezza della denuncia, mentre chi subisce la causa potrà chiedere un risarcimento anche per danni psicologici o alla reputazione. Le nuove norme delimitano il campo delle cause temerarie per ridurre appunto i tempi del processo e fermare subito quelle intentate per intimidire. In Europa, secondo i dati ufficiali, le cause temerarie sono circa l’11% del totale. Agli Stati membri viene anche chiesto di istituire sportelli unici in cui le vittime di Slapp possano chiedere informazioni e consulenza, e a cui le autorità nazionali dovrebbero fornire anche assistenza finanziaria, legale e psicologica. Il voto di ieri è l’ultimo atto di un percorso cominciato nel novembre 2021 con una risoluzione del parlamento Ue sulla libertà dei media, cui nell’aprile dell’anno scorso seguì la proposta della commissione Giustizia. Altre norme - per esempio per garantire e rafforzare gli editori indipendenti come “il manifesto” - sono contenute invece nel pacchetto dell’European media freedom act cui pure sta lavorando il parlamento europeo. Dopo il voto di ieri, il relatore tedesco di S&D, Tiemo Wölken, ha ricordato che in alcuni Paesi europei “le cause legali abusive stanno dissuadendo le voci critiche” e i tribunali sono spesso “terreni di gioco per ricchi e potenti”, mentre “giornalisti e attivisti sono una pietra miliare delle nostre democrazie e dovrebbero poter lavorare senza subire intimidazioni”. Tunisia. Migranti subsahariani vittime di violenze xenofobe di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 luglio 2023 La situazione nell’area di Sfax, al sud della Tunisia, sta sollevando preoccupazioni riguardo al rispetto dei diritti umani. Video diffusi sui social e segnalazioni giornalistiche indicano un’escalation di violenze xenofobe proprio in quella città, mettendo in evidenza anche il rischio di abbandono dei migranti nelle regioni desertiche. Questo fenomeno assume un’importanza particolare in quanto l’Italia ha accordi per i rimpatri forzati con la Tunisia. Il Garante nazionale delle persone private della libertà ha espresso la sua preoccupazione su un possibile trasferimento forzato di migranti verso Paesi di transito, anche se non vincolati all’adesione alla Convenzione di Ginevra. Il timore riguarda soprattutto i cittadini subsahariani che potrebbero essere soggetti a vessazioni e torture in Tunisia. Tuttavia, il Garante Nazionale è fiducioso nel trovare soluzioni in linea con l’ordinamento costituzionale italiano, evitando la tentazione di esternalizzare le responsabilità di controllo e tutela. Come riferisce l’organizzazione dei diritti umani Human Rights Watch, più di 500 migranti subsahariani sono stati arrestati a Sfax e portati al confine libico o algerino, dopo che la gendarmeria aveva effettuato raid nei quartieri popolati da persone provenienti da diversi Paesi africani. A dare man forte alla polizia tunisina alcuni gruppi di giovani armati di bastoni e pietre che hanno minacciato gli immigrati africani nei quartieri di Sfax, dove in qualche modo hanno trovato una sistemazione. Secondo alcune organizzazioni umanitarie, è in atto una vera e propria campagna di propaganda sui social network, orchestrata da membri del Partito Nazionalista Tunisino, con dichiarazioni xenofobe e cospiratorie. La Tunisia rappresenta un importante Paese di transito per la rotta migratoria del Mediterraneo Centrale proveniente dall’Africa subsahariana. Inoltre, il numero di cittadini tunisini che cercano di fuggire dalla recente crisi economica è aumentato considerevolmente. Secondo i dati delle Nazioni Unite aggiornati ad aprile 2023, il 57% dei migranti e dei rifugiati che si imbarcano per l’Italia via Mediterraneo, pari a circa 24.000 persone, proviene dalla Tunisia. L’Italia, sostenuta da Parigi e Bruxelles, si impegna attivamente nella gestione di questa situazione, focalizzando la strategia sul finanziamento per prevenire il collasso economico e sociale del Paese e sulla politica di esternalizzazione delle frontiere tramite finanziamenti e accordi di rimpatrio rapidi. Su questa scia, l’ultimo “Memorandum d’intesa” in materia di cooperazione allo sviluppo, firmato