La malattia affrontata nella solitudine e nella sofferenza del carcere di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 9 giugno 2023 Penso subito al giuramento di Ippocrate quando, entrando in redazione nell’Alta Sicurezza di Parma, vedo Domenico Papalia pallido e completamente calvo dopo la prima infusione di chemio. “Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro: * di esercitare la medicina in autonomia di giudizio e responsabilità di comportamento contrastando ogni indebito condizionamento che limiti la libertà e l’indipendenza della professione; * di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica, il trattamento del dolore e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della dignità e libertà della persona cui con costante impegno scientifico, culturale e sociale ispirerò ogni mio atto professionale; * di curare ogni paziente con scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna, promuovendo l’eliminazione di ogni forma di diseguaglianza nella tutela della salute…” (dal Giuramento di Ippocrate) Domenico ha 78 anni, 54 trascorsi in carcere, di cui gli ultimi 47 senza interruzioni. È diabetico e malato di cancro, ha chiesto di potersi curare all’esterno presso un convento di Parma ma la magistratura rinvia la decisione sul merito al mese di ottobre. Perché così tardi? Intanto lui deve affrontare il disagio e la fatica della chemio (che tutti ben conosciamo - se non per esperienza diretta - per aver visto amici o parenti affrontare il percorso accidentato di queste cure) da solo, senza nessuna forma di vicinanza o assistenza. Quale è il senso di lasciare una persona anziana e sofferente nell’abbandono e nella solitudine di una cella? Come si può conciliare con la promessa di “curare ogni paziente con scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna, promuovendo l’eliminazione di ogni forma di diseguaglianza nella tutela della salute…” E come si tiene l’articolo 32 della Costituzione quando afferma che: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti…” E che dire di Ciro Bruno 67 anni di cui più di 30 trascorsi in una cella - attualmente detenuto nel Centro Clinico del carcere di Parma (SAI) - che viene recentemente operato per un tumore alla bocca e ricoverato in una stanza dell’ospedale cittadino senza finestra, senza televisione, con video sorveglianza in camera, senza la possibilità di ricevere assistenza da parte dei familiari per cui chiede di rientrare in anticipo in carcere e torna in redazione visibilmente depresso e sofferente? E che dire poi di noi che assistiamo a tutte queste sofferenze impietose e insensate e dobbiamo fare i conti con questa vergogna di testimoni impotenti, noi che abbiamo scelto di impegnarci come volontari nelle carceri per accompagnare le persone recluse in una riflessione attenta e responsabile sui valori della legalità e della civile convivenza? E come si spiega l’atteggiamento della Magistratura di sorveglianza che “ha il compito di vigilare sull’organizzazione degli istituti di prevenzione e pena e di prospettarne al Ministero della Giustizia le varie esigenze, in particolare quelle relative alla rieducazione e alla tutela dei diritti di quanti sono sottoposti a misure privative della libertà”? E poi ci sono i Garanti e i giornalisti e le camere Penali. E infine i cittadini. Come è possibile accettare che persone anziane e seriamente - molto seriamente - malate debbano affrontare una patologia grave e invalidante come il cancro chiuse dentro la cella di un carcere in assoluta solitudine senza il conforto delle persone care? Ha senso tutto questo? È umano e dignitoso? È civile? È in linea con la Costituzione? Io penso proprio di no. *Giornalista coordinatrice della redazione di Ristretti Orizzonti nell’Alta Sicurezza di Parma Suicidi in prigione, la Corte europea condanna l’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 giugno 2023 La Corte di Strasburgo cita la sentenza “Citraro e Molino” e chiede di dare priorità al trasferimento nelle Rems delle persone detenute affette da problemi psichici. Troppi detenuti con problemi psichici in attesa di essere trasferiti nelle REMS e soprattutto una mancata protezione del diritto alla vita (suicidi) come nel caso della sentenza “Citraro - Molino” di condanna da parte della Corte Europea di Strasburgo. L’Italia, per questo motivo, deve correre ai ripari. A chiederlo è il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che questa settimana ha esaminato le azioni messe in campo da diversi Stati, tra i quali il nostro Paese. E proprio alle nostre autorità, il Consiglio ha chiesto di fornire, entro la fine dell’anno, le informazioni aggiornate sulle questioni tuttora irrisolte. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha pubblicato le decisioni caso per caso prese durante la riunione del 5- 7 giugno per supervisionare l’esecuzione delle sentenze e delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il Comitato dei Ministri ha adottato 38 decisioni riguardanti 19 Stati durante la riunione, comprese risoluzioni provvisorie in casi riguardanti la Polonia e il Regno Unito. Sono 31, le risoluzioni in relazione a 78 sentenze e decisioni della Corte Europea, riguardanti 16 diversi Stati. Tra loro anche l’Italia. Inoltre, il Comitato ha adottato un elenco indicativo di casi da esaminare durante la prossima riunione dedicata all’esecuzione delle sentenze, che si terrà dal 19 al 21 settembre. Ricordiamo che, ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sono vincolanti per gli Stati interessati. Il Comitato dei Ministri sovrintende all’esecuzione delle sentenze sulla base delle informazioni fornite dalle autorità nazionali interessate, dalle ONG, dalle istituzioni nazionali per i diritti umani e da altre parti interessate. Per quanto riguarda il nostro Paese, il Consiglio d’Europa ha preso in esame le condanne da parte della Corte di Strasburgo. Il comitato ha ricordato “Sy contro Italia”. Riguarda il caso di un cittadino italiano, sofferente di un disturbo della personalità e di disturbo bipolare, rimasto in carcere per quasi due anni, nonostante il giudice italiano avesse accertato che il suo stato di salute mentale era incompatibile con la detenzione in carcere ed avesse ordinato il trasferimento in una REMS, la Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Il sig. Sy è infatti stato trasferito nella struttura solo a seguito di un provvedimento ad interim richiesto dal ricorrente, peraltro eseguito, come ha rilevato la Corte EDU, con inammissibile ritardo di oltre 35 giorni, violando l’art. 34 della Convenzione come accertato dalla Corte di Strasburgo. Il consiglio d’Europa, però, punta il dito soprattutto alla sentenza Citraro e Molino. Quest’ultima riguarda la condanna per la mancata azione da parte delle autorità per fare tutto ciò che poteva ragionevolmente essere fatto per prevenire il suicidio in prigione del figlio dei richiedenti, affetto da una preesistente condizione psichiatrica. Il Consiglio d’Europa ha preso nota che, a seguito delle misure adottate per migliorare la cooperazione tra i diversi attori e dare priorità al trasferimento nelle REMS delle persone detenute in prigione comune, le autorità hanno segnalato una riduzione del 45% nel numero di persone in attesa di tali trasferimenti. Il Consiglio d’Europa ha incoraggiato le autorità italiane nel continuare i loro sforzi al fine di garantire una capacità sufficiente nelle REMS, compresa la disponibilità di risorse umane e finanziarie adeguate, in particolare nelle regioni in cui la situazione appare più critica. Ha però chiesto alle autorità di valutare se siano necessarie misure aggiuntive per garantire - come indicato dalla Corte europea - senza ritardi i trasferimenti presso le REMS. Per quanto riguarda le misure generali nel caso di Citraro e Molino, il Consiglio d’Europa ha osservato che i dati disponibili sul numero di suicidi in carcere destano la massima preoccupazione, avendo raggiunto livelli senza precedenti nel 2022. Ha pertanto sollecitato le autorità affinché assicurino che le linee guida pertinenti, comprese le recenti circolari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, siano implementate rapidamente in ogni prigione, e che siano forniti adeguati fondi a tale scopo, monitorando attentamente il loro impatto nella pratica. Il Consiglio ha quindi chiesto al nostro Paese di fornire, entro la fine di giugno 2023 informazioni aggiornate sulle misure individuali come nel caso di Sy e entro la fine di dicembre 2023 sulle restanti questioni. Suicidi in carcere e custodia cautelare, dall’Ue doppio monito di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 giugno 2023 Raccomandazioni dal Consiglio d’Europa e dal commissario alla Giustizia Reynders. Il Garante dei detenuti Mauro Palma: “Nel 2016 Strasburgo aveva chiuso il “caso Italia”. Siamo tornati indietro”. Non una ma due bacchettate nello stesso giorno all’Italia da parte dell’Unione europea riguardo il nostro sistema penitenziario e di giustizia. Da un lato, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che chiede uno sforzo per prevenire i suicidi in carcere e per tutelare la salute mentale dei detenuti. E dall’altro, l’ultimo Quadro di valutazione dell’Ue sui sistemi giudiziari degli Stati membri che fotografa l’Italia tra i Paesi lumaca in molti campi e in particolare nell’attuare le buone riforme, come quella voluta dall’ex ministra Marta Cartabia, nell’assicurare ai cittadini la giustizia civile, nel promuovere le donne a capo delle corti supreme, e comunque tra i peggiori Paesi se si analizza la percezione generale che la popolazione ha dell’indipendenza della magistratura dal potere politico. “I suicidi in carcere nel 2022 hanno raggiunto un livello senza precedenti”, nota il Consiglio d’Europa che chiede a Roma di migliorare le misure anti-suicidio e “proseguire gli sforzi per assicurare una capacità sufficiente delle Rems”, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che hanno preso il posto degli Ospedali psichiatrici giudiziari. L’organizzazione internazionale di Strasburgo ha appena concluso l’esame delle azioni messe in campo dal governo italiano per rispondere in modo adeguato a due condanne pronunciate dalla Corte europea dei diritti umani sull’inaccessibilità delle Rems. Pur apprezzando “l’adozione nel 2017 di un piano d’azione nazionale globale per la prevenzione del suicidio e dell’autolesionismo in carcere”, il Comitato chiede di applicare immediatamente “in ogni carcere” italiano le linee guida e le recenti raccomandazioni del Dap, e che “siano forniti finanziamenti sufficienti a tal fine”. Allo stesso modo, pur verificando una riduzione del 45% del numero di detenuti cosiddetti “folli-rei” in attesa di un posto nelle Rems, grazie ad una serie di misure già prese, il Comitato “incoraggia l’Italia a proseguire gli sforzi per assicurare una capacità sufficiente delle Rems”. Al governo è richiesto un feedback entro dicembre su entrambe le questioni. Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti, è d’accordo in parte: “Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nel 2016 dichiarò chiuso il “caso Italia” apprezzando le azioni messe in campo dopo la sentenza Torreggiani. Ora - fa notare al manifesto - che sette anni dopo lo stesso organismo torni a esprimere preoccupazione è indicativo di come forse tutti noi abbiamo allentato l’attenzione”. In sostanza, l’Italia è tornata indietro in questo campo, avverte il Garante. Sulle Rems invece Palma crede che “la legge che le regola, per quanto acerba, funziona. C’è bisogno di qualche ritocco ma senza invertire la rotta - avverte - nelle Rems devono andare solo coloro che sono stati giudicati incapaci di intendere e volere nel momento del reato. Per tutti gli altri vanno fatte funzionare le articolazioni per la tutela della salute mentale, che devono prevedere anche la possibilità di interrompere la detenzione dei folli-rei con il trasferimento in altre strutture”. Il commissario Ue alla Giustizia Didier Reynders considera invece la riforma Cartabia una di quelle che hanno portato “per la prima volta dati in miglioramento”. Presentando ieri l’XI edizione dello “Scoreboard” dei sistemi giudiziari dei Paesi Ue, Reynders ha apprezzato in particolare la “digitalizzazione della giustizia” italiana, che “è stato uno degli elementi più importanti del Pnrr, come in altri Paesi”. Ma, malgrado alcuni avanzamenti, è “importante attuare le riforme raccomandate dall’Ue”, ha sottolineato il commissario europeo annunciando per oggi “un contatto con il ministro della Giustizia Nordio per vedere come è possibile procedere nell’attuazione di quelle riforme”. In particolare l’Italia ha bisogno di progredire soprattutto nella giustizia civile, la seconda più lenta dell’Ue, migliore solo di quella greca, con “un’attesa media di circa 550 giorni per ottenere una decisione di primo grado, 800 per l’appello e mille per la sentenza definitiva”. Altro punto dolente è “la percezione dell’indipendenza giudiziaria”, nella cui classifica l’Italia occupa la parte bassa, essendo “aumentata tra i cittadini e leggermente diminuita tra le aziende”. Un discorso a parte Reynders lo dedica al carcere: “Siamo preoccupati per le enormi differenze tra gli Stati membri sulla custodia cautelare, con un’alta percentuale di persone in carcere in custodia cautelare in alcuni Stati e un livello molto basso in altri”. In Italia il 28%, quasi un detenuto su tre (soprattutto stranieri), è in cella in attesa di una sentenza definitiva. Malgrado sia “competenza nazionale organizzare la situazione nelle carceri”, Reynders ha però “avviato una discussione con tutti i ministri della Giustizia”. La proposta è di pensare a soluzioni alternative al carcere. Emergenza carceri, l’Europa “avvisa” l’Italia di Fulvio Fulvi Avvenire, 9 giugno 2023 Per evitare i suicidi dei detenuti servono più strutture alternative e adeguati fìnanziamenti. Il Consiglio dei ministri Ue: il governo risponda entro dicembre. Venezia, un recluso si impicca in cella. Troppi suicidi dietro le sbarre. Nel 2022 sono stati 85 i detenuti che si sono tolti la vita e quest’anno, in meno di sei mesi, sono già 30. E l’Europa “bacchetta” l’Italia per presunte inadempienze invitandola a prendere provvedimenti immediati. L’ultimo dramma si è consumato martedì scorso nella Casa circondariale “Santa Maria Maggiore” di Venezia, dove Bassem Degachi, 39 anni, un tunisino residente a Marghera, in regime di semilibertà, non ce l’ha fatta a sopportare la sua condizione e si è impiccato. “Dentro” da due anni e mezzo, dodici mesi fa l’uomo aveva cominciato a lavorare all’esterno per una cooperativa di remieri ma è rimasto coinvolto, insieme con altre 26 persone, in un’inchiesta per spaccio di droga nel quartiere Piave di Mestre - i fatti risalgono però al 2018 - e ha ricevuto prima di varcare il portone del carcere per andare in azienda un’ordinanza di custodia cautelare. Gli è crollato il mondo addosso. A mezzogiorno Bassem ha telefonato alla moglie dicendole che era disperato: “Adesso non mi faranno più uscire, ho davvero perso tutto, lavoro e famiglia....”. Chiama tre volte e la consorte si preoccupa e allora dà l’allarme ma i sorveglianti lo trovano esanime in cella, appeso alle sbarre della finestra, con un lenzuolo attorno al collo. L’ultima telefonata è delle ore 14.41, il certificato di morte di Bessem Degachi è delle 14.42. La procura della Serenissima ha aperto un fascicolo per chiarire la vicenda e appurare eventuali responsabilità. Secondo l’ultimo Rapporto di Antigone, le carceri italiane sono le peggiori in Europa, appena una spanna sopra a quelle di Romania e Cipro in quanto a sovraffollamento e condizioni di vita inumane e degradanti. E così, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, di fronte al fenomeno dei suicidi “che ha raggiunto un livello senza precedenti” interviene chiedendo al governo italiano “misure di prevenzione” e un maggior numero di “trasferimenti verso le Rems”, le residenze alternative per i detenuti che soffrono di disturbi psichici. Andranno garantite perciò adeguate risorse umane e finanziarie “in particolare nelle regioni in cui la situazione è più critica”. Per l’organismo politico di Strasburgo, che ha esaminato le azioni messe in campo dal nostro Paese per rispondere a due condanne sulla situazione delle carceri emesse dalla Corte europea dei diritti umani, è necessario che l’Italia prosegua “gli sforzi per assicurare una capacità sufficiente delle Rems”. Una delle due sentenze interessava, in particolare, la mancanza di provvedimenti per evitare il suicidio di un carcerato con problemi di salute mentale mentre la seconda verteva sui tempi troppo lunghi per il trasferimento in una struttura adeguata di un’altra persona reclusa anch’essa affetta da disturbi psichici. Sulla base di un piano nazionale adottato nel 2017 per la prevenzione del suicidio e dell’autolesionismo in carcere e di altri interventi adottati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è stata segnalata una riduzione del 45% del numero di “ristretti” in attesa di un posto in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Una circolare del Dap emanata l’anno scorso, aveva affidato a uno staff interdisciplinare il compito di analizzare le situazioni a rischio e far emergere i cosiddetti “eventi sentinella”. Ma per il Comitato europeo dei ministri, non è sufficiente. Serve un monitoraggio più attento e scrupoloso della situazione, anche sull’applicazione dei necessari finanziamenti da assegnare a ciascun carcere. Roma dovrà fornire a Strasburgo informazioni su tutte le questioni sollevate entro dicembre. Dove andranno i folli rei? di Donatella Coccoli Left, 9 giugno 2023 Due proposte di legge intervengono sul concetto di non imputabilità per gli autori di reato con patologie psichiatriche. Il rischio è che per loro si aprano ancora di più le porte delle carceri. Dove adesso il diritto alla salute mentale non viene garantito Psichiatria, giustizia e politica sono chiamate ad affrontare un problema antico, ma adesso sempre più urgente, nel clima creatosi dopo l’efferato omicidio della psichiatra Barbara Capovani ad opera di un suo ex paziente. Come curare e dove accogliere gli autori di reato i quali si trovino in uno stato tale di mente da escludere, per infermità, secondo gli articoli 88 e 89 del Codice penale, la capacità di intendere e volere? Nonostante la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari nel 2015 e l’apertura delle Rems (Residenze per le misure di sicurezza) il problema è ancora aperto e tutto il sistema rivela