Politica e Giustizia: cambiate copione di Paolo Mieli Corriere della Sera, 10 luglio 2023 Il tempo degli annunci è finito. È ora che la riforma complessiva della giustizia italiana prenda le sembianze di un testo meditato da discutere in Parlamento. Ci risiamo. Trent’anni (e passa) dall’inizio di Tangentopoli e si è tornati in un battibaleno all’arroventata tenzone tra Politica e Giustizia. Si sa come comincia e si sa anche come va a finire (quantomeno come è andata a finire fino ad oggi): con la Politica fatta a brandelli. Il segnale di inizio è sempre lo stesso: due, tre (ma anche quattro, cinque, sei) iniziative giudiziarie - ad ogni evidenza slegate una dall’altra - contro un esponente della maggioranza; a quel punto la Politica perde il lume della ragione e denuncia il “complotto”. Quella denuncia ha un effetto immediato: spuntano da ogni dove nuovi magistrati che, resi baldanzosi, si applicano alla messa sotto torchio di altri esponenti della maggioranza. Il governo preso dal panico non esita in tale frangente a mostrare tutta la propria fragilità procedendo dapprima a un cambio di ministri e sottosegretari, poi ad un più radicale rimpasto, per andare infine a infrangersi sugli scogli. Dopodiché panico sui mercati, e giunge l’ora dei governi tecnici ai quali si “rassegnano” anche i partiti che hanno perso le elezioni. Governi presieduti da figure di prestigio - fin qui sempre uomini - allo scopo di “evitare il dramma della fine anticipata della legislatura” e affrontare una qualche “grave emergenza” (che non manca mai). In seguito, si vivacchia - talvolta non male - fino alle successive elezioni politiche. Il risultato che verrà fuori dalle urne sarà salutato con giubilo dai vincitori. Ma sarà un’illusione. Qualche cambio negli enti pubblici e alla Rai, poi è sufficiente lasciar trascorrere pochi mesi e si ricomincia con il copione di sempre. Ha notato Massimo Franco su queste pagine che la voglia di resa dei conti con la magistratura, che la scomparsa di Silvio Berlusconi avrebbe dovuto archiviare, “sopravvive a destra come un’onda tossica”. E impedisce di analizzare con freddezza decenni nei quali “berlusconismo e giustizialismo in realtà si sono alimentati e legittimati a vicenda impedendo qualsiasi reale riforma”. Anche adesso che quella riforma è stata annunciata in campagna elettorale, descritta e approvata dai votanti nei suoi tratti essenziali, affidata nelle mani di un giurista sperimentato come Carlo Nordio, stimato dai più, che ancora ieri un suo presumibile avversario politico, Massimo Cacciari, definiva “magistrato intelligente… uno dei migliori che ho incontrato”. Questa allora potrebbe essere la volta buona per la riforma. L’assenza di “cospirazione” e di “regia” dietro le iniziative giudiziarie contro esponenti di governo si coglie più nettamente di quanto fosse riscontabile nei trent’anni alle spalle (quando pure - ripetiamo - non è storicamente accertato ci siano state né “cospirazione” né “regia”). Le toghe si muovono in ordine sparso, spesso contraddicendosi l’una con l’altra. I media si limitano a dare notizie di cui vengono in possesso, in un regime di normale concorrenza giornalistica, quasi sempre rinunciando ad enfatizzare i propri scoop. Il Quirinale poi - come fu già nel 2001 ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi - mostra piena consapevolezza del fatto che l’attuale maggioranza è frutto del risultato di regolari elezioni. Il Capo dello Stato non dà segni di preparare “reti” in vista di un eventuale collasso del governo presieduto da Giorgia Meloni. Anzi, se può chiude un occhio. Un esempio? Sergio Mattarella avrebbe potuto far filtrare la notizia d’aver “alzato il sopracciglio” per il fatto che Ignazio La Russa si sia lasciato sfuggire quell’impropria dichiarazione assolutoria nei confronti del figlio (poi corretta) mentre il Presidente della Repubblica era in viaggio in America Latina e, di conseguenza, lui, La Russa, a Palazzo Madama si trovava ad essere il più alto rappresentante dello Stato in territorio italiano. A questo punto il discorso non può che tornare su Nordio. Che aspetta il ministro a presentare la sua riforma? Comprensibile che abbia dovuto mettere d’accordo le componenti della sua maggioranza, ma i mesi trascorsi dal 25 settembre per uno come lui che ha scritto libri interi sulle caratteristiche che dovrebbe avere quella riforma, sono troppi per non aver ancora offerto una proposta scritta ai suoi interlocutori. È intollerabile che qualcuno possa proporre, a suo nome, novità rivoluzionarie tipo la “divisione delle carriere come ritorsione per una qualche indagine sul Twiga o altre cose del genere. Senza contare il fatto che l’annuncio di un riordino dell’intero sistema Giustizia senza che se ne possa adeguatamente discutere in Parlamento, incoraggia le iniziative più estemporanee di magistrati che tendono a interpretare le indicazioni provenienti dalle loro associazioni di categoria e adesso persino dall’Europa. Nordio è partito per la non facile impresa che gli è stata assegnata avendo dalla sua un’ampia maggioranza (pur con qualche settore recalcitrante), moltissimi sindaci del Pd, gran parte del Terzo polo, ampi strati della magistratura, che aspetta? Non si rende conto che ogni nuova indagine - e ce ne saranno - rischia di ingenerare il sospetto che l’introduzione di qualche pur sensata norma serva a favorire questo o quell’imputato? Il tempo delle interviste e delle dichiarazioni estemporanee è finito. Adesso è giunta l’ora che la riforma complessiva della giustizia italiana prenda le sembianze di un testo meditato da discutere in Parlamento. Giustizia, un intervento pubblico sulla riforma. La strategia di Meloni per una tregua con i magistrati di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 10 luglio 2023 “Né attacco, né resa”: così la presidente del consiglio vuole chiarire la linea del governo. La mediazione del sottosegretario Mantovano: “Questo scontro non conviene a nessuno”. Rompere l’assedio. E anche il silenzio. Contribuire a far calare i toni, perché i rapporti tra politica e giustizia tornino quelli che erano prima dello scontro sulle inchieste che vedono al centro la ministra Daniela Santanchè e il sottosegretario Andrea Delmastro. Giorgia Meloni non è convinta di poter ottenere qualche vantaggio per il governo riportando il Paese indietro di trent’anni, alla guerra tra Berlusconi e le toghe. Vuole completare la riforma della Giustizia, ma non ritiene utile farlo in un clima di guerriglia permanente. “Si faranno le riforme che devono essere fatte senza frenare e senza tentennare - è la linea che Meloni ha dato ai “fratelli”. Non verrà aggiunto niente per punizione o ripicca, né tolto qualcosa per paura”. A imbarazzare il governo è anche il caso Ignazio La Russa. Non tanto per l’accusa di stupro ricevuta dal terzogenito Leonardo Apache e ritenuta dagli alleati “un fatto privato”, quanto per la reazione della seconda carica dello Stato che ha indignato le opposizioni (e non solo). In questo clima torrido la premier cerca il modo di gettare acqua sull’incendio, che alcuni esponenti della maggioranza continuano ad alimentare. Maurizio Gasparri ha puntato il dito contro gli “atteggiamenti fuori dai confini della Costituzione” di alcuni giudici e Tommaso Foti ha accusato i magistrati di cercare lo scontro per stoppare la riforma. Giorgia Meloni, che appare sotto forte pressione, pensa a un intervento pubblico o a un testo scritto per chiarire la linea del governo dopo la durissima nota di giovedì, con cui “fonti di Palazzo Chigi” accusavano una “fascia della magistratura” di essere scesa in campo contro l’esecutivo. La premier risponderà più o meno direttamente all’Anm, che per bocca del presidente Giuseppe Santalucia ha rimproverato a Palazzo Chigi e a via Arenula di voler “delegittimare” e “colpire al cuore” la magistratura. Da giorni Meloni lavora per trovare le giuste formule, che non abbiano il sapore dell’attacco né tantomeno della resa, ma suonino come un appello a riportare il confronto nell’ambito della civiltà e della correttezza. Nella direzione della tregua lavora il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano. Da giorni il magistrato con ufficio ai piani alti di Palazzo Chigi suggerisce prudenza, perché “questo scontro non conviene a nessuno”. L’accusa dei meloniani di aver aperto in anticipo la campagna elettorale per le Europee brucia ancora, ma anche le toghe sembrano avere voglia di tregua. O almeno, questo è il messaggio che i pontieri del governo hanno riportato alla leader della Destra durante il weekend, in cui anche Meloni ha staccato e si è presa qualche ora di riposo dopo una settimana di fortissime tensioni. Il Quirinale segue con preoccupata attenzione il braccio di ferro tra istituzioni dello Stato, che agita il mondo politico e rischia di destabilizzare la maggioranza. Nelle ore di massima tensione con la magistratura nessuna telefonata dal Colle è arrivata a Palazzo Chigi e non solo perché il consigliere per gli affari giuridici Daniele Cabras era in viaggio con il capo dello Stato. Il presidente Sergio Mattarella è tornato dal Sudamerica con la ferma intenzione di restare fuori dalla contesa, ma nei prossimi giorni, quando avrà soppesato gli sviluppi del conflitto in corso, potrebbe far sentire la sua voce. La riforma della Giustizia firmata Carlo Nordio è al vaglio degli uffici tecnici del Quirinale e tra qualche giorno toccherà a Mattarella valutare il testo e decidere se dare il via libera per l’esame del Parlamento, che inizierà dal Senato. La speranza dei mediatori è che l’approdo del ddl nelle Commissioni e poi in Aula contribuisca a stemperare la tensione e a riportare il confronto nel merito delle norme. Resta l’imbarazzo dentro la maggioranza per la posizione di Santanchè, di cui stasera tornerà a parlare Report, su RaiTre. Se la ministra sarà rinviata a giudizio, la premier valuterà con lei l’opportunità di un passo indietro. Ma una cosa per Palazzo Chigi è certa: “Non sarà un programma tv a decidere il suo destino politico”. Scontro governo-magistratura, Meloni tiene il punto ma non vuole una guerra di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 10 luglio 2023 Il tentativo di mediazione del sottosegretario Mantovano. Meloni sarebbe pronta a sostenere la ministra Santanchè anche in caso di rinvio a giudizio. Tutti a Palazzo Chigi, a cominciare da Giorgia Meloni, avevano messo in conto una reazione (anche aspra) dei magistrati. Ma quando la botta è arrivata, la presidenza del Consiglio ha lasciato trapelare la “sorpresa” per le sferzate che il presidente dell’Anm Santalucia ha indirizzato alla maggioranza. L’accusa di voler delegittimare un potere cruciale dello Stato e la richiesta di rispettare le prerogative costituzionali mettono in evidente difficoltà l’esecutivo. Adesso il dilemma per i meloniani è trovare un equilibrio tra la difesa e l’attacco e dimostrare che la colpa di uno scontro che rischia di riportare l’Italia indietro di sei lustri non è di Palazzo Chigi, né di via Arenula, ma di quella “fascia della magistratura” che faziosamente, e su spinta della sinistra, avrebbe