Strasburgo: “Roma intervenga sullo stato delle carceri” ansa.it, 8 giugno 2023 Servono misure anti-suicidio e più trasferimenti verso Rems. Le autorità italiane devono migliorare le misure preposte a prevenire i suicidi in carcere, che “nel 2022 hanno raggiunto un livello senza precedenti”, e “proseguire gli sforzi per assicurare una capacità sufficiente delle Rems”, le residenze alternative per i detenuti che soffrono di disturbi psichici. A chiederlo è il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che questa settimana ha esaminato le azioni messe in campo dall’Italia per rispondere in modo adeguato a due condanne sulla situazione nelle carceri pronunciate dalla Corte europea dei diritti umani. Cappellani carceri, Nordio: “Centrali nel percorso dei detenuti” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 8 giugno 2023 “La vostra nobile missione è fondamentale, in quell’opera di rieducazione che svolgete e che può aiutare il detenuto a reinserirsi nella società in modo dignitoso”. Così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha accolto al Ministero i nuovi Cappellani che a breve inizieranno il loro importante incarico nelle carceri, a contatto con i detenuti. “La vostra opera è essenziale nell’ambito carcerario - ha proseguito il Guardasigilli - anche se non sempre ha successo, perché questo è un mondo imperfetto e non un mondo ideale, ma può fare molto, nel riavvicinamento a quelli che sono i principi della società civile”. I nuovi cappellani sono stati accompagnati all’incontro dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, e dall’Ispettore generale dei Cappellani nelle carceri, Raffaele Grimaldi, e hanno preso posto nella sala Livatino. Il capo del Dap, nel breve saluto, ha voluto innanzitutto ringraziare il Ministro per il “forte impegno che ha assunto nel portare avanti, spingendo tutte le strutture del ministero, l’affermazione di una giustizia dal volto nuovo, promuovendo tutte le forme di giustizia riparativa”. E rivolgendosi ai nuovi Cappellani, ha fatto riferimento “al senso di misericordia e di carità che deve albergare nel vostro cuore, nel vostro magistero, perché la dovete cercare in tutti gli uomini proprio con quel senso di umanità che trascende il vostro compito strettamente religioso. Sappiamo benissimo che siete i più vicini a quelle che sono le persone più disagiate e marginalizzate dalla società e lo fate indipendentemente dal credo religioso che loro professano”. E concludendo, ha richiamato l’articolo 27 della Costituzione, che invita a cercare “una pena che tenda alla rieducazione, alla riabilitazione, alla risocializzazione dell’uomo, in quanto gli si riconosca una natura umana fragile ma capace di redimersi, di riflettere sul male che ha compiuto e quindi, di essere aiutato a percorrere strade diverse. Questo è il vostro compito”. Don Raffaele Grimaldi, ringraziando il Ministro per averli accolti al termine del seminario di formazione, ha ricordato i 200 Cappellani che ogni giorno svolgono il loro “prezioso e difficile servizio pastorale in luoghi molte volte dimenticati dalla società”. “Siamo quelli che seminano la speranza, che affermano che l’uomo non è mai il suo errore. Entriamo nei nostri istituti per essere accompagnatori spirituali e per sostenere tutti coloro che ogni giorno lavorano per custodire la sicurezza - ha proseguito don Grimaldi -. Sappiamo per certo che come cristiani, come sacerdoti, per esercitare la giustizia verso coloro che hanno sbagliato, non basta ma bisogna sempre accompagnarla con la misericordia, affinché la stessa giustizia non rischi di diventare vendetta”. Carlo Nordio ha poi concluso, ricordando a tutti: “Questo Ministero è a vostra disposizione per qualsiasi cosa abbiate bisogno nei limiti del nostro intervento, e da parte mia avete la massima solidarietà”. Gli implacabili di Mattia Feltri La Stampa, 8 giugno 2023 Quanto dovremmo essere preoccupati dopo il disvelamento dei metodi violenti della polizia di Verona? Quanto dovremmo esserlo un paio di settimane dopo che i carabinieri hanno preso a calci un ragazzo a Livorno e i vigili urbani a manganellate una donna a Milano? Quanto ricordando le storie di Stefano Cucchi e di Federico Aldrovandi, i pestaggi messicani nelle carceri, le pratiche da Gomorra alla caserma Levante di Piacenza, tre anni fa? Quanto dobbiamo esserlo, come ha suggerito Luigi Manconi, per gli abusi di potere ai quali le forze dell’ordine si sentono autorizzati, quanto per la diffusa incapacità a gestire l’enorme responsabilità del monopolio dell’uso legittimo della forza? Dovremmo, senz’altro, ma lo sono un po’ meno, molto meno, dopo aver letto su Repubblica l’intervista al questore di Verona, Roberto Massucci, che è un piccolo gioiello di filosofia del diritto. Primo, in Massucci non c’è esaltazione, ma soltanto dispiacere, e spero sia