Il falso garantismo visto dalle carceri di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 11 luglio 2023 Il garantismo è una teoria giuridico-costituzionale troppo seria per essere vilipesa, violentata, strumentalizzata da chi ha costruito un modello repressivo di massa. Negli ultimi giorni si sono riaccesi i riflettori intorno al rapporto tra giustizia e politica. Abbiamo ascoltato le stesse parole che hanno tristemente caratterizzato il dibattito pubblico a partire dall’ingresso nello spazio pubblico di Silvio Berlusconi. Il garantismo è una teoria giuridico-costituzionale troppo seria per essere vilipesa, violentata, strumentalizzata da chi ha costruito un modello repressivo di massa. Chiunque abbia sostenuto che andasse criminalizzata la solidarietà verso i migranti si trova agli antipodi della teoria garantista. Chiunque non lotti per bandire la tortura dalle nostre caserme e prigioni non potrà mai definirsi garantista. Chiunque si adoperi per neutralizzare i processi in corso per tortura nelle aule di giustizia italiane, pensando di abrogare o modificare la legge del 2017 che aveva finalmente introdotto il crimine nel codice penale italiano, non ha diritto a usare per sé stessi la parola garantista. Chiunque non si preoccupi dell’habeas corpus o delle condizioni degradate di vita negli istituti penitenziari non è un garantista. I dati del 30 giugno 2023 ci dicono che il numero dei detenuti è salito fino a 57mila e 500. Oltre 5mila unità in più rispetto al 2015 e con un tasso di affollamento effettivo che raggiunge il 120%. Il sovraffollamento non è una calamità naturale e non è neanche la conseguenza, statistiche alla mano, di un aumento della delittuosità, visto che tra il 2015 e il 2021 c’è stato un calo ponderoso di oltre mezzo milione di delitti denunciati. Dunque, il numero dei detenuti cresce sostanzialmente a causa di una maggiore severità dei giudici che infliggono pene più alte e che concedono in minor misura rispetto al passato sanzioni o misure alternative alla detenzione. Si tende a far scontare l’intera condanna in carcere a un detenuto nel nome di una presunta certezza della pena, brandita come slogan populista piuttosto che come argomento razionale. Si dà per scontato che l’unica pena sia la galera, per cui l’espressione ‘certezza della pena’ viene assimilata a ‘certezza della pena carceraria’. Essere garantisti significa impegnarsi per liberare il sistema punitivo dalle scorie inquisitorie e violente di un modello repressivo che imprigiona tossicodipendenti, consumatori di sostanze, poveri, persone affette da disagi psichici, i tanti esclusi da un welfare moribondo. Qualora sommassimo tutti i detenuti socialmente vulnerabili, considerati scarti ed eccedenze umane di un sistema liberista feroce, raggiungeremmo i due-terzi della popolazione detenuta. Siamo in piena estate e in galera si sta male. Fa caldo. In tantissimi istituti mancano i ventilatori e non è possibile rinfrescare l’acqua. Vivere in tre o in quattro, in una cella di dieci o quindici metri quadri, bagno incluso, a 35 gradi, è un’esperienza durissima. Saltano i nervi. Direttori, educatori, medici e poliziotti sono lasciati soli a gestire situazioni molto complicate. Una vita è una vita. Sempre. Dall’inizio dell’anno si sono suicidati trentaquattro detenuti nelle carceri italiane. Ci avviciniamo ad agosto, il mese più difficile dell’anno in galera. L’anno scorso nel mese di agosto si ammazzarono ben sedici detenuti. Va evitato un altro agosto tragico: le carceri vanno riempite di iniziative all’aperto; ai detenuti va assicurata la possibilità di contattare quotidianamente per telefono o con video-chiamata i propri affetti; vanno comprati ventilatori e frigoriferi; va gratificato il più possibile, anche economicamente, il personale penitenziario. Poche cose senza le quali nessun governante potrà mai definirsi garantista. *Presidente di Antigone Seconde possibilità di Laura Badaracchi Confidenze, 11 luglio 2023 La Fondazione Cave Canem promuove il progetto “Fuori dalle gabbie”, che coinvolge persone detenute e cani nei canili. Obiettivo straordinario per il progetto “Fuori dalle gabbie”: aiutare i detenuti a sviluppare nuove competenze grazie agli animali dei canili. Un’iniziativa che prende piede in tutto il Paese Massimiliano Bocci è un agente di polizia penitenziaria e Sam era un cane abbandonato. I due si sono incontrati nel carcere di massima sicurezza di Spoleto (Pg), dove l’animale partecipava da circa tre settimane al progetto Fuori dalle gabbie, partito a ottobre dello scorso anno grazie alla Fondazione Cave Canem in sinergia con il Comune umbro e con la Casa di reclusione. Un’iniziativa importante, volta a favorire le attività di cura dei detenuti nei confronti di una dozzina di cani abbandonati e maltrattati. Una volta “risocializzati”, gli animali sono pronti per le adozioni. Sam è stato particolarmente fortunato perché ha incrociato lo sguardo di Massimiliano mentre il poliziotto era in turno. “Per via del mio lavoro di supervisione, sono venuto due volte al piccolo rifugio costruito nel carcere e Sam mi è sempre venuto incontro: ci siamo scelti a vicenda” spiega l’agente, che ha portato l’animale in una grande famiglia pelosa. “Vive insieme ad altri due cani, un cavallo, una capretta e un gatto in un ampio terreno accanto a casa mia. E io trascorro il mio tempo libero con loro” racconta Massimiliano entusiasta. Questo è solo uno dei frutti del progetto. Come spiega l’avvocato Federica Faiella, vicepresidente della Fondazione Cave Canem: “Cerchiamo di coniugare i percorsi individualizzati di formazione, riscatto sociale e inclusione lavorativa dedicati alle persone detenute con l’assistenza ai cani senza famiglia in canile. In questo modo, il detenuto acquisisce nuove competenze e diventa adatto a vivere nel rispetto della legalità e il cane, rieducato, è pronto per essere adottato da una famiglia”. Al momento, oltre che a Spoleto Fuori dalle gabbie è presente all’interno della Casa circondariale di Napoli Secondigliano e dell’Istituto penale per minorenni Casal del Marmo di Roma: “Ben 154 persone detenute hanno partecipato ai nostri corsi di formazione, di cui 16 hanno svolto lavori socialmente utili in canile, ottimizzando così il tempo della pena e acquisendo nuove competenze. Finora circa 166 cani sono stati aiutati: la logica è fornire un’idea di ospitalità degli animali alternativa al canile, con un servizio di accudimento qualitativamente elevato”. Com’è nata questa passione in una professionista impegnata in una multinazionale? Tutto è nato da Drugo, cane portato in famiglia 15 anni fa dal fratello di Federica Faiella e scomparso il 13 agosto scorso. “Grazie alla sua presenza sicuramente è emersa in me un’innata e spiccata sensibilità nei confronti degli animali e ho preso coscienza che anche loro sono es sere senzienti e titolari di diritti. Ho iniziato a occuparmi di eventi benefici a favore degli animali della Lav (Lega anti vivisezione). Poi, nel giugno 2019, è nata la Fondazione e la presidente Adriana Possenti mi ha chiesto di affiancarla occupandomi non solo degli animali, ma anche delle persone e pensando all’inclusione sociale di giovani detenuti e ragazzi autori di reati” spiega l’avvocata. Fra loro c’è anche Dario, che da due anni è stato inserito in Cambio rotta, progetto di giustizia riparativa per chi sconta il periodo di messa alla prova svolgendo attività socialmente utili in favore di cani abbandonati costretti a vivere in canile e frequentando anche un corso teorico-pratico di formazione per operatore cinofilo. “All’inizio avevo paura dei cani a causa di un morso ricevuto in passato: gli animali abbaiavano e credevo che mi volessero aggredire. I tutor della Fondazione mi hanno spiegato che esistono tante tipologie di abbaio e che quello di cui avevo paura era invece una richiesta: il cane non mi stava minacciando, semplicemente mi chiedeva di farlo uscire dalla gabbia” racconta Dario. “Mi ricorderò per sempre di Argo, proveniente da un sequestro e vittima di maltrattamenti. Quando l’ho conosciuto era molto chiuso e non reagiva a nessuno stimolo riguardante il gioco. Dopo qualche settimana insieme, per me è stata una grandissima soddisfazione vederlo iniziare a rincorrere la pallina che gli avevo lanciato e persino riportarmela per invitarmi a continuare il gioco. Incredibile, avevo finalmente guadagnato la sua fiducia”. Alcuni dei ragazzi coinvolti nel progetto hanno adottato i cani, quattro sono stati assunti dalla Fondazione. “E un altro ragazzo dal canile romano a Valle grande, dove si occupa di supporto ai medici veterinari, accompagnando gli animali dai box all’ambulatorio” riferisce la vicepresidente di Cave Canem. Una professionista che al momento, grazie a educatori cinofili, veterinari, assistenti di campi fra i 20 e i 40 anni e circa 190 volontari, sta seguendo il percorso riabilitativo di ben 611 cani: “440 nel canile Valle grande (a cui si aggiungono circa 300 gatti), 126 nel canile comunale e 20 nel carcere di Spoleto e 25 a Modena. Forniamo anche supporto tecnico e giuridico agli addetti ai lavori, come il personale di polizia penitenziaria: il nostro obiettivo è puntare a creare un circolo virtuoso fra canile e amministrazione penitenziaria. Inoltre, collaboriamo con le associazioni di volontariato per le adozioni nella fase della compatibilità e ambientamento. Infine, su richiesta di tantissime famiglie abbiamo anche avviato un programma di addestramento per cani con disagi comportamentali, in modo da scongiurare il rischio di abbandono” puntualizza la vicepresidente. Intanto, a Napoli, nel 2021 è stato aperto il primo canile comunale, La collina di Argo, anche grazie a una raccolta fondi promossa dalla Fondazione. E Cave Canem è stata contattata anche dalle Regioni Emilia Romagna, Lombardia e Sardegna per progetti futuri. “Sono fiera di queste iniziative, esseri umani e animali meritano una seconda possibilità” conclude l’avvocata. Meditare in carcere al ritmo del respiro. La scommessa di Liberation Prison Project di Antonella Patete redattoresociale.it, 11 luglio 2023 I percorsi di consapevolezza sono attivi in 15 istituti penitenziari, grazie al contributo dell’8xmille dell’Unione Buddhista Italiana. Entro fine anno coinvolte 5 nuove carceri e attivato un nuovo corso di formazione per gli operatori. In carcere il tempo non manca mai. Per chi si trova in stato di detenzione può essere un problema, ma anche una risorsa. Sta forse proprio in questo il segreto del successo dei percorsi di consapevolezza realizzati dall’associazione Liberation Prison Project grazie al contributo dell’8xmille dell’Unione Buddhista Italiana. “In carcere portiamo percorsi di consapevolezza e introduzione alla meditazione, partendo dalla convinzione che sia possibile lavorare sul piano dell’introspezione e del miglioramento di sé - spiega Maria Vaghi, segretaria generale di LPP Itali. Ci ispiriamo alla filosofia buddhista, ma seguiamo un approccio completamente laico, basato sull’osservazione delle emozioni e della mente, partendo dall’attenzione al respiro”. Come nasce il progetto - LLP nasce nel 1996 negli Stati Uniti per iniziativa della monaca buddhista Robina Courtin, che ha fatto visita in vari istituti penitenziari dopo aver intrattenuto per un certo periodo una corrispondenza con un uomo detenuto. Poi a poco e poco il progetto è maturato e nel 2006 è sbarcato per la prima volta in Italia. “Abbiamo cominciato a svolgere l’attività in maniera regolare a partire dal 2009, ma il progetto è decollato davvero solo nel 2019, quando abbiamo cominciato a beneficiare dei fondi dell’8 per mille dell’Unione Buddhista Italiana - prosegue la segretaria -. E oggi siamo attivi in 15 istituti penitenziari italiani con un 22 operatori formati ad hoc, che conducono gruppi settimanali composti da 12-15 persone”. Un progetto in espansione - Da Milano a Palermo, passando per Treviso, Modena e Alghero i percorsi di LLP sono attualmente attivi in tutta la Penisola. Ma il progetto è in espansione: entro settembre i gruppi di meditazione partiranno in 5 nuove carceri e il prossimo ottobre avrà inizio il quarto corso di formazione per gli operatori, che si svolgerà in presenza presso l’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia (Pisa). “Puntiamo molto sulla formazione - chiarisce Vaghi -. I nostri operatori praticano la meditazione da lungo tempo, hanno già un’esperienza nella conduzione dei gruppi e spesso sono psicologi, counselor, assistenti sociali, cioè persone che svolgono professioni nella relazione di aiuto”. Come si entra a far parte di un gruppo - Per chi è in carcere l’adesione ai gruppi di consapevolezza e meditazione è totalmente volontaria. Ci si arriva per passaparola o su suggerimento dei funzionari giuridico-pedagogici, quelli che normalmente vengono chiamati educatori. “Lavoriamo con una percentuale bassa della popolazione detenuta, pari a circa il 5-7% del totale di quelli presenti in ogni carcere - aggiunge la segretaria -. Nel carcere di Milano-Bollate, dove la nostra presenza è più consolidata, abbiamo 4 operatori e 5 gruppi, più alcuni incontri individuali, coinvolgendo un totale di 80-85 persone detenute