aperto anzitempo la sfida elettorale per le Europee. Giorgia Meloni non vuole andare alla guerra contro i giudici, o almeno non voleva. “È uno scontro che non conviene a nessuno e non siamo stati noi a cercarlo - ripete in queste ore a dir poco difficili -. Non siamo noi che abbiamo alzato per primi i toni”. Ma qualcosa di “molto grave” è accaduto e la reazione del governo è stata “obbligata”. La convinzione al vertice di Fratelli d’Italia e dell’esecutivo è che una parte della magistratura si sia mossa per stoppare la riforma della giustizia targata Carlo Nordio e abbia usato strumentalmente prima il caso della ministra Daniela Santanchè e poi quello del sottosegretario Andrea Delmastro. Ma “l’assalto è fallito”, è il messaggio che arriva dai piani alti del governo, perché Meloni “non arretra” e le nuove norme andranno avanti. Accelerare verso la separazione delle carriere “non è una ripicca, né una vendetta”, perché la svolta “è nel programma elettorale del centrodestra”. La linea (dura) non cambia. Ora però il timore di ripiombare nella stagione berlusconiana della guerra permanente tra il potere e le toghe serpeggia anche a Palazzo Chigi. Lo ha fatto capire il sottosegretario-magistrato Alfredo Mantovano, quando ha detto che “il problema dell’interferenza di alcune iniziative giudiziarie sull’attività politica riguarda tutti, centrodestra e centrosinistra, e in 30 anni ha colpito tutti i governi”. Un tentativo di mediare, per convincere le parti a superare le contrapposizioni e non alimentare un incendio che certo non giova alle istituzioni. I partiti di opposizione guardano al Quirinale, ma non è detto che al rientro dal Paraguay il presidente Mattarella vorrà rendere pubblico il suo stato d’animo sul braccio di ferro tra governo e magistrati. Giorgia Meloni si sente sotto attacco e non fa nulla per nascondere la sindrome del fortino assediato da un “certo potere costituito”, che non vuole arrendersi alla vittoria della destra. L’indagine su Santanchè per bancarotta e falso in bilancio e l’imputazione coatta per Delmastro, accusato di rivelazione di segreto d’ufficio sul caso dell’anarchico Cospito, sono vissuti nell’entourage della premier come un “avviso per spaventarci”. Il teorema è in sostanza questo: “C’è un filone politico che vede in alcune toghe uno strumento per cambiare gli equilibri di potere senza rispettare il voto degli italiani e il consenso”. E questo filone politico, a sentire i meloniani, farebbe capo ad alcuni “pezzi grossi” del Pd: “Pensano che non possiamo governare perché saremmo razzisti, fascisti, omofobi e provano a farci cadere usando singoli magistrati”. La prima reazione della leader della destra è stata proteggere i suoi. Delmastro “non si tocca” e Santanchè può dormire tranquilla, per qualche tempo ancora. Per quanto la posizione della ministra imbarazzi anche molti leghisti, azzurri ed esponenti di FdI, la premier sarebbe tentata di resistere persino a un eventuale rinvio a giudizio. Il modello è il caso della sottosegretaria Augusta Montaruli, nominata al governo nonostante una condanna in secondo grado e costretta a dimettersi solo dopo la sentenza di Cassazione. Quanto a Ignazio La Russa, tra i colleghi ci sono due scuole di pensiero. C’è chi include la vicenda del figlio nel presunto assalto dei giudici alla destra e chi invece pensa che la seconda carica dello Stato avrebbe dovuto “mordersi la lingua” prima di difendere il terzogenito Leonardo Apache accusato di violenza sessuale e alimentare dubbi sull’autrice della denuncia. Sulla giustizia il governo è andato in confusione di Enrico Costa* Il Foglio, 10 luglio 2023 Palazzo Chigi confonde l’interferenza (strampalata) della magistratura nell’iter delle leggi, con il complotto (inesistente) degli uffici giudiziari nei confronti di ministri e sottosegretari. Il ministero della Giustizia non fa che amplificare la confusione. Il governo, sulla giustizia è in confusione. Nel senso che confonde l’interferenza (strampalata) della magistratura nell’iter delle leggi, con il complotto (inesistente) degli uffici giudiziari nei confronti di ministri e sottosegretari. La confusione è poi amplificata dal ministro della Giustizia che, anziché rispettare religiosamente le forme, si lascia andare a comunicare attraverso “fonti” indefinite su procedimenti penali in corso, contestando “a parole” la violazione del riserbo istruttorio (caso Santanchè) e criticando la norma sull’imputazione coatta (caso Delmastro). Un comunicato “anonimo” anziché porre in essere quegli atti formali, che pur fanno parte dell’arsenale del Guardasigilli. Ci sono criticità da denunciare in merito alla fuoriuscita di notizie riservate? Esistono l’ispettorato (fino ad oggi “in sonno”) e le azioni disciplinari. Ci sono norme “sbagliate”? Esiste l’ufficio legislativo imbottito di magistrati fuori ruolo che può, se trova il tempo, scrivere un testo da portare in Parlamento. Quello da non fare è rispondere a interferenza con interferenza. L’Anm cerca di influenzare l’esecutivo sull’abuso d’ufficio? Il ministero della Giustizia e Palazzo Chigi criticano l’attività giurisdizionale di una procura e di un gip, gridando al complotto solo perché toccano membri del governo. A questo si aggiunga una palese contraddizione di Via Arenula: Nordio con una mano critica le invasioni di campo dei magistrati nell’iniziativa legislativa del governo e nell’attività del Parlamento, con l’altra mano assegna alle toghe il monopolio sulla riforma della magistratura facendola scrivere da una commissione di 26 membri, di cui 18 magistrati, cinque docenti, tre avvocati. Certamente verrà fuori un testo a cui l’Anm riserverà solo applausi, e nessuno potrà parlare di interferenza, perché questa è avvenuta a monte, con una delega che il Guardasigilli ha dato a quella commissione zeppa di magistrati. Insomma, sono confusi, e basta un nonnulla per farli scattare. Anche perché hanno un peccato originale, gli amici di FdI (non tutti, perché c’è anche qualche vero garantista come Guido Crosetto): dall’opposizione hanno cavalcato alla grande ogni inchiesta sfiorasse membri del governo. E, a parti invertite, di fronte a casi come Delmastro o Santanchè sarebbero saltati sui banchi dell’esecutivo, altro che gridare al complotto. Per loro fortuna dall’altra parte c’è il Pd che smentisce sé stesso ancor più di FdI. Anziché far cuocere il governo nel suo brodo pieno di contraddizioni, la Schlein si fa paladina di tutti i diritti, salvo uno: quello contenuto nell’articolo 27 della Costituzione (salvo che riguardi i colleghi di partito) e corre dietro alla mozione di sfiducia di Conte. Poi non lamentiamoci che la politica è debole. Lo è perché non riesce a respingere la tentazione di speculare sulle vicissitudini giudiziarie dell’avversario di turno. Tutti sono sedicenti “garantisti”, fate caso però nelle dichiarazioni di questi giorni quanti “sono garantista, ma…” e quel “ma” li trasforma in “forcaioli”. *Deputato di Azione Violante: “Governo accerchiato? Una sindrome diffusa. Ma dall’Anm toni sbagliati” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 10 luglio 2023 Presidente Luciano Violante, lei è stato prima nella magistratura e poi nella politica. Chi ha ragione nell’ennesimo scontro? “Quando gli stessi conflitti politici si ripetono, noiosamente per decenni, bisogna andare alla radice”. Vale a dire? “Alla rinuncia della politica all’esercizio della propria sovranità in favore della magistratura avvenuta a partire dagli anni 80”. Cosa intende? “Per non assumersi responsabilità, la politica ha delegato ai giudici non i processi ai singoli imputati di terrorismo, di mafia o di corruzione. Ma la stessa lotta al terrorismo, alla mafia, alla corruzione. E perciò i magistrati sono diventati, di fatto, compartecipi della sovranità. Per questo l’associazione che li rappresenta si muove a volte come titolare di una sovranità. È una stortura democratica”. Allora ha torto la magistratura? “Bisogna tornare alla Costituzione. La politica, tutta, deve riconquistare la propria sovranità”. Come? “Oggi i problemi più urgenti sono posti a mio avviso da atteggiamenti dell’Anm non congrui con la rappresentanza di un potere che deve essere terzo. Deve sostenere le proprie ragioni con modalità conformi al ruolo costituzionale della magistratura”. Non pensa che difendendo il valore dell’autonomia e dell’indipendenza l’Anm stia tutelando, come sostiene, anche i diritti dei cittadini? “Può darsi. Ma l’Anm rappresenta i magistrati non i cittadini. I titolari della rappresentanza generale stanno in Parlamento, non nei tribunali. I contenuti sono a volte condivisibili. Ma il tono, il costume, avrebbe detto Machiavelli, non è condivisibile”. Perché, che tono è? “Quello di chi si attribuisce un ruolo di rappresentanza generale e si costituisce come controparte del governo o di alcuni suoi membri”. Rispetto agli argomenti ciò non è secondario? “No. È decisivo. Perché disegna un ruolo. E in questo momento l’Anm rischia di far diventare l’intera magistratura controparte del governo. Ma non lo è, e non può esserlo, a pena di far perdere alla magistratura quella credibilità che è il fondamento della sua legittimazione”. Il sospetto della premier è che parte della magistratura, ispirata da “pezzi grossi del Pd”, voglia fermare la riforma Nordio. Lei, che da anni è sospettato di essere il “Grande vecchio” di queste manovre, pensa sia vero? “Allora forse ero il Grande Giovane (ride ndr). Questi sospetti sono la banalizzazione di temi complessi. Chi governa, qualunque colore abbia, ha un problema di legittimazione quotidiana. Perché, non ogni 5 anni, ma ormai ogni ora, le notizie, vere e false, si propagano velocemente e rendono sempre più inquieto il mare della politica”. E quindi? “I governi subiscono una sindrome di accerchiamento. Era già successo a Renzi, a Conte, a Berlusconi. Prodi criticò, non senza ragione, alcuni interventi della giustizia amministrativa. Fa parte della dinamica politica. Ma la magistratura deve mantenere la propria autorevolezza, non deve cedere al complesso del ring. Rischia di logorare la propria credibilità, magari cedendo alle sirene di parti interessate, che domani sarebbero pronte a voltare le spalle. Quando è accaduto, si sono trovati all’hotel Champagne”. A pilotare nomine. In quel caso cos’era? “Una delle cose peggiori: una contrattazione tra politici e magistrati, nell’interesse non della giustizia ma di alcuni singoli”. Il governo mette in fila i casi La Russa, Santanché e Delmastro e formula il sospetto che sia iniziata un’offensiva pre-elettorale in vista delle Europee. È così? “Non vedo questo rischio, anche perché si vota ogni anno. E, come è noto, chi è sotto procedimento in genere guadagna voti, non li perde” Si riferisce a Berlusconi? “Anche a Trump”. Il governo reagisce accelerando sulla separazione delle carriere. È la soluzione? “Sono contrario. Con il sottosegretario Delmastro il pm ha chiesto una cosa e il giudice ne ha fatta un’altra. Più separati di così! In Francia e in Germania è considerato positivo per la professionalità di un magistrato il cambio di funzioni”. Allora come uscirne? “Mi occupo