così anche quando gli arrestati non saranno poliziotti. Secondo, noi metteremo a disposizione della magistratura i risultati del nostro lavoro, ha detto, e il resto lo farà un giusto processo. Terzo, al di là degli esiti dell’indagine penale, ha aggiunto, al di là dei reati, che siano dimostrati o no, la divisa va onorata ogni giorno. E dovrebbe valere per tutti, il giusto e lo sbagliato non lo stabiliscono le sentenze. Quarto, ha concluso, una volta in manette il peggior criminale è un uomo, e gli si deve rispetto. Poliziotto e no. Un trattato che dedicherei a maggioranza, opposizione, giornalisti, lettori, e a tutti quanti preferiscono esibire la loro implacabile purezza. Smontare il reato di tortura è un premio all’omertà di Stefano Anastasia L’Unità, 8 giugno 2023 Nella terribile vicenda di Verona, gli uomini in divisa si dividono in tre gruppi: gli accusati, quelli che li hanno denunciati e quelli che hanno taciuto, magari per acquisire un credito. È quest’ultima zona grigia a essere incoraggiata dalle parole di autorevoli esponenti del governo. Nella terribile notizia giunta da Verona, degli abusi sistematici compiuti da alcuni agenti in danno delle persone in stato di fermo presso un commissariato di polizia, ce n’è una minore, ma che non può essere sottaciuta: l’impegno e la dedizione con cui altri agenti del medesimo corpo di polizia hanno raccolto e trasmesso all’autorità giudiziaria le notizie di quegli abusi, giuridicamente configurabili come atti di tortura. In questa notizia nella notizia c’è la plastica raffigurazione della complessità delle vicende di cui parliamo: la responsabilità personale di alcuni, il senso del dovere di altri e un malinteso “spirito di corpo”, che pure aleggia su fatti violenti inescusabili. Partiamo dall’inizio, dai fatti. Ancora una volta i fatti ci parlano della gratuità, fino al sadismo, della violenza su persone private della libertà. Nulla che abbia a che fare con i dibattiti dottrinari sulla legittimità dell’uso della forza in situazioni di emergenza: le vittime di questi abusi sono saldamente nelle mani della polizia, non mostrano alcuna pericolosità sociale nel contesto in cui si trovano, anzi si tratta di persone che manifestano evidenti i tratti della marginalità sociale, se non della incapacità di intendere le circostanze, e sono proprio per questo colpite e umiliate, in ragione di quella che ai loro aguzzini deve apparire come una indegna minorità umana. Brutali fatti materiali sostenuti da un chiaro apparato ideologico, quand’anche di quella dimensione ideologica le persone accusate potrebbero essere inconsapevoli. Se non “il fascismo”, senz’altro la “violenza fascista”, anche storicamente, è quella roba lì. Di fronte a quei fatti e alla tumefazione delle vittime ci stanno tre gruppi di persone che vestono la stessa divisa: gli accusati, che avranno tutte le giuste garanzie processuali per eccepire lo scandalo di quanto riportato dall’ordinanza di adozione delle misure cautelari; i loro inquisitori, capeggiati da un Questore che rivendica per sé e per loro l’orgoglio di non aver chiuso gli occhi di fronte a quello che emergeva nelle intercettazioni e poi nelle documentazioni interne al commissariato; infine la solita “zona grigia”, di chi sapeva, forse aveva visto, o gli era stato riferito, ma non denunciava, per quieto vivere, per solidarietà di corpo, per l’acquisizione di un credito omertoso per il futuro, per quando anche a qualcuno di loro dovesse capitare di alzare le mani su un trattenuto, per fargli dire qualcosa, per frustrazione o solo per ripugnanza del suo modo di essere. Gli accusati se la dovranno vedere con i loro giudici, e a loro lasciamo la responsabilità dell’accertamento dei fatti e delle personali responsabilità penali. Nel mezzo restano i buoni, quelli che fanno onore alla divisa che indossano, che credono alla legalità costituzionale, e dunque alla sottoposizione alla legge di ogni potere, anche quello di polizia, potere definitorio per eccellenza, e dunque potenzialmente assoluto nel momento concreto del suo esercizio; e restano i grigi, quelli che sapevano, ma tolleravano, per complicità, per spirito di corpo o per quieto vivere. In questo contesto, le istituzioni democratiche dovrebbero avere una sola preoccupazione: dare forza ai “buoni” e prosciugare il campo dei “grigi”; rendere evidente da che parte stare quando si assiste a un tradimento della propria funzione e del proprio giuramento d’Ippocrate. E invece anche in questi frangenti, anche ieri, abbiamo sentito, addirittura dalla voce di un’autorevole esponente di governo, la sottosegretaria Wanda Ferro, la rivendicazione della necessità di modificare il reato di tortura, perché “deve essere adeguato alle sfide del nostro tempo”. Naturalmente non è necessario essere indovini di pari grado per decodificare la sibillina