delle crepe, come dimostrano i dati sulle liste di attesa per le Rems e quelli sempre più preoccupanti dei detenuti che sviluppano una patologia psichiatrica nelle carceri. Per non parlare poi della mancanza di risorse e di personale dei Dipartimenti di salute mentale che dovrebbero garantire assistenza territoriale per coloro che sono in libertà vigilata. In questo scenario arrivano le due proposte di legge presentate di recente alla Camera. Una, di cui è firmatario il deputato Alfredo Antoniozzi di Fratelli d’Italia, lascia intatti i due articoli del Codice penale sul vizio totale e parziale di mente ma restringe la non imputabilità solo per gli autori di reato affetti da psicosi, considerando imputabili invece tutti quelli con disturbo di personalità. Laltra, decisamente più drastica, presentata da Riccardo Magi (+Europa) abroga i due articoli del Codice e considera tutti gli autori di reato con patologie psichiatriche imputabili e quindi tali da essere sottoposti a giudizio e ricevere una pena. È chiaro quindi che se da queste proposte di legge uscisse un testo poi approvato dal Parlamento, cambierebbe tutto il sistema delle misure di sicurezza così come è impostato adesso. Ed è facile ipotizzare che si aprirebbero ancora di più le porte delle carceri a persone malate di mente. Ma andiamo per ordine, cercando di ricostruire la storia di questo travagliato rapporto tra giustizia, psichiatria e politica. La legge 180/78, determinando la chiusura dei manicomi, non aveva toccato la questione dei cosiddetti “folli rei”, che rimanevano confinati negli ospedali psichiatrici giudiziari. Bisogna attendere la legge 81/2014 per assistere alla chiusura progressiva degli Opg luoghi che in alcuni casi erano dei lager dove le persone ristrette a volte passavano tutta la loro vita (gli “ergastoli bianchi”). Nel 2015 sono state aperte le Rems, strutture che accolgono sia i non imputabili, i “prosciolti”, sia coloro che sono in attesa di giudizio, i “provvisori”. È il sistema del “doppio binario”: una persona giudicata non imputabile viene sottoposta a misure di sicurezza perché giudicata pericolosa socialmente. Rimane poi la vasta platea dei detenuti che sviluppano patologie mentali in carcere (i “rei folli”) e che, secondo l’art. 148 del Codice penale una volta dovevano essere inviati negli Opg per osservazione e che adesso rimangono nei penitenziari. Le attuali 31 Rems, la cui gestione interna è esclusivamente di competenza sanitaria, sono in affanno, ospitano circa 600 persone e per via del numero chiuso molti rimangono fuori. Secondo i dati dell’ultimo rapporto di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, a dicembre 2022 erano 404 persone in lista d’attesa. La Società italiana di psichiatria nel congresso di fine maggio a Cagliari ha parlato di 700 persone “ad alta pericolosità sociale” a piede libero. Su questi temi negli ultimi anni la Corte costituzionale si è pronunciata con due sentenze importanti. Con la sentenza 99 del 2019 la Consulta ha sancito un principio fondamentale: la salute psichica in carcere è equiparata alla salute fisica, per cui se la detenzione risulta incompatibile con le condizioni di salute della persona ristretta allora è possibile la cosiddetta detenzione domiciliare “in deroga” o “umanitaria”. La seconda sentenza, la 22 del 2022, ha richiamato la necessità di una riforma per risolvere l’inadeguatezza della disciplina sulle Rems. Arriviamo quindi alle due proposte di legge depositate negli ultimi mesi alla Camera. Il testo di quella di Fratelli d’Italia è il frutto di una collaborazione con lo psichiatra Giuseppe Nicolò, che ha coordinato nell’interlocuzione con Antoniozzi vari dipartimenti di salute mentale. Lo stesso Nicolò è direttore del dipartimento della Asl 5 di Roma, è il curatore dell’ultima edizione del manuale diagnostico Dsm e all’inizio di maggio è stato nominato coordinatore vicario del tavolo tecnico della salute mentale istituito dal ministro Schillaci. La proposta di legge definisce la non imputabilità solo “per chi nel momento in cui ha commesso il fatto, era in evidente condizione di grave alterazione delle condizioni psichiche, di tipo psicotico, e del comportamento tale da escludere completamente la capacità di intendere e di volere”. Nel mirino dell’estensore della proposta di legge, come si legge nella relazione introduttiva, ci sono i disturbi antisociali di personalità che non sono “espressione sic et simpliciter di un disturbo mentale”. Andrebbe così superata, secondo Antoniozzi, la storica sentenza della Corte di Cassazione del 2005 che invece aveva ammesso la non imputabilità, in quel caso, per un grave disturbo di personalità. Nella premessa al testo di legge si sostiene che gli psichiatri in Italia nella formulazione dei loro giudizi non possono “far riferimento a principi condivisi e chiari, come in tutti i Paesi civili” ed emerge un retroterra culturale sulla natura umana con riferimenti al pensiero cristiano giudaico (l’uccisione di Abele). Per gli autori dei reati con disturbi psichici imputabili rimane solo una possibilità: “l’espiazione in carcere”. Certo, nei luoghi di detenzione si prevede un potenziamento “dell’offerta psicoterapica e farmacologica” e si sancisce il diritto costituzionale alla cura ma tra le righe si intravede il senso fortemente punitivo del provvedimento, tanto che Il secolo d’Italia annuncia la proposta di legge con il titolo: “Una riforma per garantire giustizia alle vittime”. Il retroterra culturale della proposta di legge Magi appare diametralmente opposto, anche se va ben oltre, quanto a interventi su tutto il sistema. Il testo, si legge, nasce da una elaborazione collettiva a cui hanno partecipato vari soggetti, tra cui la Società della ragione, l’Osservatorio sul superamento degli Opg, il coordinamento delle Rems e dei Dsm, Magistratura democratica. La proposta di legge prevede che tutti gli autori di reato con vizio totale e parziale di mente siano imputabili - abrogazione quindi degli articoli 88 e 89 -, la dizione “persona inferma di mente” viene sostituita con “persona con disabilità psicosociale” e si propone la riconversione delle Rems come articolazioni dei dipartimenti di salute mentale delle Asl. Sono previste anche norme per definire “misure per evitare la carcerazione per il detenuto con disabilità psicosociale” sulla base della sentenza della Consulta del 2019 e anche norme perché il detenuto riceva in carcere cure adeguate. Franco Corleone, tra i promotori del testo, ex commissario per il superamento degli Opg e adesso garante dei detenuti a Udine, spiega il cuore della riforma: “Chiunque commetta un delitto, questo non può essere attribuito alla malattia. È lui che lo compie. Poiché ci sono molti malati che non compiono reati o crimini, il giustificazionismo rispetto all’origine del delitto in realtà non aiuta la consapevolezza e neppure quindi una risoluzione terapeutica della malattia, che indubbiamente esiste”. Lo slogan ai tempi della legge 180 era “La libertà è terapeutica”, con tutte le conseguenze, visto che, a detta di molti psichiatri, non si sostenne poi la ricerca scientifica sulla psicopatologia. Adesso le parole chiave sono “La responsabilità è terapeutica”. Che cosa accadrà a queste persone? Il “diritto al giudizio”, continua Corleone, prevede “un’attenuante specifica per le condizioni del soggetto, in modo che non ci sia un giudizio persecutorio, ma correlato alla situazione. L’idea poi è di proporre a queste persone immediatamente un percorso di misure alternative. Quindi rimane la condanna ma in strutture adatte individualmente al soggetto perché lo spettro del disturbo mentale è molto vasto”. A proposito di strutture, qual è la situazione delle Rems? Franco Scarpa, ex direttore dell’Opg di Montelupo fiorentino, è responsabile della Rems di Empoli, partita nel 2020: “Le Rems dovranno modificarsi - dice -. Oggi sono tutte uguali, cioè non c’è differenza nei percorsi di accesso. Chi prima finiva nell’Opg oggi finisce nella residenza e invece per il futuro bisognerebbe pensare a Rems differenziate per livelli di gravità di patologia, a seconda della diagnosi, e anche per tipologia di reato che può richiedere in certi momenti un intervento specifico intensivo”. Rispetto alle proposte di legge presentate, visto che si occupa anche della salute mentale delle carceri nell’Asl Toscana centro (Sollicciano, Prato), lo psichiatra sottolinea: “Bisogna che cambi molto nell’organizzazione del carcere per poter dare adeguati interventi di cura alle persone. Altrimenti si ricreano gli Opg in carcere”. Le carceri, appunto. Nei principali istituti di pena sono state create le articolazioni per la tutela della salute mentale (Atsm), sezioni a prevalente gestione sanitaria, sono 32 e ospitano attualmente, secondo il rapporto di Antigone, 247 pazienti. Ma il disagio psichico è diffuso in tutta la popolazione carceraria: nel 2022 le diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti erano 9,2 (quasi il 10%), il 20% dei detenuti assumeva stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi e il 40,3% sedativi o ipnotici. Ogni 100 detenuti le ore di servizio degli psichiatri erano in media 8,75, quelle degli psicologi 18,5. Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone, dipinge un quadro allarmante: “Le persone non imputabili vanno in Rems, quando trovano posto. Ma dei cosiddetti sopravvenuti, cioè coloro che sviluppano un disagio psichiatrico quando sono detenuti, se ne deve occupare il carcere. E allora occorre mettere risorse e impegno almeno su due temi”. Primo: la maggioranza dei detenuti ha un disagio di tipo sociale e quindi c’è più bisogno di educatori che di “dargli delle goccine”. Il secondo aspetto riguarda invece coloro che hanno davvero patologie mentali. “La situazione - continua Marietti - va gestita da un punto di vista psichiatrico, con una precisa presa in carico, queste persone non si possono “neutralizzare” dando loro dosi massicce di psicofarmaci o mettendole in isolamento. E poi va valutato, sulla base della sentenza della Corte costituzionale del 2019, se la permanenza in carcere è compatibile con la malattia. Ma purtroppo questo difficile da attuare. Ci sarebbe bisogno di un servizio territoriale che però manca e la persona rimane in carcere”. Nel 2018, a cavallo di due governi (Gentiloni e Contel) ci fu la possibilità di potenziare l’assistenza psichiatrica negli istituti di pena quando si mise mano alla riforma dell’Ordinamento penitenziario. Ma vennero stralciate proprio le proposte sulla tutela della salute mentale. Eppure il problema, si torna sempre lì, è quello della cura. Tiziana Amici, psichiatra in una azienda ospedaliera a Roma, ha fatto anche perizie sull’infermità di mente di autori di reato. I parametri sono quelli forniti dal manuale diagnostico del Dsm, quello maggiormente utilizzato dalla psichiatria, importato ormai da decenni dagli Stati Uniti. Nel testo, spiega la psichiatra, sono inclusi i disturbi di personalità, alcuni dei quali possono presentare in alcune occasioni sintomi cosiddetti psicotici per i quali non è facile stabilire sia se fossero presenti al momento del fatto sia in presenza di questi fare una diagnosi differenziale con vero e proprio disturbo psicotico. “Lo psichiatra - afferma Amici - deve stabilire se le alterazioni psicopatologiche del reo abbiano un nesso di causalità con il reato, non è la diagnosi di per sé che fa incapace un reo. E naturalmente conta molto il background, la formazione dello specialista nel comprendere se si tratta di un soggetto manipolativo e scaltro, oppure no. È chiaro che se uno si basa solo sul comportamento questo può risultare difficile”. I percorsi di cura dei rei malati di mente, continua la psichiatra, dovrebbero essere differenziati “al fine di intervenire in maniera mirata per non compromettere gli interventi su pazienti che potrebbero essere limitati da coloro che hanno diagnosi meno gravi ma difficilmente trattabili”. Bisognerebbe puntare sempre verso la cura, è possibile anche per chi ha il disturbo antisociale di personalità? “La cura sì, magari con un programma serrato, un progetto di vita pensato in un certo modo... Può darsi che chi ha un disturbo antisociale poi non delinqua più. Dove sta scritto che devono delinquere a vita?”. Il nucleo del problema, sintetizza Tiziana Amici, è questo: “Se sei malato e hai fatto un reato, ma pure se non l’hai fatto in conseguenza della tua patologia, dovresti essere curato”. Nordio va avanti e riformerà la giustizia di Paolo Pandolfini Il Riformista, 9 giugno 2023 Nordio sfida il potere di interdizione delle toghe e loro, ovviamente, sono contrari a ogni possibile riforma. Il Ministro era stato chiaro fin da subito: separare le carriere dei magistrati, depenalizzare, accelerare i processi che costano all’Italia due punti di Pil. Nei prossimi giorni inizierà la discussione in Parlamento. La riforma della giustizia pensata dal ministro Carlo Nordio è insidiata da più parti e soprattutto dai soliti noti. L’intenzione del Ministro è quella di andare avanti e il Parlamento aspetta il testo su cui avviare la discussione che dovrebbe arrivare nei prossimi giorni. Nordio appena uscito dal Palazzo del Quirinale, dopo aver giurato il 22 ottobre scorso, incontrando i giornalisti aveva affermato che bisognava procedere quanto prima a “separare le carriere dei magistrati”, “depenalizzare”, “accelerare i processi che costano all’Italia due punti di Pil”. Musica per le orecchie dei tanti operatori del diritto da tempo in attesa di una riforma della giustizia effettivamente liberale dopo gli anni terribili dell’oscurantismo manettaro e forcaiolo dei grillini. Nordio, suscitando l’apprezzamento anche di forze politiche all’opposizione come Azione e Italia Viva, ha sempre sottolineato la necessità di una “svolta” sulla giustizia, allargando l’orizzonte riformatore alle intercettazioni telefoniche, alle misure cautelari, all’esecuzione della pena, al carcere, al divieto di appello in caso di sentenza di assoluzione. Sicuro di essere sulla strada giusta e godendo dell’appoggio - sulla carta - di gran parte del Parlamento, l’ex procuratore aggiunto di Venezia fortemente voluto dalla premier aveva quindi dettato l’agenda con cui l’esecutivo avrebbe realizzato questo “vasto programma” riformatore. Lo scorso dicembre aveva dunque annunciato le priorità: primo step, la riforma dei reati contro la Pubblica amministrazione e quindi l’abolizione del reato di abuso d’ufficio “entro gennaio”. L’abuso d’ufficio, il terrore dei sindaci e degli amministratori, era stato già modificato nel 1990, nel 1997, nel 2012, e da ultimo nel 2020 durante il governo giallo-rosso. L’ultima modifica aveva limitato il reato alle sole regole che non implicano l’esercizio di un potere discrezionale, escludendo quindi che la violazione di una specifica ed espressa regola di condotta, caratterizzata da margini di discrezionalità, potesse integrare una fattispecie penalmente rilevante. Questa modifica, però, era ritenuta non sufficiente da parte dello stesso Pd che se ne era fatto promotore. “Ora più che mai la riforma dell’abuso d’ufficio è assolutamente necessaria: l’ipotesi di reato va prevista solo nel caso di chiaro e consapevole dolo per privilegiare illegittimi interessi privati, propri o altrui”, aveva detto all’epoca in una intervista Piero Fassino, già Guardasigilli, poi sindaco di Torino e presidente dell’Anci. “Del resto - aveva aggiunto - che oggi l’abuso di ufficio sia una fattispecie di reato dal profilo incerto è provato dal fatto che la stragrande maggioranza degli amministratori e dei dirigenti pubblici indagati per abuso d’ufficio viene prosciolta e non va neppure a processo. E gran parte di quelli processati vengono assolti. Ora, se c’è una forbice troppo alta tra indagine e colpevolezza comprovata allora quel reato va ridefinito”. Parole chiare che non lasciavano spazio a dubbi. “Spesso non ci si rende conto - aveva aggiunto Fassino - della quantità di responsabilità che un amministratore pubblico ha sulle proprie spalle, esposto al rischio permanente di essere accusato di abuso d’ufficio per il solo dato oggettivo di ricoprire una funzione pubblica”, facendosi così portavoce dei tanti funzionari che, per paura di essere indagati, sono portati a non firmare più alcun atto e ad assolvere strettamente all’ordinaria amministrazione o, peggio ancora, a moltiplicare adempimenti burocratici superflui pur di mettersi al riparo da un’indagine. “Un sindaco o un assessore è un uomo politico e si assume la responsabilità del rischio, ma un funzionario, perché deve rischiare inutilmente la propria carriera, la propria onorabilità? Non firma le carte e si limita a fare l’ordinario. Con conseguenze ovviamente molto negative sull’efficienza dell’amministrazione, che viaggia con il freno a mano tirato”, aveva puntualizzato Fassino. Concetti ripresi nei mesi scorsi dal compagno di partito Antonio Decaro, sindaco di Bari e attuale presidente dell’Anci. “Le parole di Nordio - aveva affermato Decaro - ci fanno ben sperare rispetto alla risoluzione di un problema annoso che i sindaci denunciano da tempo e che non ha trovato la giusta attenzione del Parlamento e del governo. Oltre a ringraziare il ministro sento di poter dare da subito la disponibilità dei sindaci e dell’Anci a riprendere il dialogo sulle norme relative alla responsabilità dei sindaci che spesso si ritrovano a pagare in prima persona un prezzo troppo alto per situazioni non sempre riconducibili alle loro competenze”. Da allora, è iniziato un martellamento incessante da parte dei magistrati, contrari ad ogni possibile riforma, e del loro quotidiano di riferimento, il Fatto Quotidiano. Per evitare la riforma di questo reato è sceso in campo il gotha della magistratura italiana. Solo per citare qualche nome, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, “è del tutto irragionevole”, il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, “non suona bene alle orecchie europee”, il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia “l’abolizione favorisce la mafia”. C’è il sospetto, allora, che dietro questo ritardo si possa nascondere il ben noto potere di interdizione delle toghe, che Nordio sta sfidando. Un potere che ha tentato di “incrinare” la maggioranza di governo, rallentandola. Perché si sa, i magistrati come noto, apprezzano esclusivamente le riforme di proprio gradimento. “Sciopero delle toghe? Abbiamo due strade. Ma ci faremo sentire” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 giugno 2023 L’assemblea dell’Anm che si terrà domenica sta suscitando un