di diritto da più di mezzo secolo e ho maturato una forte diffidenza nei confronti della invocazione di regole quando mancano i costumi, le educazioni. È una questione di etica pubblica. Ci servono migliori comportamenti da parte di tutti”. L’Anm rivendica il diritto di dare pareri tecnici sulla riforma Nordio. Sbaglia? “No; ha le competenze per farlo. E alcune osservazioni, come quelle sulla impraticabilità pratica del collegio di tre giudici per le decisioni sulla libertà, sono esatte. Ma non come controparte”. Allora? “Deve prendere posizione nello spirito della leale collaborazione tra istituzioni, più volte richiamata dalla Consulta. Anche quando l’altra parte non lo fa. Non deve cadere nella trappola del litigio”. Faceva parte dei saggi della Riforme Calderoli Si è dimesso anche lei. Perché? “Come ho detto al Ministro Calderoli e al Professor Cassese non avevo il tempo necessario per seguire con attenzione una riforma così decisiva per i diritti dei cittadini. Ho avvertito anche alcuni colleghi”. Condivide obiezioni degli altri che si sono dimessi? “Il punto di fondo è che sui diritti essenziali dei cittadini deve intervenire il Parlamento”. Enrico Costa: “Sulla giustizia è tutto un gioco di convenienze, ora tireranno il freno sulle intercettazioni” di Liana Milella La Repubblica, 10 luglio 2023 Intervista al deputato di Azione: “Meloni agita la separazione delle carriere come una spada contro l’Anm”. La giustizia a colpi di tweet: i suoi, Enrico Costa. Ieri scriveva, dopo la nota della Lega, che la maggioranza è “in stato confusionale”... “Parlavo di Roccella che ha paragonato il caso Santanchè a Tortora. Non vedo spaccature, semmai strategie di convenienza come sulla separazione delle carriere. Azione, Iv, Lega e FI hanno presentato le loro proposte di legge, FdI è rimasta silente, e Nordio ha buttato la palla in tribuna dicendo che entro dicembre avrebbe presentato la sua”. Ora Meloni la vuole fare subito... “Usa questo tema fondamentale come una spada da agitare quando litiga con l’Anm e da riporre poi nel fodero quando ritorna il sereno. E temo che la Lega sulle intercettazioni tirerà il freno a mano pur di far sentire la sua voce”. Bongiorno le considera indispensabili, Nordio le vuole solo per mafia e terrorismo, perché i reati di corruzione per lui sono lievi... “Nel 2021 sono state autorizzate quasi centomila intercettazioni, è un’esagerazione, devono essere usate solo nei casi significativi”. La Lega non vuole una riforma contro qualcuno, Meloni e soci la vogliono contro i magistrati che accusano Santanchè e Delmastro. “Sono schizofrenici perché da un lato Nordio lascia in mano ai giudici la riforma del Csm e riempie di toghe via Arenula, dall’altra gridano alla loro interferenza sull’attività legislativa”. Gasparri accusa con nome e cognome i magistrati che criticano il governo... “Diciamo che a protestare sono sempre gli stessi e non sono certo che l’Anm sia così rappresentativa. Ricordo ancora lo sciopero andato deserto di un anno fa”. Siamo tornati ai tempi di Berlusconi, contro i pm solo perché inquisiscono esponenti del governo. E perfino il Guardasigilli ex pm è di quest’idea e ci ha tenuto a criticare il famoso avviso di garanzia di Napoli... “Il ministero della Giustizia che parla attraverso fonti anonime è un’indecenza perché si tratta di un organo che per definizione deve rispettare religiosamente le forme. Come non bastasse critica i procedimenti in corso senza metterci la faccia anziché attivare l’ispettorato o avviare azioni disciplinari”. Quando le fa, come per Uss, viola le regole... “Quella decisione non mi ha scandalizzato, piuttosto boccio l’inerzia di fronte a centinaia di arresti ingiusti”. A colpi di tweet lei sta distruggendo ogni giorno la riforma Nordio, ma non era suo amico? “La riforma è debole, ma va nella direzione giusta, Nordio però si dovrà guardare dalla sua maggioranza. Noi la sosterremo e cercheremo di rafforzarla, chiedendo che sia vietato pubblicare l’ordinanza di custodia cautelare”. Eh già, il nemico comune sono i magistrati e i giornalisti. Come dice la Fnsi sta calando “il buio della democrazia”... “Noi speriamo nella luce della presunzione d’innocenza”. Pure per Santanché e Delmastro? Voterebbe le dimissioni? “Non le chiedo certamente per un avviso di garanzia come proprio la Meloni ha fatto in molti casi”. Berlusconi non ha portato a casa nulla sulla giustizia pur di salvarsi dai processi, Meloni e Nordio ne seguono le orme? “Oggi non c’è nessuna offensiva giudiziaria in corso, ma solo da parte della magistratura un tentativo di interferire sulle riforme: sono due cose ben diverse”. Quella storia “diversa” di mio padre Enzo di Gaia Tortora La Stampa, 10 luglio 2023 La premessa per queste mie righe è importante: la ministra Roccella non voleva ingenerare questa polemica sull’accostamento del giorno al caso Tortora. Ne sono certa, come sono certa della sua storia radicale e del discorso sul garantismo che voleva fare. Ma le storie sono diverse, e lungi da me dire una sola parola su indagini in corso che non conosco. Posso però dire la mia sulla nostra storia che qualcosa avrebbe dovuto insegnare anche alla politica, e invece in periodi come questo sembra che nulla sia cambiato. Permettetemi così di farvi leggere uno stralcio del discorso con il quale mio padre si dimise dal Parlamento europeo il 10 dicembre del 1985, per andare incontro agli arresti domiciliari da uomo onesto e innocente, vittima di una macelleria giudiziaria senza precedenti e con la complicità di certa informazione. “Oggi, 10 dicembre, dunque, io scelgo la via del carcere - e quali carceri, in Italia, sapeste colleghi - mentre avrei potuto continuare a coltivare l’onore di essere e operare per altri anni con voi, in attesa che giustizia fosse fatta di un’accusa che l’intero popolo italiano sente essere mostruosa. Ma colpevole di essere innocente, … mi assumo la responsabilità di disubbidire, carissimi colleghi, a quella delibera che, so bene, dovrebbe essere seguita anche da me, per doverosa e ragionevole deferenza alla saggezza e alla volontà del Parlamento. Ma disubbidisco per fedeltà. Ho deciso di dare corpo non già a un sacrificio, ma alla esigenza più urgente, più piena, più rigorosa di fare, di dire, di creare giustizia contro ogni violenza, contro la violenza della menzogna e della ingiustizia. Voglio essere libero, quando la giustizia stessa del mio Paese sarà liberata, libera anch’essa, davvero indipendente e sovrana alla sola soggezione della legge. Nel salutarvi, signor presidente, mi preme però essere anche testimone di giustizia. Già qui e oggi, voglio dirvi, assicurarvi, che i giudici del mio Paese, nella loro grande maggioranza, sono giudici di giustizia e non giudici di potere e di violenza. I giudici del mio paese, lo so, sono essi per primi offesi e oppressi da chi pretende troppo spesso di parlare in loro nome e ferisce ogni giorno la loro immagine e la loro vita difficile anche per responsabilità della classe politica al potere. Anche per loro e con loro dobbiamo percorrere questo duro e stretto sentiero e a loro va la mia e la nostra dichiarazione di rispetto e di fiducia...”. Mio padre si dimise, pratica assai rara nel nostro Paese, non giudico, ognuno fa ciò che sente ma a volte un passo di lato aiuta. Dimettersi, come scusarsi, non è indice di debolezza ma di rispetto. La politica dovrebbe comprenderlo e la pubblica opinione imparare a non considerarlo un indizio di colpevolezza. È una questione culturale, e non è poca cosa perché ho l’impressione che ci sia ancora un gran lavoro da fare. Così non si va da nessuna parte, lo scontro continuo, le grida al complotto, i giornali usati come house organ di questa o quella parte di tifoseria. La Giustizia merita di più. La Giustizia è un bene comune e anche per questo è inutile ripetere che sarà nel segno di Berlusconi (ma direi lo stesso per Tortora, Renzi, Topo Gigio o la Pimpa) la Giustizia deve essere restituita ai cittadini, tutti. Siano essi di Forza Italia, Fratelli d’Italia, Pd, Lega o altri. Tutti. Vi prego, almeno questa volta fermatevi. Uscite dai soliti schemi, non basta citare il nome di mio padre per convincere gli italiani che questo Paese ha delle storture all’interno di certa magistratura. Giustizia riparativa: in arrivo l’elenco dei mediatori penali esperti di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2023 Pubblicati i decreti sui professionisti: serve una formazione di 680 ore, il doppio di quanto indicato dalla riforma. Incompatibilità per gli avvocati del distretto. Stop ai mediatori civili e familiari. Si prepara l’elenco dei mediatori esperti in giustizia riparativa, i professionisti chiamati a condurre i programmi che coinvolgono vittima e reo per risolverete questioni derivanti dal reato. Ma chi intende iscriversi all’elenco dovrà superare una formazione più lunga e fare i conti con più “paletti” rispetto a quelli che indicava la riforma penale, che ha introdotto nel nostro ordinamento la “disciplina organica della giustizia riparativa”. È infatti previsto un percorso di formazione di 680 ore (160 di formazione teorica, 320 di formazione pratica e 200 di tirocinio), il doppio rispetto alle “almeno” 340 ore (240 tra teoria e pratica e 100 di tirocinio) indicate dal decreto legislativo. Inoltre, è fissata l’incompatibilità per chi esercitala professione forense o le funzioni di magistrato onorario nello stesso distretto. E, tra i requisiti, figura il non essere iscritto all’albo dei mediatori civili, commerciali e familiari. A dare le indicazioni sono i due decreti 9 giugno 2023 del ministero della Giustizia - uno dedicato alla formazione dei mediatori esperti e l’altro all’istituzione dell’elenco - previsti proprio dalla riforma penale (decreto legislativo 150/2022) epubblicatinellaGazzettaUfficiale155 di mercoledì 5 luglio. La giustizia riparativa In base alla riforma, che generalizza l’applicazione di istituti già utilizzati da tempo in campo minorile, le disposizioni sulla giustizia riparativa si applicherebbero nei procedimenti penali e nella fase dell’esecuzione della pena dal 30 giugno scorso (dopo sei mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo 150, avvenuta il 30 dicembre 2022). La riforma ha stabilito la possibilità, per la vittima del reato e la persona indicata come autore, oltre agli altri eventuali interessati, di accedere ai programmi di giustizia riparativa in modo volontario, in qualsiasi stato e grado del procedimento e senza preclusioni per la fattispecie di reato o la sua gravità. Si tratta di una possibilità comunque mediata dal giudice, che dispone con ordinanza l’invio al Centro per la giustizia riparativa, e che può portare benefici, se si conclude con un esito riparativo. Così, nel processo, può essere valutata come circostanza attenuante o anche generare la remissione tacita della querela e, nell’esecuzione della pena, essere valutata per l’assegnazione al lavoro all’esterno o per permessi premio o misure alternative al carcere. Nei fatti, però, per far decollare l’istituto mancano alcuni tasselli, come l’organizzazione dei Centri per la giustizia riparativa. E, sebbene