dichiarazione dell’on. Ferro, che può facilmente essere riferita alla proposta di legge n. 623, depositata alla Camera dal gruppo parlamentare di Fratelli d’Italia, del tutto analoga a quella che nella scorsa legislatura fu firmata anche dalla Presidente del Consiglio, dal Ministro Lollobrigida, dal Vice Ministro Cirielli e dall’on. Donzelli. Oggi come allora, la tortura (neanche più così definita) diventerebbe una circostanza aggravante, in luogo del reato previsto dalla legge del 2017 in ottemperanza della Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura e dell’articolo 13, comma 3 della Costituzione, che contiene l’unico obbligo di punire previsto dalla nostra Carta: “E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Per carità di patria, speriamo che le proposte di modifica della legge sulla tortura restino tali, ma intanto, insieme con le improvvide dichiarazioni di esponenti di governo, i loro effetti li producono e scavano un solco tra i buoni e i grigi, a tutto vantaggio dei grigi, che si immagineranno sotto sotto sostenuti, se non dal loro diretto superiore gerarchico, dal vertice della catena di comando e che, se un domani gli dovesse capitare di alzare le mani, non penseranno di esser cattivi, ma di operare all’altezza delle sfide del nostro tempo. Difendere il reato di tortura per difendere gli ultimi di Ilaria Cucchi Il Domani, 8 giugno 2023 Quando ho letto le conversazioni intercettate tra uno dei poliziotti arrestati a Verona e la sua fidanzata mi si è raggelato il sangue. Oggi il presidente del Senato, sempre lui, Ignazio La Russa si affanna ad augurarsi e sperare che tutti i poliziotti arrestati e indagati a Verona siano un giorno dichiarati innocenti. Un bel endorsement, non c’è che dire. “Ti ricordi che mi dicevi quanto gliene avevate date e quanto vi eravate divertititi a dargliene a quel tossico di merda? Ti vantavi…”. Così parlava Anna Carino al marito carabiniere, Raffaele D’Alessandro, che aveva tratto in arresto quel malcapitato la notte del 15 ottobre del 2009. Ho cercato di dimenticare quelle parole terribili che sono stata costretta ad ascoltare in una delle tante intercettazioni del processo per l’uccisione di Stefano Cucchi. Non smettevano di risuonarmi nella testa. Quel “tossico di merda” era semplicemente mio fratello. Un ragazzo sfortunato, tossicodipendente. Un ultimo. Ma era una persona vera, aveva una famiglia con tanto di mamma e papà. E una sorella. Sono sicura che non si sono minimamente posti il problema quando si sono divertiti a picchiarlo a sangue, infliggendogli lesioni gravissime in tutto il corpo, tanto da portarlo alla morte dopo sei giorni di ospedale. E cioè che era una persona in carne e ossa che comunque aveva un’anima. Che qualcuno avrebbe pianto per lui, travolto da un dolore immenso e definitivo compagno di vita. Quando ho letto le conversazioni intercettate tra uno dei poliziotti arrestati a Verona e la sua fidanzata mi si è raggelato il sangue. Si vantava di come avesse steso uno dei poveri disgraziati che aveva arrestato. Un ultimo tra gli ultimi senza reale identità. Nessuno avrebbe reclamato per lui. Nessuno avrebbe denunciato. Forte e fieramente arrogante del suo potere assoluto e insindacabile nei confronti di un uomo senza diritti e alla sua mercé. Ma quello non è stato un caso isolato. Si è trattato di un sistema “operativo”, tanto che ben cinque sono gli agenti arrestati oltre a tutti gli altri coinvolti nell’inchiesta avviata dalla procura di Verona. Tante, troppe, le persone vittime di atti di tortura. Il loro denominatore comune è quello di essere semplicemente degli ultimi senza diritti e senza reale identità. Rifiuti di stato su cui poter impunemente infierire senza dover temere alcuna conseguenza. È questa la cultura genetica di tali vicende che si ripetono senza tempo con una costante nenia che suona sempre la stessa musica: quella delle mele marce in indissolubile matrimonio con la contrapposta rivendicazione della fulgida saldezza e integrità dell’istituzione di appartenenza. Perché affannarsi sempre in questi moniti e invocazioni quando si verificano questi comportamenti criminali? Forse per voler in un qualche modo giustificarli? In tutta sincerità non lo ho mai capito fino in fondo. Fatto sta che io ho passato tutti questi anni, spesi nella disperata ricerca di verità e giustizia per Stefano, sentendo la continua necessità di rimarcare la mia totale e incondizionata fiducia nelle istituzioni coinvolte dall’appartenenza degli assassini di mio fratello. Uno stucchevole e insensato distinguo per il semplice motivo che anche agenti, carabinieri, magistrati eccetera eccetera, possono sbagliare e, quando accade, debbono esserne chiamati a risponderne come tutti gli altri cittadini. La legge è uguale per tutti no? Cosa c’entrano le istituzioni? Cosa è cambiato da quel 15 