ampio dibattito all’interno delle correnti. Oggi ne parliamo con il dottor Stefano Celli, membro del Comitato direttivo centrale dell’Anm in quota Md. Secondo Lei occorre scioperare per quanto accaduto con il caso Uss o ci vuole altro? Non vedo l’alternativa “sciopero si, sciopero no”. Il nostro gruppo è da sempre impegnato a coltivare il confronto con il “punto di vista esterno” alla magistratura, che non vive su Marte. All’ultima assemblea generale avevamo proposto, al posto dello sciopero, un percorso graduale incentrato su momenti di confronto pubblico, sia con i nostri interlocutori privilegiati, avvocati e personale amministrativo, sia con tutti i cittadini. Un cammino che aveva l’ambizione di convincere non solo noi stessi dei pericoli insiti nella riforma dell’ordinamento pensata dalla ministra Cartabia. Il timore di perdere il sostegno di alcune componenti dell’assemblea e la necessità di preservare equilibri di governo interno ha indotto i gruppi numericamente più consistenti a una scelta radicale, che però molti magistrati non hanno condiviso. Per domenica prossima pensiamo a due piani di intervento: il primo di ampio respiro, di cammino partecipato, perché crediamo sia l’unico modo per riacquistare autorevolezza, una linea già condivisa dal Cdc, che ha condiviso all’unanimità il nostro stimolo, e da diverse assemblee distrettuali; il secondo, più immediato, di interlocuzione istituzionale, perché in gioco c’è la tutela dell’indipendenza. Certo non possiamo pensare di concludere l’assemblea semplicemente con un comunicato di protesta: ci autocondanneremmo all’irrilevanza. Cosa pensa della posizione di Piraino, espressa sul Giornale? È una posizione antica, rassicurante, che conosciamo bene: “non si deve interferire con la politica”, che è un modo elegante per dire “noi ci adeguiamo alla politica della maggioranza”. È lo sbocco naturale di chi aspira a far dimenticare la politicità della giurisdizione, che anche la posizione di MI inconsapevolmente riconosce. Politica come esercizio consapevole e motivato di scelte valoriali, basate sui principi costituzionali: niente a che vedere con il lavoro di partiti o schieramenti. Quanto allo sciopero mi chiedo se la segreteria di MI abbiano letto l’intervista al Presidente Santalucia o si siano accontentati del titolo, così da poter rassicurare gli interlocutori istituzionali che già hanno scelto i propri collaboratori, in massima parte, nel gruppo “moderato”. E di quella di Albamonte in una intervista al Dubbio? Albamonte ha fatto parte del nostro gruppo fino a poco tempo fa, e le sue affermazioni sono figlie di quella cultura che, semplicemente, aspira a inverare i valori costituzionali nella giurisdizione. Ho apprezzato in particolare la preoccupazione per le riforme in cantiere, specie per quelle costituzionali, a cominciare dalla separazione delle carriere e a un’altra più insidiosa, quella che cancella l’avverbio “soltanto” dall’articolo 101 della Costituzione. Confido che anche le scelte concrete che Area farà, in assemblea e dopo, siano coerenti con le idee espresse nell’intervista, e non condizionate dal desiderio di preservare equilibri di governo dell’Anm. Per Albamonte ci sarebbe una condivisione di un modello culturale tra Mi e il governo. Concorda? In magistratura ci sono molte sensibilità, e quella di MI è in obiettiva consonanza con il Governo. La storia dell’Anm è però una storia di valorizzazione e sintesi delle molteplici sensibilità, che sono la vera forza di un’associazione che proprio per questo rappresenta la quasi totalità dei magistrati. Confido che MI per prima sosterrà la necessità che tutte le componenti associative possano dare il proprio contributo, a tutti i livelli, anche istituzionali. Cosa ne pensa del cronoprogramma illustrato da Nordio durante il Question time? Parlo senza aver potuto leggere una bozza della riforma. Sul metodo registro una disponibilità formale. La commissione per le riforme penali non si è mai riunita e fra una settimana il ddl va in consiglio dei ministri: speriamo che non si replichi il modello Cartabia, che comunicava solo testi immodificabili alla vigilia del varo. Sull’abuso d’ufficio già ora la punibilità è limitatissima: vogliamo stabilire che il commissario del concorso che favorisce il figlio di un amico non commette un reato? Va benissimo, chi lo fa se ne assumerà la responsabilità, senza però agitare fantasmi, come la paura della firma. Mi preoccupano di più, tuttavia, riforma del Csm e separazione delle carriere. Su quest’ultima mi chiedo sempre perché chi si dice garantista non riesca a coglierne lo sbocco naturale: un pm avvocato della polizia, o del governo, e comunque un pm influenzato da una mutevole maggioranza politica, anzi partitica. Si preferisce un’indagine e un pm d’udienza valutato in base al numero di arresti e denunce, condanne o, peggio, alla corrispondenza al programma di una parte politica? O un magistrato che si sente a pieno titolo parte della giurisdizione, guidato solo dal rispetto della legge e dei diritti? L’indagine sull’omicidio Tramontano è uno schiaffo allo Stato di diritto di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 giugno 2023 Sull’omicidio della giovane donna la procura di Milano ha deciso di rispondere alla barbarie con una giustizia barbarica, fatta di continue violazioni del segreto istruttorio e mostrificazione dell’indagato. Rispondere alla barbarie con una giustizia barbarica. Sembra essere questo l’approccio con cui la procura di Milano ha reagito al tragico omicidio di Giulia Tramontano, ventinovenne incinta di sette mesi: non conducendo un’indagine con equilibrio, sobrietà e nel rispetto dei princìpi cardine dello stato di diritto, bensì portando alle estreme conseguenze il processo mediatico, con la diffusione quasi in presa diretta di ogni informazione raccolta dagli inquirenti e con un’opera costante di mostrificazione dell’autore del reato. Si è partiti con una imponente conferenza stampa tenuta in procura dal procuratore aggiunto di Milano, Letizia Mannella, con la pm Alessia Menegazzo e il comandante provinciale dei Carabinieri, Iacopo Mannucci Benincasa. Tutti hanno voluto evidenziare la brutalità delle azioni compiute dal fidanzato della ragazza, Alessandro Impagnatiello, che dopo aver ucciso avrebbe cercato di disfarsi del cadavere “prima con l’alcool e poi cospargendolo di benzina”. “Le modalità con le quali l’indagato ha deciso di uccidere la compagna erano state pensate, studiate e organizzate ore prima”, afferma Menegazzo per motivare la premeditazione. Come se non bastasse, il comandante dei Carabinieri, Mannucci Benincasa, tratteggia il profilo (dis)umano dell’assassino: “Non abbiamo di fronte solo un assassino, ma un assassino che aveva di fronte la persona che dichiarava di amare e che portava in grembo il figlio che stava per nascere, un figlio che la legge ancora non riconosceva come tale, quindi l’omicidio è della donna, ma in realtà è un feto che, forse, con un taglio cesareo sarebbe potuto nascere di per sé. E non solo non ha esitato a uccidere, ma si è accanito sul corpo tentando di disfarsene dandogli fuoco”. Il senso è chiaro: siamo di fronte a un mostro. Poche ore dopo, però, la premeditazione dell’omicidio viene esclusa dal gip di Milano, Angela Laura Minerva, mancando - diversamente da quanto ipotizzato dalla procura - i due elementi costitutivi dell’aggravante stessa, quello ideologico e quello cronologico, più volte delineati dalla Corte di cassazione. Cade così la prima “verità mediatica” costruita dalla procura di Milano, con la classica conseguenza di generare nell’opinione pubblica un diffuso sentimento di ingiustizia. Sui social fioccano insulti nei confronti della gip, che si è permessa di mettere in dubbio le ricostruzioni dei pm. Nel frattempo in televisione, di fronte a milioni di italiani, Mara Venier si rivolge alla madre di Impagnatiello dicendole: “Sì signora, suo figlio è un mostro”. I contenuti dell’interrogatorio di convalida dell’arresto reso da Impagnatiello vengono immediatamente pubblicati su tutti gli organi di informazione, a dispetto del segreto investigativo. “Perché ha ucciso Giulia?”, una delle tante domande della gip. La risposta: “L’ho deciso senza motivazioni. Ci sto pensando costantemente. La situazione era per me, mi passi il termine, stressante. Questa è l’unica cosa che posso dire. Ma non c’era un reale motivo”. Tutta l’indagine, ormai, avviene alla luce del sole. Non ci sono più filtri. Il Tg1 manda in onda degli stralci del verbale di sommarie informazioni rese dalla seconda fidanzata di Impagnatiello, che racconta ai pm di aver incontrato Giulia poco prima della sua scomparsa: “Ci siamo accordate pacificamente, anche perché eravamo entrambe vittime di un bugiardo”. Altri atti coperti da segreto, come quelli diffusi il giorno dopo con i contenuti delle dichiarazioni rilasciate al gip da una vicina, che avrebbe visto “una quantità ingente di cenere” uscire dall’appartamento di Impagnatiello. Ogni giorno c’è una novità dell’indagine che dovrebbe rimanere segreta ma che viene sbandierata ai quattro venti. Ieri è toccato ai rilievi svolti dalla Sezione investigazioni scientifiche del Nucleo investigativo di Milano nell’abitazione di Impagnatiello. Le immagini dei rilievi vengono diffuse: le foto delle scale, della cucina, delle pareti. “Nonostante le macchie siano state pulite, il luminol evidenzia sangue e segni di trascinamento del corpo”. Grazie ai rilievi viene subito ricostruita la possibile dinamica dell’aggressione: “Impagnatiello avrebbe colpito la compagna alle spalle dandole una coltellata alla gola che le avrebbe impedito di urlare”, scrivono i giornali con il solito accento macabro. È inoltre stato ritrovato un carrellino portapacchi che l’uomo avrebbe utilizzato per spostare il cadavere. Continuano poi a “essere passati ai raggi X i movimenti di diverse persone, a partire dalla madre”. Oggi verrà effettuata l’autopsia sul corpo della ragazza. Ci si augura che almeno questa occasione sarà accompagnata da un minimo di decenza. “Il killer di Giulia Tramontano tra dieci anni già libero: con la Cartabia si può” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 9 giugno 2023 “Il meccanismo della giustizia riparativa può scattare subito, ma in certi casi è offensivo”. Sebastiano Ardita, ex consigliere del Csm, è tornato a fare il procuratore aggiunto a Catania. Sull’assassinio di Giulia Tramontano, che aspettava un figlio, ha accantonato asettici tecnicismi e ha fatto capire a tutti come un assassino, con la riforma Cartabia, potrà chiedere subito un percorso di giustizia riparativa. Dottor Ardita, ci spieghi... La riforma prevede che sin dal primo atto l’indagato deve essere informato della facoltà di accedere a percorsi di giustizia riparativa. Dal momento che la giustizia riparativa è una cosa seria e presupporrebbe una elaborazione della propria condotta, oltreché la certezza della responsabilità penale, ritengo che sia improponibile che immediatamente dopo l’arresto si possano avviare questi percorsi, anche per rispetto delle vittime dei reati. È offensivo, oltreché pericoloso, che un indagato per violenza sessuale o per omicidio, possa chiedere di incontrare la vittima o i parenti prima ancora del processo. È vero che potrebbe cavarsela con dieci anni di carcere? Se sarà condannato e avrà attenuanti per la confessione o il beneficio per il percorso della giustizia riparativa, fra liberazione anticipata e misure alternative o libertà condizionale, potrebbe uscire dal carcere dopo una decina di anni, come è già accaduto ad altri. La riforma Cartabia ha trasformato reati a procedibilità d’ufficio in procedibili solo a querela come la minaccia o il sequestro. Il Parlamento ha corretto solo nel caso in cui quei reati siano commessi con l’aggravante di mafia o terrorismo. È sufficiente? Assolutamente no. Nella gran parte dei casi la procedibilità a querela andrà a danno dei più deboli tra le vittime dei reati. La minaccia e la violenza potrebbero servire a scoraggiare anche la testimonianza o la denuncia dei semplici cittadini. Il ministro Nordio ha annunciato le riforme dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze nonostante le convenzioni in merito ratificate dall’Italia… Il reato di abuso non ha dato grande prova di sé in termini di condanne, ma può essere un reato-spia di corruzione e di altre fattispecie gravi. Il traffico di influenze contrasta un malcostume che rende a volte difficile ai cittadini accedere a ciò che loro spetta senza passare dal clientelismo e dal malaffare amministrativo. In generale, mi sembra impensabile tenere fuori dal contrasto penale il perseguimento di interesse privato da parte di chi svolge una funzione pubblica. La nuova direttiva Ue, in discussione, tra l’altro, propone che i Paesi membri prevedano pene amministrative come quelle della legge Severino. Nordio, però, vorrebbe cancellare quella legge e la riforma Cartabia l’ha scavalcata dato che si può patteggiare in cambio dell’esclusione della sua applicazione su incandidabilità… Nell’interesse dello Stato, chi ha commesso gravi infedeltà nello svolgimento di funzioni istituzionali dovrebbe rimanere fuori per sempre da qualsiasi ruolo pubblico. Questa dovrebbe essere intesa come una norma di sicurezza generale a tutela della collettività, e non come una sanzione per il singolo. In conclusione, una riflessione sulle violenze di esponenti delle forze di polizia. Le ultime sono di alcuni poliziotti a Verona. A Milano una transessuale è stata picchiata da tre vigili; a Livorno un carabiniere ha dato un calcio in testa a un ragazzo a terra. Da magistrato come commenta? Sono fatti gravissimi ed esecrabili. Se si pretende rigore nell’applicazione della legge, questo vale a partire da chi svolge ruoli pubblici. Le foto choc delle violenze nella Questura di Verona: gli indagati scherzavano su Cucchi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 giugno 2023 La sera del 9 novembre scorso, mentre le telecamere della Questura riprendevano le violenze sul fermato Amiri Tororo (che nel cosiddetto “acquario” dava in escandescenze e insultava i poliziotti), i microfoni registravano le frasi pronunciate dagli agenti ora accusati di tortura e altri reati. “Maledetto marocchino di merda...”. “Com’è che Roberto (uno degli arrestati, ndr) non l’ha ammazzato?”. “Sì che l’ammazza (ride)”. Interviene Roberto: “Lo buttiamo là alla casa abbandonata, prende una scarpata nei coglioni!”. “Mi raccomando Roby, quelle che non gli hai dato prima dagliele dopo”. “Gli è andata pure bene che non gli ho fatto la doccia col secchio d’acqua (ride)”. E poco dopo ancora Roberto spiega: “Io adesso ho imparato a dare le cinquine più piano”. Tra i presenti c’era un’agente donna - anche lei indagata per il reato di tortura, della quale i pubblici ministeri hanno chiesto l’intedizione dall’impiego - che rideva e insultava il fermato minacciandolo con lo spray urticante: “Giuro che ti spruzzo adesso”, “Dai raga, vi prego, un’altra spruzzata!”, “Tagliatelo se ti fa male il cazzo”. Per i pm rappresentano la prova di una “palese adesione e non irrilevante contributo concorsuale alla commissione dell’azione delittuosa, oltreché l’accanimento mostrato nei confronti della persona offesa”. Sono ulteriori dettagli dell’inchiesta che ha condotto cinque poliziotti del Reparto Volanti agli arresti domiciliari, e all’iscrizione di altri 17 nel registro degli indagati; per loro pendono le richieste di misure interdittive sulle quali dovrà pronunciarsi il giudice, probabilmente dopo gli interrogatori previsti per la prossima settimana. I nuovi particolari emergono dagli atti allegati all’inchiesta, insieme ai fotogrammi dei filmati degli impianti di sorveglianza interni alla Questura, ora a disposizione degli avvocati difensori. Un insieme di indizi da cui si deduce, secondo la Procura e il gip, che gli inquisiti “hanno inteso l’appartenenza alla Polizia di Stato come occasione per tenere condotte illecite”, insieme alla “consuetudine nell’utilizzo ingiustificato di violenza fisica su soggetti sottoposti a controllo o fermo”. Dall’estate 2022 e fino a dicembre, la Squadra mobile veronese ha indagato sui loro colleghi raccogliendo le prove delle violenze e degli altri reati contestati, primo fra tutti la falsificazione dei verbali. Ma nell’ultima fase degli accertamenti, i poliziotti sotto osservazione si sono accorti di avere gli occhi addosso. Provando a prendere precauzioni, per rendere più difficile il lavoro degli investigatori. Hanno cominciato a cercare telecamere e microspie nelle stanze in cui s’incontravano, a volte salendo su seggiole e scrivanie per vedere se fossero nascosti nei lampadari; tutto documentato nelle informative della Mobile. Come l’incontro in Questura del 5 dicembre tra l’assistente capo (uno degli arrestati) e il vice-ispettore, indagato: “Quest’ultimo, evidentemente temendo di essere intercettato, prende un foglietto e dopo aver manoscritto qualcosa lo mostra al collega, il quale commenta chiedendogli contezza circa il contenuto di quanto appena letto. A questo punto riprende il foglietto, lo strappa e lo getta nel cestino sito nel corridoio, quindi fa cenno al collega di seguirlo e i due escono dall’ufficio”. Forse temendo ciò che sarebbe stato scoperto. Un mese prima alcuni agenti commentavano il cattivo stato di salute di un fermato facendo riferimenti scherzosi a Stefano Cucchi. L’8 novembre, altri tre sono stati registrati mentre “parlano del fatto che l’ex dirigente dell’Ufficio Volanti, nonostante i vari problemi che coinvolgono gli operatori del Nucleo, dei quali lei era a conoscenza, è stata trasferita al momento giusto senza alcuna ripercussione”. In un’intercettazione del 27 novembre è citato un sovrintendente (ora indagato) che “nonostante il periodo in cui il loro Ufficio è attenzionato, ha picchiato un soggetto e ne ha denunciati altri due”. “Punire chi sbaglia senza generalizzare, ma il governo Meloni non dialoga” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 9 giugno 2023 Emanuele Fiano è stato quattro volte deputato e per il Pd si è occupato di politiche della sicurezza. Gli abbiamo chiesto un commento sulla vicenda delle inqualificabili violenze di cui si sarebbero macchiati gli agenti della Questura di Verona. Mentre parliamo, i cinque (un ispettore e quattro agenti) sono in custodia cautelare domiciliare, come disposto dal Gip. L’accusa è di aver preso parte a episodi di violenza, ma anche di non aver denunciato avvenimenti di cui erano a conoscenza o non averli impediti quando ne hanno avuto l’occasione. Fatta salva