siano stati pubblicati i decreti ministeriali sui professionisti, anche l’avvio dell’elenco non sarà immediato. È intanto prevista una norma transitoria per il primo popolamento. Può chiedere l’iscrizione chi, al 30 dicembre 2022, aveva già acquisito formazione ed esperienza. Le domande di iscrizione andranno presentate entro sei mesi dalla pubblicazione dei modelli sul sito del ministero e il procedimento si dovrà concludere entro 45 giorni. Per i potenziali nuovi mediatori, invece, i tempi saranno nettamente più lunghi. Le durate doppie rispetto al decreto legislativo possono mirare, ragiona Adolfo Ceretti, già coordinatore, nella scorsa legislatura, del gruppo di lavoro per la giustizia riparativa, “da un lato a escludere le persone non sufficientemente motivate e dall’altro ad assicurare la formazione più completa possibile”. Ma il percorso richiederà qualche tempo per essere attivato (da Università e Centri) e poi svolto dagli aspiranti mediatori: “La rete esistente - osserva Ceretti - può reggere in alcune zone anche un numero maggiore di programmi di giustizia riparativa. Ma se ci sarà, come auspicato, un incremento di invii da parte della magistratura, servirà un adeguato potenziamento. Crea più di una preoccupazione il fatto di non poter contare su nuovi mediatori per almeno due anni”. Le nuove norme, peraltro, rischiano di disincentivare l’iscrizione degli avvocati. “Lascia perplessi l’incompatibilità con l’esercizio della professione forense nello stesso distretto - osserva Donato Di Campli, consigliere del Consiglio nazionale forense di fatto, sembra escludere dalla giustizia riparativa l’avvocatura, che invece ha interesse a essere coinvolta. Né convince lo stop ai mediatori civili e familiari: la mediazione è unica”. Non solo. “Ci sono professionisti - nota Demetrio Calveri, vicepresidente dell’associazione dei mediatori penali Airac - che hanno seguito un corso facendo legittimo affidamento sulla durata della formazione prevista dal decreto legislativo. Ora saranno esclusi dal primo popolamento dell’elenco”. Giustizia riparativa: una via che non si sostituisce al processo di Niccolò Nisivoccia Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2023 Per portare avanti la riforma sulla giustizia riparativa sono arrivati i due decreti attuativi sulla formazione dei professionisti e sul loro elenco. Non tutti i tasselli del mosaico sono a posto ma l’auspicio è che non sia destinata a rimanere solo un’intenzione, questa legge. Spetterà a tutti coloro che operano nella giustizia, pur con le difficoltà che rischiano di presentarsi, farla vivere nella quotidianità (in cui la giustizia riparativa esiste da anni, al di là di una regolamentazione ufficiale). Ma cos’è, la giustizia riparativa? È una modalità alternativa di risoluzione dei conflitti, ma alternativa non nel senso di sostitutiva. Questo è un piano che spesso ha generato e genera equivoci: la giustizia riparativa non intende sovrapporsi alla legge; non intende sostituirsi alle sentenze dei giudici, e tantomeno intende contestarle. Al contrario: il rispetto della legge e delle sentenze è il presupposto che la orienta. Il fine della giustizia riparativa è quello di offrire ad autori e vittime dei reati, a patto che lo vogliano, quello spazio e quel tempo - che i processi non contemplano - in cui autori e vittime possano recuperare, alla presenza di un mediatore "equiprossimo", la possibilità di un confronto e di un dialogo, per riempirli anche solo di sguardi e silenzi e non per forza di parole. Ma sul presupposto, appunto, che i fatti siano chiari, e che altrettanto chiare siano le responsabilità e la loro assunzione. La giustizia riparativa, come infatti si dice, opera non "al posto" ma "all’insegna" della legge. Potrà scaturirne un accordo, o perfino un perdono (pur nell’ambiguità di significati che la parola "perdono" porta con sé quando venga usata al di fuori di una sfera intima e personale). Ma tutto questo comunque appartiene all’eventualità, e non alla necessità: una riconciliazione sarà sempre possibile, ma l’esito riparativo potrà avere il contenuto più vario. Così come, da parte sua, l’autorità giudiziaria potrà sempre valutare liberamente l’esito, senza vincoli. Ha certo molti detrattori, la giustizia riparativa. È inevitabile, quando inostri orizzonti abituali vengono scompaginati da nuovi modelli che li mettano in discussione. È questo quello che fa la giustizia riparativa, che riguarda specificamente il diritto penale ma a ben vedere richiama il diritto ingenerale all’interrogazione di se stesso: lo induce a ricordarsi che la sua funzione non dovrebbe essere quella di chiudere la realtà dentro una successione di norme tecniche, ma quella di contribuire a costruire relazioni sociali in una dimensione collettiva di convivenza e di scambio reciproco delle esistenze. Messa alla prova: no alla richiesta per la prima volta in Cassazione di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2023 Se il processo è approdato in Cassazione l’imputato non può chiedere la messa alla prova nemmeno quando, per il reato di cui deve rispondere, l’entrata in vigore della riforma Cartabia della giustizia penale rende ammissibile il beneficio che fino al 30 dicembre 2022 era precluso. Con la sentenza 23954 del 5 giugno scorso la Terza sezione della Cassazione chiude le porte a ogni ipotesi di retroattività delle modifiche della disciplina della messa alla prova introdotte con il decreto legislativo 150 del 2022, più favorevoli agli imputati perché consentono di ottenere la dichiarazione di estinzione del reato in caso di buon esito della prova per diverse altre fattispecie punite con pena edittale massima entro i sei anni. Messa alla prova “parziale” - La questione esaminata dai giudici di legittimità si intrecciava con un’altra, pure relativa all’istituto introdotto nel processo penale dalla legge 67 del 2014, in un’ipotesi in cui l’amministratore di una società era stato tratto a giudizio nel 2018 per diverse violazioni tributarie. Gli si contestavano l’omesso versamento di ritenute dovute o certificate e la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, che gli articoli 10-bis e 11 del decreto legislativo 74 del 2000 sanzionano con pena massima pari o inferiore a quattro anni di reclusione e che pertanto rientravano nella categoria dei reati per i quali già allora l’articolo 168-bis del Codice penale consentiva di richiedere la messa alla prova; nella contestazione, però, vi era anche il delitto di omessa dichiarazione al fine di evadere le imposte, per il quale non si poteva avanzare analoga richiesta perché l’articolo 5 del decreto legislativo 74 del 2000 prevede la pena massima di cinque anni di reclusione. L’imputato aveva quindi chiesto una messa alla prova “parziale” solo per i primi due reati, se del caso anche disponendo la separazione del giudizio per il terzo reato. Il giudice di primo grado aveva dichiarato inammissibile l’istanza e l’imputato aveva impugnato la decisione, lamentando di aver subito una preclusione non prevista dalla legge, in insanabile contrasto con la finalità rieducativa della pena. La decisione di secondo grado - Ma la Corte d’appello aveva confermato la pronuncia di primo grado, ricordando che già la Cassazione aveva ritenuto inammissibile l’accesso al beneficio nel caso di procedimenti aventi ad oggetto anche reati diversi da quelli previsti dall’articolo 168-bis del Codice penale, in quanto la definizione parziale è in contrasto con la finalità deflattiva dell’istituto e con la prognosi positiva di risocializzazione che ne costituisce la ragione fondante, proprio per la valenza ostativa della contestazione dei più gravi e connessi reati per i quali la causa estintiva non può operare. Né si potrebbe richiedere la messa alla prova previa separazione dei procedimenti, poiché l’articolo 18 del Codice di procedura penale non prevede la possibilità di procedere alla separazione in funzione strumentale rispetto all’accesso a riti differenziati (Cassazione 24707 del 2021). L’imputato, con il ricorso per cassazione, aveva ancora insistito nella sua tesi, chiedendo ai giudici di legittimità di rivedere il loro stesso orientamento e contestando in particolare che la messa alla prova dovesse necessariamente perseguire una “rieducazione totalizzante”. Dopo la riforma - Nel frattempo, il decreto legislativo 150/2022, entrato in vigore il 30 dicembre 2022, ha modificato l’articolo 168-bis del Codice penale che consente la messa alla prova anche “per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del Codice di procedura penale”, tra i quali alla lettera g) è ora inserito il reato previsto dall’articolo 5, commi 1 e 1-bis, del decreto legislativo 74 del 2000. Quindi, con la nuova disciplina, nessuno dei reati contestati sarebbe stato ostativo al beneficio. Ma la Cassazione ha richiamato la sua stessa giurisprudenza formatasi sui processi in corso quando è stato introdotto ex novo l’istituto e ha ribadito che il beneficio dell’estinzione del reato, connesso all’esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un “iter” processuale alternativo alla celebrazione del giudizio. E per questo non può essere richiesto per la prima volta al giudice di legittimità, nemmeno se la legge anteriore non lo prevedeva. Torino. Uccise compagno di cella: appicca il fuoco al materasso nel reparto psichiatrico di Carlotta Rocci La Repubblica, 10 luglio 2023 Ancora un incendio nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Il rogo è divampato ieri sera al Sestante, il reparto psichiatrico delle Vallette, finito al centro di un’inchiesta della procura, chiuso nel 2021 e poi riaperto dopo un’importante lavoro di ristrutturazione interna, ma in gran parte già danneggiato e non agibile. Ieri sera un detenuto con problemi psichiatrici - accusato dell’omicidio di un compagno di cella il 20 giugno scorso quando si trovava nel carcere di Velletri - ha appiccato un incendio al materasso nel bagno della propria cella e poi ha cercato di strappare dalle mani dell’agente penitenziario intervenuto per domare le fiamme, le chiavi della cella. Nel tentativo di impedirgli il “furto”, l’agente è rimasto ferito. L’intera sezione è stata evacuata. Il detenuto responsabile dell’incendio, poi, si è chiuso in cella chiedendo l’intervento di un medico. “Solo dopo un grande sforzo degli agenti di polizia penitenziaria veniva riportata la calma nella sezione”, denuncia il sindacato Osapp che commenta: “É giunta l’ora che la Regione individui strutture idonee, diverse dalle Rems, dove allocare e curare i soggetti con problemi psichiatrici che come più volte denunciato dall’Osapp in carcere non devono stare”. Il Sestante è uno dei reparti psichiatrici più capienti nelle carceri italiane e per questo riceve detenuti da tutt’Italia. Dispone di 14 stanze, anche se la metà sono già tornate inagibili dopo la ristrutturazione per i danni causati dagli occupanti, una situazione che ha sollevato l’attenzione della garante dei detenuti Monica Gallo e dell’associazione Antigone. “Forse questo sistema di affrontare la salute mentale andrebbe rivisto”, ha dichiarato qualche