ottobre del 2009? Cosa è cambiato? Leggendo le cronache giudiziarie veronesi, mi vien da dire nulla! Comportamenti tanto ripugnanti quanto inaccettabili che sono espressione di natura violenta condita da bieco cinismo e tanta boriosa sindrome di onnipotente impunità. Nemmeno le reazioni politiche sono cambiate. Persino negli interpreti. Il ministro della Difesa di allora, Ignazio La Russa, si affannò subito a difendere i carabinieri giurando sulla loro totale estraneità alla vicenda di quel detenuto arrestato e poi morto al Pertini. Oggi il presidente del Senato, sempre lui, Ignazio La Russa si affanna ad augurarsi e sperare che tutti i poliziotti arrestati e indagati a Verona siano un giorno dichiarati innocenti. Un bel endorsement, non c’è che dire. La seconda carica dello stato si augura che la procura della repubblica di Verona sia incorsa in un errore colossale facendo mettere in galera dei poliziotti innocenti. No, direi proprio che nulla è cambiato. Il tifo della propaganda è sempre quello, quale che siano i ruoli e le cariche. Stiano tranquilli gli agenti arrestati! Non si debbono sentire soli. C’è chi prega per la loro innocenza. E non è certo uno qualunque. Due cose, però sono cambiate. Lo debbo riconoscere. La prima è che i poliziotti imputati di oggi sono accusati del grave reato di tortura che ai tempi di Stefano Cucchi non c’era. Mi piace pensare che la sua morte abbia dato anche un piccolo contributo all’approvazione della legge. C’è poco da star tranquilli su questo perché proprio la maggioranza di governo di cui è espressione il presidente La Russa si è già affannata ad annunciare la cancellazione di questo reato. Mi chiedo se, quando la voteranno, rivolgeranno un pensierino a quegli stessi agenti arrestati a Verona. Saranno assolti perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Innocenti, quindi. Non c’è che dire, il presidente La Russa, mentre non portò fortuna ai carabinieri coinvolti nell’uccisione di Stefano Cucchi, risultando irrimediabilmente smentito nelle sue dichiarazioni anticipatorie giurate, questa volta magari ci prende. La seconda è che io sono sempre Ilaria Cucchi, la sorella del morto, ma sono stata eletta senatrice della Repubblica e in aula mi batterò fin che avrò forze contro l’abominio della cancellazione della legge sulla tortura. Verona, di cosa ha bisogno questa Polizia di Luigi Manconi La Repubblica, 8 giugno 2023 Servono due grandi campagne di formazione interna. La prima è di tipo tecnico. La seconda dovrà essere di natura culturale: una vera e propria educazione costituzionale. Anche in questa circostanza è necessario assumere una posizione rigorosamente garantista. Fatta salva la presunzione di innocenza per arrestati e indagati, e assicurata loro la più ampia capacità di difesa, tuttavia non è possibile ignorare la ruvida materialità di alcuni fatti. Intercettazioni, testimonianze e inoppugnabile documentazione sembrano dire che, nella questura di Verona, le torture effettivamente ci siano state. E dicono anche che il numero degli agenti coinvolti allude, se non proprio all’esistenza di un “sistema”, certamente a una prassi tutt’altro che infrequente e tutt’altro che limitata a qualche individuo. La consunta metafora delle “poche mele marce”, sempre inadeguata innanzitutto dal punto di vista botanico (bastano pochi frutti guasti a compromettere un’intera cesta), questa volta è ancora più fallace: emerge infatti una rete di connivenze, complicità e omertà. E manca ancora un dato importante: da quanto tempo andava avanti questa storia? E, soprattutto, siamo sicuri che non vi siano responsabilità - se non altro per omissione - a livelli più alti della catena di comando? Più in generale, è indubbio che, con una qualche regolarità, membri degli apparati statuali di controllo e repressione (dalla Polizia penitenziaria a quella municipale, fino alla Guardia di finanza) si trovano coinvolti in episodi di corruzione o in vicende di abusi e violenze. Sotto alcuni aspetti, appare come un dato fisiologico: parliamo di centinaia di migliaia di uomini e donne che, per un verso, possono avere rapporti stretti con l’amministrazione pubblica e ricavarne, all’occorrenza, risorse illecite; per altro verso, essi sono i titolari del monopolio legittimo dell’uso della forza. Potere, quest’ultimo, terribile e delicato, che richiede competenza e saggezza, intelligenza e maturità. L’esatto opposto dei connotati caratteriali dell’agente Alessandro Migliore, che - se le intercettazioni venissero confermate - avrebbe pronunciato le seguenti frasi: “Mi ero messo il guanto, ho caricato una stecca, bam, lui chiude gli occhi, di sasso per terra è andato a finire... È svenuto... Minchia che pigna che gli ho dato”. E ancora: “L’ho messo in piedi... Ho fatto sinistro destro, pam pam... Il collega fa “no, grande Ale!”