la presunzione di innocenza, come definirebbe quanto si sta accertando sulla Questura di Verona? “Una vergogna che vivo molto male, quando si tratta di disumanità è una sconfitta per tutti. Sia chiaro, al momento ne dobbiamo parlare come eventualità - siamo sempre garantisti - di una terribile notizia, che colpisce di più quando questi episodi sono perpetrati con terribile violenza e spregio della dignità umana da chi indossa una divisa”. Il reato di tortura va mantenuto? “Penso di sì. È una fattispecie che va punita a sé, chi vestendo una divisa commette reati contro la persona, va giudicato secondo una norma a sé”. Oltre alla violenza a Verona c’era dell’altro: le coperture reciproche… “La cosa peggiore è la violenza, la degradazione e l’umiliazione psico-fisica dei soggetti fermati per controlli. Quella è la cosa peggiore. Poi ci sono le complicità. La ritroviamo nei verbali, c’è addirittura un sequestro di materiali da scasso e di armi improprie che sarebbe stato omesso in cambio di piccoli favori, tipo un ingresso in discoteca. E poi l’omertà e le omissioni di chi si è guardato bene dal denunciare”. Fino a che livello arrivano le coperture? “È oggetto di indagine. Non credo ad alto livello. Ma da parte di superiori c’è stato un clima superficiale: va ricordato anche che altri due agenti in precedenza, prima che arrivasse l’attuale Questore, erano già stati sanzionati per comportamenti non accettabili”. Facendo nostra la premessa che parliamo di eccezioni, di mele marce in un contesto in cui le Forze dell’ordine operano con correttezza e professionalità, che cosa è saltato in questo caso? “Su 95.000 appartenenti al corpo della Polizia dello Stato, stiamo parlando di una ventina, forse 22 persone coinvolte nell’indagine di Verona, a titolo diverso. Non si può generalizzare. Tuttavia in alcuni casi, come nelle telefonate di Migliore alla fidanzata, riscontriamo delle caratteristiche patologiche. Di chi gode della sofferenza altrui. E dunque evidentemente qualche passaggio nel processo di selezione non ha funzionato. Deve essere debellato l’inizio di qualsiasi catena di omertà. Questo è fondamentale”. Lo dice con partecipazione, Fiano... “Lo dico con amore per la Polizia di Stato: amore, più che rispetto. Perché capisco quanto la democrazia sia nelle loro mani. Quando nelle manifestazioni si vedono cortei di lavoratori che protestano perché pagati poco, scortati da cordoni di Polizia, si pensi che i poliziotti presenti sono in una duplice veste. Devono mantenere l’ordine pubblico ma in cuor loro sono talvolta anche con chi manifesta, perché le loro condizioni di lavoro sono difficili e i loro stipendi inadeguati”. E il pensiero va subito alle parole di Pier Paolo Pasolini. “Sono loro i figli del popolo…” “Sì, ma questo non può in nessun modo giustificare i reati che sono contestati loro dall’indagine di Verona. Ho postato sulla mia pagina Facebook un comunicato di tutte le più importanti sigle di polizia. “Se tutto quello che viene riscontrato sarà vero, chiediamo di applicare punizioni esemplari”. Perché conosciamo il valore della libertà di difesa del nostro lavoro. Si chiede l’uso delle body cam per aiutare a identificare, se ce ne sono, gli autori di violenze. “ Body cam che possono servire anche a scagionare... “E certo. Il nuovo Questore di Verona ne ha fatte installare in tutti gli ambienti, per esempio. Anche se poi ci sono sempre angoli morti, come il corridoio dove venivano dati, parrebbe dai verbali agli atti, schiaffoni e manganellate”. C’è un altro caso che torna in mente, quello della polizia penitenziaria. Con il caso eclatante delle violenze sui detenuti di Santa Maria Capua Vetere... “La storia ha delle motivazioni materiali. La Polizia penitenziaria è sotto organico. È malpagata. Le strutture carcerarie sono insufficienti, quando non fatiscenti. Ci sono popolazioni carcerarie difficilissime da trattare. In questo contesto, la politica ci insegna che - premesso che i colpevoli di violenza vanno rimossi e puniti - bisogna investire. E di investimenti anche culturali: il sistema carcerario non può essere il cestino nel quale si ritiene di mettere gli irrecuperabili. Gli ultimi degli ultimi. Deve tornare un luogo di civiltà e di rieducazione”. Come se ne esce? “Investendo sulle Forze dell’ordine. Sugli stipendi, sulla turnazione. Perché sono tra le professioni usuranti, le più logorate. E investendo sulla formazione continua. A proposito, i sindacati della P.S. dicono di premere da mesi per un confronto con questo Governo che ancora non c’è mai stato”. Ma la politica li ascolta? “Quando nel 1981 la Polizia è diventato un corpo civile, ed è stato sindacalizzato, abbiamo potuto iniziare un dialogo tra istituzioni e corpo della P.S. che si è rivelato utilissimo per prevenire e per curare alcuni dei problemi più gravi. Poi certo tutto dipende dalle legislature, dalle maggioranze, dai governi”. E questo Governo Meloni, in particolare? “Il dialogo di questo governo con la Polizia è zero. Avendo fatto per molti anni il responsabile Sicurezza del PD ho seguito tanti incontri con le forze dell’ordine, posso dirlo con cognizione di causa: oggi non c’è dialogo. E mi colpisce che non ci sia nessun rapporto, in un momento come questo”. Ma come, tutta la campagna elettorale sulle istanze securitarie, e poi non incontrano neanche i sindacati di Polizia? “Sa come si dice? Tutti chiacchiere e distintivo”. E le scuse a Contrada? Tutti muti sul risarcimento a un servitore dello Stato di Maurizio Crippa Il Foglio, 9 giugno 2023 La Cassazione ha confermato per l’ex capo della Mobile di Palermo il diritto a una “riparazione per ingiusta detenzione”. Dopo trent’anni di accanimento, una definitiva seppur tardiva giustizia: “Non c’è somma che possa rimediare”. Siamo poco meno che intossicati dalla quantità di casi e di gente che chiede scusa o che scuse pretende, spesso con un velo opaco di ipocrisia: scusatevi per Bibbiano, ancora non vi siete scusati per Cutro, chiedete scusa per (o del) Pride. Si è scusata pure Mara Venier. Ma nessuno che oggi abbia avuto la decenza di scusarsi con Bruno Contrada, perseguitato per ingiustizia. Nel paese ipocrita di scusopoli, dell’inchino insincero alle verità degli altri cui nessuno importa, nessuno ha avuto quantomeno il buon gusto - decenza e onestà intellettuale sono merce troppo rara - di scusarsi davvero, con Bruno Contrada: un servitore dello stato che lo stato non ha saputo o voluto difendere quando era il momento, e per quasi trent’anni. Ma ora è venuto il momento in cui la Corte di cassazione, Sezione quarta penale, ha reso a Bruno Contrada una definitiva seppur tardiva giustizia: rigettando i ricorsi della procura generale di Palermo e del ministero dell’Economia, che avevano avuto persino la protervia di opporsi, ha confermato il diritto di Contrada a un risarcimento come “riparazione per ingiusta detenzione”. “Dopo otto lunghi anni sono state poste in esecuzione le due sentenze della Corte europea dei Diritti dell’uomo che hanno sancito che il procedimento a carico di Contrada è stato fin dall’inizio illegittimo e illegittima era la condanna”, ha commentato il suo avvocato. Bruno Contrada ha 91 anni, ha sofferto fisicamente e moralmente l’indicibile per le false accuse e per l’accanimento giudiziario di chi le ha portate avanti per decenni. Non ha perso un’udienza dei suoi processi perché voleva fosse ristabilito il suo onore. Ora la Cassazione ha stabilito che la sua ingiusta detenzione vale 285.342,2 euro. Davvero poco, ma vale il simbolo. Lui aveva detto: “Non c’è somma che possa riparare e rimediare o risarcire il male che mi è stato fatto. Per i 30 anni di sofferenza che ho subìto”. Ci vorrebbe una Finanziaria, aveva provato a scherzare, ma era una battuta soffocata dall’amarezza. L’avvocato Stefano Giordano ha detto, con altrettanta amarezza: “Siamo giunti a tale risultato finale soltanto perché il dottore Contrada è rimasto vivo nonostante tutta la sofferenza inflittagli”. Rimasto vivo. Come Nicola Mancino, come altri che hanno dovuto resistere a una vita di soprusi e ingiurie prima che fosse loro resa giustizia, coi tempi disumani della giustizia italiana che qualche scellerato vorrebbe persino allungare (fine pena mai, prescrizione mai: aberrazioni figlie di una stessa mentalità illiberale). Condannato e detenuto per un reato inesistente, come ha stabilito la Cedu e riconosciuto la Consulta, l’ex capo della Mobile di Palermo è stato in quegli anni “il diversivo giusto” (dixit l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino), il capro espiatorio utile. Una vicenda processuale iniziata con l’arresto alla vigilia di Natale del 1992 e, oltre ai processi, costruita come un “romanzo criminale” giornalistico che per anni e anni lo ha additato come una “mente raffinatissima” collusa con la mafia. Depistaggi della guerra di mafia di allora, come ha ricostruito alla fine la sentenza sul depistaggio di Via D’Amelio. Persino il conteggio dei reati inesistenti e delle sentenze nulle o prescritte è un rebus allucinatorio nella storia dolorosa di Bruno Contrada. Ma qui ci vogliamo limitare a sottolineare un ultimo e differente scempio italiano: nessuno oggi ha chiesto scusa. Anzi i giornali che di più e per anni hanno insistito a dipingerlo come un’ombra malvagia sopra la Sicilia delle stragi, sostenendo con piaggeria soltanto le tesi della procura, nonostante le sentenze le smontassero mattone per mattone, oggi hanno taciuto. O peggio. Repubblica Palermo, che di quella pessima stagione dei processi teoretici dell’antimafia è stata una dei testimoni e aedi, ha sfoderato il titolo della vergogna: “Mafia, l’ex numero 3 del Sisde Contrada strappa anche il risarcimento”. “Anche”. Innocente, ingiustamente condannato e detenuto, calunniato da falsi pentiti e da media compiacenti con le procure lungo anni di indagini smentite dalla Corte dei diritti dell’uomo europea. E non hanno neanche la decenza di chiedere scusa. “Neanche”, altro che il loro vergognoso “anche”. “Mi hanno distrutto la vita, per questo non basta nessun risarcimento” di Angela Stella L’Unità, 9 giugno 2023 Bruno Contrada: “La mia vicenda è durata 30 anni, se dovessi essere risarcito per quanto accaduto, lo Stato italiano dovrebbe fare una nuova manovra finanziaria”. La Cassazione, rigettando i ricorsi della Procura Generale di Palermo e del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha confermato la riparazione per ingiusta detenzione nei confronti del dott. Bruno Contrada che abbiamo intervistato a poche ore dalla decisione. Dottor Contrada come commenta la decisione? Sono d’accordo con quanto detto dal mio avvocato. Io non dovevo essere processato, né mandato in carcere. Da oggi spero non di avere più a che fare con la giustizia. Tutto l’iter giudiziario che ha caratterizzato la mia vicenda non è stato solo lungo ma soprattutto motivo di grande sofferenza. Lei è arrivato fino alla Cedu... La decisione del 2014 della Cedu condanna l’Italia per violazione dell’articolo 3 della convenzione per essere stato io sottoposto a pena inumana e degradante. Successivamente nel 2015 sempre la Cedu ha ritenuta illegittima la precedente condanna perché per i giudici all’epoca dei fatti il reato di concorso esterno che mi era stato contestato non era sufficientemente tipizzato, quindi il processo sarebbe stato celebrato illegittimamente. Dopo queste due decisioni ci fu una sentenza della Cassazione nel 2017 che conclude così: “la sentenza di condanna emessa dalla Corte di Palermo nel 2006 è ineseguibile e improduttiva di effetti penali”. Questa è la sentenza più importante che arrivò quando io avevo già scontato tutta la mia pena: quattro anni in carcere e quattro ai domiciliari. Due anni furono condonati per buona condotta. L’accusa si è sempre opposta al risarcimento? La procura generale è intervenuta sempre nei due procedimenti relativi al risarcimento per ingiusta detenzione. Secondo loro non mi spettava nulla. Ci sono stati diversi ricorsi fino alla decisione di ieri. Tutto questo mi ha provocato un dolore inspiegabile. Come diceva Piero Calamandrei “il processo stesso, anche per un innocente, è una pena”. Lei era destinato ad un risarcimento…. La fermo subito: se dovessimo parlare di risarcimento dovremmo fare riferimento all’intera mia vicenda giudiziaria durata 30 anni. Se dovessi essere risarcito per quanto accaduto, lo Stato italiano dovrebbe fare una nuova manovra finanziaria. Non esiste cifra per risarcire un danno del genere, come quello da me subito. Qui si siamo in presenza della distruzione di una vita. Tornando alla riparazione per ingiusta detenzione, alcuni magistrati si sono opposti e alcuni giudici hanno dato loro ragione. Come se lo spiega? Dovrebbe rivolgere a loro questa domanda. Non so perché hanno avuto questa predisposizione a non riconoscere quello che era un mio diritto. Lo vada a chiedere all’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e a quello attuale Lia Sava. Lei veniva arrestato alla vigilia di Natale del 1992. Perché proprio per quel giorno? Per infliggere maggiore sofferenza? Io per circa 40 anni, di cui 23 a Palermo, ho svolto sempre ruoli di polizia giudiziaria. Cercavano sempre di non eseguire ordini o mandati di cattura a Natale, a meno che non ci fosse un carattere di urgenza o necessità. Nel mio caso, benché non ci fossero queste due esigenze, si è eseguito l’ordine di cattura e mi hanno condotto nel carcere militare. Non c’era pericolo di fuga: avevano messo sotto controllo il mio telefono e sapevano dovrei avrei trascorso le vacanze, ossia con i miei parenti. Neanche quello di inquinamento delle prove: per il reato di cui ero accusato avrei dovuto distruggere interi archivi, come quello del Ministero dell’Interno o della Squadra Mobile dove c’erano i fascicoli delle operazioni svolte da me. E sulle prove testimoniali avrei dovuto pagare decine di persone affinché non rilevassero presunte verità. Manca anche il pericolo di reiterazione del reato: ma se veniva sospeso dal servizio come avrei fatto a reiterarlo? Quindi ho fatto 31 mesi e 7 giorni di custodia cautelare in attesa del processo senza che ricorressero queste condizioni. E perché mi hanno arrestato il giorno di Natale? Me lo dica lei... Anche qui bisognerebbe chiederlo a chi chiese di arrestarmi: Ingroia, Scarpinato, Natoli, Morvillo, Lo Forte e a chi sottoscrisse quella richiesta ossia il procuratore facente funzioni Vittorio Aliquò. Ma bisognerebbe anche domandarlo al Gip del Tribunale di Palermo, dott. Sergio La Commare, che non fece altro che copiare integramente la richiesta della Procura. Qualcuno anche all’interno delle istituzioni ha remato contro di Lei? Certo, all’interno delle mie istituzioni con l’aiuto di persone che per anni ho perseguito e mandato in galera. Dobbiamo contestualizzare: siamo nel 1992, l’annus horribilis della prima Repubblica. È l’anno di Tangentopoli ma anche di Mafiopoli. In quest’ultimo filone finii anche io. Ma quell’anno fu orribile anche per Giulio Andreotti, per il presidente Carnevale, per l’ex Ministro Mannino. È difficile sintetizzare quello che accadde in quegli anni e come si arrivò a condannare un uomo come me, che non aveva mai preso neanche una multa, a dieci anni di carcere. Posso solo dire che tutte le accuse che mi sono state rivolte erano false. Ma il problema non sono i pentiti e i delinquenti che hanno parlato, ma coloro che gli hanno creduto nella magistratura... Loro hanno fatto il loro mestiere di criminali. Avevano messo bombe, sciolto gente nell’acido, appiccato incendi, ucciso persone. Cosa poteva importare loro di fare un reato piccolo di calunnia o diffamazione nei miei confronti? Hanno denunciato addirittura i loro figli o i loro genitori. Erano capaci di tutto e non vedevano l’ora di accusare uno sbirro. I pentiti poi lo hanno fatto per il loro tornaconto personale. E i magistrati hanno creduto a loro per la parte che interessava. Perché ad altri pentiti non hanno creduto perché non dicevano le cose che dovevano dire. Nonostante tutto, quando vediamo alcune trasmissioni che parlano di Mafia alcuni giornalisti fanno sempre riemergere il sospetto accusatorio su di lei... Devono per forza fare così, altrimenti dovrebbero dichiarare apertamente ed umilmente e umanamente il loro fallimento. In tutti questi anni ha ricevuto delle scuse da qualcuno? Da nessuno. Né da quelli che mi hanno accusato né dagli uomini delle istituzioni. Sicilia. Una pena dignitosa? Non in carcere di Agostino Laudani focusicilia.it, 9 giugno 2023 Da Augusta a Palermo, 23 strutture e problemi di sovraffollamento, carenze di agenti di polizia penitenziaria, episodi di autolesionismo, casi psichiatrici. Il presidente di Antigone Sicilia, Bisagna: “Chi sconta la pena deve farlo in maniera almeno minimamente dignitosa, nel rispetto dei diritti umani”. Il carcere di Augusta ha 350 posti, ma i detenuti sono 484 e 120 di loro sono in cura psichiatrica. Gli agenti di polizia penitenziaria previsti dall’organico dovrebbero essere 251, ma ce ne sono 182, di cui 19 in malattia. Tra turni e permessi, si riducono a circa 120. Sovraffollamento e carenza di personale sono solo alcune delle criticità riscontrate nelle strutture siciliane. Quella di Augusta è l’ultima visitata in ordine di tempo, proprio martedì scorso, dall’Osservatorio Antigone, un organismo che monitora periodicamente gli istituti penitenziari italiani per verificare le condizioni in cui vivono i detenuti. Augusta è una struttura abbastanza moderna, sorta nel 1987, ma alcune ale sono totalmente inagibili. Qui, “quattro detenuti sono in sciopero della fame - racconta Giorgio Bisagna, avvocato e presidente di Antigone Sicilia - due sono deceduti proprio a causa di scioperi della fame, ci sono stati 37 casi di autolesionismo e tre tentati suicidi, 74 aggressioni a personale di polizia penitenziaria nell’anno precedente, più di cento tossicodipendenti, 120 detenuti hanno diagnosi psichiatriche e sono in trattamento farmacologico”. I tassi di sovraffollamento medio nelle carceri siciliane non sono paragonabili a quelli di Milano San Vittore, Varese o Lucca dove si toccano punte di occupazione delle celle del 190 per cento, quasi il doppio del possibile. Anzi, nelle 23 carceri dell’Isola, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) del ministero della Giustizia, ci sarebbero al 31 maggio persino 146 posti non utilizzati. Però, c’è un paradosso: da una parte alcune strutture operano oltre i limiti della capienza regolamentare, come il Pagliarelli di Palermo con 140 detenuti in più del previsto o Siracusa con 73 in più. Dall’altra parte carceri come quello