giorno fa in occasione di un report presentato da Magistratura Democratica, Michele Miravalle di Antigone. “L’inagibilità di molti spazi comporta che le persone con problemi mentali vengano spostate, non all’esterno, ma in altre sezioni del carcere non attrezzate ad accoglierle, dove lo psichiatra non è presente in caso di bisogno”. Il problema di persone con problemi psichiatrici detenuti in carcere in mancanza di alternative è stato sollevato in questi giorni anche dai magistrati di Magistratura democratica che a inizio giugno avevano visitato il penitenziario. Bologna. Caldo infernale alla Dozza, il disagio rischia di esplodere in violenza Il Resto del Carlino, 10 luglio 2023 Il sovraffollamento e le carenze strutturali decennali della Dozza rischiano di far esplodere il disagio in violenza, secondo il sindacalista D’Amore. La politica deve affrontare la questione carceri per evitare un fallimento dello stato sociale. Il termometro sale sopra i 35 gradi. E per chi già vive all’inferno, il caldo rischia di essere la miccia che fa esplodere il disagio in violenza. L’inferno in questo caso è la Dozza, dove il cronico sovraffollamento ha raggiunto picchi record. E dove le carenze strutturali decennali, malgrado il lavoro attuato in questi anni dalla dirigente, rendono la sopravvivenza insopportabile per i detenuti. Lo denuncia Nicola D’Amore della Cisl Fns: "In questo momento ci sono quasi 800 detenuti, in un carcere dove la capienza massima è di 500 e dove, attualmente, una sezione è chiusa per lavori", spiega il sindacalista. Un contesto che rischia di far esplodere il malcontento: "La politica ha sempre evitato di affrontare in maniera concreta la questione carceri - spiega D’Amore - e questo si ripercuote sulla vita dei detenuti e su chi lavora in carcere. Uno dei problemi è la mancanza delle docce nelle celle. Alla Dozza, la direttrice Rosalba Casella si è attivata con interventi che hanno permesso di risolvere l’annoso problema dell’acqua nelle docce comuni, sistemando l’impianto malfunzionante da anni. Ma per i detenuti che ad esempio svolgono attività lavorative e quindi rientrano nelle camere di detenzione più tardi, non c’è possibilità di lavarsi. Le celle, in cemento armato, la notte poi diventano dei forni. E i ventilatori sono solo nelle aree comuni. Chiaramente, questi disagi generano malcontento e il malcontento spesso sfocia in violenza". Una soluzione, per il sindacalista, non può passare soltanto dall’amministrazione della Dozza, "che fa quanto può, cercando di far dialogare carcere e territorio", dice, ma necessariamente deve arrivare dalla politica: "Il grado di sicurezza sociale si misura anche sullo stato delle carceri - conclude D’Amore: Quando fallisce lo stato sociale, il carcere è il termine di questo fallimento". La sconfitta della cultura del diritto di Massimo Cacciari La Stampa, 10 luglio 2023 La storia si ripete identica e i suoi diversi protagonisti ne ignorano o fingono di ignorarne il senso. Una politica debole, forme di governo che si fondano su coalizioni posticce, prive di ogni contenuto strategico, producono per necessità l’effetto che funzioni tecnico-amministrative dello Stato assumano, anche al di là delle loro intenzioni, immagini e ruoli tendenti a supplirne le deficienze. Negli anni 90, dopo il delirio giustizialistico succeduto a Tangentopoli (con il conseguente oscuramento del reale significato storico di quella stagione) questa tendenza giunse all’apice. Ma nulla si è fatto per correggerla alla radice. Correggerla avrebbe significato riforma della Giustizia in tutti i suoi settori, ma non solo: anche metter mano a una legislazione che disboscasse l’attuale giungla di norme e dispositivi che si contraddicono e sovrappongono in quelle materie più esposte al rischio di corruzione, di abuso di ufficio, ecc. Insomma, ancora una volta, riformare - esattamente ciò di cui le classi dirigenti di questo Paese si sono dimostrate incapaci. Non che mancassero le idee, un confronto culturale serio tra linee diverse ci è stato - è mancata la forza costituente, una maggioranza politica ampia e coesa decisa ad affermare la propria. Così pallidi pensieri si sono confusi con ancor più pallide volontà. L’assenza di una vera cultura del diritto nella classe politica ha regnato sovrana. Dal giustizialismo quando si tratta di colpire l’avversario allo strenuo garantismo (per modo di dire) quando è in gioco la difesa di sé stessi. Dal Berlusconi (lo prendo a insuperabile esempio) che vuole Di Pietro ministro Guardasigilli, al Berlusconi dell’arrogante quanto assurda pretesa di una politica che si auto-assolve in nome del popolo sovrano. E tutti insieme appassionatamente nell’uso più o meno spregiudicato di indagini, inchieste, avvisi di garanzia, intercettazioni per colpire l’“altra parte”. Prepotente ruolo della giustizia nella lotta politica - e poi qualcuno si stupisce del protagonismo di alcuni settori della magistratura?! E tutti a farsi male, ovviamente: la politica che non capisce di delegittimarsi in quanto tale in una lotta in cui ciascuno tiene il coltello dalla parte del taglio - la stessa magistratura che, anche a non volerlo, finisce con l’assumere un’immagine di soggetto politico, di “parte in causa” - con le conseguenze che si sono viste: crescente, drammatica perdita di autorevolezza e credibilità. La sola “carica” del nostro Stato che regge sembra a questo punto essere il Presidente della Repubblica, nostalgia quasi della figura paterna. Auguri ai naviganti che vorrebbero scassare anche questa con dilettanteschi o propagandistici progetti presidenzialistici. Questa triste situazione dovrebbe forse suscitare qualche interrogativo auto-critico sullo “stato presente dei costumi degli italiani” (Leopardi). Temo che i nostri padri costituenti avessero una cultura del diritto molto lontana da tali costumi. Al suo centro vi era l’idea dell’inviolabile dignità della persona. Idea che in alcuni di loro rivelava un fondamento teologico, ma che altri acquisivano da matrici illuministiche anche proprie della nostra cultura (Verra, Beccaria). Non è proprio questa idea a dissolversi oggi nel crogiolo della crisi tra politica e Giustizia? Quale valore mantiene la persona nella sistematica violazione della sua privacy che è oggi di fatto consentita? Nella trasformazione di ogni non dico processo, ma semplice indagine in condanna? Nella liquidazione di fatto del principio fondamentale che ritiene innocente chiunque fino a sentenza definitiva? Più in generale ancora: i principi-cardine di un ordinamento garantista vengono, da molto lontano, almeno dalla fine degli anni 70, subordinati alle “ragioni” dettate dalle varie “emergenze” che da allora si susseguono. Senza che si regolino in alcun modo, come pure il diritto imporrebbe, i margini nei quali quell’ordinamento possa anche essere forzato. L’eccezione diventa arbitrio se non viene a sua volta normata. Ma una simile tendenza, non vi è dubbio, appare culturalmente consona allo “stato attuale dei costumi degli italiani”, propensi a trovare il colpevole al di qua di ogni ragionevole dubbio, a seguire le chiacchiere decisionistiche prima di ogni analisi dei fatti e discussione responsabile. In un contesto generale in cui sembrano prevalere spinte sicuritarie e identitarie. La politica impotente a riformare asseconda servilmente tali costumi, fa leva su di essi per inseguire i propri fini di brevissima durata. E taglia così il ramo su cui è seduta. Può essere che da quel ramo cada anche l’abile Meloni. Certo non cadrà per mano di una opposizione che a contraddittori e asfittici progetti di riforma della Giustizia oppone ancora quella forma mentis conservatrice, che l’ha bloccata in questi decenni, che si trattasse di mercato del lavoro o di politiche fiscali, di istituzioni nazionali o europee, e che ci fa ritrovare oggi con un parlamentarismo esangue surrogato da uno pseudo-presidenzialismo, e con le funzioni tecnico-amministrative dello Stato dominate tutte da istanze corporative altrettanto, per natura, conservatrici. Cominci questa opposizione a dire concretamente che cosa intende per riforma della Giustizia - vuole, ad esempio, non toccare il reato di abuso di ufficio? E allora sappia che non vuole alcuna riforma, poiché tale reato come ora si configura è qualcosa di insostenibile, confondendo in sé posizioni e casi del tutto opposti, come qualsiasi amministratore sa benissimo sulla propria pelle. E tenga finalmente fermo nel suo agire, questa presunta opposizione, il principio a cui ci siamo sopra riferiti: è sempre una persona quella contro cui l’azione penale si rivolge, e anche il semplice essere indagati è già una pena, soprattutto per chi è onesto e tiene alla propria dignità sopra di tutto. Anziani: non è possibile vivere e morire così di Mons. Vincenzo Paglia Corriere della Sera, 10 luglio 2023 La strage di Milano nella “Casa dei coniugi” ci colpisce e ci interroga, non solo e non tanto per le dinamiche e le circostanze che hanno accompagnato e favorito l’incendio, che di questo se ne occuperà l’autorità competente. Certo, un impianto antincendio che non funziona, come pare sia il caso, in una struttura che ospitava circa 180 persone, di cui molte con gravi difficoltà motorie, e un turno notturno con soli 5 operatori per questo gran numero di pazienti, non sono fatti di poco conto, ma, ripeto, sarà il giudice a dirci se, chi e come non ha fatto il necessario per tutelare quelle fragili vite. Il problema che mi pongo davanti ad un fatto del genere, peraltro non isolato, come testimoniano il caso degli incendi nelle RSA nel Salento nel 2022 e a Lecce, supera le questioni della sicurezza e delle irregolarità, sicuramente numerose se, come pare, nel solo 2022 ben 152 strutture ispezionate dai NAS, il 25%, avessero presentato importanti difformità rispetto agli standard di legge. Io mi chiedo e vorrei che ognuno si chiedesse: è giusto vivere così gli ultimi anni della propria vita? In un casermone coi vetri delle finestre difficili da aprire, soli in un ambiente affollato, ma di fatto soli? O vivere e morire così a casa, senza uno straccio di aiuto, familiare, o pubblico o privato? Le statistiche ISTAT ci dicono che così vivano centinaia di migliaia (anche milioni!) di over 65. Davvero vogliamo per noi e per i nostri cari una vecchiaia così? Viene l’estate, tempo di vacanze e di anziani dimenticati, tempo di mare e di ondate di calore, come quella che ha mietuto oltre 20.000 persone solo nel 2022 in Europa. Nemmeno a dirlo, anziani nella stragrande maggioranza. Lasciatemi dire, finalmente il Governo Meloni ha approvato una legge delega che ci fa intravedere il sogno di una vita a casa propria, nella dignità e nella cura, o almeno in luoghi aperti, civilmente inseriti in un tessuto umano e sociale, circondati da quelle cure che permettono agli esseri umani di sentirsi ancora tali, anche in strutture dal sapore famigliare. Dico a me stesso ed ai responsabili del governo, delle amministrazioni regionali e comunali, come anche al volontariato, a tutti, che dobbiamo fare presto: mai più debbono avvenire tragedie della noncuranza, della sciatteria volgare