. Si tratta di un piccolo “caso di studio” di sociologia delle istituzioni totali (Erving Goffman, 1961). Quelle organizzazioni, cioè, chiuse al proprio interno e fortemente integrate, regolate da una severa disciplina e da una precisa gerarchia - come una caserma, appunto - dove a dominare sono lo spirito di corpo e il senso di appartenenza. Qui, è facile che l’empatia si faccia omertà e che il cameratismo maschio e brutale si trasformi in correità criminale. Ma c’è qualcos’altro. Secondo la gip Livia Magri “i soprusi, le vessazioni e le prevaricazioni” sarebbero stati indirizzati verso “soggetti di nazionalità straniera, senza fissa dimora, ovvero affetti da gravi dipendenze da alcol o stupefacenti”. È difficile, di conseguenza, non osservare una componente razzistica, dettata da un sentimento di vero e proprio odio e, in ogni caso, da una particolare aggressività verso gruppi sociali marginali. Anche perché, va ricordato, che gli abusi non si sono verificati in occasione di arresti di difficile esecuzione o di forme di resistenza attiva o di violente colluttazioni, bensì - come dire? - a freddo. Il che evidenzia, e sembra confermato da certe frasi intercettate, un qualche tratto di sadismo. La prima reazione a fronte di ciò è di sconforto. Troppe volte ci si è trovati a dire le cose dette in questi giorni, senza alcun concreto risultato. Anche perché, le prese di distanza, le autocritiche, le promesse virtuose da parte dei responsabili delle forze di polizia, sono state pressoché sempre postume: quando già i danni erano stati fatti e le azioni giudiziarie già avviate, se non dopo le sentenze definitive. Ossia sempre, come si dice, “a babbo morto”. Espressione tanto più pertinente perché talvolta il cadavere effettivamente c’era stato (Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e altri ancora). Possibile che non si voglia cogliere questa occasione affinché, infine, qualcosa cambi? Le forze di polizia hanno bisogno di due grandi campagne di formazione interna. La prima è di tipo tecnico: troppe volte le violenze sono l’esito dello stato di insicurezza e di ansia di agenti impreparati, incapaci di intervenire con metodi e strumenti proporzionati. Nei due casi più recenti, quello di Milano e quello di Livorno, è stato evidente quanto fosse eccessivo e fuori misura l’uso della forza nel controllo delle persone fermate. Una formazione tecnica spesso arretrata e una strumentazione antiquata possono produrre azioni suscettibili di conseguenze tragiche. La seconda campagna di formazione dovrà essere di natura culturale: una vera e propria educazione costituzionale. Dai fatti di Verona emerge esemplarmente come l’oggetto degli interventi di quei poliziotti fosse considerato, appunto, un oggetto: e ostile. Non un cittadino, ancorché straniero e, proprio perché vulnerabile, ancor più meritevole di tutela. Non un soggetto che resta titolare di diritti e garanzie qualunque sia la sua condizione di fermato, arrestato o detenuto, bensì un nemico. Da annientare o, perlomeno, da umiliare, sprezzandone o sfregiandone la dignità. Palma: “Cambiare il reato di tortura? Da evitare, sarebbe un rischio grave per i processi in corso” di Liana Milella La Repubblica, 8 giugno 2023 Il Garante delle persone private della libertà sui fatti di Verona: “Quei poliziotti non sono mele marce, c’è una cultura di connivenza, silenzio e omertà”. Mauro Palma, Garante dei detenuti, è davvero possibile, dopo tante denunce di violenze delle polizie, che si verifichi un’aggressione come quella di Verona? “Quest’ultima inchiesta, ancora una volta, evidenzia il fatto come sia sbagliato affrontare la questione nella logica delle ‘mele marce’. Perché questo porta a non interrogarsi sulle culture che sono dietro i singoli comportamenti”. Singoli? Ma in questura i colleghi hanno assistito a quelle violenze, di fatto condividendole o quanto meno non fermandole, e c’erano una trentina di persone... “Proprio per questo dico che bisogna interrogarsi su una cultura di connivenza, di silenzio, e di omertà, che porta non solo a non intervenire, ma anche a compiacersi di tali comportamenti e a giustificarli quando poi si viene interrogati da chi indaga. Questa è una cultura strisciante che rischia di incidere sull’opinione pubblica rispetto alla solida cultura costituzionale che regge l’operato delle polizie”. Lei vuole distinguere tra agenti buoni e cattivi, ma dall’indagine di Verona viene fuori un clima di omertà che suona come condivisione o quanto meno accettazione passiva della violenza inusitata dei colleghi... “Per me non è un problema di buoni e cattivi, ma di come si insinuino nel linguaggio e nei modi di fare, e anche nel consenso che emerge dalle intercettazioni. Tutto rivela comportamenti devastanti per chi assolve un compito assegnato dalla collettività e che dev’essere centrato sia sulla dignità