ogni settimana. Per partecipare ai gruppi è necessaria una conoscenza base della lingua italiana e soprattutto bisogna trovarsi in una fase di relativo equilibrio: le persone con problemi psichiatrici e quelle che sono ancora nella prima fase di disintossicazione da dipendenza da sostanze rischiano di non trarre benefici dalla pratica e, anzi, di potenziare il proprio stato di irrequietezza”. Dalla parte delle vittime - “Spesso le persone arrivano nei gruppi nervose e con difficoltà a mantenere la concentrazione: dormono male, sono reattive, si lasciano sopraffare dagli eventi - osserva Vaghi -. Poi attraverso la pratica scoprono di avere disposizione degli strumenti, a partire proprio dal respiro: un elemento che abbiamo tutti e su cui si può lavorare per imparare a riconoscere i segnali che il corpo ci manda, per dargli un nome e per prevenire le reazioni istintive ogni volta che si presentano. È una capacità che, se allenata, può fornire degli strumenti molto potenti a ciascuno di noi”. Per Liberation Prison Project, però, lavorare con le persone detenute significa anche lavorare a favore delle vittime. “Sono proprio le vittime il nostro primo focus - chiarisce la segretaria -. Chi è in carcere prima o poi farà ritorno in società. Vediamo spesso che il beneficio che traggono dai percorsi di consapevolezza e meditazione non è solo personale, ma anche dei familiari e delle persone che circondano l’autore di reato”. Perché spesso chi compie un reato ha anche una famiglia, che paga a sua volta il prezzo della colpa e sono in molti a soffrire del fatto di non poter essere di aiuto ai propri familiari, soprattutto ai figli. A volte però anche la pratica della meditazione più aiutare a stare più vicini ai propri cari. Come è successo a Mario (nome di fantasia): un giorno che suo figlio era agitato, è stato proprio lui a insegnargli a riconquistare la calma. Come? Concentrandosi insieme sul ritmo del respiro. Giustizia, sulla riforma Nordio la parola al Colle di Ugo Magri La Stampa, 11 luglio 2023 Il governo aspetta l’autorizzazione di Mattarella al ddl Nordio. Il capo dello Stato potrebbe essere costretto a usare la moral suasion. Riassorbite le 17 ore del volo di ritorno dall’America Latina, Sergio Mattarella ha iniziato a studiare il testo della riforma Nordio: una decina di articoli varati a metà giugno dal Consiglio dei ministri, passati ai “raggi x” dalla Ragioneria generale (mancavano alcune coperture finanziarie), approdati con forte ritardo al Quirinale mentre il presidente ancora si trovava in Cile. Legittimo a questo punto chiedersi se e quando Mattarella autorizzerà il governo a presentare il testo davanti alle Camere: domanda che si giustifica alla luce dalle tensioni scatenate dal disegno di legge dove si cancella il reato di abuso d’ufficio, si stringono le maglie delle intercettazioni, si frena l’applicazione delle misure cautelari, viene vietato il ricorso in appello contro i proscioglimenti da certi reati. Nel clima già infuocato tra governo e magistratura, la riforma Nordio sarà ulteriore benzina sul falò delle polemiche. Eppure quest’attesa su cosa farà il presidente, se firmerà o meno il ddl della discordia, viene liquidata sul Colle con vivo stupore. Sorprende lassù che non si colga la differenza tra i decreti legge (destinati a entrare immediatamente in vigore) e i propositi di riforma racchiusi in un disegno di legge. Nel primo caso il controllo presidenziale è sempre stringente perché, una volta emanato, il decreto può avere conseguenze gravi e irreparabili; più d’una volta un decreto legge è stato rispedito al mittente. Nel caso dei ddl (come appunto la riforma Nordio) si tratta invece di proposte rivolte al Parlamento che deciderà con calma, magari non prima di avere riscritto l’articolato da cima a fondo (tra parentesi: è lo stesso esecutivo, talvolta, a cambiare in corso d’opera). In teoria potrebbe perfino accadere che, strada facendo, la voglia di riforma sfumi e non se ne faccia più niente. Insomma, obiettano i giuristi di casa al Quirinale, la controfirma presidenziale ai disegni di legge è praticamente un obbligo costituzionale, tant’è vero che in 75 anni di Repubblica non è mai stata negata; il capo dello Stato potrebbe mettersi di traverso soltanto se il disegno di legge fosse (o apparisse) francamente eversivo. Ma allora, se firmare è quasi un atto dovuto, come mai Mattarella non se ne libera in fretta? Per quale motivo intende dedicarci, a quanto risulta, i prossimi giorni? Per chi conosce le regole della casa, la risposta ha molto a che fare con la “moral suasion” quirinalizia, vale a dire con l’arte di suggerire, consigliare e a volte limitare i danni senza darne pubblicità. Qualora dall’esame della riforma emergessero problemi di costituzionalità, ad esempio, si può star certi che il presidente troverebbe un modo di farlo presente al governo affinché vi metta riparo. Ultimo dubbio: se Mattarella firmerà la riforma Nordio, significherà che è d’accordo col contenuto? Niente affatto, rispondono gli addetti ai lavori. Autorizzare il Parlamento a discuterne non implica alcuna condivisione, nel bene e nel male. Giustizia, ddl Nordio al Quirinale ma per la firma di Mattarella serviranno alcuni giorni di Liana Milella La Repubblica, 11 luglio 2023 Il capo dello Stato rientrato dal viaggio in Sud America valuterà il testo del disegno di legge di riforma presentata dal Guardasigilli. Sorpresa al Colle per l’enfasi attorno alla firma del presidente che, nel rispetto delle Camere, dovrà trasmettere un ddl che sarà oggetto di un dibattito e di modifiche parlamentari. Sorpresa, al Quirinale, per l’enfasi intorno alla firma del presidente Sergio Mattarella sul disegno di legge del Guardasigilli Carlo Nordio sulla giustizia. La decina di articoli, votati a Palazzo Chigi a metà giugno, è giunta sul Colle a metà della scorsa settimana. Perché era rimasta a lungo alla “bollinatura” della Ragioneria dello Stato, al Mef, per problemi di copertura sull’assunzione di altri 250 magistrati nei prossimi due anni destinati alla riforma dei gip che passeranno da uno a tre. Giusto ieri fonti giornalistiche avevano ipotizzato un possibile stop del Quirinale sul ddl Nordio. Ma le cose non stanno così. Innanzitutto Sergio Mattarella è approdato ieri in Italia dopo un viaggio durato 17 ore con un salto di fuso di ben sei ore. Lo attendeva stamattina il saluto ad Arnaldo Forlani. Gli uffici del Quirinale stanno esaminando il testo di Nordio. Ma, la natura stessa del provvedimento del Guardasigilli - un disegno di legge e non un decreto che va confermato entro due mesi - comporta un’analisi che necessariamente per il Colle dev’essere rispettosa della natura del testo e del prossimo dibattito parlamentare. Discussione ed esame nelle quali peraltro si preannunciano già adesso numerosi emendamenti delle forze politiche, nonché, probabilmente, anche un’integrazione dello stesso Guardasigilli dopo i casi Santanchè e Delmastro sulla segretezza totale dell’avviso dell’iscrizione sul registro degli indagati e sul potere del gip di ordinare un’imputazione coatta che potrebbe essere vietata in futuro. La storia dei rapporti tra Quirinale e Parlamento documenta del resto come l’autorizzazione a presentare un disegno di legge, che non ha effetti immediati a differenza del decreto, in genere non finisce in modo dettagliatissimo sotto la lente d’ingrandimento del presidente proprio per rispettare le dinamiche e il dibattito parlamentare. Per l’evidente ragione che il testo che uscirà da Montecitorio e palazzo Madama potrà subire ovviamente anche modifiche sostanziali. E solo alla fine di questo percorso, quando sul tavolo del presidente della Repubblica arriverà il testo definitivo, e il capo dello Stato sarà chiamato a promulgare la legge, la verifica di costituzionalità diventerà stringente. Solo a quel punto è ipotizzabile un suo intervento. Che può implicare la richiesta di un’ulteriore riflessione parlamentare. Le toghe offrono la tregua. Meloni resta in silenzio di Mario Di Vito Il Manifesto, 11 luglio 2023 Santalucia: “Da parte nostra nessuna volontà di scontro, solo diritto di critica”. La premier ai giornalisti: “Sono in ritardo”. Evitare lo scontro diretto. Almeno finché si può. Dopo un weekend di fuoco e fiamme e polemiche incrociate, mentre Giorgia Meloni continua a scansare accuratamente l’argomento giustizia, come ha fatto ieri in Lettonia, l’Anm lancia segnali di tregua al governo, nell’auspicio di non tornare indietro agli anni durissimi della guerra senza quartiere tra la destra italiana e la magistratura. Erano altri tempi, si dirà, e sicuramente erano un’altra destra e un’altra magistratura, ma certi riflessi condizionati sono duri a morire e si riaffacciano a cadenza periodica. Adesso in ballo c’è una riforma della giustizia annunciata come storica ma che, sin qui, è ancora molto vaga e, soprattutto, non proprio imminente. “Da parte nostra nessuna volontà di scontro, né ce ne sarà nel futuro. Se poi per scontro si intende esercitare un diritto di critica tecnica, l’equivoco non dipende da noi”, ha detto il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia su Sky. “Quello che è accaduto negli ultimi giorni non c’entra niente con il ddl Nordio - ha aggiunto -. Abbiamo espresso riserve critiche, le abbiamo tecnicamente sostenute, non c’è nessuna invasione di campo, nessun potere di veto. Non ci ergiamo a partito politico, parliamo del nostro settore”. La premier, che a parte veloci punti stampa da settimane evita un vero e proprio confronto con i giornalisti, dopo il bilaterale a Riga con il premier lettone evita ancora di rispondere: “Sono molto in ritardo - si giustifica - Faremo un punto stampa su tutto alla fine del vertice Nato”. Non una parola sull’attacco “anonimo” del governo alle toghe né sulle agghiaccianti parole di La Russa. Vero è che dalle parti di Meloni gli inciampi giudiziari della settimana scorsa (Santanchè e Delmastro, ai quali si è aggiunta la sortita del presidente del Senato) sono stati vissuti come un agguato, ma si tratta di vicende circostanziate, slegate tra loro e frutto più che altro della maniera spregiudicata con cui la destra sta portando avanti le sue attività negli ultimi mesi, passati più a ribadire chi ha vinto le elezioni che a cercare di fare politica. Giù fino alle assurdità della settimana scorsa, quando è stata diffusa la velina firmata da “fonti di Palazzo Chigi” e poi, dal ministero della Giustizia, sono state fatte filtrare proposte legate direttamente alle disavventure della ministra Santanchè (il divieto di pubblicare gli avvisi di garanzia) e del sottosegretario Delmastro (la revisione dell’imputazione coatta imposta dai giudici ai pm). Sul ddl Nordio, peraltro, da parte dell’Anm sono arrivate critiche circostanziate, alle quali nessuno si è ancora degnato di rispondere. Nella maggioranza, infatti, ci si concentra sulle vecchie accuse alla magistratura troppo “ingerente”. Fa più rumore, casomai, l’endorsement a Nordio del costituzionalista Sabino Cassese: “Ritengo che sia un inizio. Le riforme non si fanno contro qualcuno, si fanno per dare una giustizia sollecita ai cittadini”, ha detto ad Agorà Estate su Raitre. “La riforma di cui stiamo parlando è assai modesta nei suoi contenuti, non è una palingenesi del sistema e non aiuterà la giustizia, non affronta il tema del miglioramento del servizio”, ha però concluso Santalucia. Concetti simili erano stati espressi ieri mattina a Radio Anch’io da Salvatore Casciaro, che dell’Anm è segretario: “L’Anm forse sarà parsa dura nei contenuti ma si trattava di affermare determinati principi: c’è giudice che fa il suo lavoro con coscienza, si occupa di un fascicolo che casualmente riguarda un politico e assume una determinata decisione. Poi filtra una nota di Palazzo Chigi e di via Arenula che parla di magistrati che scendono in campo e svolgono azione politica a fianco dell’opposizione, è un falso che mina la fiducia dei cittadini nella magistratura”. Dei due giorni di comitato direttivo centrale dell’Anm solo il primo è stato dedicato a rispondere agli attacchi del governo, mentre domenica ci si è concentrati sugli aspetti tecnici della riforma, o quantomeno delle proposte già avanzate che, secondo le intenzioni di Nordio, sarebbero solo la prima parte di una revisione complessiva del sistema giudiziario italiano. Vorrebbe dire riscrivere una parte della Costituzione, cosa che negli ultimi trent’anni molti governi si sono messi in testa ma che assai raramente è finita con un successo pieno. Mattarella in silenzio in attesa che Meloni pronunci parole distensive sui pm di Simone Canettieri Il Foglio, 11 luglio 2023 Il Quirinale per ora non interviene sullo scontro fra il governo e la magistratura. La premier potrebbe salire al Colle nel fine settimana con la scusa del vertice Nato. E intanto il ddl Nordio attende l’ok del Colle. L’occasione è vicina. Già alla fine di questa settimana, una volta tornata in Italia, Giorgia Meloni potrebbe salire al Colle per informare il capo dello stato sulle decisioni del vertice Nato a Vilnius. Un incontro di prassi - tra la presidente del Consiglio e il capo del Consiglio supremo di difesa dopo un