di Barcellona Pozzo di Gotto, che di posti liberi ne ha ben 203. Come possa succedere, “neanche a noi è chiaro - ammette Bisagna - è il Dap che decide i trasferimenti” e nel caso di Barcellona “si tratta di un ex Opg (Ospedale psichiatrico-giudiziario), oggi specializzato nel trattamento di detenuti con problemi psichiatrici, quindi non potrebbe andarci chiunque”. Di contro, però, “il numero di soggetti che ci sono nelle carceri con disagio psichiatrico è enorme, da fare paura”, dice il presidente di Antigone. Tanti detenuti in pochi spazi non sono certamente l’unico parametro con cui si può valutare la qualità della detenzione e l’Osservatorio Antigone esegue continuamente monitoraggi delle strutture italiane, con visite che nel corso del 2022 hanno toccato dieci istituti in Sicilia. Si tratta di una fotografia parziale della realtà, ma che offre uno spaccato significativo delle condizioni strutturali e dei servizi disponibili per quanto riguarda Palermo (Pagliarelli, Lorusso e Ucciardone), Augusta, Catania (Piazza Lanza e Bicocca), Barcellona Pozzo di Gotto, Enna, Messina e Giarre. Così, si scopre che su dieci strutture visitate, quattro sono state realizzate tra il 1900 e il 1950 o addirittura prima del 1900. Nel 40 per cento dei casi, le celle non sono riscaldate o il riscaldamento non è funzionante e nel 60 per cento non c’è una doccia all’interno. La metà delle strutture non dispone di un campo sportivo accessibile e in otto su dieci non c’è un’area verde per i colloqui nei mesi estivi. Nelle dieci strutture prese in esame da Antigone, la Polizia penitenziaria copre l’85 per cento delle necessità previste dalle dotazioni organiche e gli educatori coprono il 91 per cento delle esigenze. Anche per questo, il nove giugno, il Sinappe (sindacato di Polizia penitenziaria), manifesterà davanti alle strutture per evidenziare i rischi che corrono giornalmente gli operatori e protestare contro i tagli agli organici e agli stanziamenti. Anche il fattore salute, come emerso nell’esempio di Augusta, è determinante: tra i detenuti, la percentuale di diagnosi psichiatriche gravi supera il 4,3 per cento ma nel 70 per cento delle strutture non ci sono articolazioni per la salute mentale, mentre su cento presenti si trovano quasi 18 tossicodipendenti in trattamento, la media degli episodi di autolesionismo supera il 12 per cento e i tentati suicidi arrivano al 2,9 per cento. Le aggressioni ai detenuti sfiorano il sette per cento. Nel 40 per cento delle strutture non sono attivi programmi di lavoro di pubblica utilità, un detenuto su quattro lavora in carcere e ancora un detenuto su quattro è coinvolto in corsi di formazione scolastica. Le donne rappresentano il 40 per cento della popolazione carceraria presa in esame in cinque strutture visitate da Antigone. Gli istituti (Pagliarelli e Lorusso di Palermo, Catania Piazza Lanza, Messina e Barcellona Pozzo di Gotto) nel 60 per cento dispongono di servizi medici di ostetricia e di ginecologia. Una donna detenuta ogni quattro lavora per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, una ogni quattro segue corsi scolastici, una ogni dieci segue corsi di formazione professionale, 15 su cento sono in isolamento disciplinare e 70 su cento sono state protagoniste di episodi di autolesionismo. Il panorama delle criticità potrebbe continuare ancora e Bisagna assicura che nel corso dell’anno si cercherà di passare in rassegna tutte e 23 le strutture dell’Isola, così da avere un quadro completo delle complicate condizioni della detenzione. “Bisogna lavorare per far sì che ci sia meno gente possibile che sconti la pena in carcere, ma chi la sconta deve farlo in maniera almeno minimamente dignitosa, rispettosa di un minimo di diritti umani. Nella stragrande maggioranza delle carceri, ciò non accade. Questo è un dato di fatto”, è l’amara conclusione del presidente di Antigone Sicilia. Friuli Venezia Giulia. Pellegrino (Avs): “Giustizia riparativa, sospendere bandi Terzo settore” udineoggi.news, 9 giugno 2023 “Sono d’accordo con il Garante che oggi ha chiesto di sospendere l’avviso regionale di istruttoria pubblica rivolto agli enti del Terzo Settore per la realizzazione dei progetti Ripar(t)iamo e In.Con.Tra, già finanziati dal Ministero della Giustizia e dalla Regione, riguardanti azioni quali gli interventi a favore delle vittime di reato, la giustizia riparativa, la mediazione penale e l’inclusione socio lavorativa di persone sottoposte a misure penali”. Lo dichiara, in una nota, la consigliera regionale di Alleanza Verdi e Sinistra, Serena Pellegrino, presente questa mattina alla conferenza stampa “La giustizia riparativa non deve essere uno schermo per nascondere la crisi del carcere” organizzata dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine, Franco Corleone, a Palazzo D’Aronco. “È infatti evidente che Associazioni e Enti non dispongono oggi delle competenze, capacità tecniche, specializzazioni professionali ed esperienze per operare nei complessi ambiti cui si vuole dedicare la co-progettazione - aggiunge - con il rischio che un settore così strettamente legato alle comunità e agli enti locali venga affidato a soggetti provenienti da fuori Regione”. Rimarcando una delle numerose sollecitazioni del Garante, Pellegrino ha assicurato: “Certamente lavoreremo, in una prospettiva che considero trasversale sul piano politico, per presentare in Consiglio regionale un disegno di legge per l’istituzione delle case territoriali di reinserimento sociale, destinate a detenuti con pene fino a 12 mesi, evoluzione delle vecchie case mandamentali”. Inoltre - spiega nella nota - “è necessario che la Regione intervenga in molti ambiti della vita carceraria, a cominciare dal diritto alla salute e salute mentale”. L’ultimo riferimento della consigliera è alla giustizia riparativa. “I Centri pubblici che erogheranno i servizi, da realizzarsi all’interno di enti locali, svolgeranno non solo i compiti istituzionali, cioè la riparazione delle conseguenze dannose, materiali e immateriali del reato, assicurando centralità alla vittima del reato ed anche opportunità di reinserimento sociale e minore stigmatizzazione dell’autore dell’offesa, ma parteciperanno direttamente all’opera di costruzione di una società più giusta, più pacifica e più inclusiva” conclude Pellegrino. Venezia. Morto suicida in carcere: il giallo dell’ora e dell’ultima chiamata di Davide Tamiello Il Gazzettino, 9 giugno 2023 La moglie del tunisino arrestato ha denunciato il penitenziario. È rimasta in questura per tre ore. Ha ricostruito la mattinata di martedì senza trascurare neppure il più piccolo particolare. Ha raccontato ai poliziotti di quella telefonata drammatica con cui il marito, Bassem Degachi, il 38enne morto suicida in carcere dopo aver ricevuto la notifica di una nuova ordinanza di custodia cautelare, l’aveva salutata annunciandole che si sarebbe tolto la vita. Ha sottolineato le chiamate con cui aveva supplicato il carcere di fare attenzione perché il suo Bassem, quella follia, l’avrebbe messa in atto sul serio. Ieri Silvia Padoan, moglie del 38enne tunisino, ha fatto il primo passo di quella che, da oggi, sarà una lunga strada: ha denunciato il carcere di Venezia. Gli ispettori della procura, intanto, avrebbero già fatto un primo sopralluogo per raccogliere le prime voci all’interno dell’istituto. A coordinare l’inchiesta ci sarà la sostituta procuratrice Lucia D’Alessandro. La direttrice del carcere, Immacolata Mannarella, martedì pomeriggio è andata a far visita a Silvia per farle le condoglianze. “È stata gentile e disponibile, si è detta dispiaciuta - racconta la cognata, Elisa Poletto - ci ha detto che Bassem non aveva mai dato problemi in carcere, anzi: spesso era uno di quelli che contribuiva a risolverli. Ci è sembrata sincera, abbiamo apprezzato la sua vicinanza”. Al di là del gesto, però, la famiglia vuole capire se vi siano delle responsabilità su quanto è accaduto e, soprattutto, sapere se la morte del 38enne tunisino potesse essere evitata. A cominciare da un dettaglio: l’atto di morte di Bassem è stato firmato alle 14.42. Questa, dunque, l’ora in cui il medico legale avrebbe constatato il decesso del 38enne. Un minuto prima, però, la moglie aveva telefonato in carcere per la terza volta. “Silvia ha chiamato alle 14.41 - spiega Elisa - direttamente con la matricola per segnalare, ancora una volta, quello che aveva minacciato suo marito. Le hanno risposto che andava tutto bene e di non preoccuparsi, di stare tranquilla. Bassem, nel frattempo, era morto. Silvia è stata chiamata per la notizia del decesso del marito alle 15.40”. L’avvocato della famiglia, Marco Borella, ha chiesto tutti i tabulati telefonici di martedì proprio a conferma dei ripetuti tentativi di chiedere una maggior supervisione sull’uomo che aveva annunciato il proprio suicidio alla famiglia. Riavvolgiamo il nastro: Bassem da sette mesi era in regime di semilibertà, aveva iniziato a lavorare in una remiera, poteva disporre di un proprio cellulare. Stava assaporando la nuova vita quando gli è stata notificata, martedì mattina, una nuova ordinanza di custodia cautelare per fatti avvenuti nel 2018. Una scelta che farà molto discutere e che, con ogni probabilità, servirà ad alimentare il dibattito sull’opportunità di eseguire certe misure cautelari. “La direttrice ci ha detto che sembrava estremamente tranquillo, uno stato d’animo che non sembrava presagire a colpi di testa. - continua Elisa - una ricostruzione che, però, va in contrasto con quella degli altri detenuti sentiti dagli investigatori e anche dal nostro avvocato. A quanto ci risulta avrebbero raccontato che Bassem, invece, era fuori di sé, sconvolto per quella notizia. Altro che tranquillo”. Il funerale del 38enne si terrà in Tunisia, non appena ci sarà il nulla osta per la salma da parte della procura. “La madre di Bassem è distrutta - conclude Elisa - andremo tutti quando verrà fissata la data. Vorremmo fare qualcosa per ricordarlo, ancora non sappiamo cosa, ma ci piacerebbe onorarlo come merita”. Augusta (Sr). Dopo i due morti ci sono altri quattro detenuti in sciopero della fame di Marta Silvestre meridionews.it, 9 giugno 2023 “Una situazione critica, più che in altre carceri, dovuta a una serie di concause”. È con queste parole che l’avvocato Giorgio Bisagna, da qualche giorno nuovo presidente dell’associazione Antigone - che si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale - sintetizza la visita all’interno della Casa di reclusione di Augusta, in provincia di Siracusa. Una struttura enorme che si trova alla periferia della cittadina megarese e che, di recente, è finita sotto i riflettori per la morte di due detenuti per le conseguenze di un lungo sciopero della fame. “Attualmente - sottolinea Bisagna - nel carcere di Augusta ci sono altri quattro detenuti che stanno mettendo in pratica la stessa forma di protesta pacifica”. La punta di un iceberg in un contesto in cui su 484 detenuti presenti (a fronte di una capienza regolamentare di 357 posti), 120 soffrono di un disagio psichico o psichiatrico. “Un numero altissimo. In particolare - anticipa al nostro giornale il presidente di Antigone che a breve pubblicherà il report sull’ispezione - settanta soffrono di disturbi della personalità, trenta di alterazioni dell’umore e venti hanno delle psicosi. E questi - aggiunge - sono solo i dati delle persone sottoposte a terapie farmacologiche”. A questi si aggiungono altri numerosi detenuti che, solo al bisogno, fanno ricorso a medicine per disturbi del sonno e dell’ansia. Negli ultimi sei mesi, si sono registrati 37 casi di autolesionismo, in otto casi è stato necessario ricorrere a trattamento sanitario obbligatorio (Tso) per detenuti, 74 sono state le aggressioni ai danni del personale e sei quelle che hanno visto i detenuti come vittime. “Si capisce che non c’è un clima di distensione che abbiamo potuto rilevare altrove ma che, invece, la situazione non è tranquilla - analizza Bisagna che, nel corso della visita, è stato accompagnato dalla collega Roberta Guzzardi - Anche se da parte della direttrice del carcere di Augusta Angela Lantieri e degli agenti di polizia penitenziaria abbiamo ricevuto una certa disponibilità e nessuna reticenza di fronte alle nostre richieste e nell’evidenziare le problematiche. Fatto insolito è che, durante la nostra visita, erano presenti tutte e due le magistrate di sorveglianza di Siracusa, Monica Marchionni e Alessandra Gigli”. Una presenza che è stata una prima volta assoluta per il presidente di Antigone che pure, anche per via del suo lavoro di avvocato, di carceri ne ha visitate negli anni. Ispezioni che servono per realizzare un report (con una scheda precisa di quaranta pagine) che fotografi la situazione all’interno delle mura delle condizioni carcerarie dei detenuti e anche materiali: dall’ora d’aria alla situazione delle celle fino alle attività svolte. Nelle cinque ore di visita nella casa di reclusione di Augusta i dati appuntati da Antigone sono molti. “Abbiamo registrato celle in condizioni di insalubrità con muffa e deterioramenti vari, senza riscaldamenti, senza acqua calda e in qualche caso anche con interruzioni di acqua corrente. Un’intera ala - elenca Bisagna - inoltre è in disuso perché inagibile così come alcuni spazi all’aperto. Insomma una struttura fatiscente e non assolutamente idonea”. A peggiorare la situazione c’è poi il sovrappopolamento ma anche la scarsità di personale di polizia penitenziaria (dei 251 agenti previsti, effettivi sono solo 182 e di questi 19 in malattia) e di educatori (solo sette per i detenuti, tutti uomini e tutti con condanne definitive) e l’assoluta mancanza di mediatori culturali e linguistici del ministero. Un’assenza a cui (per i 41 detenuti stranieri presenti al momento) provano a supplire i volontari di diverse associazioni. Nella struttura c’è una palestra piuttosto dignitosa a cui, però, non tutti i detenuti possono avere accesso perché dipende non solo dai turni ma anche da criteri di merito. I carcerati ad Augusta - che vanno da quelli comuni a quelli in regime di alta sicurezza - inoltre, hanno la possibilità di frequentare le scuole (dalle primarie alle superiori) e anche l’università. “I più gettonati sono i corsi degli istituti professionali - spiega Bisagna - Ma non a tutti è concesso di accedere ai locali di studio, come la biblioteca. Al momento, inoltre, mancano completamente anche lavori in house che altrove, invece, hanno dato vita a progetti imprenditoriali importanti”. Come, per esempio, Dolci evasioni della cooperativa sociale l’Arcolaio nel carcere di Cavadonna a Siracusa o Cotti in fragranza nel carcere Malaspina di Palermo. Dentro le mura, c’è la possibilità di cantare in un coro polifonico e anche di partecipare alla messa, anche se non ogni domenica perché viene celebrata a giro nelle diverse sezioni. Nulla per gli altri culti per cui non sarebbe arrivata nessuna richiesta formale. “Il nostro all’interno delle carceri è un lavoro di osservatorio - chiarisce il presidente di Antigone - I report sono importanti perché restituiscono un quadro completo e complesso della vita all’interno delle mura”. E, in molti casi, diventano strumenti per gli addetti ai lavori: studiosi, giuristi, assistenti sociali, educati, enti del terzo settore e anche istituzioni titolate poi a trovare soluzioni alla criticità emerse. “Quella più grave riguarda i suicidi all’interno delle carceri che in Sicilia - analizza Bisagna - negli ultimi anni sono aumentati. La cosa grave è che si tratta di persone che dovrebbero essere sotto la custodia dello Stato”. Gli ultimi due casi di morte - su cui la procura di Siracusa ha aperto un’inchiesta - hanno riguardato i detenuti deceduti dopo un lungo periodo di sciopero della fame per protesta all’interno del carcere di Augusta. Liborio Davide Zerba aveva 45 anni, era di Gela (in provincia di Caltanissetta) e stava protestando perché sosteneva di essere in carcere per errore. Una pena che avrebbe dovuto scontare fino al 2029. È morto in ospedale la notte tra il 25 e il 26 aprile dopo 46 giorni senza cibo. Sono stati 59 per il cittadino russo Victor Pereshchako deceduto il 9 maggio. Dal 2018 chiedeva di potere scontare la propria pena nel suo Paese. “E questo è lo stesso motivo per cui sta continuando a protestare - spiega Bisagna - uno dei quattro detenuti in sciopero della fame: perché vorrebbe essere trasferito in un carcere più vicino a casa per potere ricevere con più facilità la visita dei propri familiari”. Un diritto di ogni detenuto in un carcere che dovrebbe avere di mira non solo l’aspetto repressivo ma anche quello rieducativo. “Dalla direzione carceraria - conclude il presidente di Antigone - ci sono sembrati preoccupati soprattutto perché per tutta questa serie di criticità rilevate non si vede luce in fondo al tunnel. Almeno al momento, infatti, dal Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ndr) non ci sono iniziative per porvi rimedio, per esempio trasferendo i detenuti in eccesso, aumentando l’organico e anche creando momenti aggreganti”. Sulmona (Aq). Meno telefonate, in carcere parte la protesta di Gianluca Lettieri Il Centro, 9 giugno 2023 Pentole e posate contro le sbarre della cella in segno di protesta contro la decisione della direzione del carcere di diminuire il numero delle telefonate ai parenti. Ma anche restrizioni nelle ore della giornata per quanto riguarda la libertà di muoversi e socializzare all’interno della sezione di appartenenza. È iniziata nella serata di martedì la protesta da parte dei detenuti del supercarcere di Sulmona con l’obiettivo di attirare l’attenzione su un problema a loro molto caro: il contatto telefonico con i loro parenti e la libertà di muoversi durante la giornata. Almeno una volta al giorno i detenuti del carcere di Sulmona faranno rumore sbattendo sulle grate in ferro delle finestre e dei cancelli delle celle pentole, piatti e mani. I detenuti, durante l’emergenza pandemica, avevano avuto ulteriori concessioni, tra cui la possibilità di telefonare ai propri cari con maggiore frequenza, anche con video chiamate, per verificare il loro stato di salute e mantenere un contatto costante in un momento particolarmente difficile. La fine dello stato di emergenza ha ripristinato il vecchio protocollo che prevede la possibilità di contattare i parenti per sole due volte al mese. Un ritorno al passato anche per quanto riguarda la libertà di muoversi all’interno del penitenziario che ha generato un clima di malcontento tra i detenuti che hanno fatto scattare la protesta che sarà portata avanti tutti i giorni, a un’ora