di ogni persona, sia sul rifiuto di una logica paritetica tra chi ha commesso un reato e chi esercita una doverosa funzione di arresto o di fermo”. Scusi Palma ma di fronte alle puntuali descrizioni contenute nelle carte dei giudici sui gesti degradanti fatti subire ai fermati - addirittura costretti a pulire “come uno straccio” la loro stessa pipì - non si può scusare in alcun modo chi assisteva a quei fatti senza imporre un altolà... “È vero. Ma se di fronte a quei gesti così descritti e che mostrano un livello di degrado repellente, la reazione di alcune persone che hanno una responsabilità istituzionale è quella di mettere subito in campo una modifica del reato di tortura in base al quale gli arresti sono avvenuti, quale messaggio viene dato a chi ha agito, a chi ha assistito, a chi si è compiaciuto di quei comportamenti, come raccontano le intercettazioni?”. Lei sta parlando delle dichiarazioni dell’ex sindaco di Verona Tosi che ha già chiesto di cambiare il reato di tortura? “Per come le ho lette, certamente. La prima reazione dev’essere quella di dare inequivocabilmente una valutazione di condanna di quanto è avvenuto. Poi si potrà parlare più avanti - e io dico subito, come ho già fatto molte volte, che non sono d’accordo - dell’ipotesi di modificare o meno il reato. Ma pongo adesso un principio: di fronte alla contestazione di un reato grave, la reazione di chi riveste un ruolo istituzionale - Tosi, oggi deputato di Forza italia, è stato sindaco di Verona - non può essere quella di dire ‘cambiamo il reato’ perché il messaggio che ne viene fuori è di netta sottovalutazione di ciò che è stato commesso”. Fratelli d’Italia, a inizio legislatura, ha già presentato un ddl per cancellare il reato di tortura. Alla Camera il Guardasigilli Nordio ha dato la sua parole che il governo non lo farà, ma ha avanzato i suoi dubbi sul cosiddetto “dolo generico”. Che pericoli vede? “L’iniziativa di taluni deputati di FdI non è credibile. E ne ho avuto conferma da molti esponenti di quell’area politica. Invece il problema sollevato da Nordio potrebbe riscuotere consensi. Ritengo del tutto inopportuno toccare oggi il reato già frutto di una difficile mediazione nel 2017, prima che si sia stabilizzata la giurisprudenza che mi sembra si stia già muovendo in modo rigoroso a salvaguardia di un reato indispensabile”. Cambiarlo oggi, anche di poco, rischia di far saltare inchieste e processi in corso? “Un rischio grave e assolutamente da evitare”. Ma guardi che questa è una storia già vista. È accaduto in tutte le indagini sulle violenze della polizia, come a Santa Maria Capua Vetere e come a Torino, i sindacati della polizia e la politica di destra vogliono eliminare il reato di tortura per difendere i violenti... “Come tutti sanno, io ho alle mie spalle molti decenni di esperienza di lavoro con le forze dell’ordine, anche in contesti ben più difficili di quello del nostro Paese. Quindi so bene quanto sia difficile quel lavoro. Ma due aspetti mi colpiscono. Il primo è il silenzio di chi sa, però ritiene che parlare equivalga a un tradimento. A Santa Maria Capua Vetere mi colpì subito che nessuno avesse denunciato quei fatti gravissimi. Neppure quelli che entrando in servizio il giorno dopo ne avevano visto le conseguenze. E poi non capisco come sia possibile che molti dicano anche oggi, per Verona, che le persone fermate sono ‘difficili da trattare’. Questa è un’offesa all’obbligatoria professionalità di chi fa polizia”. Le violenze, dal caso Cucchi in avanti, sono frutto di una cultura di destra, che oggi ha una copertura dal governo in carica? “Non credo, l’abbiamo viste in vari contesti politici diversi. Io l’addebito a un’arretratezza culturale di chi non riesce a riconoscere nella persona, anche problematica, diversa, o che ha commesso un reato, un essere umano che non cessa di appartenere al corpo sociale. Questa è la cultura dell’inimicizia”. Questa violenza è frutto di razzismo, e ricorda le torture naziste contro i presunti “diversi”... “Lascerei stare questi collegamenti storici perché abbiamo bisogno di interpretare il presente. La negazione dell’altro, che trasforma il rapporto tra poliziotto e reo in quello tra poliziotto e nemico, è qualcosa che abbiamo già visto, anche sul piano internazionale, negli ultimi due decenni e che rischia sempre di insinuarsi nella cultura diffusa. La persona arrestata non è il nemico e non andrebbe neppure messa la sua foto sui giornali. Chi lo arresta ha il dovere di tenerlo in custodia garantendo i suoi diritti scritti nella Costituzione”. Nordio annuncia: “La riforma della giustizia è pronta”. Ma la maggioranza litiga sull’abuso d’ufficio di Liana Milella La Repubblica, 8 giugno 2023 Scontro in commissione Giustizia alla Camera, la Lega blocca il voto sul testo base di Forza Italia che cancella il reato. Il vice ministro