nel 2021 sotto l’ex ministra Lamorgese, prevedeva un sostegno finanziario di 200 milioni di euro al governo tunisino entro il 2023. Parliamo di accordi che sollevano preoccupazioni in merito al bilanciamento tra la gestione dei flussi migratori e la tutela dei diritti umani. Da tempo in Tunisia è in aumento la repressione contro gli oppositori politici, la società civile e le minoranze. Questi sviluppi preoccupanti, uniti al crescente razzismo e discriminazione contro le persone nere, hanno creato una situazione estremamente pericolosa, soprattutto per coloro che provengono dall’Africa subsahariana. Nonostante ciò, l’Italia ha intensificato gli sforzi per rimpatriare i cittadini tunisini, ignorando le gravi violazioni dei diritti umani nel paese. Le organizzazioni tunisine e internazionali per la tutela dei diritti umani hanno espresso preoccupazione per l’indebolimento dell’indipendenza della magistratura, gli arresti di critici e oppositori politici, i processi militari contro i civili e la continua repressione della libertà di espressione. Inoltre, il razzismo contro le persone nere, già presente in Tunisia, si è intensificato a seguito di discorsi discriminatori pronunciati dal presidente Kais Saied. Le persone africane nere sono state vittime di violenza istituzionale, arresti arbitrari e sparizioni forzate. La situazione è così grave che alcune persone sono state costrette a organizzare proteste per chiedere l’evacuazione immediata dalla Tunisia per salvaguardare la propria vita. La Tunisia sta affrontando una grave crisi socio- economica, con alti tassi di disoccupazione e inflazione, oltre alla mancanza di beni di prima necessità e restrizioni sull’uso dell’acqua a causa della siccità. Questo contesto rende il paese ancora più instabile e insicuro per i suoi cittadini, oltre che per le persone migranti. Nonostante la situazione grave e pericolosa in Tunisia, l’Italia ha aumentato il numero di rimpatri verso il paese, incluso quello dei cittadini tunisini che non hanno accesso alla protezione internazionale. Questi rimpatri violano i principi fondamentali dei diritti umani e il diritto internazionale. La Tunisia non dispone di un sistema nazionale di asilo e le persone soccorse in mare, sia tunisine che non, sono altamente esposte al rischio di violazioni dei diritti umani, detenzione e respingimenti forzati. Il diritto internazionale prevede che i naufraghi e le persone intercettate in mare debbano essere portati in un luogo sicuro di sbarco, dove le loro necessità fondamentali possano essere soddisfatte e la loro sicurezza non sia più minacciata. Tuttavia, la Tunisia non può essere considerata un luogo sicuro di sbarco, data la situazione di repressione, violenza e discriminazione che prevale nel Paese. Israele. Si riaccendono le proteste per la riforma della giustizia voluta da Netanyahu di Elena Aquilanti Il Domani, 12 luglio 2023 In seguito all’approvazione di una legge che modifica le prerogative della Corte suprema israeliana, tantissimi cittadini sono scesi nelle strade per manifestare, bloccando numerose strade. Le proteste hanno causato l’arresto di 66 persone ma il governo è intenzionato a proseguire l’iter di approvazione della contestata riforma della giustizia. Ricominciano le proteste che da mesi stanno animando la vita politica di Israele. Anche oggi le piazze e le strade di Israele si sono riempite di cittadini che manifestano contro la riforma della giustizia voluta dal primo ministro, Benjamin Netanyahu, e dal suo governo di estrema destra. In particolare, le proteste di oggi sono state alimentate dall’approvazione, in prima lettura, di una legge - facente parte del più ampio progetto di riforma della giustizia - che mira a cancellare la possibilità per la magistratura di pronunciarsi sulla “ragionevolezza” delle decisioni del governo. La legge è stata approvata ieri con una maggioranza di 64 parlamentari (tutti quelli che fanno parte della maggioranza di governo) e dovrà ora essere approvata in seconda e terza lettura dalla Knesset, il parlamento monocamerale di Israele. I manifestanti si sono riversati nelle strade, paralizzando