stabilita, almeno fino a quando dalla direzione del carcere non arriveranno novità sui tempi di contatto telefonico con l’esterno. “Nel carcere di Sulmona c’è una particolare tipologia di detenuti che ha delle restrizioni che non hanno i detenuti comuni e che, dal 2015, in ragione di un tacito consenso, non erano state più applicate”, spiega il direttore del carcere di Sulmona Stefano Liberatore. “Abbiamo ricevuto delle precise direttive da Roma per il ripristino delle restrizioni sospese, con il risultato che i reclusi non possono più muoversi in libertà come facevano prima. Fermo restando che devono essere garantite loro 8 ore di movimento, di socialità, di studio, di lavoro e di scambi di conviviali tra una cella e un’altra, nell’ottica della rivisitazione del trattamento della custodialità”. Belluno. Baldenich, i detenuti con problemi psichiatrici sono stati trasferiti amicodelpopolo.it, 9 giugno 2023 Il sottosegretario Ostellari: “Promessa mantenuta. Ora potranno prendere il via i lavori di ammodernamento e adeguamento delle celle alle normative vigenti”. “Lo avevamo promesso, lo abbiamo fatto. Il tre marzo scorso, al termine del sopralluogo presso il carcere di Belluno, avevamo garantito al personale e agli operatori che, entro giugno, l’Articolazione per la tutela della salute mentale dell’Istituto sarebbe stata chiusa. Oggi è l’otto giugno e il trasferimento dei detenuti con problemi psichiatrici, ristretti in quella sezione, è stato ultimato”. Lo dichiara il sottosegretario di Stato alla Giustizia, con delega al Trattamento dei detenuti, senatore Andrea Ostellari. “Ora potranno prendere il via i lavori di ammodernamento e adeguamento delle celle alle normative vigenti”, prosegue. “Saranno inoltre potenziati gli spazi per lo svolgimento di attività formative e professionali, fondamentali per il recupero dei condannati e il mantenimento di una buona armonia nei reparti. I detenuti trasferiti saranno assistiti da personale che assicurerà la necessaria continuità terapeutica. Ringrazio il provveditore Maria Milano, la Regione Veneto, i rappresentanti di tante istituzioni locali e quanti, a tutti i livelli, hanno collaborato per raggiungere questo risultato. Un plauso va anche agli agenti di Polizia Penitenziaria, agli educatori, agli psicologi e a quanti prestano servizio presso il Baldenich, che in questi anni hanno gestito una situazione complessa con grande professionalità”. Un commento è arrivato anche dal senatore e coordinatore veneto di Fratelli d’Italia Luca De Carlo: “C’è grande soddisfazione per il trasferimento dei detenuti psichiatrici ospitati nel carcere di Baldenich a Belluno. Questo è un importante risultato ottenuto da questo Governo, che in poco più di sei mesi ha messo fine a un problema annoso e che ha messo in grandi difficoltà, anche con ripercussioni fisiche, tanto gli agenti di polizia penitenziaria quanto i detenuti stessi. Per questo, credo che il primo, grande ringraziamento debba andare proprio agli uomini della Polizia Penitenziaria di Belluno, che hanno affrontato enormi difficoltà nella gestione della struttura; nel corso delle mie visite al penitenziario di Baldenich ho potuto vedere i loro sforzi e raccogliere le loro richieste di aiuto. Un altro ringraziamento va quindi al Ministro della Giustizia Carlo Nordio e al sottosegretario Andrea Ostellari che hanno permesso finalmente di realizzare e ultimare questo trasferimento tanto atteso”. Livorno. Da Gorgona a Tokyo i vini prodotti dai detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 9 giugno 2023 “Una manciata di bottiglie che non smette di darci entusiasmo e speranza”. Così Lamberto Frescobaldi, presidente dell’azienda vinicola “Marchesi Frescobaldi” commenta i risultati dell’undicesima vendemmia tenutasi nei terreni della casa di reclusione di Gorgona. La soddisfazione è motivata perché la “manciata di bottiglie” dalla più piccola delle isole dell’arcipelago toscano è arrivata fino a New York e a Tokyo. Le vigne sono coltivate in un terroir di soli due ettari ma unico per la ferrosità del terreno e per l’esposizione al riparo dai venti. Vi lavorano stabilmente 3 detenuti assunti dall’azienda che partecipano anche, insieme a enologi, alla produzione di un blend di Ansonico e Vermentino. In tutto non più di 9000 bottiglie l’anno ma quello che conta è la qualità del loro contenuto e, soprattutto,il valore sociale del progetto che offre ai reclusi l’opportunità di apprendere le abilità enologiche e di investire nel proprio futuro. La formazione e l’attività alle dipendenze di un’azienda prestigiosa hanno consentito, infatti, ad alcuni di loro, una volta terminata la pena, di continuare a lavorare all’interno della stessa ditta o di trovare un’occupazione in altre produzioni vinicole. La collaborazione tra la sede penitenziaria di Gorgona e l’azienda Frescobaldi è nata nel 2012. Da allora ogni giugno si festeggia stappando una bottiglia dell’annata inaugurale del vino e si presentano alla stampa italiana e internazionale i risultati della vendemmia dell’anno precedente. “Ogni annata ci rende più orgogliosi e quella 2022 non è diversa, perché ci introduce nel secondo decennio del nostro progetto sociale”, ha aggiunto Lamberto Frescobaldi nel corso dell’evento, tenutosi ieri alla presenza di operatori, detenuti e stampa. L’etichetta di ogni anno è dedicata a illustrare la straordinaria biodiversità che l’isola è riuscita a preservare. Quella dell’ultima annata celebra le orchidee selvatiche che a Gorgona fioriscono in tante varietà e in tanti momenti diversi. Pozzuoli (Na). Carcere femminile, sfilano le detenute: “È il nostro riscatto” di Giuliana Covella Il Mattino, 9 giugno 2023 Continua la manifestazione “È moda per il sociale” promossa da Anna Paparone. “Con questo percorso ho avuto la possibilità di capire cosa significa la libertà, che è qualcosa che nasce dentro di noi. So di aver sbagliato, ma sto pagando e non vedo l’ora di poter riabbracciare i miei figli e i miei nipoti”. Amelia Sorino, 70 anni e un fisico da mannequin, appare raggiante nel cortile antistante la sala teatro del carcere femminile di Pozzuoli, dove sta scontando una pena di 8 anni. Insieme ad altre 14 detenute la donna ha sfilato in passerella partecipando a un flashmob finale in memoria di Giulia Tramontano, la 29enne di Sant’Antimo uccisa al settimo mese di gravidanza. A lei le recluse della casa circondariale hanno voluto dedicare un pomeriggio nell’ambito della manifestazione “È moda per il sociale”, promossa da Anna Paparone della P&P Academy e componente della Consulta regionale per la condizione della donna. “Questa è un’occasione per tirar fuori la bellezza di chi vive dietro le sbarre - dice la direttrice del carcere Maria Luisa Palma - rieducazione significa far intravedere alle persone che non hanno avuto uno stile di vita corretto, che c’è un’altra possibilità rimettendosi in gioco”. Modelle per un giorno le carcerate hanno sfilato con abiti firmati dagli stilisti Luciano Fiore Couture, Nikamo e Jariel, insieme alle studentesse di moda dell’istituto Marconi di Giugliano, del Don Geremia Piscopo di Arzano, del Bernini-De Sanctis di Napoli e del Marconi di Torre Annunziata. Tutto nasce da un progetto che da settembre a maggio ha visto protagoniste le detenute che hanno seguito un corso di portamento all’interno del carcere, come spiega la Paparone: “La nostra idea è dare loro la possibilità di un riscatto. Già in passato alcune hanno trovato una collocazione nel settore della moda. Ora avranno un credito formativo spendibile nel mercato del lavoro”. All’evento hanno partecipato lo showman Diego Sanchez, il cantante Marco Calone, il cabarettista Enzo Fischetti e l’assessore alla scuola e alle politiche sociali della Regione Campania Lucia Fortini, che ha sottolineato: “Mi ha colpito lo sguardo emozionato e sicuro di chi ha sfilato, ma anche quello di orgoglio di chi osservava le compagne dal pubblico”. Roma. Il cielo è ancora blu sopra Rebibbia: il grido d’amore delle detenute di Anna Tiuburzi Il Dubbio, 9 giugno 2023 C’è il sole. Forse qualche nuvola. Il grigio del muro rende grigio anche il cielo. Si apre una porta di ferro, lascio i miei effetti personali ed entro. Inspiro. Prendo aria. Trattengo. Faccio sempre così. Tengo l’ossigeno dentro i polmoni per immergermi, come sott’acqua, nei sotterranei di Rebibbia femminile. Cammino negli abissi, un lungo corridoio dal muro scrostato. A volte dipinto con colori che non hanno la luce del sole a farli splendere. Sono altri colori, dovrebbero dargli un altro nome. Passo davanti alla biblioteca, cosa darei per entrarci, per respirare la vita che i libri trattengono tra le pagine. Potrebbe essere una camera stagna, penso. Un po’ di ossigeno per queste anime perse sul fondale della vita. Arrivo al portone blindato della Sezione Z. Suono. Sento i passi degli scarponi pesanti della guardia. Il rumore delle chiavi arriva, tante mandate prima che i ferri smettano di fare chiasso e si apra uno spiraglio. Cammino nel profumo dell’ammorbidente per i panni, stesi con cura sugli stendini in corridoio. I blindi sono socchiusi, delicatamente busso per farmi sentire. È primo pomeriggio e le donne riposano. Alcune lo faranno per ore, qui il tempo è dilatato e l’apatia afferra le membra stanche e le inchioda al letto. Dalle celle rumore di passi, la prima donna che esce avverte le altre, mentre cammina verso di me. Un attimo e sono soffocata dall’abbraccio più forte e avvolgente che ci sia. Rilascio quell’ossigeno che avevo preso fuori. È la vita che loro non possono vivere. Quella che le manca. Le donne lo sanno e ad una ad una mi abbracciano più forte che possono. Scrocchiano baci sulle mie guance che timide ne hanno sempre ricevuti pochi. Ed evitati tanti. Qui no. Qui ogni gesto è vita. Qui ogni gesto ha un significato. Il corpo si fa messaggero di verità. Le donne accanto al nostro tavolo rotondo hanno imparato sin da piccole a fidarsi dell’istinto, a leggere piccoli segnali di pericolo o di sicurezza. In un attimo la loro vita al di fuori di queste mura poteva cambiare. Un errore di valutazione poteva voler dire un grilletto premuto contro. Le donne che ho davanti hanno vissuto immerse nella criminalità, ai margini della società civile, hanno sposato l’illegalità ma hanno gli occhi dolci di madri e un cuore che sa emozionarsi ancora. Ascoltano le poesie che le porto, i versi di donne che ho scelto per loro. Gli occhi si velano di malinconia, qualche lacrima scende. Se sono qui è per colpa dell’amore. Hanno amato l’uomo che le ha trascinate all’ inferno, ma non lo odiano. È l’unico amore della loro vita. Spesso il primo. Si asciugano le lacrime. Riemergeranno dagli abissi, torneranno alla vita, ai figli che non hanno visto crescere. Hanno imparato che la felicità non è bramare sempre di più ma godere delle piccole cose. Accorgersi della bellezza di un tramonto, fermarsi davanti ad un fiore, ridere di niente. Hanno bisogno di gridare al mondo che hanno capito che una pietra non brilla perché è preziosa ma perché è pura. Trattengo il fiato nel lungo corridoio. Esco. Guardo il cielo, il sole è calato. Tiro fuori l’aria perché tutti sappiano che lì, dietro quel muro c’è ossigeno. “Il carcere in Italia produce suicidi. È sovraffollato di persone che non possono permettersi una difesa adeguata” di Graziella Balestrieri L’Unità, 9 giugno 2023 Intervista a Erri De Luca: “La pace in tempo di guerra è un’idea di futuro. E noi invece abbiamo acconsentito a invio di contingenti militari superando con disinvoltura l’articolo della Costituzione che non ce lo permette”. “Non mi piace l’indifferenza. La considero un disturbo della percezione, un’incapacità sensoriale, prima che intellettiva. Perciò mi impegno a fare il contrario”. È l’indifferenza che Erri De Luca, uno dei più grandi scrittori del nostro tempo, giornalista e poeta, autore di romanzi come “Il peso della farfalla”, “In nome della madre”, “Il giorno prima della felicità”, “I pesci non chiudono gli occh”i, considera come uno dei mali principali del nostro tempo. Osservatore dell’animo umano e della natura tutta, del tempo che passa inesorabile e di quello che sarà, dei governi che sembrano cambiare ma poi forse nemmeno tanto, De Luca parla del vento delle destre che soffia forte e della sinistra che si riduce in polvere. Di quella Costituzione bistrattata e aggredita che invece andrebbe rispettata, perché è nella Costituzione e nel riconoscimento dei valori del 25 Aprile che si è italiani: tutto il resto è un passato che è materia di narrativa per i libri di Storia. E ancora. Parla di quel mare nostrum che ci consegna solo corpi di donne e uomini e neonati, che non hanno avuto nemmeno il tempo di imparare a vivere, nemmeno di sperare. Di deboli, di poveri, di chi punta il dito e chi viene schiacciato da quel dito, di chi viene preso a manganellate perché considerato inferiore. Della libertà di espressione che è un diritto garantito. Di chi sa che potrebbe cambiare tutto e quel tutto è nelle mani solo dei giovani. E di quelle generazioni passate che dovrebbero in un certo senso seguire l’esempio dei protagonisti del suo nuovo romanzo, Le regole dello Shangai (uscito da poco per la Feltrinelli), ovvero allearsi seppur con età diverse e in condizioni diverse. Il suo ultimo il libro si intitola “Le regole dello Shangai”: che cos’è questa regola e come si fa ad applicarla alla vita? Il gioco è semplice e ho scoperto che lo hanno giocato tutti. In questa storia c’è un personaggio solitario, abile e preciso che lo gioca da solo. Applica a sé stesso la regola di sfilarsi dall’insieme degli altri senza spostare nulla, come un bastoncino del gioco. Ha la vocazione a passare inosservato, anonimo. I protagonisti sono un anziano campeggiatore solitario e una ragazza, una gitana che scappa dalla sua famiglia: come mai ha scelto queste due figure apparentemente così lontane? Non posso dire di operare scelte nelle mie scritture. Si impongono delle figure che lentamente si precisano. Qui c’è un incontro, di quelli rari che partono periferici e diventano centrali, nel senso che orientano il tempo e lo spazio successivo di due persone. Tra questo anziano solitario e una ragazza in rivolta si stabilisce un’intesa che non ha a niente a che vedere con l’amore, l’amicizia, l’affetto. C’entra invece l’improvvisa, imprevedibile alleanza tra due persone di età e condizioni opposte. Quanto c’è di lei nella ragazza e/o nell’uomo? Stavolta di mio c’è poco. L’età dell’anziano, la sua origine napoletana sì, ma nient’altro. La ragazza gitana è una creatura libera, cresciuta in accampamenti nomadi, intima di animali come un orso, un corvo. Si ribella a un matrimonio forzato, scappa di notte e in inverno. L’ho più seguita che condotta. “I Russi non si fanno fregare”: è un’affermazione da lasciare in questo racconto o ha qualche attinenza con la realtà di oggi? I Russi non si facevano fregare facilmente nel 1900. Oggi mi sembra il contrario. La ragazza chiama persone gli animali, i corvi, l’orso: come mai questa scelta così forte in un certo senso… anche vista l’attualità delle cronache? Seguo poco l’attualità. I miei programmi preferiti alla televisione sono i documentari che riguardano la vita selvatica. Li considero la mia attualità. Mi importa conoscere i lupi, i cinghiali, gli orsi che una volta erano ammaestrati da girovaghi per esibizione. Quando saltavo la scuola passavo le giornate allo zoo. Ho un sentimento di ammirazione per gli animali. Ho scritto un paio di storie con loro come protagonisti. La ragazza guarda negli occhi per capire le persone: è ancora così? Quella ragazza lo sa fare, come sa leggere nel palmo delle mani, come s’intende di ogni specie di funghi. Non è andata a scuola, imparerà dopo a leggere e scrivere. Ha capacità che in altre epoche sarebbero state accostate a chiare prove di stregoneria. Che cos’ è questo caos da sciogliere di cui lei racconta ne “Le regole dello Shangai”? È il caos di un orologio smontato con i pezzi sparpagliati. Ci vuole un orologiaio per rimettere insieme il meccanismo. Questo è il tempo della destra, anche in Europa: lei come si spiega questa ondata? E da scrittore come la vive? La destra aizza e sfrutta le paure. Un paese a maggioranza di anziani è predisposto ai timori. Manca una sinistra che aizzi e sfrutti il coraggio, la sola formula capace di intendere e volere il futuro necessario. Non mi angosciano le destre, sono residuati della storia con i loro nazionalismi e sovranismi stracotti. In un’intervista ha dichiarato che la Meloni dovrebbe farsi da parte: perché? Perché se i cittadini hanno scelto? E cosa non le piace di questa destra? L’elettorato italiano è volubile, ha slanci di simpatia superficiale per qualche personaggio del momento, poi si stufa e lo scarica. La politica senza spessore offre ribalte, non soluzioni. Questo governo è solo più incompetente dei precedenti. I soldi europei non li prenderemo, anche se nascondono alla Corte dei conti il disbrigo della spesa fallita. C’è un caso Rai? La televisione italiana è governativa, segue direttive di consigli di amministrazione allineati per interesse. Succede regolarmente che il potere di turno piazzi i suoi simpatizzanti ai posti di comando dell’informazione. Fascismo e antifascismo che cosa sono per Erri De Luca e come lo spiegherebbe alle generazioni di oggi e a quelle future? L’antifascismo è lo spirito che ha fatto scrivere la carta costituzionale. Chi non si riconosce nel 25 aprile del 1945 si chiama fuori dalla comunità italiana. I fascisti dichiarati sono degli intrusi fuorilegge. Assurti a incarichi istituzionali fingono un’appartenenza interessata. Gli incarichi pubblici li infarinano di repubblica, ma la loro appartenenza sentimentale è repubblichina, quella di Salò, non repubblicana. Ai ragazzi, digiuni di storia, direi di frugarla, è una interessante materia narrativa. Lei è stato in Lotta continua: se dovesse raccontare la sua appartenenza a questa formazione extraparlamentare di sinistra ad un ventenne di oggi, come la motiverebbe? Come spiegherebbe quegli anni? Per questa domanda mi riservo un’intervista a parte. Su l’Unità scrive Valerio Fioravanti. Piero Sansonetti è stato travolto da ogni forma di insulto e polemica per aver dato spazio ad un ex terrorista e fondatore dei NAR proprio sul giornale fondato da Antonio Gramsci: cosa ne pensa? Faccio lo scrittore, mio ambito è la parola, il suo diritto garantito dalla Costituzione. Difendo questo diritto che appartiene a ogni cittadino. Il Salone del libro di Torino e le contestazioni alla Ministra Roccella? Che idea si è fatto della vicenda? I ministri, le