Sisto costretto al rinvio. Da Costa di Azione “appoggio pieno” alla piattaforma del Guardasigilli. Netto no di Pd e M5S. “Habemus” direbbe il Guardasigilli Carlo Nordio che ama le citazioni in latino. E in effetti è proprio lui, nell’aula della Camera, abito carta da zucchero e cravatta in tinta in versione già estiva, ad annunciare che “la prossima settimana” la sua riforma della giustizia - il primo step a cui seguiranno altri due “poderosi interventi costituzionali sulla separazione delle carriere e sui due Csm - alla fine, e dopo ben sette mesi, andrà in consiglio dei ministri. Con il pieno appoggio - già espresso in aula - di Azione e del suo responsabile Giustizia Enrico Costa. Dunque, almeno su questo, la maggioranza conquista un’altra gamba. Del resto le proposte che Nordio riassume in una frase sono proprio quelle chieste tante volte da Costa. Eccole: “Modifiche sul sistema delle intercettazioni, sulla custodia cautelare, sui reati contro la pubblica amministrazione, sulla segretezza dell’informazione di garanzia”. A “medio termine” invece - in autunno - Nordio porrà mano alla separazione delle carriere e del Csm. Nel primo gruppo rientrerà anche la stretta all’appello per il Pm che perde il processo, un ritorno alla legge Pecorella del 2006 già bocciata dalla Consulta. Per le intercettazioni sarà vietata la trascrizione di quelle di terze persone che finiscono nella rete della microspia. Per la custodia cautelare verrà imposto ai pm un interrogatorio di garanzia per i reati meno gravi. Via poi l’abuso d’ufficio e riscrittura della mappa dei reati contro la pubblica amministrazione, a partire dal traffico d’influenze, come ha imposto la Lega, legando a questo il suo sì alla cancellazione dell’abuso. Un “piatto” che - c’è da immaginarselo - l’assemblea plenaria dell’Anm, convocata domenica in Cassazione, comincerà già ad affrontare, protestando per non essere stata ascoltata prima dell’arrivo a palazzo Chigi. L’assemblea, che nasce sul caso Uss e la contestazione disciplinare ai giudici di Milano che hanno dato all’oligarca russo i domiciliari con braccialetto, s’incrocerà con le riforme vissute dalla maggior parte delle toghe come fortemente limitative nel fare giustizia. È ovviamente solo una coincidenza, ma solo pochi minuti prima, in commissione Giustizia, scoppia l’ennesima lite nella maggioranza, e per giunta proprio sull’abuso d’ufficio. Perché Forza Italia, con il vice presidente della commissione Pietro Pittalis, propone il testo base, e si pronuncia a favore della cancellazione del reato. Dunque proprio FI scioglie il nodo, visto che aveva presentato due testi, uno per una modifica significativa mantenendo comunque il reato, l’altro per buttare nel cestino del tutto l’articolo 323 del codice penale. E qui si va allo scontro. Davanti alle opposizioni - Pd e M5S - che si godono lo spettacolo. Perché il voto sul testo base viene bloccato dalla Lega. La responsabile Giustizia Giulia Bongiorno ai suoi dice con nettezza che il partito di Salvini ha preso impegni con il Guardasigilli Nordio e quindi vota solo il testo del ministro, che andrà a palazzo Chigi tra sette giorni, per cui non c’è alcun bisogno di votare adesso un testo base. Furibondo Costa che sottolinea “le divisioni notevoli nella maggioranza, con la Lega che non accetta l’abrogazione secca di un reato per il quale una valanga di sindaci sono stati indagati, infangati e, solo dopo anni, assolti”. Nelle peste finisce il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, che fa sospendere la seduta, si consulta con via Arenula, e poi è costretto a tornare in aula chiedendo il rinvio a domani con la scusa che ha un altro impegno. Reagisce furibondo Costa che all’opposto chiede il voto subito. Obtorto collo Pittalis è costretto a concedere il rinvio di 24 ore, mentre Federico Gianassi, capogruppo del Pd, vuole “lumi” dal governo su “quale strada effettivamente si voglia seguire sull’abuso d’ufficio dopo l’altalena di prese di posizione contrastanti”. Identica la reazione di M5s che, con tutto il gruppo, dal vice presidente Federico Cafiero De Raho, alle deputate Stefania Ascari, Valentina D’Orso e Carla Giuliano, parla di “propositi scellerati”, che vanno contro tutte le audizioni di importanti esponenti della magistratura come il procuratore nazionale antimafia Gianni Melillo, senza “rendersi conto del danno che possono arrecare all’Italia se non si fermano in tempo”. Sprint sulle violenze di genere, ai box il pacchetto Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 8 giugno 2023 Rinviato di un’altra settimana l’esame in Cdm delle riforme preparate a Via Arenula. Il governo dà la corsia preferenziale al testo Piantedosi-Roccella, sollecitato dal caso Tramontano. Doppio binario, come sui rave. Da una parte le affermazioni, più o meno rassicuranti, di Carlo Nordio: “Ci