e assassina che circonda tanti anziani! Si deve far presto a scrivere i decreti legislativi e li si deve scrivere bene, accettando la sfida umana, economica e civile che comporta l’assistenza di milioni di esseri umani. In realtà la posta in gioco è ancora più alta: è il senso stesso che vogliamo dare alle nostre vite e alla nostra vecchiaia, che sia una stagione di pace, di affetti, di libertà. Siamo al bivio di una grande scelta di civiltà. Non possiamo né tardare, né fallire. Cos’ha deciso il tribunale di Trieste sulla morte volontaria e perché è importante di Chiara Lalli Il Foglio, 10 luglio 2023 I giudici hanno accolto la richiesta di una donna di verificare se ha le condizioni previste dalla sentenza 242 della Corte costituzionale per chiedere di scegliere quando può terminare la sua vita. L’azienda sanitaria dovrà verificarlo entro 30 giorni. Anna ha 55 e non si chiama Anna ma ancora non vuole rivelare la sua identità. “La mattina mi sveglio e la giornata trascorre mentre io sono ferma immobile e la mia famiglia con le mie assistenti si prendono cura del mio corpo. Ho una malattia che mi ha privato della mia autonomia, dipendo per tutto da chi mi ama e dalle mie assistenti”. Ha scoperto di avere la sclerosi multipla nel 2010 e ormai è completamente dipendente dagli altri, fatica a parlare, ogni gesto per noi banale è per lei impossibile. Dal 4 novembre 2022 aspetta che l’azienda sanitaria regionale verifichi se ha le condizioni previste dalla sentenza 242 della Corte costituzionale. Quella sentenza ha indicato le circostanze in cui la morte volontaria non è più un reato dichiarando “l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Anna non ha chiesto un favore ma qualcosa che le spetta, cioè il rispetto delle sue volontà garantito dalla Costituzione e affermato più volte dalla Consulta, eppure le hanno risposto che avevano interpellato il comitato etico e che non potevano procedere in assenza di una legge. “Ogni giorno attendo che qualcuno mi avvisi che verrà a verificare le mie condizioni e come potrò accedere all’aiuto al suicidio quando lo vorrò”. La malattia le ha tolto quasi tutto e Anna vorrebbe poter scegliere, se e quando questa condizione diventerà per lei intollerabile (è già irreversibile), di non vivere più in questo modo. Anna ha solo due possibilità: continuare a vivere, aspettando che il peggioramento della malattia le farà perdere quel filo di voce che le è rimasto e sarà costretta a usare un puntatore oculare per comunicare e poi avrà bisogno di un respiratore e di una Peg quando non potrà più mangiare, oppure morire quando sarà lei a deciderlo, un po’ prima del tempo. “L’unica cosa che posso ancora difendere da un corpo che non mi risponde è la mia libertà di scelta, la mia mente, i miei pensieri, in un corpo che ogni giorno che passa mi priva di qualcosa. Chiedo ai dirigenti della mia azienda sanitaria di chiudere gli occhi e di immaginare cosa significa essere malati come me. Immaginare ogni singolo minuto ferma, immobile, in un tempo che non passa, trascorre lento”. Difesa da un collegio legale coordinato dall’avvocata Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, all’inizio di giugno Anna ha fatto presentare un ricorso d’urgenza per costringere l’azienda sanitaria a rispondere. A questo ricorso il 4 luglio ha risposto il tribunale di Trieste, accogliendo la sua richiesta e costringendo l’azienda a eseguire le verifiche entro 30 giorni. Dopo la verifica delle condizioni e il parere del comitato etico, se ci sarà corrispondenza con quanto indicato dalla 242, saranno indicati il farmaco e le modalità di assunzione. Se l’azienda continuerà a essere inadempiente, dopo questi 30 giorni dovrà pagare 500 euro per ogni giorno di ritardo. Il giudice ha anche condannato l’azienda sanitaria a pagare una parte delle spese processuali. Il diritto di Anna è un diritto costituzionalmente tutelato, è il diritto di scegliere della propria vita che nei decenni - dalla Costituzione in poi - è stato rinforzato perché non ci sono alternative migliori. Siamo fatti diversamente, reagiamo diversamente alle malattie e ai farmaci, ai trattamenti e alla mancanza di autonomia e per questo motivo, in presenza di alcuni requisiti, dovremmo poter decidere che cosa è meglio per noi. Questa libertà è il fondamento di un mondo non paternalistico e non autoritario, che non dovrebbe usare il bene “vita” per annientare il bene “libertà”. Quella libertà che può anche non essere esercitata (se è garantita). Come dice Anna e come dicono molte persone afflitte da malattie incurabili e dolorose, la verifica delle condizioni non implica poi la decisione di ricorrere alla morte volontaria. Oggi quella verifica è un diritto che a qualcuno può non piacere. Ma c’è una soluzione: chi non vuole non è costretto a usarlo, ma chi desidera vivere (e morire) diversamente, dovrebbe avere la possibilità di ricorrervi e la garanzia di avere una risposta. Perché quel “diritto di scelta è l’unica libertà che noi tutti abbiamo quando la vita ci colpisce con una malattia che è una strada senza ritorno”. Cos’è l’Europa oggi? Una realtà in agonia che deve tornare agone di Gabriele Segre Il Domani, 10 luglio 2023 I confini dell’Europa oggi sono quelli segnati da chi cerca di farvi parte: i campi profughi alle sue frontiere, i barconi affondati nel Mediterraneo, perfino le banlieue francesi. Nuove frontiere che servono a definire la distanza tra “noi” e “loro”. Di fronte a queste scelte, i governi dell’Ue si dimostrano incapaci di decidere, diventando il ritratto di un’Europa in agonia. Chiederci cosa vogliamo che diventi l’Europa ci restituirebbe la capacità di lottare per uno scopo. Il primo “agone” è proprio la scelta tra l’Europa della “Polis" o della “Civitas”, dell’identità esclusiva o di una comunità che accoglie chi ne condivide il fine comune. È dai tempi di Erodoto che ci interroghiamo su dove si trovino i confini d’Europa, ma mai come oggi ci sono apparsi così distanti dalle linee sulla mappa. Dovremmo forse collocarli alle frontiere di Turchia o Polonia dove si ammassano i popoli in fuga dalle guerre? O piuttosto nel mezzo del mar Mediterraneo? E perché non nelle prigioni libiche dove viene rinchiuso chi fugge da un’esistenza di miseria, nei centri di accoglienza strapieni nel sud d’Italia o nelle banlieue francesi che bruciano in queste settimane? Delineare i confini è compito arduo: ci impone di confrontarci con la distanza che separa “noi” da “loro”. È più “estraneo” un immigrato, un profugo, o un rifugiato? Un ucraino, un siriano, o un rom? Chi scompare sul fondo del mare o chi, in un sobborgo degradato, lotta per non dissolversi nell’oblio della nostra indifferenza? Silenzi imbarazzati - Di sicuro sono domande che imbarazzano i 27 capi di Stato e di governo dell’Unione, come dimostra il lungo documento emesso al termine del Consiglio europeo del 30 giugno, dove non c’è traccia del “Patto su immigrazione e asilo” che invece esigeva parole di chiarezza immediate. Un silenzio che non è solo un altro insopportabile fallimento nel tentativo di trovare una posizione comune, ma rischia di diventare lo specchio di un’Europa in sconfortante agonia. Il peggio è che, nel suo significato di momento che precede la morte, l’agonia potrebbe protrarsi a lungo. Nell’incessante tentativo di rispondere alla domanda “che cosa è l’Europa oggi”, difficilmente i nostri leader rinnegheranno la volontà di trovare una mediazione per una convergenza in verità impossibile. Le prospettive cambierebbero, tuttavia, se volgessimo l’interrogativo al futuro, cominciando a chiederci “cosa vogliamo che diventi l’Europa”. Allora sì che l’agonia acquisterebbe un’altra accezione: quella di “agone”, la competizione verso un traguardo prefissato. E non sarebbe male, considerando che l’agonismo è uno dei più potenti motori di sviluppo che la civiltà occidentale ha ereditato dalla cultura greca. Il bivio - È ancora con lo sguardo rivolto alla classicità che possiamo riconoscere come il nostro prossimo “agone” sia proprio la disputa divergente tra l’Europa della polis ellenica e quella della civitas romana. Un bivio non solo lessicale, ma di civiltà. La prima risponde al desiderio di creare un’identità europea ben definita. Come nell’Atene di Pericle in cui votavano i cittadini liberi figli di genitori ateniesi, si tratta di stabilire i parametri di appartenenza, confinando tutti gli “altri” in banlieue appena fuori le nostre mura. La civitas romana, invece, è fondata sull’idea che, per lo stato, l’identità sia ininfluente rispetto all’osservanza della legge comune: come ai tempi dell’imperatore Caracalla, persone con culture, fedi e persino lingue diverse possono abitare gli stessi spazi e avere gli stessi diritti, purché perseguano un fine comune di ordine e prosperità. L’Europa nata dal dopoguerra sembrava aver optato per la civitas nel tentativo di mettersi al riparo dai conflitti millenari tra le sue nazioni. L’aveva fatto rispolverando l’arma del logos: l’impiego più nobile di dialogo e ragione che permette di riconoscere la dignità di identità differenti e di creare relazioni in cui la specificità di ognuno diventa il vantaggio di tutti. Ma oggi appare chiaro che il problema non è tanto definire “cosa scegliere”, quanto trovare la determinazione di “compiere la scelta”. In assenza di decisioni, la mediazione a oltranza, l’ultimo tentativo di compromesso o, peggio, l’ultimo silenzio in difesa di una storia condivisa sono solo altri modi per mascherare l’incapacità di progettare il futuro. Salvo poi realizzare che il futuro sta già bussando ai nostri confini in maniera sempre più assordante. Confini che non sono nemmeno più quelli tracciati dal filo spinato, o da una fila di cassonetti bruciati nei viali anonimi di una periferia, ma quelli marcati proprio nel punto in cui si è fermata la nostra dignità. Ucraina. Anziani in prima linea: la lotta per avere cibo, farmaci e assistenza sanitaria di Francesca Mannocchi La Stampa, 10 luglio 2023 Sono loro i più esposti alla povertà e all’isolamento ma hanno deciso di restare per rispetto ai loro ricordi. Sedute su una panchina di fronte a un magazzino distrutto di Ozerne, oblast di Donetsk, Lidya e Oksana cercano l’ombra al sole di mezzogiorno. Lidya ha 76 anni, Oksana 72. Sono due tra le pochissime anime rimaste ad abitare la distesa di campi di grano interrotta da una bottega, ormai chiusa, un parco giochi abbandonato e un edificio che prima della guerra fungeva da succursale della municipalità e che oggi serve a distribuire acqua e pane e a ospitare i dottori che una, o due volte a settimana incontrano gli anziani per portare medicine altrimenti introvabili. Lydia vive con il marito Ihor ottantenne in una fattoria distante due chilometri dal punto di ritrovo e soccorso. Li percorre da sola, trascinando una carriola, sperando che non sia vana la fatica di raggiungere i volontari e portare indietro una cassa d’acqua e qualche scatola di medicine per il diabete di Ihor. Oksana vive con le due sorelle, una delle due ha problemi alla colonna vertebrale, non si muove da casa da mesi, il dolore talvolta le è insopportabile, la