autorità sono abituate all’ossequio. La critica specie se ravvicinata li/le destabilizza, sentono che vacilla il piedistallo. Sono fragili, friabili come meringhe. Il carcere in Italia che funzione ha? Il carcere in Italia produce suicidi. È sovraffollato e ci sono le persone che non possono permettersi una difesa adeguata. La legge è uguale solo per tutti quelli forniti di censo e di domiciliari. La trans picchiata dai vigili a Milano: perché secondo lei quella violenza nei confronti di un essere umano? Si tratta di sopraffazione di molti contro uno, una manifesta vigliaccheria aggravata dalla divisa e dalla presunzione di impunità. Sarebbe andata liscia senza la ripresa fortuita. Perché la cultura di sinistra teme questa avanzata della destra? Non danno così ragione al presidente del Consiglio Meloni quando parla di “mettere fine all’egemonia della sinistra? Non percepisco una cultura di sinistra. Ci sono delle persone di sinistra, non aggregate tra loro, dislocate in varie istanze, dalla ecologista alla pacifista, al volontariato. Mi considero una di queste persone, disperse nell’ambiente, inadatte ad accorpamenti. Non so a quale cultura di sinistra si riferisce il presidente del Consiglio in carica. Al popolo italiano sembra andare bene tutto, protestiamo sui social in malo modo ma forse più per ego e frustrazione che per il senso della protesta e poi finisce tutto lì. Perché secondo lei ci va bene tutto? I siti offerti dalla rete internet non sono sedi di dibattito, che per antica pratica necessitano di presenza e di nome proprio dei partecipanti. Dove c’è anonimato c’è sfogo, non critica. Ma non tutti sono succubi o indifferenti. Ci sono lotte civili dalla Val di Susa a Taranto. Ma è avvenuto nella nostra società un declassamento da cittadino a cliente. Cittadino è chi appartiene a una comunità di uguali, cliente è chi si trova isolato ed è valutato solo dal suo potere di acquisto. Ecco che istituti come la sanità e l’istruzione si sono degradati a servizi erogati da un’azienda. Ecco il cittadino degradato a cliente che può accedere solo se ha censo. Il cliente fa la fila alla cassa, il cittadino scende sottobraccio in piazza. Cutro è stata una tragedia, secondo lei il governo ha avuto qualche parte in questo dramma e come ci si dovrebbe comportare con l’immigrazione? La parte avuta dal governo la deciderà la magistratura che ha avviato l’inchiesta specifica. Il trattamento dei flussi migratori di questo governo è in linea coi governi precedenti, istigazione all’omissione di soccorso, finanziamento della pirateria libica, respingimenti illegali: metodi che degradano il personale incaricato e sono inefficienti sul piano pratico. Gli sbarchi di quest’anno sono già più del doppio dell’anno scorso. Fausto Bertinotti in tv parlando della sconfitta della Schlein ha affrontato nodi centrali per lui sulla sinistra di oggi: in primis che non c’è più un rapporto sentimentale con il suo popolo, e che per quanto riguarda la tematica della guerra la sinistra oggi non si esprime sulla pace. Secondo lei è così? Il sentimento che spetta a una sinistra è la fraternità. Non la vedo nemmeno nominata. La pace in tempo di guerra è un’idea di futuro. In questa guerra di Ucraina non si può essere neutrali, perché riguarda l’Europa prossima ventura. Che cosa manca alla sinistra di oggi? E siamo sicuri che ci sia una sinistra oggi? Da quanto risposto finora nego l’esistenza di una sinistra organizzata politicamente. Non pensa che più che essere di destra il popolo italiano si sia stancato di una sinistra sempre divisa e che questo abbia influito sul non andare a votare? C’è un astensionismo di sinistra. Non lo vedo inerte, indifferente, ma in attesa di un soggetto politico nuovo del tutto. Avrei preferito che Schlein avesse perso le primarie e fondato un suo partito con un personale del tutto nuovo. A capo invece di quell’organismo del quale non fa parte, ne è ostaggio. Lei ha vissuto la guerra dell’ex Jugoslavia. Ultimamente ci sono stati di nuovo scontri in quei luoghi: c’è il pericolo che possa riesplodere di nuovo in un conflitto? Non credo a una ripresa di ostilità su scala di conflitto in quell’area ristretta del Kossovo. La Serbia ha interesse vitale a entrare nell’Unione europea. Ha un rapporto storico sentimentale con il Kossovo come quello della Russia con l’Ucraina, pezzi di antico fondamento delle rispettive nazioni. Ma non può replicare cremlinerie. Occupazione in Afghanistan: chi ci ha rimesso? In Afghanistan ci hanno rimesso le penne tutti quanti, dagli Inglesi in poi. Oggi le condizioni di simili insensati interventi sono impraticabili. È iniziata l’epoca dei mercenari, subappalto di sopraffazioni. Una signora ucraina durante un’intervista in tv disse che avevano paura di essere dimenticati e che “la gente si stanca della guerra”… noi come italiani secondo lei ci siamo già dimenticati di questa guerra? La guerra stanca chi la vede da lontano. Chi ci sta dentro non si può permettere questo lusso. Da noi la guerra in Ucraina non sposta voti, gli italiani si occupano di affari interni. Abbiamo facilmente acconsentito a invio di contingenti militari in diverse aree remote di conflitti, superando con disinvoltura istituzionale l’articolo della Costituzione che non ce lo permette. Ma basta chiamarle missioni di pace ed ecco gabbato l’articolo: “ma in Ucraina in fondo spediamo solo materiali, non siamo coinvolti con corpi di spedizione…” La fascia dei deboli e dei poveri in Italia è sempre più in aumento, alla fine il reddito di cittadinanza ha creato un polverone ma è stato solo modificato. È così difficile per il nostro Stato controllare chi ne ha diritto e chi no? Il sostegno economico ai poveri e agli impoveriti è un’evidenza sociale. Lo chiamassero come preferiscono, lo Stato deve sostenere il reddito dei ceti deboli. Da noi ci sarà sempre chi lo percepirà abusivamente, ma questo non è un argomento per sopprimerlo. Sì, è difficile il controllo in un paese abituato a escogitare maniere di aggirare i controlli. Perché secondo lei imputiamo allo straniero, a chi muore su un barcone il fatto che molti italiani non abbiano lavoro e che ci sia un aumento di delinquenza? Questi sono argomenti di propaganda destituiti di fondamento, i lavori svolti dagli immigrati sono lasciati inevasi dagli italiani disoccupati. Ogni settore economico del nostro paese lamenta carenza di personale. Anche perché le paghe offerte sono inadeguate. Ma pure quando sono decenti manca manodopera. Fare ostruzionismo ai flussi migratori è puro autolesionismo economico. Per questo motivo gran parte delle persone che arriva attraversa soltanto l’Italia verso migliori opportunità. Avrà letto della signora M: viveva alla stazione Termini in una “casa” di cartone, a 78 anni. Siamo diventati talmente egoisti da non avere la percezione del dolore e della disperazione altrui? Basta pensare a quante persone anziane sono costrette a vivere in mezzo alla strada. Quello che non fa lo Stato, la rete di protezione, lo faceva la famiglia. Ma oggi la famiglia si disfa dell’anziano, lo chiude in ospizio, chiamato con delicatezza residenza per anziani. La donna di cui lei riferisce dev’essere stata ribelle a questa destinazione preferendo l’addiaccio al regime di caserma terminale. Secondo lei la Schlein e il Pd dovrebbero allearsi con i Cinque stelle di Conte o sono incompatibili? Sono incompatibili. Ma pure la Lega e Fratelli d’ Italia sono incompatibili, eppure hanno fatto la finta coalizione per approfittare del premio elettorale. Che cosa non le piace di questo tempo che stiamo vivendo? Non mi piace l’indifferenza. La considero un disturbo della percezione, un’incapacità sensoriale, prima che intellettiva. Perciò mi impegno a fare il contrario. Perché le generazioni dei 50/sessantenni ce l’hanno tanto con quella dei ventenni? Non ho questa sua impressione, ma è un mio deficit, non sono padre, nonno, niente so in via diretta della gioventù di adesso. Mi piace però che si occupi di futuro, che cerchi di salvarlo dall’asfissia delle fonti fossili, che sia attenta a nuovi stili di vita. È ancora minoranza, non ha raggiunto una sua massa critica. È per ora solo profetica. Gli anziani in Italia vengono in molti casi abbandonati, in molte strutture poi vengono picchiati e torturati. In alcuni casi anche derisi, al supermercato, alle poste…non c’è più rispetto per loro. Eppure tutti arriveremo a quel tempo… Siamo il paese con l’età media più alta del mondo, dopo il Giappone. Inoltre, abbiamo raddoppiato in un secolo la durata della vita. I vecchi ai quali appartengo di diritto sono troppo numerosi, una sciagura per l’ente erogatore di pensioni. C’è solo da chiedere un po’ di pazienza, presto toccherà ai giovani l’impresa. Ricordo la barzelletta del giovane che in un autobus dice in tono arrogante al vecchietto: “È brutta la vecchiaia, eh, nonnetto?”. E la risposta: “Brutta, sì, non te la auguro”. Lei come vive i suoi anni? È un’età sperimentale, nessuno è stato vecchio prima. La vecchiaia degli altri che mi hanno preceduto non mi è di nessun aiuto. Dunque, faccio esperimenti. Più attività fisica di prima, non meno, più varietà di alimenti, più giochi, più solidarietà civile. Per ora funziona, ma il saldo avviene giorno per giorno. La letteratura in Italia ha un peso o ormai tutti scrivono libri su tutto e si fa confusione nel definire qualcuno scrittore? Non faccio il difficile sul nome di scrittore, non comporta iscrizione a un albo né abilitazione in seguito a concorso. Quanto alla letteratura ha un peso strettamente personale, nessun peso politico. Per me, più lettore che scrittore, ha un’importanza festiva. “Anche io ho avuto queste idee…quand’ero giovane come Lei. Eppoi mi sono convinto che il mondo è una bestia” (James Joyce, Ulysses). La trova una riflessione in cui può rispecchiarsi? Non mi sono dimesso dalla lealtà che devo al giovane uomo che sono stato negli anni 70, al suo impegno nella sinistra rivoluzionaria di allora. Sono rimasto il suo seguito, anche se non ho più intorno quella enorme comunità politica. La frase di Joyce non mi riguarda. Erri De Luca uomo cosa direbbe alle future generazioni e cosa invece direbbe Erri De Luca scrittore? Non parlo alle generazioni, ai posteri. Posso qualche volta parlare con chi ho davanti. Qualunque età è mia coetanea, vivo nello stesso momento di un centenario e di un neonato. Non ho frasi da applicare alle diverse età. Posso parlare solo a una persona per volta, attraverso le pagine o in un incontro pubblico. Anche se ci sono diverse persone io sento di rivolgermi a una sola. Lessico famigliare di un adolescente all’ombra dell’Asinara di Checchino Antonini Il Manifesto, 9 giugno 2023 “I fuggitivi” di Marco Dell’Omo, per Nutrimenti: un romanzo tratto da una storia vera. “L’Asinara era un posto con poca gente ma tante storie”. Ci sono, nei romanzi, alcune frasi chiave, come questa che estratta da “I fuggitivi” di Marco Dell’Omo (Nutrimenti, pp. 320, euro 20). Questo libro, infatti, è una storia vera. Più precisamente, è davvero una storia. Non è un esercizio di stile, un pretesto per crogiolarsi in un contesto prediletto, per maneggiare un registro appreso. È un racconto ben congegnato con tanto di colpi di scena, rimandi letterari e dispositivi originali possibili grazie a una scrittura scrupolosa e funzionale che, azzardo, potrebbe essere la combinazione di una profonda passione per la letteratura e una palestra di scrittura come quella del giornalismo di agenzia che deve rifuggire tanto dagli orpelli retorici quanto dalla banalità delle frasi fatte. Dell’Omo, infatti, aquilano trapiantato a Roma, classe ‘58, è stato giornalista all’Ansa. Per trent’anni, dall’agonia della prima repubblica in poi, ha seguito la politica italiana. Nel frattempo ha firmato documentari per Rai e Sky su Mariangela Melato, Oriana Fallaci, sui presidenti della Repubblica e sulla storia di Radio Radicale, sperimentandosi sui canoni della docufiction. Prima e dopo ha scritto di alpinismo e, ancora, ha raccontato l’avventura di giovanissimi partigiani sul Gran Sasso e del loro immaginario forgiato dai fumetti americani proibiti dal regime (La Banda Gordon, Nutrimenti, 2020). La premessa è utile in quanto vorrebbe sottolineare la vocazione dell’autore a padroneggiare più di un linguaggio letterario per intrecciare storia e finzione. Dentro “I fuggitivi” c’è innanzitutto il lessico familiare rivelato da Matteo, dieci anni e un’intelligenza brillante. È il figlio del funzionario del Viminale spedito all’Asinara a dirigere la colonia penale agricola in cui l’Italia del dopoguerra provava a riformare la concezione della pena. Il suo anno nell’isola sarda coincide con il periodo della vita in cui si compie la scoperta del mondo esterno nella dialettica tra introspezione, esplorazione e relazione col gruppo dei pari che, per Matteo, si riduce all’amicizia con Vincenzo, coetaneo approdato all’Asinara al seguito dei pescatori di aragoste ponzesi. La loro amicizia fornisce all’autore la possibilità di osservare gli eventi della trama con gli occhiali del romanzo d’avventura, con tanto di mappa del tesoro, piccoli gesti d’ardimento fino alla presa di coscienza, dolorosa, dell’invalicabilità delle differenze di classe e le mistificazioni del mondo degli adulti. L’adolescenza, almeno nella seconda metà del Novecento, è stata per alcune generazioni il momento in cui si rivelava tutto il portato violento delle disuguaglianze e delle ipocrisie per mascherarle. Perciò è Matteo il supertestimone di questa storia per adulti in cui Dell’Omo innesta un altro elemento chiave della sua poetica: nessun uomo è un uomo qualunque, la biografia del Paese è leggibile in quella di chiunque abiti quel tempo. Con echi veristi, l’autore restituisce le ambientazioni dell’Asinara e le routine quotidiane di detenuti, guardie e delle famiglie delle guardie, il microcosmo di una convivenza coatta per tutti, in un contesto naturale meraviglioso ma angusto e inospitale. I dialoghi lasciano emergere una profonda conoscenza dello spirito del tempo, frutto di uno scavo nella memoria collettiva e di interlocutori privilegiati prodighi di dettagli. L’Asinara è ancora un posto con poca gente e tante storie ma il carcere si è delocalizzato in strutture più consone alla vocazione emergenziale del liberismo. La “discoteca”, il padiglione illuminato così forte che era visibile dalla terraferma, in cui Totò Riina veniva sorvegliato a vista 24 ore su 24, è un guscio di cemento armato e licheni. Un’archeologia carceraria-industriale che, nel 2010, fu teatro dell’Isola dei Cassintegrati, l’occupazione da parte di un gruppo di operai sardi e oggi è destinata alle routine del turismo naturalistico. Anche clima, venti, profumi e pesci sono diversi da allora. I migranti di Zerocalcare: “Felice di trattare certi temi con l’animazione” di Stefania Ulivi Corriere della Sera, 9 giugno 2023 Il fumettista romano torna con la nuova serie “Questo mondo non mi renderà cattivo”. Sarah, Secco e l’Armadillo, la coscienza di Zero. All’appello di Questo mondo non mi renderà cattivo, la seconda serie che Michele Rech, in arte Zerocalcare, ha realizzato per Netflix - da oggi in sei puntate - non manca nessuno. Spunta dal passato anche un vecchio amico, Cesare, inaspettato detonatore delle contraddizioni, al momento dell’apertura di un centro di accoglienza per migranti nel quartiere. Rebibbia, certo, come già nella prima, Strappare lungo i bordi. “Di cui però questa non è un una seconda stagione”, precisa il fumettista romano. Come sempre, fin dai fumetti autoprodotti, ha pescato dalla vita reale, qui le tensioni sociali all’interno della comunità legate all’arrivo di stranieri, tra chi pensa di doversi difendere dagli “invasori”, fomentati dall’estrema destra e chi insiste a credere che non ci si salva mai da soli. Una storia parallela a quella raccontata da Ken Loach nel suo ultimo film, The Old Oak. “È un punto di riferimento a cui non mi accosterei mai, se non per la sensibilità verso certo temi. Questa l’ho scritta prima dell’altra, partiva da qualcosa che stava accadendo non solo a Roma e in Italia, e dai tanti Cesare incontrati nella mia vita. Ma non mi sentivo capace di raccontarla. In quel periodo avevo cominciato a misurarmi con il formato breve di Rebibbia quarantine per Propaganda live, ho pensato di tenerla da parte. Sono contento che sia la seconda perché mi consente di parlare a un pubblico che già conosce i personaggi, più semplice introdurre elementi più complessi”. Felice di poterli trattare con l’animazione. “È difficile far superare l’idea che siano prodotti per bambini”. Il cuore del racconto restano i protagonisti, ormai oltre i trent’anni, più o meno consapevoli che la vita va avanti e molti non riescono a starle dietro. “È una storia di amicizia e anche dei suoi limiti, dei fallimenti dell’amicizia. Qualcosa con cui ci siamo misurati tutti negli ultimi anni: pensare di conoscere chi ci sta accanto compresi i più vicini, le persone che hanno avuto reazioni completamente inaspettate al presente”. Non solo sulla questione dei migranti. Che nella serie diventa uno spartiacque: chi è contro il centro fa il gioco dei “nazisti”. “Non credo che chiunque abbia dubbi sulle modalità di accoglienza sia nazista, anzi. Ma cerco di fare una grossa distinzione tra chi vive sulla propria pelle certi disagi, come il personaggio di Cesare, e crede a soluzioni che per me non sono condivisibili e chi strumentalizza quelle persone per il proprio tornaconto elettorale. Il fascismo? Non è evidentemente più un ostacolo venire da quella storia e rivendicare una continuità culturale: non mi fa piacere ma è così. Non c’è nessuna posizione preclusa per chi fa riferimento a quella vicenda storica, per il nazismo invece si tiene un po’ più il punto”. Al centro della serie resta Zero, quello che “ha fatto i soldi con i fumetti”. Che dice: “Sono consapevole del fatto di vivere una condizione estremamente fortunata. Questo mondo non mi renderà cattivo? Uno non se lo può dire da solo ma io penso che si debba comunque credere che sia possibile non incattivirsi. Se no non ha più senso neanche avere delle bussole valoriali di nessun tipo. Non penso che siano i singoli a fare la differenza, penso che ognuno può portare un piccolo contributo in quella direzione. Perché se tu stai bene in un mondo che sta male prima o poi qualcuno ti viene a bussare alla porta”. Alla sua bussa sempre l’Armadillo (a cui continua a prestare la voce Valerio Mastandrea, mentre la new entry Silvio Orlando lo fa con un commissario) a riportarlo con i piedi per terra. E anche a sdrammatizzare