appuntamento così importante - che rischia di virare più che sull’Ucraina, sulla guerra ingaggiata dal governo contro la magistratura (a leggere le veline di Palazzo Chigi sarebbe il contrario). Ecco perché il faccia a faccia è ancora in sospeso, pronto a essere sostituito, magari, da una discreta telefonata da far trapelare, ma anche no. Tutto dipende da come Meloni intenderà gestire i casi giudiziari che stanno scuotendo la sua maggioranza, e in particolare i big del suo partito. Storie diversissime fra loro che messe in fila alimentano il clima di sospetti, complotti e accerchiamento che si respira nelle stanze del governo: Daniela Santanchè e i suoi guai societari (avrebbe violato anche il codice etico di FdI continuando a controllare comunque il Twiga di cui diceva di aver venduto le quote una volta diventata ministra del Turismo), Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, che davanti all’imputazione coatta del gip è pronto a sfidare i giudici e l’Anm (“non so nemmeno cosa significhi questo acronimo”, dice agli amici di FdI) e infine Ignazio La Russa, presidente del Senato apparso sgraziato nella difesa d’ufficio del figlio, accusato di stupro. Dalle parti del Quirinale per ora, nonostante le sollecitazioni che giungono dall’opposizione sponda Pd, non sono previsti interventi di moral suasion per “abbassare i toni”. Non sarebbe male, se arrivassero prima parole distensive da parte di Meloni. Fino a domenica la linea dettata ai fedelissimi è stata quella di non alimentare lo scontro, dopo le parole incendiarie dei giorni prima, con la magistratura. Per qualche ora era baluginata anche l’ipotesi di un intervento da Riga, ieri, per rimarcare il reciproco rispetto dei ruoli e della divisione dei poteri. Ma poi alla fine, dopo il bilaterale con il primo ministro lettone Krisjanis Karins, la comunicazione del governo italiano ha deciso di procedere con normali dichiarazioni senza domande degli inviati. Meloni ha preferito tirare dritta sui casi giudiziari che la tormentano (a cui ieri si sono aggiunte anche le parole del ministro dello Sport Andrea Abodi sulle “ostentazioni” del calciatore gay Jakub Jankto e sulla sortita à la Facci di Filippo Facci, amico di vecchia data della premier). “Adesso sono in ritardo. Alla fine del vertice Nato facciamo un punto stampa su tutto quanto”, ha aggiunto la leader mentre lasciava il palazzo del governo lettone per dirigersi verso la base militare ad Adazi. Intanto, come in un gioco dell’oca ormai consolidato, tutto si ferma e cade sulla casella del Quirinale, invocato e strattonato dalle opposizioni, in maniera più o meno plateale. Tuttavia come Sergio Mattarella ha dato a vedere finora l’automatismo non funziona. Anzi. Al massimo si pesano i silenzi, ma è un esercizio stilistico da retroscenisti. E dunque sulla giustizia, che è il vero possibile cortocircuito, si cercano dei punti di contatto fra Palazzo Chigi e il Quirinale. A svuotare le trincee ci sta pensando il sottosegretario ed ex magistrato Alfredo Mantovano. Per quanto riguarda le critiche dell’Anm si cerca di far passare che non tutti i magistrati la pensano come Giuseppe Santalucia. Tentativi arronzati e diplomazie al lavoro. Il tutto in attesa certo che la premier faccia una mossa. Anche perché nel frattempo il Colle deve ancora dare il via libera alle Camere alla discussione sul ddl Nordio sulla giustizia, licenziato dal governo lo scorso 15 giugno. Non si tratta di firmare un decreto, ma di trasmettere il testo del disegno di legge al Parlamento che poi dovrà approvare, emendare e comunque discutere l’impianto di norme presento dal Guardasigilli. Ci vorrà qualche giorno tecnico per sbloccare la pratica. “Ma nessuna enfasi”, spiegano dalle parti di Sergio Mattarella a cui c’è un pezzo di politica che, in queste ore, fa arrivare la richiesta di un forte interventismo mediatico. Dimenticandosi forse dello stile della casa. Ecco perché la fisarmonica di Mattarella per il momento non espanderà i suoi poteri. Nemmeno sul caso Santanchè la cui presenza nel governo rimane, finché è lontana da una condanna, una questione di opportunità per chi l’ha proposta. E cioè Meloni. Stesso discorso per Delmastro. Figurarsi poi le dichiarazioni di La Russa sulla ragazza che dice di aver subito una violenza sessuale dal di lui figlio. Mattarella presidia il perimetro della Costituzione e ha, questo sì, le sue idee. Che magari dirà alla premier, di persona, nel fine settimana o nel corso di una telefonata. Nel frattempo gli alleati Antonio Tajani e Matteo Salvini, seppur con fini diversi, dicono alla premier di abbassare i toni contro i pm. E il partito rimane in fibrillazione: a Piazza Italia, festa romana di FdI iniziata ieri, sono previsti tutti i big meloniani, eccetto il terzetto finito nella bufera. Il buio oltre la siepe, l’imbarazzo dietro ai forfait. Carriere separate, riforma congelata. Così Meloni evita la guerra con le toghe di Paolo Delgado Il Dubbio, 11 luglio 2023 La premier ora cerca la tregua: potrebbe rinunciare a “qualcosa” per evitare lo scontro con i magistrati. Che fare? Se Giorgia Meloni lo ha già deciso, come è probabile, ancora non ha trasformato la propensione in fatti e parole. Le quali certo contano e pesano. Lunghi giorni di silenzio hanno moltiplicato le attese: quando la premier si deciderà a parlare in prima persona, senza lo schermo di anonime “fonti”, le sue parole saranno pesate col bilancino, ogni virgola finirà per incidere sulla scelta tra tregua o guerra nell’eterno scontro fra politica e magistratura. Certo, le dichiarazioni hanno tutto il loro peso. Però i fatti ne hanno di più e alla fine tutto dipenderà da un solo “fatto”, l’accelerazione o meno della legge costituzionale sulla separazione delle carriere. Forzare ora, significherebbe rendere inevitabile una battaglia in campo aperto, frenare sarebbe invece l’autostrada per la tregua. Una tregua che sarebbe costellata di piccole violazioni, scaramucce, anche di veri scontri significativi come quello in corso sull’abolizione dell’abuso d’ufficio. Ma in ogni caso qualcosa di molto diverso da una guerra totale. La magistratura, nonostante il fragore d’obbligo di alcune dichiarazioni, cerca di spingere in questa direzione. Il segretario dell’Anm Casciaro, ieri, ha negato con sdegno l’accusa di “fare politica con l’opposizione” rivolta dalle “fonti” di Chigi a una parte della magistratura, ma nel farlo ho trovato modo di dire più forte e più chiaro di quanto solitamente accada che “spetta solo alle forze politiche legittimare dal consenso popolare decidere quali siano le riforme più appropriate”. È un riconoscimento ovvio sul piano costituzionale, molto meno su quello politico: basti ricordare la reazione del potere togato ad altre leggi pur a loro volta decise da partiti legittimati dal voto popolare a decidere. Dietro i toni necessariamente bellicosi, è un’offerta se non di pace certo di tregua. Tutto lascia pensare che il governo, o almeno chi lo guida, sia dello stesso avviso. La separazione delle carriere non è obiettivo al quale si possa ufficialmente rinunciare: continuerà a essere confermata come obiettivo principe della riforma della giustizia. In compenso lo si può indirizzare su un binario morto ed è precisamente quello che si sta verificando. Da giorni gli esponenti soprattutto di FdI ripetono che la separazione arriverà, ma solo come ultima tappa della riforma. Al ministero non è stato mosso un dito per avviare la parte più importante del programma della destra in materia di giustizia e anche negli ultimi tempestosi giorni non è stato accelerati nulla. La giustificazione della tempistica è interessante: trattandosi di riforma costituzionale, a differenza di tutte le altre voci in programma sulla giustizia, conviene farla a fine legislatura. Logica suggerirebbe conclusioni opposte: trattando di una legge che richiederà un paio d’anni per essere varata converrebbe partire subito, come del resto la presidente ha deciso di fare per l’altra riforma costituzionale nel paniere, quella a cui tiene davvero, il premierato. Inoltre non si capisce bene perché per la maggioranza sarebbe conveniente piazzare una riforma destinata a incendiare il dibattito e a spaccare il Paese proprio a ridosso delle elezioni, invece che con un anticipo largo abbastanza da permettere all’opinione pubblica di digerire una riforma che sarebbe comunque traumatica. Il rinvio dice in realtà una cosa chiara: che per ora il governo non ha alcuna intenzione di fare il solo passo che nello scontro con la magistratura sarebbe senza ritorno. La riforma della discordia sarà tenuta in sospeso: preziosa come strumento di minaccia e ricatto, sempre pronta a essere messa in campo se la premier riterrà, a torto o a ragione, di avere a che fare con una magistratura decisa a farla cadere, ma altrimenti destinata a restare nel congelatore fino a che non sarà troppo tardi per tirarla fuori dalla ghiacciaia. È vero che Fi potrebbe insistere, essendo quello il bastione che spettava agli azzurri nella ripartizione degli obiettivi della vigilia, ma è anche vero che a tenerci era soprattutto il gran capo, nel frattempo venuto meno. Una volta messa da parte la sola vera partita che la magistratura consideri questione di vita o di morte abbassare i toni non sarà difficile. Lo scontro proseguirà perché il potere togato è in realtà furioso per l’abolizione dell’abuso di ufficio e le altre misure in questo momento al vaglio del Quirinale, ma basterà che la politica, per bocca della premier, riconosca al potere togato le sue prerogative, come ieri l’Anm ha fatto con quelle della politica, per riprendere le redini di una situazione che negli ultimi giorni ha rischiato di sfuggire invece a ogni controllo. Via Arenula conferma: “Percorsi separati tra giudici e pm? Nessun testo in vista” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 luglio 2023 Se da un lato il ministro degli Esteri Antonio Tajani ieri mattina in un’intervista al Messaggero ha ribadito “andremo avanti con la separazione delle carriere”, dal ministero della Giustizia ieri pomeriggio hanno risposto con un secco “no” alla nostra domanda se si stesse effettivamente elaborando la riforma. Se davvero così fosse, significherebbe che si sta lavorando ad una tregua con la magistratura dopo il ping pong di dichiarazioni degli ultimi giorni tra “fonti ministeriali” anonime e comunicati ufficiali dell’Anm. O meglio due documenti proposti da Magistratura democratica e da Luca Poniz approvati all’unanimità dal parlamentino delle toghe, quindi anche dagli esponenti di Magistratura indipendente che era rimasta silente negli ultimi giorni, forse in preda ad un certo imbarazzo perché divisa tra la difesa dei principi dell’autonomia e indipendenza della categoria e la presenza di suoi esponenti nei vertici degli uffici di via Arenula. Dunque il fine settimana e la polemica contro il governo ha ricompattato la magistratura intorno alla difesa del suo diritto/ dovere di intervenire nel dibattito, dopo la spaccatura creatasi in Csm nel giorno della votazione del nuovo procuratore di Firenze. In attesa di una eventuale presa di posizione chiara sia della premier Giorgia Meloni che del Guardasigilli Carlo Nordio, la febbre dello scontro ancora non è scesa. Ieri mattina il dibattito è proseguito a distanza tra i vari organi di informazione. Dai microfoni di Radio Anch’io è intervenuto il segretario dell’Anm Salvatore Casciaro: “L’Anm forse sarà parsa dura nei contenuti ma si trattava di affermare determinati principi: c’è giudice che fa il suo lavoro con coscienza, si occupa di un fascicolo che casualmente riguarda un politico e assume una determinata decisione. Poi filtra una nota di Palazzo Chigi e di via Arenula che parla di magistrati che scendono in campo e svolgono azione politica a fianco dell’opposizione, è un falso che mina la fiducia dei cittadini nella magistratura. L’essenza del lavoro del magistrato è la terzietà e l’imparzialità: dire ai massimi livelli istituzionali che queste qualità nel lavoro dei giudici mancano, indistintamente - ha sottolineato - significa delegittimare una istituzione dello Stato e non fare un buon servizio ai cittadini”. Ha poi concluso: “Viviamo stagioni di riforme permanenti, da un paio d’anni sono stati toccati un po’ tutti i settori del diritto su cui i magistrati hanno espresso le loro posizioni, a volte anche contrarie, questo è fisiologia. Non bisogna scambiare quelle che sono critiche argomentate, basate su elementi seri, per opposizione e per messa in discussione di quella che è un’ovvietà, che spetta alle forze politiche, legittimate dal consenso popolare, decidere le riforme che ritengono più appropriate”. Poco dopo a L’Aria che tira su La7 era intervenuto Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia al Senato: “In nessun Paese accade che il legislatore, nel momento in cui si occupa di giustizia, debba necessariamente trovare il consenso dell’Associazione nazionale magistrati. Questa, nel quadro internazionale, è un’anomalia tutta italiana. Detto ciò, credo che ora si debba cercare di stemperare i toni ed evitare gli estremismi, da una parte e dall’altra”. Poi nel pomeriggio è stata la volta del presidente Anm