lista dei farmaci di cui avrebbe bisogno è lunga e costosa. Stentavano a fare fronte ai costi prima del conflitto, adesso che nei villaggi mancano i medici e stentano ad arrivare le pensioni, non le resta che assistere a quel dolore e pregare, sperare che quando arrivino i medici insieme a loro ci siano i pannoloni per l’incontinenza, perché la guerra impatta anche le forme meno visibili della vergogna, al rischio di perdere la dignità. Ripristinare un senso di dignità - Per molte donne anziane, la mancanza di accesso all’assistenza sanitaria ha avuto un impatto sul loro senso di dignità. Ogni frase delle due donne è scandita da un segno della croce. Gli anziani sono le persone esposte al rischio maggiore di questa guerra. Il 25% della popolazione ucraina, nove milioni di persone, ha superato i sessant’anni, il 44% delle persone con più di 70 anni vive da solo. Secondo le organizzazioni locali che li seguono dall’inizio del conflitto, come Help Age International, più della metà degli anziani sta vivendo un profondo disagio psichico. “Da quasi un anno e mezzo gli anziani in Ucraina stanno lottando per avere cibo, medicine, assistenza sanitaria a sufficienza” dice Dimitrije Todorovic, direttore nazionale dell’organizzazione. “Deve restare una priorità raggiungere le persone nei villaggi più sperduti, una priorità concentrarci su chi è più esposto alla povertà e all’isolamento, anziani spesso soli e talvolta disabili”. I funzionari e i volontari ucraini hanno invitato i residenti delle zone prossime al fronte alle evacuazioni. La maggior parte ha risposto alla chiamata, quando - come nel caso di Bakhmut caduta a maggio - alcune famiglie manifestavano resistenza i bambini accompagnati da un genitore sono stati costretti ad andare via per essere messi in salvo, ma per gli anziani la decisione di non andare equivale alla devozione che si deve al posto che si è costruito, sebbene ne restino solo rovine, sebbene i figli siano a combattere o peggio a occupare posti nei cimiteri, le figlie e i nipoti diventati sfollati interni o profughi. Decidono di restare per rispetto dei loro ricordi accumulati pietra su pietra, e faticano a sopravvivere proprio perché il conflitto ha distrutto pezzo dopo pezzo quelle medesime pietre. Valeria Leonova è una giovane dottoressa originaria della regione di Donetsk. Due volte a settimana raggiunge i villaggi rurali sperduti e prossimi alle linee del fronte con la quadra di Medici Senza Frontiere con cui lavora. Due giorni fa ha raggiunto Kryva Luka e Ozerne. Essendo originaria della regione di Donetsk, alla guerra è abituata, così come ai suoi effetti, perciò per lei è stato istintivo, naturale, mettersi a disposizione dei vulnerabili e insieme poter continuare a svolgere la sua professione. La piccola clinica dove prestava servizio è stata distrutta, il suo paese si è fatto dimora di chi vuole morire dove è sempre vissuto e così Valeria il martedì e il giovedì parte da Sloviask, base dell’associazione, riempie l’auto di casse di farmaci, indossa il giubbotto antiproiettile e raggiunge piccoli centri abitati da reggimenti di soldati e sguardi smarriti degli anziani che faticano a riconoscere il luogo in cui hanno sempre vissuto. Attraversa ponti mobili che sostituiscono quelli distrutti, file di abitazioni piegate dai mortai, colonne di mezzi corazzati che vanno verso il fronte, e apre dei piccoli fabbricati dove l’aspettano a decine. Racconta che l’assenza di presidi medici ha portato a un aumento delle malattie croniche, che ha visto peggiorare lo stato psicofisico dei pazienti ogni volta che è tornata, perché la tensione fa emergere le malattie dormienti, aumenta la pressione, lo stato d’ansia, perché per un anziano è più difficile riconoscere prima e ammettere poi di avere un problema psicologico causato da mesi di paura, perdita, isolamento e prossimità alla violenza. Dall’inizio dell’invasione, lo staff di Medici Senza Frontiere lavora ogni giorno per raggiungere i villaggi prossimi al fronte sulla linea ucraina. Nonostante le richieste di lavorare su entrambi i lati del conflitto, le squadre possono operare solo nelle aree sotto il controllo ucraino. “Lungo i 1.000 km di prima linea alcune aree sono state semplicemente cancellate dalla mappa”, ha detto Christopher Stokes, responsabile dei programmi per MSF nel Paese. “Abbiamo visto case, negozi, parchi giochi, scuole e ospedali ridotti in macerie, in molte delle città in cui lavoriamo la distruzione è totale”. Medici Senza Frontiere denuncia l’attacco alle strutture sanitarie dall’inizio del conflitto, già a metà 2022 le squadre di Msf avevano assistito agli effetti delle munizioni a grappolo sugli ospedali a Mykolaiv e Apostolove, attacchi che avevano provocato la sospensione dei pazienti all’accesso alle cure mediche. In autunno avevano testimoniato la presenza di mine antiuomo in ospedali che erano stati sotto occupazione russa nelle zone di Kherson, Donetsk e Izyum e scoperto che diverse strutture mediche nelle aree liberate dall’occupazione russa erano state saccheggiate, i veicoli medici - ambulanze comprese - distrutti, e nei magazzini degli ospedali erano stati stoccati armi e esplosivi. Il messaggio ai civili è chiaro: chi ha bisogno di medicine e cure sa che nemmeno gli ospedali sono più un luogo sicuro. Vita Statkevych è la psicologa di supporto al team, lunghi capelli neri, occhi di ghiaccio. È la prima cui vanno incontro le anziane quando scende dai mezzi di Medici Senza Frontiere. Apre gli sportelli dell’auto e tira fuori due piccole seggiole, le sistema sotto l’ombra degli alberi e inizia a parlare con le donne, una alla volta. Prima erano tutte diffidenti, ora hanno capito che parlare è il primo passo per poter tollerare di vivere in una terra che è la guerra ha reso deserto. Iryna, 69 anni, dice che quello che non riesce a superare è che per lei vivere in una zona rurale, far crescere i suoi figli e i suoi nipoti a Ozerne, significava sentirsi parte di una comunità. La sua fattoria era il punto di ritrovo di tutta la famiglia, dei figli e dei figli dei figli. Poi quando è iniziata la guerra sono andati tutti via, lei è rimasta a cucinare per le dodici persone che ancora vivono lungo la strada. Era la sola a uscire dal rifugio per accendere il fuoco, prima per sfamare gli anziani, poi per sfamare anche i soldati. Ora il rumore dei colpi è cessato o si presenta come un’eco in lontananza. Ma lei sa che non è finita e che il silenzio, temporaneo, non corrisponde né alla pace né al ritorno degli ultimi anni della sua vita per come li aveva sperati. Non ha bisogno di niente, non le servono medicine, le serve poter dire a qualcuno che è esausta e che l’oscurità della notte le ha distrutto i nervi. La dottoressa Statkevych la ascolta, quando Iryna prova a trattenere il pianto in un liso fazzoletto di stoffa le prende la mano e le dice: “Piangi pure, te lo devi, ti stai ancora prendendo cura di tutto, anche dodici persone sono una comunità, ridotta, ferita, ma pur sempre una comunità”. Di anziani che aspettano il ritorno dei figli dal fronte e non possono più vedere i loro nipoti giocare, immaginare il futuro, desiderare la spensieratezza che la guerra ha sottratto loro. Tunisia. A Sfax giovani nazionalisti cacciano i sub-sahariani e li fanno sfilare per strada con le mani in alto La Repubblica, 10 luglio 2023 Nei video sui social si assiste a scene di “giustizia popolare” da parte di minorenni indottrinati che fanno chiedere “perdono” agli africani immigrati. Più di 500 migranti subsahariani sono stati arrestati a Sfax e portati al confine libico o algerino, dopo che la gendarmeria aveva effettuato raid nei quartieri popolati da persone provenienti da diversi Paesi africani. Lo riferisce Human Rights Watch (HRW). A dare man forte alla polizia tunisina ci sono stati gruppi di giovani armati di bastoni e pietre che hanno minacciato gli immigrati africani nei quartieri di Sfax, dove in qualche modo hanno trovato una sistemazione. Secondo alcune organizzazioni umanitarie, è in atto una vera e propria campagna di propaganda sui social network, orchestrata da membri del Partito Nazionalista Tunisino, con dichiarazioni xenofobe e cospiratorie. Cacciati dalle case sfilano con le mani in alto. Esistono diversi video, pubblicati su Facebook e Tik Tok, sui quali si vedono chiaramente dozzine di giovani tunisini che inseguono migranti subsahariani nei quartieri alla periferia della città a 270 km a Sud di Tunisi, la seconda della Tunisia. Intanto, nel distretto di Rbatt - sempre a Sfax - altri gruppi di giovani hanno cacciato i sub-sahariani dalle case dove alloggiavano. Con il volto coperto da una bandana e bastoni in mano, li fanno sfilare con le mani in alto per strada, come si vede chiaramente in un video diffuso su TikTok il 5 luglio scorso da uno dei partecipanti all’attacco. “Vogliono fare i gendarmi al posto della polizia”. “È gente che si è assunta arbitrariamente il ruolo dei gendarmi” Zied Mallouli è il fondatore di un’iniziativa popolare di Sfax chiamata Sayyeb Ettrotoir ("sciogliere il marciapiede") inizialmente destinata a denunciare l’inquinamento e l’uso illegale dello spazio pubblico, lanciata nel 2015. “Sere fa - ha riferito - un residente del distretto di Haffara, a Nord della città di Sfaz, ha chiamato dicendo che nel quartiere erano scoppiate tensioni e che si stava preparando un bagno di sangue. Sono andato lì per parlare ai giovani che si erano presentati davanti alle abitazioni dei subsahariani, pronti a dare battaglia. Abbiamo cercato di calmare la loro rabbia e spiegare loro che far rispettare la giustizia non è loro responsabilità”. L’invito a fare “giustizia di massa”. D’altra parte, la polizia non è la benvenuta in queste zone disagiate della città, già di loro sensibili, e dove la convivenza con gli immigrati subsahariani genera una guerra tra poveri, peraltro già vista in mille altre situazione simili. Sono stati arrestati anche diversi giovani giovani tunisini, anche minorenni, che avevano aderito agli appelli sui social network per aggredire i neri a Sfax e agli inviti rivolti alla popolazione civile di fare la propria "giustizia di massa". È avviata un’inchiesta del Tribunale. In un altro video, si mostra il rapimento di migranti subsahariani costretti a chiedere "perdono" ai tunisini per le presunte violenze che avrebbero scatenato a Sfax. Nello stesso video si chiede poi la creazione di uno Stato nello Stato, per l’autogestione della sicurezza a Sfax. Il Tribunale di primo grado della città ha aperto un’inchiesta nei confronti di Marwen Mestiri, alias "El Brince", dopo aver pubblicato video come quelli appena citati, nei quali riprende davanti alla telecamera migranti subsahariani che chiedono perdono ai tunisini. Il ruolo del Partito Nazionalista sui giovani. Zied Mallouli, l’attivista che si batte per la difesa dei diritti riferisce poi che la maggior parte degli attacchi armati avvengono nei distretti a Nord di Sfax e nelle campagne circostanti, dove vivono comunità di cittadini subsahariani. “Questi giovani dice - che qualche mese fa giocavano a calcio assieme e simpatizzavano con altri giovani migranti, ora