il tormentone sull’accento romano: “Potresti essere uno di Trieste che guarda molto I Cesaroni”. Migranti, sì al patto Ue tra le tensioni: le nuove regole di Francesca Basso Corriere della Sera, 9 giugno 2023 Solidarietà obbligatoria e rimpatri nei Paesi “di transito”. Polonia e Ungheria votano contro. Piantedosi: “L’Italia ha avuto una posizione di grande responsabilità”. Sono passate le sei di sera quando arriva la “minaccia” della ministra per le Migrazioni svedese, Maria Malmer Stenergard: “Sono ancora dell’opinione che siamo molto vicini: ho tutta la notte”. Due ore e mezza dopo è arrivata l’intesa con voto a maggioranza qualificata: contrarie Polonia e Ungheria, astenute Malta, Lituania, Slovacchia e Bulgaria. Stoccolma ha la presidenza di turno dell’Ue e dunque era l’arbitro nel negoziato sui due principali regolamenti del nuovo Patto per la migrazione e l’asilo su cui ieri ha trovato l’accordo il Consiglio Affari interni a Lussemburgo. Una “decisione storica”, come l’ha definita la commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johansson. Sia chiaro, si tratta della posizione negoziale del Consiglio che poi dovrà trattare con il Parlamento Ue, ma sono sette anni che gli Stati membri discutono senza trovare un’intesa. I due regolamenti puntano a rafforzare la responsabilità a carico dei Paesi di primo ingresso (resta in vigore Dublino e la responsabilità dei migranti arrivati è dello Stato di primo arrivo per 24 mesi) ma anche a rendere obbligatoria la solidarietà da parte degli altri Paesi con tanto di numeri stabiliti: i ricollocamenti non saranno obbligatori, è previsto però un contributo finanziario. L’ultimo ostacolo da superare era la divergenza tra Germania e Italia sulla definizione di Paese terzo “sicuro” per i rimpatri dei migranti non ammessi all’asilo e i criteri di “connessione” con quel Paese. Il testo sul Patto per le migrazioni e l’asilo introduce infatti la novità della procedura accelerata alla frontiera per esaminare le domande dei migranti che hanno minori possibilità statistiche di ottenere lo status di rifugiato. La premier Giorgia Meloni ha spiegato che “quando noi non riusciamo a reggere i flussi migratori, in qualche modo il problema diventa di tutti” e si è detta “soddisfatta” della missione di domenica in Tunisia con la presidente della Commissione Ue von der Leyen e con il premier olandese Rutte. L’Italia chiedeva la possibilità di rimpatriare i migranti la cui richiesta di asilo è stata respinta anche in quei Paesi “sicuri” attraverso i quali sono transitati. La Germania invece rifiutava questa idea. L’Italia si era dunque espressa contro la proposta sul tavolo insieme a Lituania, Polonia, Ungheria, Slovacchia, Bulgaria, Malta, Austria, Danimarca e Grecia. La via di uscita è stata trovata lasciando agli Stati il margine per la definizione di Paese “sicuro”. La commissaria Johansson ha spiegato che per poter rimpatriare un migrante in un Paese di transito o diverso da quello di origine, lo Stato “deve rispondere a tutti i criteri di “Paese terzo sicuro” e ci deve essere una connessione tra la persona e questo Paese”. “In alternativa - ha aggiunto - serve il consenso della persona” però “saranno gli Stati membri a stabilire se esiste una connessione”. Per sbloccare la situazione la presidenza svedese ha riunito Germania, Italia, Francia e Spagna. Berlino e Parigi erano in sintonia sul problema dei Paesi terzi mentre Roma e Madrid si trovano ad affrontare la stessa problematica. L’Olanda ha mostrato un approccio pragmatico, con un atteggiamento più vicino alle posizioni dell’Italia. Nel corso della giornata le perplessità espresse dal ministro italiano Matteo Piantedosi nel suo intervento del mattino sono state superate. Piantedosi aveva detto che sulla base delle ultime proposte negoziali “ci sono ancora molte cose da fare”. Parole che avevano fatto reagire la ministra dell’Interno tedesca Nancy Faeser: “Non mettiamo nuove richieste al tavolo, troviamo un compromesso” e aveva aggiunto che “se non si arriverà a un risultato metteremo in pericolo lo spazio Schengen”. C’è poi stato un faccia a faccia nel primo pomeriggio tra i due ministri di una ventina di minuti. Accordo Ue: migranti rispediti fuori dalle frontiere di Carlo Lania Il Manifesto, 9 giugno 2023 Il vertice a Lussemburgo. Si potranno rinviare le persone nell’ultimo paese di transito, anche se non europeo. I ricollocamenti dei migranti, che l’Italia avrebbe voluto obbligatori, restano invece volontari ma in cambio Roma ottiene il via libera alla possibilità di rimandare uomini, donne e bambini nell’ultimo paese di transito non europeo attraversato, purché ritenuto sicuro. È il compromesso raggiunto ieri in extremis al vertice dei ministri dell’Interno riuniti a Lussemburgo e che ha permesso di arrivare, dopo quasi tre anni all’approvazione del Patto su immigrazione e asilo con un voto a maggioranza qualificata che ha visto l’Italia della premier Giorgia Meloni separarsi da alleati storici come Polonia e Ungheria, contrari alle sanzioni previste per chi non ricolloca, astenuti insieme a Slovacchia, Lituania, Malta e Bulgaria. “Abbiamo scongiurato l’ipotesi che l’Italia e tutti gli Stati membri di primo ingresso venissero pagati per mantenere i migranti irregolari nei propri territori. L’Italia non sarà il centro di raccolta degli immigrati per conto dell’Europa”, esulta il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, mentre soddisfazione viene espressa anche dal presidente del consiglio Ue Charles Michel e dalla commissaria per gli Affari Interni Ylva Johansson: “Quello di oggi è un passo estremamente significativo per quanto riguarda l’immigrazione - ha detto la commissaria -. Attendiamo di iniziare i triloghi con il Parlamento Ue. Siamo molto più forti quando lavoriamo insieme”. L’accordo di ieri segna l’avvio dei negoziati con il parlamento europeo che dovrebbero portare all’approvazione finale del Patto prima della fine della legislatura, prevista per la primavera del 2024. Naturalmente per quanti tentano di raggiungere l’Europa si tratta di una brutta notizia anche se non certo di una novità. Di paesi di transito non europei dove rispedire i migranti si parlava già nei regolamenti procedurali presentati dalla Commissione Ue nel 2006 e 2020, senza però mai procedere. Salvo che in un’occasione: il patto siglato con la Turchia nel 2016 dopo il quale, con un accordo siglato separatamente, la Grecia può rimandare indietro i migranti che attraversano i confini di Ankara. Il punto è stato al centro del vertice di ieri che ha più volte sfiorato il fallimento proprio perché non si riusciva a trovare un accordo che consentisse di procedere. A spingere sulla possibilità di trasferire in un paese diverso da quello di origine, purché sufficientemente sicuro e purché esista una “connessione” sufficiente (ad esempio averci vissuto per alcuni anni), i migranti ai quali è stata rifiutata la protezione internazionale, è stata soprattutto l’Italia con il ministro Piantedosi insieme a Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica ceca, Grecia, Ungheria, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Slovacchia e Slovenia. Contraria la Germania, che invece chiedeva invece che il rinvio nel paese di transito potesse avvenire solo n caso di dimostrato legame. Un punto sul quale le trattative si sono arenate per ore, tanto che a metà pomeriggio si arriva all’ultimo, decisivo incontro ristretto tra Commissione Ue, presidenza svedese, Francia, Italia, Spagna, Germania e Olanda che mette fine allo stallo. “I paesi terzi devono avere la capacità di gestire le loro richieste e li dobbiamo aiutare per questo, ma non devono sostituire i centri per la gestione delle richieste di asilo nei paesi Ue”, ha sottolineato Johansson. Adesso andrà compilata una lista europea dei paesi terzi ritenuti sicuri. Tra requisiti previsti in passato c’era l’obbligo per il paese in questione avesse sottoscritto la Convenzione di Ginevra, cosa che oggi non sarebbe più necessaria. Tra gli altri punti del patto c’è l’obbligo per i paesi di primo approdo di allestire nei pressi delle frontiere centri dive richiedere i richiedenti asilo in attesa che venga esaminata la domanda di protezione con l’esclusione, decisa ieri, delle famiglie con minori, E la cosiddetta “solidarietà obbligatoria”. Ogni anno viene stabilita una quota di migranti da ricollocare tra gli Stati membri in base alla popolazione e al Pil, si parla di 30 mila, lasciando però liberi di governo di accogliere o no. Chi si rifiuta dovrà però pagare 20 mila euro per ogni mancato ricollocamento. Motivo alla base dell’astensione di Ungheria e Polonia. Piantedosi: “Abbiamo rifiutato i soldi per i migranti. L’Italia non diventerà un centro di raccolta” di Francesca Basso Corriere della Sera, 9 giugno 2023 Il ministro dell’Interno: è passata la nostra linea, con noi anche Paesi del Nord. Il negoziato finale è stato su alcuni punti che ritenevamo fondamentali. “È stata una giornata impegnativa. Questo è un luogo di mediazione e siamo soddisfatti”. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi parla al Corriere della Sera mentre si reca all’aeroporto, al termine di dodici ore di negoziato che hanno portato a un’intesa tra gli Stati membri sui due principali regolamenti nel nuovo Patto per la migrazione e l’asilo. Com’è riuscito a convincere i tedeschi? “ È stato un negoziato complesso la cui complessità era data proprio dalla materia e dal valore di quello di cui si parlava. Questo è un luogo di mediazione tra tanti soggetti e quindi bisognava trovare un punto di equilibrio tra le varie posizioni. Il negoziato finale è stato su alcuni punti che ritenevamo fondamentali come quello della definizione dei Paesi terzi con cui poter concludere gli accordi ed è sostanzialmente passata la nostra linea sulla quale abbiamo fatto convergere tutti i Paesi che avevano fatto blocco su questo”. La Germania era preoccupata della definizione di Paese terzo “sicuro”... “L’Italia non ha mai pensato a nulla di diverso che fosse rispettoso della cornice giuridica internazionale, siamo riusciti a tenere la nostra posizione, abbiamo trovato mediazione su altre cose, siamo soddisfatti. È una giornata importante ma è un punto di partenza. Abbiamo le prospettive di realizzazione quello su cui abbiamo negoziato”. Un esempio? “Sui temi della solidarietà obbligatoria abbiamo preferito non accettare compensazioni in denaro che finanziassero all’Italia perché l’Italia ritiene di avere una dignità di Paese fondatore dell’Unione e non abbiamo bisogno di compensazioni in denaro per diventare il centro di raccolta dell’Ue. Abbiamo preferito puntare a un meccanismo che rimane di compensazione da parte dei Paesi che non accettano il ricollocamento dei migranti ma che le relative risorse vadano a finanziare un fondo appositamente istituito e gestito dalla Commissione Ue per realizzare progetti di quella cosiddetta dimensione esterna che per la prima volta viene concretizzata in atti dell’Ue e su cui ha sempre fatto pressione il governo Meloni da quando si è insediato in tutte le sedi possibili”. Saremo in grado di gestire le procedure di frontiera? Non c’è il rischio che si creino i campi profughi sul nostro territorio? “Abbiamo accettato la sfida delle procedure di frontiera, anzi le abbiamo anticipate perché con il decreto legge approvato a Cutro le abbiamo previste e abbiamo ottenuto un sostegno finanziario e un sostegno logistico dall’Ue per la corretta realizzazione di queste procedure. C’è poi una clausola di rinegoziazione di uno o due anni a seconda dei vari oggetti: se ha funzionato si rinnova l’intesa o viceversa si cambia. Abbiamo accettato le procedure perché l’Italia, la Grecia e Malta sono Paesi fisiologicamente di primo approdo: non è che se non si accetta di realizzare le infrastrutture per fare le procedure di frontiera i migranti sulle nostre coste non arrivano, quindi abbiamo preferito fare un discorso di lungo periodo. Siamo profondamente convinti che il nostro governo è un governo che durerà, che ha prospettiva e che deve pensare quindi a progetti di medio e lungo periodo”. È soddisfatto del metodo usato? “Ad un certo punto sulle posizioni dell’Italia si era creato un blocco di Paesi che ci avevano seguito sulle nostre perplessità e non era il solito schema del Mediterraneo contrapposto ai Paesi del Nord ma erano Paesi variamente distribuiti a livello geografico. Poi si è trovata la mediazione sui punti che noi abbiamo posto e anche questi Paesi hanno ritenuto di accedere alla mediazione e hanno votato a favore quasi tutti. L’Italia è stata centrale in una discussione importante”. L’Olanda vi ha sostenuto nella trattativa? “Ha partecipato a tutti i punti critici del negoziato sia nella fase critica e sia poi nella soluzione definitiva”. Ha ottenuto che la responsabilità per i casi Sar sia rimasta di un anno come ora e non salita a due... “Per la prima volta i casi Sar sono considerati sotto la responsabilità dell’Ue”. È soddisfatto degli altri numeri? “I punti dell’accordo sono sfidanti ma ci sentiamo all’altezza e ci dà conforto il fatto che tutto avviene in un contesto di sostegno europeo concreto”. Si è consultato con la premier Meloni in queste ore? “Ogni iniziativa importante viene condotta in raccordo con il presidente Meloni secondo una coerente linea di governo”. Arcipelago Cpr, le multinazionali battono cassa sui migranti detenuti di Giansandro Merli Il Manifesto, 9 giugno 2023 Massimizzazione dei profitti privati e contenimento dei costi statali: la tenaglia sulla pelle degli ultimi. Un rapporto della Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) fa nomi e cognomi: ecco chi guadagna sulla violazione dei diritti. Ci sono grandi multinazionali che realizzano profitti sulla pelle di chi è privato della libertà. È quanto avviene con la detenzione amministrativa dei migranti. Un unicum nell’arcipelago delle forme di reclusione italiane. Perché le persone trattenute non hanno commesso reati e perché i centri di trattenimento sono appaltati ai privati. È su questo secondo aspetto che si concentra il rapporto presentato ieri dalla Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) L’affare Cpr. Da quelle 190 pagine viene fuori un affresco inquietante: “Nei Cpr vige un’extraterritorialità giuridica. Per i detenuti non si applicano i principi costituzionali, né le leggi dello Stato”, denuncia l’avvocata Federica Borlizzi, tra le curatrici. Secondo i risultati dello studio due tendenze alimentano una filiera che per alcuni produce lauti guadagni e per altri calpesta diritti fondamentali: la ricerca degli enti gestori della massimizzazione dei profitti; la spinta dello Stato alla minimizzazione dei costi. Cpr sta per Centri di permanenza per i rimpatri. Prima si chiamavano Centri di identificazione ed espulsione (Cie) e prima ancora Centri di permanenza temporanea e assistenza (Cpt). Sono stati istituiti nel 1998 dalla Turco-Napolitano. Da allora si sono moltiplicate inchieste, denunce, interrogazioni parlamentari su condizioni di detenzione, abuso di psicofarmaci, episodi di autolesionismo e suicidio. Non è cambiato nulla. O meglio, sono cambiati gli enti gestori. Fino al 2006/7 la Croce rossa. Dal 2008 iniziano a vincere le gare delle cooperative, attraverso offerte economicamente più vantaggiose. Dal 2014 nel mercato entrano grandi multinazionali europee. “Riescono spesso ad aggiudicarsi le gare d’appalto attraverso modalità aggressive, proponendo importanti ribassi sui prezzi a base delle aste con il rischio di gravi violazioni dei diritti fondamentali dei trattenuti”, si legge nel rapporto. Il giro d’affari è ghiotto: solo per il biennio 2021-2023 i costi degli appalti toccano quota 56 milioni di euro. Nel Cpr romano di Ponte Galeria, a Macomer e Torino arriva la Ors. L’acronimo sta per Organisation for Refugees Service, ma il focus non è umanitario. È economico. Il gruppo gestisce 100 strutture tra Svizzera, Austria, Germania e Italia. Qui conta su un lobbista che tiene le relazioni istituzionali. Tra il 2018, data di iscrizione al registro delle imprese, e il 2020, quando inizia effettivamente la sua attività economica, riesce persino a vincere un appalto pur risultando inattiva. A ottobre 2020 il Tar del Friuli Venezia-Giulia annulla l’aggiudicazione di un centro d’accoglienza in provincia di Trieste. “Lo stato di inattività di un’impresa è preclusivo alla possibilità di concorrere a una gara per l’aggiudicazione di un pubblico appalto”, scrive il giudice. La multinazionale aveva proposto una spesa di 5 euro al giorno a ospite comprensiva di colazione, pranzo e cena. Altro grande gruppo di cui il rapporto documenta le attività è quello di Ecofficina-Edeco-Ekene, più nomi per soggetti uguali o strettamente imparentati. Il primo viene espulso nel 2016 da Confcooperative del Veneto che contesta il modello di gestione del mega centro di accoglienza di Cona (finito sotto indagine). Il terzo nel 2019 vince la gara per il Cpr di Gradisca dove tra gennaio 2020 e agosto 2022 muoiono quattro persone. Un record. La prima vittima si chiamava Vakhtang Enukidze, aveva 37 anni. Ucciso da un edema polmonare e cerebrale causato da un cocktail di farmaci e stupefacenti. Per questa vicenda il direttore del Cpr, Simone Borile, è stato rinviato a giudizio. Recentemente il processo è stato aggiornato al 2024. Nel 2021 la Ekene si aggiudica, per ripescaggio, il Cpr di Macomer. Due anni più tardi viene esclusa da quello di Caltanissetta: sette mesi dopo l’assegnazione la prefettura cambia idea per le inchieste giudiziarie che gravano sui vertici del gruppo. Altri enti gestori sono la Engel-Martinina, che dal settore turistico-alberghiero si butta in quello dell’accoglienza e di trattenimento dei migranti nei Cpr di Palazzo San Gervasio e Milano, e della multinazionale francese Gepsa, i cui business oscillano tra fornitura energetica e detenzione amministrativa. Ai tempi dei Cie si era aggiudicata Ponte Galeria, Milano e Torino. A Bari-Palese e Trapani-Milo, invece, si insedia il colosso Badia Grande. È su questo sistema che il governo Meloni ha deciso di investire proponendosi di aumentare i centri “fino a uno per regione”, com’era peraltro nei piani dell’ex ministro dell’Interno Pd Marco Minniti. “Nessuno dovrebbe essere privato della propria libertà solo per aver violato una norma amministrativa - conclude la Cild - L’eventuale passaggio a una gestione pubblica dei Cpr non cambierebbe lo stato delle cose”. Il rapporto è stato curato da: Marika Ikonomu; Alessandro Leone; Simone Manda; Federica Borlizzi; Eleonora Costa; Oiza Q. Obasuy.