Giuseppe Santalucia, ospite di Timeline su Sky Tg 24: “Si tratta di accuse totalmente infondate. Cosa significa che una fascia di magistrati faccia politica? È un’accusa da cui è difficile difendersi, è tanto generica quanto anonima. Come reagire se non negando in radice ogni accusa? Non è assolutamente vero, e abbiamo precisato che se si accusano magistrati di fare politica, di schierarsi per una parte contro l’altra, si nega a quei magistrati di essere magistrati. Il nucleo centrale della funzione giudiziaria è la sua imparzialità e terzietà”. E ha concluso: “Come si fa a dire che abbiamo iniziato uno scontro? Ci siamo ritrovati attoniti davanti a queste accuse e abbiamo sentito il bisogno di chiarire i fatti per come sono. Non c’è nessuno schieramento da parte di nessun magistrato. Se si pensa che un processo, solo perché riguarda una persona che riveste un incarico politico, diventi un processo politico si dà un messaggio sbagliato, questo andava chiarito”. Ddl Nordio: altro che riforma da fare al più presto, il governo ne ha ritardato la partenza di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 11 luglio 2023 Tutti guardano al Quirinale, ma il ritardo è integralmente responsabilità del governo, più precisamente del ministero. “Spero che possa essere approvato il più presto possibile”, diceva Carlo Nordio del suo disegno di legge quando, dopo averlo annunciato per mesi, riuscì finalmente a farlo approvare dal Consiglio dei ministri. Solo che da allora sono passate tre settimane e mezzo e il disegno di legge neanche è arrivato in parlamento. Altro che “il più presto possibile”. La riforma non è nemmeno partita. Tutti guardano al Quirinale, dove il testo è in attesa della firma del Capo dello stato al quale spetta, come prevede l’articolo 87 della Costituzione, di autorizzare la trasmissione del disegno di legge alle camere. Il ritardo però non è ascrivibile ai dubbi del Colle. È vero, Mattarella è appena tornato dall’America latina, ma com’è ovvio i suoi uffici avrebbero (e hanno) potuto studiare a dovere il testo nel frattempo. Il ritardo è integralmente responsabilità del governo, più precisamente del ministero. Al testo annunciato ormai quasi un mese fa, mancava infatti la copertura economica. Perché per rendere appena un po’ credibile la novità della competenza collegiale sugli arresti cautelari, Nordio aveva dovuto all’ultima curva prevedere l’assunzione di nuovi giudici. Giudici di primo grado, non solo gip, e nel numero limitato di 250 che sulla base dei calcoli fatti dall’Anm non saranno neanche lontanamente sufficienti a coprire l’aggravio di funzioni. Anche perché il rischio che le incompatibilità moltiplicate per tre che la novità comporta finiscano con il bloccare il lavoro dei tribunali non è equamente distribuito. È massimo, anzi è una certezza, nei tribunali medi e piccoli. Dunque Nordio ha dovuto infilare una previsione di spesa nel disegno di legge, perché si tratta di assumere in organico 250 nuovi magistrati, ma la Ragioneria dello stato ha trovato da ridire sulle coperture economiche che erano state indicate nella relazione tecnica. Da qui la lunga attesa di un testo da porte mandare al Quirinale. Che fa giustizia della presunta volontà riformatrice e dell’auspicio di “fare presto”. Ma anche fosse discussa velocemente, questa non è certo la riforma della giustizia della quale la destra al governo può vantarsi. Si tratta infatti di un intervento limitatissimo, come ha riconosciuto proprio il ministro quando tre settimane e mezzo fa ha fatto il suo annuncio intempestivo. “Una radicale trasformazione del sistema postula una revisione del codice di procedura penale”, disse allora. E della Costituzione per la separazione delle carriere. Ma nemmeno si parte. Pecorella: “Tra politica e magistratura un conflitto che fa tremare il sistema” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 11 luglio 2023 L’avvocato Gaetano Pecorella è convinto che gli attuali conflitti interni tra i poteri dello Stato stiano portando ad “un indebolimento di tutto il sistema”. “Se la politica e la magistratura - dice al Dubbio - non si rendono conto in tempo di questa situazione, torneremo ad avere un governo indebolito, come ai tempi di “mani pulite”, con la scomparsa dei partiti. Cerchiamo di avere un Paese moderno, con i magistrati che fanno i magistrati e i politici che fanno i politici”. Avvocato Pecorella, stiamo assistendo ad un nuovo scontro tra magistratura e governo. Quali conseguenze si potrebbero avere? Probabilmente questo scontro porta ad una delegittimazione sia della magistratura che del governo. Quando due poteri dello Stato, che hanno una responsabilità primaria, si scontrano, si attribuiscono difetti, manchevolezze e un atteggiamento contrario al loro ruolo istituzionale, è difficile che il Paese possa conservare la fiducia tanto nel governo quanto nella magistratura. Le due istituzioni rischiano entrambe di perdere il consenso dei cittadini. La situazione, rispetto ai tempi di Silvio Berlusconi, è molto diversa. Lo schema è mutato e la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, non ha bisogno di “leggi ad personam”. Cosa ne pensa? La presidente Meloni in questa fase non viene toccata da nessuna iniziativa giudiziaria. Va detto, al tempo stesso, che viene indirettamente indebolita dal fatto che i suoi collaboratori appaiono, in un modo o nell’altro, come responsabili o toccati da vicino da vicende giudiziarie. L’apparato che le deve fare da contorno e deve essere operativo perde però ogni credibilità. Una situazione del genere si è avuta anche ai tempi di Silvio Berlusconi con perquisizioni e altre iniziative che non riguardarono soltanto lui, ma anche collaboratori che gli stavano vicino. Questa situazione si è verificata in anni lontani con una magistratura che aveva preso il potere nei confronti di una politica indebolita e privata di capacità di governo. Oggi la politica cerca di recuperare gli spazi e di ridurre i poteri eccessivi della magistratura. Quest’ultima reagisce. La conseguenza è che siamo di fronte ad una vero e proprio conflitto di poteri. A proposito del conflitto di cui lei parla, in passato erano gli esponenti degli esecutivi o più in generale delle istituzioni che si lamentavano di certe iniziative della magistratura. Oggi, invece, è la magistratura che afferma di essere delegittimata e denuncia una serie di attacchi. È un segno dei tempi? Direi di sì, perché oggi abbiamo un ministro della Giustizia molto esperto. I suoi colleghi non possono negare che Carlo Nordio sia stato un magistrato di primo piano. Non è stato mai criticato ed è stato molto credibile durante la sua lunga carriera. Il potere politico, da un punto di vista della credibilità, è molto più forte di prima, rispetto a quando c’erano ottimi ministri della Giustizia, ma che non avevano un passato da esperti del diritto. In questa situazione il potere politico si può permettere di avanzare delle proposte di legge, che, peraltro, non sono, come si diceva in passato, ad personam. Forse, qualcuna si avvicina, ma in generale sono semplicemente proposte di legge che tendono a smorzare o a controllare i poteri che avevano i magistrati. Vorrei fare a tal proposito alcuni esempi... Prego, dica pure… La cancellazione del reato di abuso d’ufficio crea tanta agitazione all’interno della magistratura. Non stiamo parlando di una modifica che riguarda qualche politico direttamente implicato in processi. Si tratta di una riforma che dovrebbe essere discussa solo tecnicamente. L’abuso d’ufficio è servito il più delle volte per intromettersi nelle attività della pubblica amministrazione da parte dei magistrati ed è servito anche per entrare nelle attività della Pa alla ricerca di reati ben più gravi. Una sorta di chiave utile per aprire le porte della pubblica amministrazione e trovare altri reati, come la corruzione. Si riducono quindi i poteri della magistratura. La stessa cosa si può dire per le intercettazioni telefoniche, che non vengono colpite come strumento di inchiesta. Vengono colpite invece le intercettazioni come strumento di degradazione sociale, che sono state in questo senso la vera forza della magistratura nel periodo di “mani pulite” per perseguire tanti politici. Anche in questo senso i magistrati vedono ridotti alcuni loro poteri. Le riforme in cantiere sono quindi la novità di questo periodo. La premier apparentemente sembra inattaccabile. Le sue riforme hanno una base liberale e garantista. Andrà avanti senza fermarsi? Credo di sì. Se Giorgia Meloni non dimostra di essere determinata nel realizzare le riforme, alla fine farà i conti con un doppio risultato negativo. Da un lato la magistratura risulterà vincente sul potere politico e nessuno oserebbe proporre più riforme non gradite ai magistrati. Dall’altro lato perderebbe credibilità politica, dato che ha annunciato delle riforme che di fronte alla presa di posizione della magistratura apparirebbe come colei che ha ritirato la mano dopo aver lanciato il sasso. Penso che Meloni debba andare avanti e realizzare le riforme indicate nel programma elettorale, a partire dalla separazione delle carriere. Deve evitare il rischio di essere la leader del partito delle parole, delle promesse e degli impegni non presi. Fratelli d’Italia sembra sotto assedio. Le indagini che stanno colpendo il partito più importante della coalizione di governo, con i casi Santanchè, Delmastro e La Russa avranno ripercussioni sull’esecutivo? Mi sono molto meravigliato quando ci si è scandalizzati a proposito della vicenda del sottosegretario Delmastro con il gip che ha chiesto al pubblico ministero l’imputazione coatta. Mi sono anche meravigliato per la presa di posizione del ministro della Giustizia, il quale ha parlato di una norma che va cancellata. L’imputazione coatta è un obbligo costituzionale. Essendo l’azione penale obbligatoria, ci vuole un giudice che stabilisca se il pubblico ministero ha esercitato bene l’azione penale e se effettivamente, pur essendo obbligatoria, può essere abbandonata in quanto manca qualunque elemento per fare le indagini. Quando esplodono certe polemiche, emergono anche delle prese di posizione singolari. La cosa migliore è non polemizzare e prestare il fianco a continue strumentalizzazioni. Se vi è un piano delle riforme, lo si attui. Strutture degradanti e sovraffollamento: ecco le carceri nel Lazio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 luglio 2023 Scarsità di luce in ambienti chiusi, locali fatiscenti e mancanza di acqua calda nelle camere, precarietà degli impianti di areazione e aree sociali insufficienti rispetto al numero dei detenuti presenti. Come emerge dalla relazione annuale presentata venerdì scorso dal Garante delle persone private della libertà della regione Lazio, Stefano Anastasìa, le condizioni strutturali delle carceri nel Lazio sono una delle principali criticità del sistema penitenziario italiano. La mancanza di spazi adeguati per le visite familiari, campi sportivi e palestre scarsamente attrezzate o inutilizzabili rappresentano aspetti che possono gravemente influenzare la vita di coloro che scontano una pena detentiva in uno dei 14 istituti penitenziari o nell’unico istituto penale minorile presenti nella regione. Nonostante il Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario preveda diverse prescrizioni per migliorare le condizioni di vita negli istituti penitenziari, molte di queste non vengono ancora rispettate o sono solo parzialmente applicate. Ad esempio, le docce nelle camere detentive, i servizi igienici separati dalle aree di pernottamento e le mense come spazi di socialità sono ancora una chimera in molti penitenziari. Nonostante siano stati effettuati interventi di manutenzione straordinaria nelle carceri del Lazio negli ultimi anni, molti istituti penitenziari presentano importanti problemi strutturali. Alcuni istituti situati al di fuori dei centri abitati generano un senso di estraneità rispetto alla vita cittadina e alla comunità locale. Tuttavia, anche quelli all’interno dei centri abitati, come Regina Coeli, Cassino e Latina, presentano gravi problematiche dovute alla mancanza di spazi e alle condizioni di detenzione. Ma come emerge sempre dalla relazione annuale, la vetustà delle strutture non è l’unico problema degli istituti penitenziari regionali. Ad esempio, il carcere di Cassino, costruito negli anni 50, ha dovuto chiudere un’intera area nel 2019 a causa di gravi problemi strutturali, generando un sovraffollamento nella sezione rimasta aperta per i detenuti comuni. Questa situazione ha causato l’inagibilità di un’intera sezione, rendendo impossibile l’utilizzo del campo sportivo e della palestra presenti nel penitenziario. È evidente che questa situazione ha un impatto negativo sul benessere psicofisico dei detenuti a Cassino. Spesso i detenuti segnalano la presenza di infissi usurati e in cattivo stato, che diventano un problema durante l’inverno. La situazione si verifica, ad esempio, negli istituti di Latina, nella sezione precauzionale della Casa circondariale di Viterbo, nella Casa di reclusione di Rebibbia, nelle Cc Regina Coeli e di Rebibbia Femminile. La criticità più grave è legata