le principali vie di Israele. La maggior parte delle proteste si concentrano a Gerusalemme, dove la polizia ha cercato di disperdere i manifestanti con cannoni ad acqua. Anche i due principali aeroporti del paese sono stati presi di mira dai manifestanti. Il numero delle persone arrestate si attesta, per il momento, a 66. A seguito dell’approvazione della legge sulla clausola della “ragionevolezza” il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha voluto rassicurare il paese dicendo: “Non è la fine della democrazia, rafforzerà la democrazia. I diritti dei tribunali e dei cittadini israeliani non saranno in alcun modo violati e e la Corte continuerà a monitorare la legalità delle decisioni e delle nomine del governo”. Parole, quelle del premier, in contrasto con le opinioni dell’opposizione parlamentare, che durante l’approvazione del disegno di legge ha urlato: “Vergogna!”. Il contenuto della riforma - Il governo di estrema destra guidato dal premier Netanyahu ha presentato a gennaio un progetto di riforma che mira a indebolire le prerogative della magistratura, in particolare della Corte suprema, e a rafforzare i poteri dell’esecutivo e del parlamento (Knesset). Infatti, molti degli esponenti dei partiti che compongono il governo ritengono che negli ultimi anni il potere della magistratura si sia rafforzato eccessivamente, andando a minacciare il principio della “sovranità del parlamento” e quindi del popolo. La proposta più criticata riguarda l’eliminazione della prerogativa, in capo alla Corte suprema, di annullare le leggi approvate dal parlamento. Al momento, la Corte suprema ha il potere di rigettare le leggi che ritiene in contrasto con le leggi fondamentali (leggi di rango costituzionale, quindi fonti primarie del diritto). Il progetto di riforma mira a eliminare tale prerogativa, dando al parlamento la facoltà di rigettare la sentenza di annullamento per mezzo di un voto a maggioranza semplice (61 parlamentari su 120). Tale facoltà darebbe alla Knesset un potere enorme riducendo al contempo quello della Corte suprema e creando non pochi problemi sugli assetti costituzionali del paese. I detrattori della riforma sottolineano come tale legge porterebbe a un evidente squilibrio fra i poteri dello stato, a favore della maggioranza parlamentare e, quindi, del governo. Il secondo elemento criticato della riforma sulla giustizia concerne la nomina dei membri della commissione che seleziona i nuovi giudici. Il governo vorrebbe, infatti, aumentare i membri di nomina governativa in modo che siano in maggioranza all’interno della commissione. Questo è un evidente tentativo di condizionare le nomine della Corte suprema con lo scopo di avere magistrati graditi al governo. Ad oggi, i membri della commissione che nomina i giudici della Corte suprema sono nove, di cui quattro scelti dal governo. La proposta di legge vorrebbe aumentare i membri della commissione a 11 e portare a 8 i membri di nomina politica. La riforma della giustizia, inoltre, mira a limitare il concetto di “ragionevolezza” con cui i tribunali possono sottoporre, di propria iniziativa, al controllo giurisdizionale qualsiasi atto amministrativo del governo, compresa la nomina di pubblici ufficiali. Grazie a tale prerogativa, la Corte suprema, lo scorso gennaio, ha annullato la nomina di Aryeh Deri a ministro dell’Interno, in quanto considerata “irragionevole” alla luce della condanna per frode fiscale. Gli interessi dei sostenitori della riforma - La riforma di legge in materia di giustizia è stata voluta e promossa dal premier Benjamin Netanyahu e presentata dal ministro della giustizia, Yariv Levin. La riforma è sostenuta da tutta la maggioranza, infatti tutti i partiti al governo sono d’accordo sul fatto che la magistratura, in particolare la Corte suprema, abbia negli ultimi anni interferito in modo indebito sui lavori del parlamento. Ma oltre a tale giustificazione, i partiti della maggioranza hanno specifici interessi legati a questa riforma. Primo fra tutti il premier Netanyahu che sta affrontando un processo con le accuse di frode, corruzione e abuso d’ufficio. La nomina