li attaccano. con bastoni e armi da taglio. Secondo me - aggiunge - sono indottrinati dagli adulti nazionalisti e xenofobi, che purtroppo stanno prevalendo. Si avverte poi molta retorica veicolata dal Partito Nazionalista - dice ancora Zied Mallouli - uno dei cui membri incita in video su TikTok gli abitanti del quartiere di Rbatt ad andare ad attaccare i migranti radunati all’altezza della moschea di Sidi Lakhmi, nel centro di Sfax”. Ventotto anni fa, a Srebrenica, il genocidio più veloce della storia di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 10 luglio 2023 “Protezione” e “genocidio” sono due parole che non dovrebbero mai stare insieme. Ma è successo, nel cuore dell’Europa, intorno a 30 anni fa. Il 16 aprile 1993 la città bosniaca di Srebrenica venne dichiarata “zona protetta” dalla risoluzione 819 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Dall’11 luglio 1995 subì il genocidio più veloce della storia. In quell’estate del 1995, dopo oltre tre anni di guerra, Srebrenica contava 42.000 abitanti, 36.000 dei quali fuggiti da altre zone della Bosnia in cerca, appunto, di “protezione”. La città aveva una popolazione in maggioranza musulmana ma si trovava in quella parte della Bosnia che, sulle carte geografiche già stese da tempo sui tavoli, sarebbe spettata alla Republika Srspka, l’entità serba in Bosnia, come condizione per la fine della guerra. La “protezione” di Srebrenica era affidata a un battaglione olandese di 600 caschi blu dell’Unprofor (la Forza di protezione delle Nazioni Unite): il Duchbat III, guidato dal colonnello Ton Karremans. L’assalto finale da parte delle forze del generale Ratko Mladi? e del suo vice Radislav Krsti? iniziò il 6 luglio. La mattina del 10 Karremans chiese appoggio aereo. Dopo molte insistenze, l’ottenne per il giorno successivo: due missili centrarono altrettanti tank serbi già danneggiati dalle forze bosniache. Tutto qui. Alle 16.15 dell’11 luglio il generale Mladi? proclamò trionfalmente di fronte alle telecamere l’avvenuta conquista di Srebrenica. Poco dopo Karremans fece chiudere il compound delle Nazioni Unite dove si erano riversate alcune migliaia di civili. Molti di più rimasero fuori, mentre gli uomini “in età da combattimento” già rifugiatisi nel compound furono consegnati direttamente da Karremans a Mladi?. Nel giro di meno di una settimana migliaia di uomini di religione musulmana vennero passati per le armi. La prima commissione d’inchiesta, guidata dall’ex primo ministro polacco Masowiecki, fissò inizialmente il numero dei morti a 7800. Negli anni successivi emerse che a mancare all’appello erano oltre 10.000 persone. Molte risultano tuttora ufficialmente scomparse. La giustizia, attraverso il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, ha processato i principali responsabili del genocidio. In primo grado, il 24 marzo 2016, il leader politico dei serbi di Bosnia Radovan Karadži? è stato condannato a 40 anni di carcere per una caterva di reati: oltre che di genocidio, è stato dichiarato colpevole di persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione, atti inumani, terrore, attacchi illegali contro civili e cattura di ostaggi. Sempre in primo grado, il 22 novembre 2017, Ratko Mladi? è stato condannato all’ergastolo per genocidio, crimini contro l’umanità e violazione delle leggi e dei costumi di guerra commessi dalle forze serbo-bosniache ai suoi comandi dal 1992 al 1995. I verdetti definitivi sono stati emessi dal Meccanismo residuale che ha portato a termine i procedimenti ancora aperti all’atto della chiusura del Tribunale: il 20 marzo 2019 la condanna di Karadži? è stata aumentata al carcere a vita, l’8 giugno 2021 è stato confermato l’ergastolo per Mladi?. *Portavoce di Amnesty International Italia Stati Uniti. Derecka Purnell: “Un mondo senza carceri è possibile” di Emanuela Minucci La Stampa, 10 luglio 2023 Il carcere è un’organizzazione da smantellare, perché non più salvabile né aggiustabile. Lo propone la scrittrice, avvocata e attivista Derecka Purnell nel suo libro “Come sono diventata abolizionista” (Fandango). Il 13 luglio saranno dieci anni dall’assoluzione di George Zimmerman, il vigilante che nel febbraio 2012 uccise in Florida il diciasettenne Trayvon Martin dando inizio a una serie di proteste contro la polizia. Un problema, quello della violenza usata dalle forze dell’ordine verso ragazzi soprattutto neri che continua ad affliggere la società americana - e che è alla base anche dei recenti scontri in Francia, dopo l’uccisione di Nahel M., diciassettenne, a Nanterre - e che ha portato alcuni attivisti a proporre come soluzione di abolire la polizia. Un’organizzazione da smantellare, perché non più salvabile né aggiustabile. Lo propone la scrittrice, avvocata e attivista Derecka Purnell nel suo libro “Come sono diventata abolizionista” (Fandango), una concezione che prende spunto non solo da posizioni intellettuali, ma che fonda le sue radici nelle sue esperienze di vita di donna nera cresciuta in un sobborgo povero di St. Louis. “Chiamare il 911 e chiedere l’aiuto della polizia era la soluzione un po’ per tutto”, spiega via Zoom raccontando della sua infanzia non facile in cui gli agenti in divisa sono sia i buoni, quelli che aiutano, ma anche i cattivi, quelli che allontanano lei e i fratelli dalla famiglia, o che stuprano nel quartiere o che si rendono protagonisti di episodi brutali. La polizia come un placebo, scrive, utilizzato dallo stesso governo federale che però non investe in ospedali, nel sistema educativo, nel creare benessere nelle comunità. Abolizionisti non si nasce, ma si diventa. Lei come lo è diventata? “Nella mia vita ho avuto idee diverse sulla polizia, ma dopo aver assistito per anni alla brutalità degli agenti mi sono messa a pensare e studiare, a leggere Angela Davis, Ruth Wilson Gilmore, Dylan Rodriguez, persone che sono state critiche nei confronti della schiavitù, del capitalismo e dello sfruttamento, che hanno messo in discussione la polizia e la sua funzione nella società. Da lì sono partite le mie domande: perché esiste la polizia? Perché ne abbiamo bisogno? Ci tiene davvero al sicuro? Negli Stati Uniti abbiamo circa un milione di poliziotti e uno dei tassi di violenza più alti al mondo. È chiaro che i conti non tornano”. Negli Usa c’è consenso sul fatto che negli ultimi anni la polizia si sia troppo militarizzata e che spesso intervenga armata in situazioni in cui servirebbero altre figure professionali, ad esempio quando sono coinvolte persone con disturbi mentali. Da qui a dire che non ne abbiamo bisogno c’è molta differenza... “La militarizzazione è un problema della polizia. Ma non è il problema con la polizia. Ed è vero, sono in molti a chiederne la demilitarizzazione, pensando sia quella la soluzione. Abbiamo bisogno non di poliziotti che abbiano una mentalità guerriera, ma di poliziotti che abbiano una mentalità da guardiani. Non voglio che la polizia - per quanto demilitarizzata e gentile - faccia il lavoro del capitalismo, del colonialismo e del razzismo. Voglio lavorare per eliminare queste realtà dalla società e per ridurre la nostra dipendenza dalla polizia. Finché la polizia rimarrà una fonte di riorganizzazione, si sceglierà di investire in essa invece di investire in tutta una serie di riforme per avvicinarsi più possibile a una vita sana e prospera”. Obiezione che immagino facciano in molti: e gli omicidi? “Il tasso di liquidazione significa quante volte la polizia arresta qualcuno in relazione a un crimine. Ebbene, in Usa è inferiore al 50 per cento. L’idea quindi che la polizia risolva i casi di omicidio è sbagliata. Secondo un altro studio, meno del 4 per cento delle chiamate che coinvolgono la polizia hanno meno violenza in risposta. Non credo che arriveremo mai a un mondo in cui ci saranno zero omicidi, non è realistico, ma credo si debba lavorare investendo in tutto quello di cui ho parlato prima in modo da ridurre gli omicidi. Quando arriveremo a, che so, cinquemila o duemila o mille o cinquanta, ecco, allora ci potremmo chiedere: cosa ne facciamo di queste 50 persone che hanno ucciso? Dare i nostri soldi alla polizia e alle carceri non ci aiuta ad arrivare lì, anzi ci distrae dal tipo di conversazione che dovremmo avere. In questo senso l’abolizione non è solo far sparire i poliziotti, è un metodo per aiutare una società violenta in cui è anche la polizia a perpetuare quella violenza”. A essere per l’abolizione della polizia in Usa sono spesso i bianchi democratici che vivono in quartieri ricchi mentre le minoranze che vivono in quartieri degradati la polizia la vogliono eccome... “La polizia viene dal colonialismo e dal capitalismo. Negli Stati Uniti venne ampliata per catturare persone che scappavano dalla schiavitù, che erano coinvolte in ribellioni o che stavano cercando di organizzare scioperi contro i propri datori di lavoro. Le persone che vengono protette dalla polizia sono ancora soprattutto i bianchi con ricchezze da proteggere. Le persone dei quartieri poveri e neri come quello in cui sono cresciuta, è vero che vogliono la polizia, ma vogliono anche molto altro. James Baldwin lo scriveva già negli anni Sessanta: “Chiedi ai neri se vogliono la polizia o vogliono la sicurezza. Ti risponderanno la sicurezza”. Il problema è quando si confondono le due cose”. A Minneapolis dopo l’uccisione di George Floyd ci fu un referendum: i cittadini votarono per mantenere la polizia... “Anche se quel referendum è fallito, credo che il successo sia che ne stiamo parlando, che ci sono organizzazioni e persone che stanno pensando, sognando, discutendo e combattendo per l’abolizione”. Il suo attivismo per l’abolizione della polizia si sposa con quello per l’abolizione delle carceri? “Nel 2018, conobbi Jordan Mazurek, coordinatore della campagna To Fight Toxic Prisons (Ftp), un collettivo che usa movimenti dal basso e azioni dirette per mettere in discussione il sistema carcerario in relazione alla giustizia ambientale e alla liberazione della terra. Come Ftp sostiene: “Tutte le prigioni sono tossiche - tossiche ambientalmente per chi sta al loro interno o per il terreno su cui poggiano, oppure tossiche socialmente per le nostre comunità, considerate usa e getta dal capitalismo, dal suprematismo bianco e dal colonialismo, e quindi prese di mira dal sistema punitivo penale”. Fight Toxic Prison mi ha aperto gli occhi sulla possibilità di fare attivismo abolizionista in parallelo a quello per la giustizia climatica. La combinazione di queste due campagne può diventare una meravigliosa attrattiva per chi già tiene alla giustizia climatica, ambientale o per le disabilità, ma è ancora curioso o scettico riguardo l’abolizione. Così facendo, si troverebbe un terreno comune per impedire alla polizia di rinchiudere le persone in celle allagate durante le catastrofi ambientali, o per negare a chiunque la possibilità di vivere o lavorare in aree dove si depositano rifiuti tossici. Dato che tali temi e campagne si intersecano con la giustizia ambientale, gli attivisti che si mobilitano principalmente in questi campi possono contribuire a rendere obsoleto il complesso carcerario-industriale”.