alla precarietà del riscaldamento nelle celle, con impianti insufficienti, obsoleti o malfunzionanti, che generano frequenti lamentele da parte dei detenuti. Alcuni istituti penitenziari, come Cassino, Frosinone e Viterbo, situati in determinate posizioni geografiche, subiscono un forte disagio e un peggioramento effettivo delle condizioni di vita a causa di queste problematiche strutturali. Nella maggior parte degli istituti penitenziari regionali mancano le docce nelle stanze detentive, ad eccezione di alcune strutture. Molti spazi doccia presentano condizioni precarie, con problemi di fornitura, areazione e umidità. Inoltre, l’acqua calda spesso non è sufficiente per tutti i detenuti e il numero di docce risulta insufficiente e spesso non funzionante, a causa della mancanza di interventi di manutenzione. Per quanto riguarda i servizi igienici, sono ubicati all’interno delle stanze detentive, separati dagli spazi di pernottamento secondo la normativa, ad eccezione di alcune sezioni che non rispettano questa disposizione. Frequenti sono le segnalazioni di perdite, infiltrazioni e altri problemi dovuti alla scarsa manutenzione, che vengono affrontati solo quando si verificano problemi più gravi. Sempre dalla relazione del garante Anastasìa, emerge che le condizioni degli spazi per le relazioni familiari all’interno dei penitenziari nel Lazio sono una questione particolarmente rilevante. Molte strutture non dispongono di spazi idonei e riservati all’accoglienza e all’attesa dei familiari durante le visite ai propri cari detenuti. Ad esempio, la Casa Circondariale Regina Coeli, insieme a quella di Rebibbia Nuovo Complesso, registra il maggior numero di ingressi e presenze nella regione. Tuttavia, la struttura dispone di una sala d’attesa troppo piccola e inadeguata per accogliere il gran numero di familiari che quotidianamente si recano in visita. Nel carcere di Cassino, invece, non esiste una sala d’attesa all’interno dell’istituto e i familiari che non trovano posto nella piccola struttura esterna allestita dalla Caritas devono aspettare il proprio turno all’esterno, sotto una piccola pensilina che li ripara dal freddo, dal sole e dalla pioggia. Situazioni simili si verificano anche a Frosinone e presso la Casa di Reclusione di Rebibbia, dove i familiari dispongono solo di uno spazio aperto, eventualmente attrezzato con una tettoia di protezione. È importante evidenziare che grazie alla Legge Regionale 7/ 2007 è stata prevista la realizzazione dell’Area verde, l’acquisto e l’allestimento di appositi arredi per accogliere i familiari all’interno degli istituti penitenziari. Un caso significativo ed emblematico è quello della Casa di Reclusione di Paliano, dove, a causa dell’assenza di un’area specifica all’interno dell’istituto, i colloqui si svolgono in un prefabbricato metallico situato nella cinta esterna del penitenziario. Inoltre, la presenza di spazi dedicati alle relazioni affettive e familiari, come le ludoteche, non è comune a tutti gli istituti penitenziari. Alcune strutture, come le Case Circondariali di Viterbo, Rebibbia Nuovo Complesso, Frosinone e Civitavecchia dispongono di ludoteche, mentre ne sono sprovviste quelle di Cassino e Latina. Altro aspetto, di prima importanza, che emerge dalla relazione annuale, è che il Lazio si posiziona come la quarta regione italiana per numero di detenuti, con un affollamento che supera la media nazionale. A fine 2022 le persone detenute nei 14 istituti penitenziari per adulti della regione erano 5.933. La capienza regolamentare complessiva degli istituti penitenziari della regione era di 5.217 posti, con un tasso di affollamento conseguente pari al 114 per cento, leggermente superiore alla media nazionale del 109 per cento. Tuttavia, se si considera il numero di posti effettivamente disponibili sulla base di quanto rilevabile dalle schede di trasparenza sui singoli istituti del ministero della Giustizia, che - a fine 2022 erano 4.745, il tasso di affollamento raggiunge il 125 per cento, con punte che superano il 150 per cento a Latina, Civitavecchia e Regina Coeli. Circa il 15% delle persone detenute è in attesa di primo giudizio, mentre il 70% ha una condanna definitiva. È interessante notare che nel Lazio l’incidenza di persone condannate per reati meno gravi è più alta rispetto al resto del Paese. Il Garante Anastasìa, durante la presentazione, ha sottolineato che dobbiamo rifiutare il sovraffollamento come una condizione naturale dell’esecuzione della pena detentiva. È necessario scegliere tra un sistema carcerario riservato ai reati gravi e conforme alla Costituzione, e un sistema che sembri un ospizio per i poveri. Per questo motivo bisogna resistere alla tentazione di utilizzare il carcere per ogni cosa e puntare invece sulle misure alternative. Il ritardo del Lazio nelle alternative alla detenzione di Stefano Anastasìa garantedetenutilazio.it, 11 luglio 2023 In cima alle preoccupazioni dei detenuti, prima ancora delle classiche domande sull’assistenza sanitaria e sui trasferimenti, c’è la speranza della libertà, o almeno di un suo parziale recupero, nelle forme delle misure alternative alla detenzione. E ne hanno ben donde. Secondo i dati forniti dall’Ufficio interdistrettuale per l’esecuzione penale esterna competente per le Regioni Lazio, Abruzzo e Molise, al 31 maggio 2023 erano in esecuzione, nel territorio regionale, 4.624 misure penali non detentive, distinte tra 2.497 tradizionali misure alternative alla detenzione (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà) dal carcere o dalla libertà, a fine pena o per pene minori, 321 misure di sicurezza (libertà vigilata), 290 sanzioni di comunità (lavori di pubblica utilità previsti dal codice della strada e dalla legislazione sugli stupefacenti), 2 sanzioni sostitutive (libertà controllata) e 1.514 misure di comunità (messa alla prova processuale). Raffrontando i dati regionali con quelli nazionali emergono alcune significative differenze che meritano di essere evidenziate. Il complesso delle misure penali non detentive (ivi comprese quelle processuali della messa alla prova) a livello nazionale raggiunge la ragguardevole cifra di 81.108, a fronte di 57.230 detenuti. Le misure penali esterne costituiscono dunque il 59% delle misure penali in esecuzione, a testimonianza di una inversione di tendenza secondo cui la pena detentiva è diventata “minoritaria” nel campo dell’esecuzione penale (anche se, purtroppo, non attraverso la sua riduzione quantitativa, ma per la enorme crescita delle misure esterne). Nel Lazio, invece, essendo in pari data 6.068 le persone detenute, le misure penali esterne costituivano il 43% del totale delle misure penali in esecuzione. Se al complesso delle misure penali esterne sottraiamo quelle di messa alla prova processuale, e tra i detenuti consideriamo solo quelli in esecuzione di una pena ormai definitivamente inflitta, il confronto conferma (al ribasso) le differenze: in Italia il 57% dei condannati in via definitiva è in esecuzione penale esterna, mentre nel Lazio solo il 41,28% dei condannati è in alternativa al carcere. Certamente nel raffronto con la media nazionale pesa il contesto territoriale, le opportunità (abitative, occupazionali, di volontariato) che regioni più ricche offrono al reinserimento dei detenuti o alle alternative sin dall’inizio dell’esecuzione della pena, ma questo non esime gli attori istituzionali locali dalle proprie responsabilità: la Regione e gli Enti locali da una efficace programmazione dei servizi sociali e di inclusione a beneficio delle persone condannate, l’Amministrazione penitenziaria e gli uffici dell’esecuzione penale esterna da una sollecita definizione dei programmi trattamentali per l’esecuzione penale esterna, la magistratura di sorveglianza da una interpretazione della legislazione ispirata al principio del carcere come extrema ratio, e quindi delle misure penali di comunità come prima scelta, dalla libertà così come alla fine della pena. Ogni pena che si conclude in carcere - con il sacco dell’immondizia condominiale che i detenuti si portano dietro, varcandone il portone a fine pena - è una sconfitta dello Stato, di tutte le istituzioni che non sono state capaci di costruire efficaci percorsi di reinserimento sociale, mettendo in conto la probabile recidiva che ne verrà. Ricordiamocene. Campania. Due detenuti morti in 24 ore. Il Garante: “Si continua a morire in carcere di carcere” napolitoday.it, 11 luglio 2023 Si tratta di un napoletano spentosi a Benevento e di un algerino morto a Poggioreale. Avevano rispettivamente 51 e 24 anni. Un detenuto napoletano si è spento nel carcere di Benevento. Aveva 51 anni. Secondo una prima ricostruzione, dopo pranzo l’uomo avrebbe accusato un malore che non gli ha dato scampo. Dopo il sopralluogo della pm Chiara Maria Marcaccio e del medico legale Umberto De Gennaro, la salma è stata trasportata presso l’obitorio dell’ospedale San Pio dove verrà sottoposta a esame autoptico. Un decesso in carcere era avvenuto soltanto lo scorso sabato, quando Saihia Tarak, 24enne algerino, si era spento a Poggioreale. Anche la sua salma è stata portata in ospedale - nel suo caso al Policlinico di Napoli - per l’autopsia atta a verificare le cause del decesso. “Si continua a morire in carcere e di carcere”, ha commentato Samuele Ciambriello, garante dei detenuti in Campania. Alessandria. “Idee in fuga”, la coop che dà lavoro ai detenuti dentro e fuori il carcere di Alessandro Zoppo leonardo.it, 11 luglio 2023 Il buono che viene da dentro: è il claim di Idee in fuga, la cooperativa sociale nata nel 2020 all’interno degli istituti di pena Cantiello e Gaeta e San Michele di Alessandria con l’obiettivo di creare lavoro per i detenuti, dentro e fuori le mura del carcere. Inclusione, sostenibilità e sensibilizzazione sono i princìpi di Idee in fuga. La coop nasce dalla volontà di fornire un nuovo modello di economia carceraria, attenta soprattutto al reinserimento degli ex reclusi a fine pena. Come Idee in fuga cambia l’economia carceraria - Secondo i numeri riportati da diversi studi e pubblicazioni scientifiche, tre detenuti su quattro commettono reati e ritornano in carcere una volta usciti di prigione. Per Idee in fuga fornire opportunità di formazione e lavoro all’interno della casa circondariale “è il modo migliore per attivare un vero processo di cambiamento”. Le attività della cooperativa si concentrano tra Alessandria e la sua provincia. I progetti sono tanti. Fuga di sapori - Fragranze di reato è il marchio con cui vengono venduti i cibi realizzati sia internamente che esternamente alla casa di detenzione. La cooperativa ha promosso anche una serie di collaborazioni con piccoli produttori per valorizzare le materie prime lavorate in diverse carceri italiane. La Sbirra, ovvero la birra prodotta con il luppolo coltivato ad Alessandria e gli agrumi della casa circondariale di Siracusa, finanzia il progetto di falegnameria sociale dentro e fuori il carcere. La Skizzata, fatta con la camomilla dell’istituto femminile di Pozzuoli, supporta progetti per contrastare la violenza sulle donne. Tutti gli altri prodotti - il miele Ora d’arnia, i taralli Maresciallo, il panettone Maskalzone, la crema di pistacchio Brigantella, le Sbarrette di cioccolato, l’uovo di Pasqua Pasqualotto, le confetture Formichine - sono venduti alla bottega solidale aperta dalla cooperativa in Corso Roma 52 ad Alessandria. Dal 2011, attivato all’interno del carcere grazie ad una campagna di crowdfunding, c’è il progetto di agricoltura sociale HOPe - Luppoleto Galeotto, un luppoleto su una superficie di 400 metri quadrati e 300 piante di luppolo italiano. Dai frutti del raccolto si ricavano i luppoli necessari a produrre le birre agricole e sociali di Fuga di sapori, vendute alla bottega o attraverso l’e-commerce della cooperativa. Il lavoro nel carcere di Alessandria - SocialWood è il progetto di falegnameria sociale nato per promuovere il lavoro al Cantiello e Gaeta. Il laboratorio artigianale coinvolge i detenuti “con l’obiettivo di restituire loro dignità e autonomia, facilitando forme di integrazione sociale”. I lavoratori realizzano mobili e packaging utilizzando principalmente legno di scarto. Nel 2020 è stata aperta anche una falegnameria esterna al carcere, per garantire le attività fuori dalle mura e offrire continuità lavorativa dopo la scarcerazione. Idee in fuga collabora con altre importanti realtà locali piemontesi come Betel, l’associazione nata attorno alla parrocchia di Sant’Alessandro per aiutare gli anziani, accogliere i migranti in difficoltà, fornire ospitalità e generi di prima necessità ai bisognosi. Uno dei progetti è proprio Casa Betel, un appartamento a spese zero, completamente arredato e confo Parma. Inaugura il Polo universitario penitenziario, luogo di dialogo fra carcere e città di Arianna Belloli La Repubblica, 11 luglio 2023 Inaugurato al civico 5 di vicolo dei Mulini la sede del Polo universitario penitenziario di Parma, nato dall’esigenza di portare all’esterno del carcere l’esperienza avviata nel penitenziario di via Burla e la conoscenza che la condizione detentiva può sviluppare. Un luogo culturale e di co-produzione. Hanno