dei componenti che selezionano i nuovi magistrati dei tribunali è oggetto della riforma e la sua approvazione permetterebbe al premier di avere un maggiore controllo sulle sue vicende giudiziarie. Il partito ultra ortodosso, “Giudaismo della Torah unito”, vede con favore i ridimensionamento dei poteri della Corte suprema, che da anni tenta di eliminare i privilegi di cui godono gli ortodossi, come l’esenzione alla leva militare obbligatoria. In ultimo, anche il partito sionista di estrema destra ha interessi legati alla riforma. Con l’entrata in vigore della riforma si aprirebbe la possibilità, per la Knesset, di annullare le vecchie sentenze della Corte suprema che hanno limitato l’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Israele. Tutto bene a Tel Aviv (se non sei omosessuale, donna o arabo) di Etgar Keret* Corriere della Sera, 12 luglio 2023 Credevo che fra le manifestazioni di razzismo, omofobia e corruzione di cui questo governo messianico dà quotidianamente prova e il mio mondo sensoriale esistesse un rapporto più diretto. Quindi, che sapore ha il mio cappuccino al latte di avena nel bar del quartiere a Tel Aviv il giorno in cui Israele è una democrazia un pochino meno stabile? Sinceramente, simile al solito. Leggermente più amaro, appena meno schiumoso, ma in fin dei conti quasi uguale. Ricordo che qualche settimana fa sono andato al mare lo stesso giorno in cui i coloni hanno bruciato case e automobili in un villaggio palestinese. Benché in quel pogrom un uomo sia morto, altri siano rimasti feriti e l’intero villaggio sia andato a fuoco, l’acqua è rimasta fresca e limpida come sempre. Credevo che fra le manifestazioni di razzismo, omofobia e corruzione di cui questo governo messianico dà quotidianamente prova e il mio mondo sensoriale esistesse un rapporto più diretto. Invece anche oggi, sei mesi dopo che questo governo folle e violento è salito al potere, il cielo non è più grigio o più opprimente. Il vento ristoratore di Ponente continua a soffiare dal mare alla stessa identica ora e solo il concitato messaggio WhatsApp di mio fratello per avvisare che è stato aggredito durante una manifestazione contro l’occupazione, e le chiacchiere con il barista arabo che racconta di essersi beccato insulti razzisti alla stazione centrale di Gerusalemme mentre andava al lavoro, mi ricordano che il sole sopra di me è un bugiardo. La legislazione antidemocratica serpeggia inesorabile verso di noi, ma i membri del governo non si limitano a questo: insultano, offendono e minacciano chiunque gli capiti a tiro, dal capo del Mossad alla presidente della Corte suprema. Si permettono di chiamare il capo di stato maggiore e il capo della polizia “Gruppo Wagner” perché hanno osato criticare i crimini d’odio dei coloni, si permettono di minacciare di buttare giù dalle scale il governatore della Banca d’Israele perché si è azzardato ad alzare il tasso d’interesse, di definire “pus” il capo della polizia di Tel Aviv che rifiuta di usare la forza contro i manifestanti o i piloti da combattimento impegnati nella lotta per la democrazia, si permettono di mettere like a un post che incita a investire chi manifesta contro il governo o a incendiare un villaggio palestinese, eppure la lonicera cinese nel giardino del nostro condominio continua a diffondere il suo meraviglioso profumo. Il soffocante odore di bruciato si sente solo a Hawara e Turmus Aya, qui a Tel Aviv il cielo rimane azzurro intenso, come grazie a un filtro di Instagram, a meno che non ti capiti la disgrazia di essere omosessuale, o donna, o arabo. Per mantenerlo azzurro basta che smetta di leggere i siti di notizie ed eviti di dire ad alta voce che sono di sinistra. Così tutto continuerà a sembrare come una volta: il caffè caldo, il sole piacevole, il barista soddisfatto della sua occupazione che ti saluta, in effetti stamattina con un sorriso un po’ mesto. Meglio che prenda nota: se voglio continuare a bere il mio caffè in pace, devo imparare a usare meno questa parola, “Occupazione”: ecco, l’ho appena pronunciata e il sole sopra di me si è nascosto dietro una nuvola. *Traduzione di Raffaella Scardi