partecipato il prorettore vicario Paolo Martelli, assessori della Giunta comunale e la delegata del rettore ai Rapporti tra università e carcere Vincenza Pellegrino, e, per l’associazione Anellodebole, Vincenzo Picone. Presentati i materiali prodotti nei laboratori di sociologia culturale che si svolgono in carcere e presentato il numero zero della rivista Cerchioscritti, una newsletter realizzata insieme da studenti detenuti e non detenuti. Porto Azzurro (Li). Il valore della scuola e del coltivare cultura in carcere di Licia Baldi elbareport.it Anche nella Casa di Reclusione di Porto Azzurro si sono conclusi gli esami di maturità con sei diplomati dell’Istituto di Agraria, di cui uno con il massimo punteggio. Traguardo meritato e importante. In precedenza altri quattro studenti detenuti si sono cimentati con esito positivo negli esami di licenza di scuola media, riportando soddisfazione personale e anche dei docenti che li hanno seguiti per l’intero anno scolastico e che hanno espresso compiacimento per il loro impegno costante e per il comportamento sempre rispettoso e attento durante le lezioni. Altri quindici detenuti hanno ottenuto il certificato di competenza linguistica comunicativa in italiano, mentre diversi stranieri hanno frequentato i corsi di alfabetizzazione. Un capitolo a parte merita il Progetto UniversAzzurro, destinato agli studenti universitari in carcere a Porto Azzurro. Realizzato dall’Associazione di volontariato “Dialogo” fin dal 2005 il Progetto segue e assiste i detenuti che si iscrivono a facoltà universitarie. Al momento sono nove gli iscritti, prevalentemente all’ Ateneo di Pisa e di Siena mentre in passato era Firenze la principale sede universitaria di riferimento. Le facoltà sono quelle compatibili con i limiti della detenzione, Quindi facoltà umanistiche, giuridiche, che non comportino l’uso di laboratori. In questi anni si sono celebrate cinque lauree; un successo per tutto l’istituto. L’ istruzione è uno dei pilastri fondamentali, insieme con il lavoro, per dare un senso alla carcerazione e contribuire a quello che la Costituzione definisce il fine rieducativo e di possibile reinserimento sociale della pena. Forte di questa convinzione e confortata dalla lunga esperienza e da molte testimonianze di detenuti che hanno frequentato la scuola in carcere, l’Associazione “Dialogo”, da circa trenta anni attiva nella Casa di Reclusione di Porto Azzurro, ha da sempre privilegiato fra le attività inframurarie quelle culturali, nelle varie articolazioni, la scuola in primis, quindi la biblioteca, il teatro, un corso di storia delle religioni, la musica, cicli di conferenze. E’ purtroppo evidente quest’anno un notevole decremento del numero degli studenti, se paragonato anche a un passato recente. Questa minore incidenza dell’impegno scolastico nel carcere longonese merita un’analisi che comporta vari punti di osservazione. E’ certo che questo carcere, come da varie fonti è stato denunciato, sta vivendo una situazione difficile e precaria, specie per la carenza di importanti ed essenziali figure istituzionali, dalla Direzione alla Polizia penitenziaria e all’Area educativa, senza dimenticare la Sanità e la mancanza di uno psicologo. L’atmosfera che si respira non è stimolante. Inoltre la stragrande maggioranza di detenuti stranieri e di persone con brevi pene (più adatte a un circondariale che a una Reclusione) rende più ardua una programmazione, come quella scolastica, che richiede tempi non brevi. Noi volontari lanciamo un appello perché, lavorando insieme con i docenti e in particolare con l’Area trattamentale, si riesca a rilanciare il ruolo della scuola nel prossimo anno, con offerte atte ad affrancare le persone detenute dal grigiore e dai tempi morti del carcere. Credo fermamente ancora oggi valida l’affermazione del Socrate platonico che recita così: “L’ignoranza è la peggiore delle schiavitù”. Cerchiamo quindi per le persone recluse una strada verso la libertà attraverso la conoscenza, senza dimenticare anche che, a detta del compianto giudice Antonino Caponnetto, magistrato siciliano antimafia, “L’istruzione taglia le gambe alla criminalità organizzata”. E forse è un forte sostegno (a mio parere il migliore) a garantire la sicurezza in carcere. La désinformation scuote i francesi di Alessio De Giorgi Il Riformista, 11 luglio 2023 Dopo gli scontri della scorsa settimana in molte città la destra nazionalista xenofoba ed antieuropea ringalluzzisce e soffia sul fuoco delle ronde. Descartes e Drosnay sono due paesini della Francia rurale, rispettivamente nella Loria e nella Marna. Entrambi avevano due belle chiese storiche col tetto di legno che sono bruciate nel weekend. Le cause sono da accertare, un fulmine pare, ma per i canali di destra su telegram, tiktok e snapchat non c’è dubbio che siano stati gli “emeutes”, le rivolte a portare l’incendio nelle due chiese, anche se non c’è traccia di scontri in due paesini di rispettivamente 3800 e 182 anime. I video delle chiese bruciate hanno fatto milioni di visualizzazioni in poche ore su alcuni social network ed i commenti erano ovviamente da brividi. Questo è solo uno dei mille esempi di quella disinformazione che sta scuotendo l’opinione pubblica francese dopo gli scontri della scorsa settimana in molte città e ringalluzzendo una destra nazionalista, esplicitamente xenofoba ed antieuropea, che soffia sul fuoco della mancata integrazione, che organizza ronde nelle città a protezione di cittadini e commercianti ed inneggia alla “resistenza etnica” contro l’”invasore”. Al loro cospetto, Marine Le Pen, leader del Rassemblement National, alleata a Bruxelles della Lega, pare moderata e ciò nonostante il suo movimento cresce eccome nei sondaggi, perché viene percepito come il più adatto a risolvere la situazione: ora è dato al 26%, primo partito, un anno fa era a 10 punti percentuali meno. La paura delle conseguenze di una progressiva polarizzazione della politica arriva perfino nelle stanze dell’antiterrorismo d’oltralpe, tant’è che il loro capo su Le Figarò sabato ha messo in guardia contro i pericoli di attentati sia dell’estrema sinistra (settimane fa il governo ha sciolto un gruppo ecoterrorista), sia dell’estrema destra. Degli scontri di piazza francesi non sono solo i cugini d’oltralpe ad averne approfittato. Vox, la formazione di destra estrema spagnola, che a differenza del movimento della Le Pen a Bruxelles siede nello stesso gruppo di Fratelli d’Italia, ha puntato più volte il dito contro la politica “permissivista” europea nei confronti dei migranti. Qui, a differenza della Spagna, la sua crescita pare fermata da un Partito Popolare ancora molto forte e primo nei sondaggi. Cosa decideranno gli spagnoli lo sapremo presto, perché il 23 luglio ci saranno le elezioni politiche, cosa decideranno i popolari dopo il voto non è dato saperlo: troveranno il modo di evitare l’alleanza con la destra estrema? L’imbarazzo dei popolari era del resto evidente dopo che Vox venerdì ha presentato il loro discusso programma elettorale. Qualche proposta? Rimpatrio immediato di qualunque persona senza permesso di soggiorno (poco importa se rifugiato o immigrato economico e poco importa se realizzabile o no, come in Italia sappiamo bene) ed una fortissima centralizzazione dello Stato, con uno stop a quelle autonomie regionali che hanno tenuto insieme il Paese per anni, nonostante le forti tensioni indipendentiste. Accanto a questo, nel programma c’è lo smantellamento di tutta quella Spagna post-franchista e moderna che conosciamo bene, dalla lotta alla violenza di genere (la legge voluta dal partito popolare, non dai socialisti, per intenderci) alle leggi su aborto ed eutanasia. Quanto all’Europa, Vox propone di sopprimere la giustizia europea: da bravi sovranisti, l’ultima parola deve spettare allo Stato. Paese che vai, destra che trovi. In Germania l’AfD - alleata della Le Pen e di Salvini - supera in alcuni sondaggi i socialdemocratici e anche qui soffia sulle questioni dell’immigrazione, trovando terreno fertile nei più poveri Länder dell’est, tanto da indurre il tedesco Manfred Weber, moderato e potente capo dei popolari a Bruxelles, a dichiarare domenica in un’intervista che loro non sono un avversario, ma addirittura il nemico. Ed allora ecco che un’idea sta prendendo piede a Bruxelles, in vista delle prossime elezioni europee. Un po’ gattopardiana ma che alla fine potrebbe funzionare. Staccare Giorgia Meloni dai suoi impresentabili alleati e portarla in maggioranza, magari senza iscriverla subito al Partito Popolare. Una sorta di appoggio esterno, così da mitigare un Partito Socialista che a Bruxelles spinge un po’ troppo a sinistra, specie sulle tematiche ambientali. Qualcuno la dà già per fatta, altri mettono in guardia dicendo di aspettare l’esito delle prossime elezioni in Spagna, Polonia e Olanda. Qatargate: e se il vero abuso fosse l’inchiesta della procura? di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 11 luglio 2023 Una trama occulta degli Emirati per diffamare il Qatar e una lista “fake” di lobbisti all’origine dello “scandalo”. La geopolitica del mondo arabo è materia assai complessa, in particolare quella della penisola arabica, segnata da fitte trame di interessi, conflitti incrociati e soprattutto alimentati dalle smisurate ambizioni delle petromonarchie e dell’altrettanto smisurata voglia di allargare la loro sfera di influenza. Guerre sotterranee combattute a colpi di miliardi di dollari attinti dalle inesauribili riserve dei fondi sovrani e con i metodi “sporchi” e spregiudicati dei servizi di intelligence. In questo grumo sta emergendo uno scenario che ha dell’incredibile, una manovra di killeraggio mediatico che, partendo dal Golfo è arrivata fino alle istituzioni e alle procure europee e che potrebbe aver partorito persino la celebre inchiesta del Qatargate. La vicenda è stata rivelata da alcune testate europee legate al Consorzio giornalistico Eic, dal belga Le Soir a Domani, passando per il sito investigativo francese Mediapart: dopo un lungo lavoro d’inchiesta hanno definito i contorni di una scellerata opera di diffamazione di massa. Tutto partirebbe dagli emirati Arabi e dalla loro violenta rivalità con i vicini del Qatar. E dire che lo scorso 19 giugno i due Paesi avevano riallacciato le relazioni diplomatiche dopo sette anni di gelo riaprendo le ambasciate nelle rispettive capitali. Un riavvicinamento tattico che non cancella la reciproca diffidenza, le manovre segrete e la volontà di disturbarsi, di ostacolarsi. All’epoca dei fatti gli 007 di Abu Dabi volevano colpire Doha, al cuore, azzopparne l’ ascesa e il credito di cui il potere qatariota gode nel vecchio continente. Lo fanno appoggiandosi a una società di intelligence privata svizzera, la Alp service, sita in Rue de Montchoisy a Ginevra con lo scopo di individuare lobbisti pro- Qatar, reali, potenziali ma soprattutto immaginari. Un lavoretto pagato circa sei milioni di euro. Il suo fondatore si chiama Mario Brero, “esperto di rapporti confidenziali”, di nazionalità italo- svizzera è un personaggio talmente equivoco e così poco preoccupato di nasconderlo al grande pubblico da risultare addirittura simpatico. Anche se i suoi “servizi” di simpatico hanno ben poco. Negli ultimi anni il nome di questo diffamatore seriale con la sua factory di hacker ed ex agenti di cybersicurezza poliglotta e la sua rete di contatti che vanno dall’Africa ai Balcani, dall’Europa occidentale all’Asia centrale passando per la Russia, è spuntato in decine di vicende dai contorni più o meno oscuri. Tra queste c’è il dossier “Abu Dabi Secrets” che sarebbe una lista di 160 persone e 80 organizzazioni accusati di sostenere la causa del movimento islamista egiziano Fratelli Musulmani, storicamente legato al Qatar accusato dai Emirati e dai sauditi di diffondere propaganda islamista tramite il noto network Al Jazira. Ma come emerso dall’inchiesta del Consorzio Eic le persone sono state citate spesso a caso, al di là di un filo logico o senza che avessero alcun legame, neanche alla lontana con Doha o con i militanti islamisti. Una opera di calunnia collettiva tanto feroce quanto rozza, all’immagine della biografia di Brero. Ci sono giornalisti, imam, professori universitari, ma anche personalità politiche di rilievo come la ministra dell’ambiente belga Zakia Khattabi indicata come vice presidente dell’Esecutivo dei musulmani del Belgio, carica che non ha mai occupato. “Sono notizie del tutto infondate e molto inquietanti”, è stato il suo commento. Chissà con quale spirito-Khattabi parteciperà alla conferenza COP 28 sui cambiamenti climatici che si terrà questo inverno proprio negli Emirati arabi, i principali responsabili del killeraggio mediatico. In ogni caso venerdì scorso l’ambasciatore di Abu Dabi a Bruxelles è stato convocato al ministero degli Esteri belga per chiarimenti. Nella lista compilata dagli spioni di Brero, guarda un po, figurano anche i nomi dei tre principali accusati del Qatargate: l’europarlamentare belga Marc Tarabella, l’ex vicepresidente dell’europarlamento Eva Kaili e l’ex sindacalista e lobbista Antonio Panzeri. E a questo punto una domanda sorge spontanea: come è possibile che le conclusioni a cui era giunta la procura di Bruxellese e l’allora titolare dell’inchiesta Michel Claise siano le stesse di Alp service, dell’intelligence emiratina e degli stessi servizi segreti di Bruxelles? Sembra quasi che gli 007, come dei burattinai, abbiano “apparecchiato” una sceneggiatura fantasy sul tavolo del procuratore Claise sicuri che il magistrato avrebbe fatto il lavoro al loro posto. E vai a vedere che, alla fine, l’unico reato del Qatargate non sarà il Qatargate stesso. Rapporto all’Onu sugli abusi inflitti in Israele ai minori palestinesi vita.it, 11 luglio 2023 Si chiama “Injustice” la nuova ricerca di Save The Children che, da oltre cent’anni, lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro. Viene pubblicata mentre il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, occupati dal 1967. Si stima che ogni anno ci siano tra i 500 e i 1.000 minori trattenuti nel sistema di detenzione militare israeliano. Save the Children lancia un accorato appello alla comunità internazionale in merito agli abusi fisici e psichici cui sono sottoposti i minori palestinesi nel sistema di detenzione militare israeliano. Quattro su cinque (esattamente l’86%) sono picchiati e il 69% è sottoposto a perquisizioni. Quasi la metà (42%) è ferita al momento dell’arresto, e tra le ferite ci sono quelle da arma da fuoco e fratture ossee. Alcuni ragazzi denunciano violenze di natura sessuale, altri vengono trasferiti in tribunale o in centri di detenzione in piccole gabbie. Lo rivela “Injustice”, una nuova ricerca dell’organizzazione che da oltre 100 anni lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro. Questo lavoro arriva mentre il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, occupati dal 1967, presenta al Consiglio per i diritti umani le prove sui minori palestinesi detenuti. Si stima che ogni anno ci siano tra i 500 e i 1.000 minori trattenuti nel sistema di detenzione militare israeliano. Save the Children afferma in una nota che “queste pratiche sono fonte notevole di preoccupazione per i diritti umani da lunga data e chiede al governo di Israele di porre fine alla detenzione dei minorenni palestinesi ai sensi della legge militare e al loro processo nei tribunali militari”. Save the Children e un’organizzazione partner hanno consultato 228 ex minori, detenuti da uno a 18 mesi in tutta la Cisgiordania, e hanno scoperto che la maggior parte di loro è stata picchiata, ammanettata e bendata durante l’arresto. Inoltre, sono stati interrogati in luoghi sconosciuti senza la presenza di qualcuno che se ne prendesse cura e spesso privati di cibo, acqua e sonno, o dell’accesso all’assistenza legale. Il principale crimine presunto per queste detenzioni è il lancio di pietre, che può comportare una condanna a 20 anni di carcere per i minori palestinesi. Khalil (nome di fantasia) è stato detenuto quando aveva 13 anni. Dichiara di non aver ricevuto assistenza sanitaria essenziale. “Ho avuto un infortunio alla gamba, avevo un gesso e ho dovuto gattonare per potermi muovere. Ho sentito il mio corpo lacerato. Non avevo bastoni per aiutarmi a camminare, ho continuato a chiedere aiuto ai soldati durante il trasferimento, ma nessuno mi ha aiutato”, è la sua denuncia. La nuova ricerca segue il rapporto 2020 di Save the Children “Defenceless” e rileva che l’impatto degli abusi fisici ed emotivi durante la detenzione è aumentato vertiginosamente, con profonde conseguenze sulla capacità di recupero dei bambini. “Un soldato ha minacciato di uccidermi quando mi ha arrestato per la seconda volta”, spiega ancora Khalil. “Mi ha chiesto: “Vuoi la stessa sorte di tuo cugino?”, perché era stato ucciso. Mi ha promesso che avrei avuto la stessa sorte e sarei morto, ma che prima mi avrebbe mandato in prigione. Mi ha detto che tornerà per me e ogni giorno aspetto che arrivi quel giorno”. Alcuni minori riferiscono di ritenere che diversi tipi di abuso avessero lo scopo di spingerli ad ammettere cose non vere per incriminare gli altri, compresi i membri della famiglia. Yasmeen è la madre di Ahmed (anche questi sono nomi di fantasia per proteggere l’anonimato). Suo figlio era detenuto quando aveva 14 anni. “Durante l’interrogatorio hanno convinto Ahmed a denunciare suo fratello in cambio del suo rilascio. Era ingenuo e non capiva cosa stesse succedendo. Ha detto quello che gli hanno detto di dire. Pochi giorni dopo, sono venuti a casa nostra e hanno arrestato l’altro mio figlio”. La nuova consultazione di Save the Children ha mostrato che durante l’arresto il 42% dei minori è rimasto ferito, riportando ferite da arma da fuoco e ossa rotte, e il 65% è stato arrestato durante la notte, per lo più tra mezzanotte e l’alba. La metà di tutti gli arresti è avvenuta in orfanotrofio. La maggior parte dei minori ha subito livelli spaventosi di abusi fisici ed emotivi, inclusi percosse (86%), minacce (70%) e colpi con bastoni o pistole (60%). Alcuni minori hanno denunciato violenze e abusi di natura sessuale, tra cui essere stati colpiti o toccati sui genitali e il 69% ha riferito di essere stato perquisito. Il 60% ha sperimentato l’isolamento per un periodo di tempo che varia da uno a 48 giorni. Ai minori è stato negato l’accesso ai servizi di base, il 70% ha dichiarato di aver sofferto la fame e il 68% ha dichiarato di non aver ricevuto alcuna assistenza sanitaria. Al 58% dei minori sono state negate le visite o la comunicazione con la propria famiglia durante la detenzione. La maggior parte dei minori detenuti è di genere maschile, i ragazzi rappresentano il 97% degli intervistati. I minori sono sempre più incapaci di tornare completamente alla loro vita normale dopo essere stati rilasciati dalla detenzione, è aumentato dal 39% al 53% il numero di coloro che hanno frequenti incubi e dal 47% al 73% di coloro che soffrono di insonnia o hanno difficoltà a dormire, rispetto agli intervistati nel 2020. Lana, madre di Mohammed (anche lui detenuto all’età di 14 anni), spiega: “Dopo che mio figlio è stato rilasciato, voleva stare al mio fianco e dormire accanto a me. Si rifiutava di uscire di casa. È stata una sfida, per noi. Sento che è traumatizzato. È stato arrestato martedì sera, ora ogni martedì sente che stanno venendo a prenderlo”. La ricerca di Save the Children ha anche mostrato come la cura e la speranza per il futuro dei bambini siano diminuite dal 96% nel 2020 al 68% nel 2023, un aumento allarmante in un contesto con limitato supporto psicosociale disponibile. “Ogni anno circa 500-700 minori palestinesi entrano in contatto con il sistema giudiziario militare israeliano”, spiega Jason Lee, direttore di Save the Children nei Territori palestinesi occupati. “Sono gli unici minori al mondo a subire processi sistematici nei tribunali militari. La nostra ricerca mostra, ancora una volta, che sono soggetti a gravi e diffusi abusi da parte di coloro che dovrebbero prendersi cura di loro. Semplicemente, non c’è giustificazione per picchiare e spogliare i bambini, trattarli come animali o privarli del loro futuro. Questa è una crisi della protezione dell’infanzia che non può più essere ignorata. Deve finire questo sistema di detenzione militare abusivo”. Save the Children chiede al governo di Israele di rispettare i diritti dei bambini e il diritto internazionale. Nessun minore dovrebbe essere perseguito nei tribunali militari o in qualsiasi tribunale che non rispetti il processo equo e standard di giustizia minorile. Save the Children chiede una moratoria immediata sull’arresto, la detenzione e il perseguimento dei minori da parte delle autorità militari israeliane. Save the Children lavora con i minori palestinesi dagli anni 50, con una presenza permanente nei Territori palestinesi occupati dal 1973, e collabora con oltre 30 partner per garantire la sopravvivenza, la possibilità di imparare, la protezione da ogni tipo di abuso e il rispetto da parte di tutti della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia - Uncrc. Inchiesta denuncia le torture subite in Libano da detenuti siriani ansa.it, 11 luglio 2023 Articolo premiato a Beirut dalla Fondazione Samir Kassir. Un vero e proprio girone infernale è quello in cui si trovano a vivere da anni più di un migliaio di detenuti siriani, vittime di torture e abusi nelle superaffollate carceri libanesi, in interminabile attesa di processo ed esposti a malattie causate dalle percosse, dalla sporcizia, dalla malnutrizione e dalla mancanza di cure mediche. E’ quanto emerge dall’inchiesta “Sotto tortura confesso qualsiasi cosa”, scritta da Pascale Sawma, giornalista libanese, premiata di recente a Beirut dalla giuria del Premio di giornalismo internazionale della fondazione SKeyes e intitolato a Samir Kassir, l’intellettuale libanese ucciso in un attentato nel 2005. Il lavoro di Sawma, pubblicato nel novembre del 2022 ma premiato lo scorso giugno e che conferma una serie di violazioni già denunciate da Amnesty International, si basa su una raccolta inedita di testimonianze di detenuti e di loro parenti circa le sofferenze inflitte a questi siriani, sospettati di “terrorismo” ma mai riconosciuti colpevoli dai tribunali libanesi, da parte di poliziotti, agenti dei servizi di sicurezza, soldati e guardie carcerarie. Si stima che tra gli oltre 8mila detenuti registrati complessivamente in Libano, circa il 30 per cento siano di nazionalità siriana. Di questi, almeno il 20 per cento è in attesa di processo. L’ex capo della Sicurezza generale libanese, il generale Abbas Ibrahim, ora in pensione, l’anno scorso aveva affermato che più del 40 per cento dei detenuti libanesi sono siriani, una cifra che secondo alcuni osservatori era stata “gonfiata” per giustificare la necessità di rimpatriare con urgenza i detenuti siriani. “Le testimonianze incrociate confermano che le autorità libanesi usano la pratica di tortura per estorcere confessioni, violando in maniera evidente i diritti umani”, scrive Sawma nell’inchiesta dove si denuncia ripetutamente la pessima qualità del cibo distribuito nelle carceri e la carenza di assistenza medica e sanitaria. La maggior parte delle testimonianze proviene dal carcere maschile di Rumie, a nord-est di Beirut, dove i quasi 4mila detenuti vivono letteralmente “ammucchiati” in spazi angusti “senza quasi mai vedere il sole”. Il 79% dei detenuti a Rumie è in attesa di processo, affermano le fonti interpellate dalla giornalista libanese. Il racconto di Sawma si articola attraverso le storie di Muhammad, Luay, Karim e di altri ancora, tutti pseudonimi di detenuti siriani, giovani e meno giovani, finiti a Rumie e in altre carceri del Libano perché sospettati di essere “terroristi”. L’inquietante repertorio delle torture inflitte a questi individui appare molto simile a quello raccontato da chi è scampato ai supplizi compiuti da decenni nelle carceri politiche della vicina Siria: privazione del sonno e del cibo, percosse con cavi elettrici e bastoni di varia foggia, tensione forzata degli arti, sospensione a testa in giù, colpi sul cranio con il calcio dei fucili e tanto altro ancora. “Il tutto accompagnato da continui insulti e umiliazioni”, si legge nell’inchiesta. “‘Confesso quello che volete!’, gli dicevo mentre mi torturavano...’Confesso ogni cosa’!”, ha raccontato Muhammad alla giornalista, interpellato tramite i familiari. Accusato di “terrorismo”, Muhammad ha poi apposto la firma sotto una confessione già scritta dai suoi aguzzini e depositata presso il tribunale militare di Beirut. Siria. Quattro milioni di persone dipendono dagli aiuti Onu e potrebbero non riceverli più di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2023 “Ho vissuto in una tenda per due mesi, poi mio cugino mi ha proposto di andare a stare da lui, insieme ai miei tre figli. Sono vedova, non ho alcun introito. Prima dei terremoti mio zio che viveva con la sua famiglia in Turchia mi mandava qualcosa, poi sono morti tutti quanti”. Sono le parole sconsolate di una vedova siriana. Fa parte dei 265.000 nuovi sfollati a causa dei terremoti che hanno colpito il nordovest della Siria a febbraio, che si sono aggiunti ad altri due milioni e 600.000 “vecchi” sfollati da zone di conflitto. In totale, compresi i residenti, quattro milioni di persone nel nordovest della Siria dipendono interamente dall’assistenza umanitaria, garantita dalle Nazioni Unite al momento attraverso un unico valico transfrontaliero, quello turco di Bab al-Hawa. Un’assistenza imparziale indispensabile dato che nel 2014, quando la zona è finita nelle mani dei gruppi dell’opposizione armata, il governo siriano ha interrotto la fornitura di servizi essenziali. Da allora, attraverso varie risoluzioni del Consiglio di sicurezza, gli aiuti sono arrivati: parliamo di acqua e cibo ma anche di alloggi, scuole, infrastrutture idriche e sanitarie. La politicizzazione della fornitura dell’assistenza transfrontaliera delle Nazioni Unite da parte della Russia ha limitato a uno il numero dei valichi accessibili e ha ridotto la durata dei rinnovi. Nel gennaio 2023 il Consiglio di sicurezza ha prorogato l’autorizzazione per soli sei mesi, un periodo insufficiente persino per valutare i bisogni, coordinarsi con le autorità locali, fare proposte, ricevere i fondi e attuare i programmi. Mentre scrivo, non so se il Consiglio di sicurezza rinnoverà questa forma di assistenza: i sei mesi scadono esattamente oggi. Quello che è certo è che il mancato rinnovo avrebbe un impatto devastante su una regione già devastata dai terremoti di febbraio. *Portavoce di Amnesty International Italia L’avvocato che ha sfidato Assad: “La giustizia per la Siria passa dall’Europa. Ma punta all’Onu” di Francesca Basso e Viviana Mazza Corriere della Sera, 11 luglio 2023 Anwar Bunni è diventato famoso per il processo di Coblenza, in cui testimoniò contro il suo torturatore. Ma tra i mandati potrebbe essercene uno anche contro il dittatore di Damasco. Ora la sua missione è un tribunale speciale creato dall’Assemblea Generale. A fine giugno l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la creazione di un organismo indipendente per indagare sulle oltre centomila persone “scomparse” in Siria dall’inizio della guerra civile nel 2011. Gli attivisti dei diritti umani dicono che benché tutti gli attori coinvolti nella guerra in Siria si siano macchiati di questo crimine, i principali responsabili sono senza dubbio le forze governative: la maggior parte dei desaparecidos sono stati uccisi in prigione e alcuni di loro si trovano ancora lì. Ma dopo dodici anni di atrocità del regime, molti nutrono seri dubbi sulla possibilità di ottenere giustizia. Ottantatré Paesi hanno votato a favore della risoluzione, undici hanno votato contro (tra cui Siria, Russia, Cina e Iran) e 62 si sono astenuti. Tra questi ultimi ci sono i Paesi arabi e del Golfo che lo scorso maggio hanno riabilitato la Siria nella Lega Araba, una decisione che rende ancora più improbabile, agli occhi delle famiglie degli “scomparsi”, che ci possa essere cooperazione da parte di Damasco. “Il ritorno della Siria nella Lega Araba è un tradimento delle vittime e conferma la marginalizzazione degli Stati Uniti e l’irrilevanza dell’Europa nella regione”, ha scritto di recente Judy Dempsey, fellow del think tank Carnegie Europe e direttrice del blog Strategic Europe. E tuttavia Anwar Al Bunni, avvocato e attivista siriano, mantiene un ostinato ottimismo: ha scoperto che il lungo e tortuoso cammino per la giustizia in Siria passa per l’Europa. Ai suoi occhi “l’Arabia saudita, i Paesi del Golfo e la Turchia non sono mai stati davvero contro Assad, da sempre lo hanno appoggiato, facendo arrivare armi e bandiere nere nel Paese - ci ha detto in una recente intervista a Washington, a casa di un amico, davanti a un caffé arabo e biscotti -. Erdogan ha permesso all’Isis e ai terroristi più estremisti di entrare in Siria e ha appoggiato Al Nusra, mentre i sauditi hanno sostenuto Jaysh Al Islam. Il loro ruolo era di impedire all’Occidente di supportare la rivoluzione siriana. Hanno aiutato Assad a distruggere la Siria e la democrazia siriana. Ora possono gettare la maschera perché non esiste più un’opposizione né una rivoluzione democratica. I regimi della regione non vogliono alcuna democrazia vicino a sé perché i prossimi a cadere sarebbero loro”. Il processo di Coblenza - Al Bunni, 64 anni, è diventato celebre in tutto il mondo per il processo di Coblenza, in Germania: nel 2021 ha fatto condannare all’ergastolo Anwar Raslan, 58 anni, che era stato il suo torturatore in carcere. Raslan era responsabile del ramo 251 del direttorato generale dell’intelligence siriana. Al Bunni si era trovato faccia a faccia con lui per caso a Berlino, nel 2014, dove entrambi avevano ricevuto asilo politico. Ma nella nostra conversazione l’avvocato siriano sottolinea, al di là del suo caso personale, che il suo obiettivo è di impedire che Assad e i suoi alleati “facciano parte del futuro della Siria”. Al Bunni è coinvolto in una serie di casi in Europa e Stati Uniti. “Dal 2017 al 2019 abbiamo presentato quattro casi ai procuratori tedeschi, contro un totale di 27 criminali che si trovano in Siria, inclusi lo stesso Bashar Assad e suo fratello Maher. Tra Germania, Svezia e Norvegia in totale abbiamo presentato casi contro 60 alti funzionari siriani (molti dei quali ancora in corso). Poi ci sono i casi presi in esame da tribunali in Olanda, Belgio, Austria, oltre a quelli contro lo zio di Bashar, Rifaat, in Spagna e Svizzera”. In Germania sono stati emessi mandati d’arresto contro Ali Mamlouk, consigliere speciale per la sicurezza di Assad, e contro l’ex capo dell’intelligence dell’aeronautica militare Jamil Hassan. Al Bunni sottolinea che quei due nomi sono stati fatti filtrare dalla procura, ma la lista rimasta sotto chiave è probabilmente più ampia: potrebbe includere, secondo lui, lo stesso Assad. La giurisdizione universale, in vigore in Germania, Svezia e Norvegia, ha permesso ad alcuni tribunali europei di investigare e perseguire casi legati ad un numero ristretto di crimini internazionali: crimini di guerra, contro l’umanità, tortura, genocidio, sparizioni forzate. La giurisdizione universale è basata sull’idea che, data la gravità di tali crimini, essi possano essere perseguiti anche se commessi all’estero, da stranieri o contro stranieri. “Non stiamo solo continuando ma aumentando gli sforzi”, insiste Al Bunni, che con il suo Syrian Center for Legal Studies and Research collabora anche con due processi in absentia che si sono da poco aperti negli Stati Uniti. Qui è stato possibile perché le vittime sono cittadini siriani ma anche americani. “Si tratta di Obada Mzaik, studente arrestato e torturato a 22 anni e di una ingegnera uccisa sotto tortura, ma in questo secondo caso esistono testimonianze di altre prigioniere che erano con lei”. In Italia - In Italia, spiega Al Bunni “non c’è la piena giurisdizione universale e finora non abbiamo trovato sospetti nel vostro Paese. Ma se li trovassimo, la legge italiana prevede la possibilità di perseguire criminali responsabili di torture, sparizioni forzate... Possiamo farlo. Forse. Se il procuratore è aperto a farlo. Esiste un mandato nella legge che permette di farlo”. A cosa può servire però tutto questo? Dodici anni di atrocità ben documentate non hanno fermato il regime di Assad, che è sfuggito quasi del tutto alla giustizia con l’eccezione di questa manciata di casi presentati in tribunali internazionali. La Corte penale internazionale - Finora la Corte penale internazionale non ha emesso un mandato di arresto per Assad, mentre ne ha emesso uno per Putin. La Corte Penale Internazionale, che ha sede all’Aia e che avrebbe potuto farsi carico di questi processi, non è stata nella posizione di intervenire, perché il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove la Russia appoggia Assad, ha bloccato ogni tentativo di affidarle la giurisdizione sui crimini commessi in Siria. Per questo diversi osservatori hanno finito col credere che la giurisdizione universale sia l’unica via praticabile dalle vittime e dalle loro famiglie per ottenere giustizia, o almeno la verità, in Siria. “La strada della giustizia non è solo complessa, in molti casi è bloccata - ci dice Al Bunni -. La via della Corte penale internazionale è chiusa: non è mai stata aperta per la Siria. Perciò abbiamo cercato un’altra via. Questo è stato possibile in Germania anche per via del grande numero di vittime giunte in Europa, perché tutte loro chiedono giustizia. Il mio obiettivo non è la cattura di Bashar Assad o di Ali Mamlouk, so che sarebbe difficile o forse impossibile adesso. Il mio obiettivo è di impedire che questi individui siano parte del nostro futuro, impedire la normalizzazione di Bashar Assad in Europa creando basi legali che lo rendano impossibile”. La storia è piena di esempi di leader che hanno represso senza pietà i propri cittadini ma sono stati riabilitati, che sono sfuggiti alla giustizia ottenendo la protezione di altri regimi o sono rimasti al potere con la forza e facendo perno sulla realpolitik occidentale. Ci sono stati casi come quello dell’ex Jugoslavia e del Ruanda in cui tribunali speciali sono stati stabiliti con l’obiettivo di ottenere giustizia: era un modo per dare alle vittime la speranza che ciò sarebbe servito da deterrente contro future atrocità. A gennaio il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione per sollecitare l’istituzione di un tribunale internazionale speciale, in stretta cooperazione con l’Ucraina e con la comunità internazionale, che si occupi di perseguire la leadership politica e militare della Russia e della Bielorussia. Il 17 marzo la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto nei confronti del presidente Putin ma “non ha alcun valore legale”, secondo il Cremlino, perché “la Russia, come un certo numero di Stati, non riconosce la giurisdizione di questo tribunale, quindi, dal punto di vista del diritto, le decisioni di questo tribunale sono nulle”, ha spiegato il portavoce del presidente russo, Dmitri Peskov. Quindi anche l’azione legale contro i leader russi si sta rivelando difficile nonostante la guerra in corso. Un tribunale speciale creato dall’Assemblea generale dell’Onu - Per la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, serve un tribunale speciale sotto l’egida dell’Onu per il crimine di aggressione della Russia all’Ucraina. Ma non è semplice istituirlo perché serve il via libera di un numero sufficiente di Stati all’interno dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Oona Hathaway, docente di Diritto internazionale a Yale, che è stata tra le prime propositrici di questa iniziativa, ci ha detto che l’Europa dovrebbe prenderne la guida, anche perché - nonostante l’appoggio di Biden - il passato degli Stati Uniti sul tema della giustizia internazionale è complesso e controverso. E l’Europa dovrebbe farlo proprio attraverso l’Onu anziché impegnarsi in una iniziativa europea per la giustizia in Ucraina, perché in tal modo manderebbe un messaggio più forte alla Cina e agli altri Paesi. Lo stesso vale per la Siria. I casi europei probabilmente cresceranno in numero negli anni, mentre le prospettive di transizione democratica in Siria scemano sempre di più. Alcuni pensano che questa sia l’unica via per la giustizia in Siria, dopo il fallimento occidentale nel fermare lo spargimento di sangue e una delle crisi umanitarie più terribili del nostro tempo. Ma Al Bunni non rinuncia all’idea di un tribunale speciale. “Questa è una delle mie missioni - ci dice durante la sua visita negli Stati Uniti -: spingere per l’istituzione di un tribunale speciale creato con un voto dell’Assemblea Generale, anziché dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ne ho parlato con il dipartimento di Stato americano, con ambasciatori canadesi e tedeschi. Sembravano entusiasti. Ora ci vorrebbe l’iniziativa di alcuni Paesi in appoggio ad una bozza di risoluzione”. Al Bunni dice sempre di non avere sogni, ma obiettivi. Il suo obiettivo è che questo tribunale un giorno prenda vita non in Europa ma in Siria, gestito dai siriani con l’appoggio della comunità internazionale. Un voto all’Assemblea Generale non sarebbe soggetto al veto come accade nel Consiglio di sicurezza. E manderebbe il messaggio più forte possibile ad Assad, a Putin e a chiunque voglia seguirne le orme. Assad e Putin - Il destino di Assad è rilevante per Putin e gli altri autocrati del mondo. “Il nostro caso ha ottenuto qualcosa che non si era mai verificato prima, e che non riguarda solo la Siria - ci dice Al Bunni -. I dittatori, protetti da un importante membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu, pensano di poter fare qualunque cosa impunemente. Ma quello che è accaduto in Germania con Bashar Assad li ha preoccupati. È qualcosa che non si era mai verificato prima per almeno due ragioni. La prima è che, dal nazismo all’Iraq e al Kosovo, la ricerca di giustizia per le vittime è avvenuta sempre dopo, non quando i responsabili erano ancora al potere. In secondo luogo, i processi avvenuti in Europa grazie al principio di giurisdizione universale sono diventati realtà non per il volere di un determinato Stato ma per volere delle vittime stesse. Nessuno può controllarli. Se invece il caso siriano venisse trasferito alla Corte penale internazionale dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, quest’ultimo potrebbe cancellarlo in qualsiasi momento”. Si è parlato molto di come la guerra in Ucraina abbia sottratto attenzione e aiuti all’emergenza siriana. Ma Al Bunni non vede la competizione “perché quello che è accaduto in Ucraina non fa che confermare ciò che abbiamo detto noi da sempre: quando si permette alla Russia di prendere territori e attaccare i civili, come in Siria, quando le si permette di uccidere usando ogni tipo di armi eccetto quelle nucleari, si incoraggiano i criminali. Per questo la giustizia è cruciale. Ora i dittatori osservano il destino di Assad. E se lui sopravvive questo sarà un disastro per milioni di persone nel mondo, e per l’Europa. Provate a immaginare insieme a me: se Erdogan, Sisi, Saied, Haftar e altri fanno ciò che ha fatto Assad con suo popolo, se causano l’esodo di milioni di persone verso l’Europa e l’Italia, che cosa farete voi? Siete pronti a uccidere milioni di persone in mare sui barconi? La giustizia contro Assad forse è ancora più importante per l’Europa che per la Siria”.