sarà una riforma della giustizia in tre tempi, con la prima fase destinata a realizzarsi, credo di poterlo dire con ragionevole certezza, già la prossima settimana”. Dall’altra parte, il dato concreto: ieri in Consiglio dei ministri si è discusso con estrema celerità di tutt’altra riforma “giudiziaria”, ossia delle modifiche-lampo al codice rosso. Testo formalmente condiviso dallo stesso guardasigilli, ma in realtà scritto da altri due ministri: Eugenia Roccella (Famiglia e Pari opportunità) e Matteo Piantedosi (Interno). Tutto secondo uno schema consolidato. Dopo l’orribile delitto commesso da Alessandro Impagnatiello, il barista che ha ucciso a coltellate la compagna Giulia Tramontano e il figlio che la donna aveva in grembo, serviva un segnale. Ma se si può essere d’accordo sull’idea di perfezionare in tutti i modi possibili le norme contro violenze e maltrattamenti in famiglia, non può passare inosservato l’ennesimo scarto fra misure garantiste, teorizzate ma tenute in sospeso, e provvedimenti restrittivi ispirati alla cronaca nera del momento, ai quali il governo Meloni assegna ancora una volta una corsia preferenziale (era stato così anche per il decreto Rave). Una diversità di approccio che sembra rivelare un’ispirazione garantista non del tutto sincera, soprattutto se accostata al piglio risoluto sfoggiato ogni qual volta c’è da stringere i bulloni del diritto penale. Così la giornata che avrebbe dovuto celebrare il sospirato sì all’ormai mitico pacchetto Nordio (intercettazioni, misure cautelari, interrogatori e avvisi di garanzia, abuso d’ufficio e traffico d’influenze) si risolve con il rinvio alla settimana prossima del battesimo, e il varo a Palazzo Chigi del pacchetto anti-violenze. Rispetto al primo dossier, ha pesato anche il margine troppo compresso fra l’ultima riunione tenuta ieri mattina dal guardasigilli con i suoi esperti e il pur sempre necessario vaglio del Dagl, cioè il Legislativo della Presidenza del Consiglio. Passaggio che d’altra parte per il ddl Roccella-Piantedosi si è ridotto a uno sguardo fugace. Proviamo ad andare con ordine. Che la scena sarebbe stata tutta riservata alla risposta all’orrore per il caso Tramontano, lo si comprende di primissima mattina, quando è proprio il ministro della Giustizia a confermare l’arrivo del “codice rosso bis” in un evento alla Luiss. Poche ore dopo lo ribadirà al question time di Montecitorio, in risposta a un’interrogazione della 5S Stefania Ascari: “Consideriamo la materia estremamente prioritaria”. Sempre in mattinata, il responsabile Giustizia e deputato di Azione Enrico Costa annuncia un emendamento che seppellirebbe gli ultimi residui della prescrizione targata Bonafede, con ripristino immediato della disciplina Orlando: “Ma tanto il governo darà parere negativo”. Di prescrizione, in effetti, non si parla per ora a via Arenula e si discute senza fretta in Parlamento. Nel pomeriggio, il question time con le ricordate rassicurazioni di Nordio (delle quali si dà più ampiamente conto in altro servizio, ndr). Nella replica del ministro alle interrogazioni (anche qui firmate da Costa) va segnalato tra l’altro il passaggio sulla legge delega (in gran parte ancora da tradurre in decreti attuativi) di Cartabia dedicata a Csm e magistratura: quella riforma, garantisce sempre il guardasigilli, “resta pienamente condivisa da questo governo”. Si era spinto persino oltre il sottosegretario, e plenipotenziario di Meloni sulla giustizia, Andrea Delmastro, che in un’intervista al Giornale aveva parlato di “compromessi al ribasso da scongiurare” sulle toghe. Benissimo: ma l’ennesimo rinvio del “decollo”, seppure di pochi giorni, favorisce un clima a metà fra disillusione e svilimento. Da una parte le opposizioni che criticano per esempio lo stop chiesto dall’esecutivo sull’abuso d’ufficio anche alla commissione Giustizia di Montecitorio: è sempre Costa a parlare di “stato confusionale”. Sono per una volta d’accordo con lui anche Stefania Ascari, Federico Cafiero de Raho, Valentina D’Orso e Carla Giuliano, cioè la delegazione 5S della commissione Giustizia. In realtà il viceministro Francesco Paolo Sisto invita i deputati a lasciare “un margine in più per una riflessione governativa”. Significa non adottare subito il testo base e attendere l’incardinamento alla Camera della proposta Nordio. Si punterà, da parte di via Arenula, sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, il che vorrebbe dire privilegiare, alla Camera, il testo dell’azzurro Pietro Pittalis, che ha quella matrice. Anche se l’obiettivo fosse raggiunto, resta l’immagine sempre troppo “esposta” del guardasigilli, che sconta la propria circospezione a dispetto del passo sbrigativo, per esempio, dell’Interno. In un clima simile, l’Anm fatalmente acquisisce maggiore convinzione nel proprio “ostruzionismo dialettico”: se ne ha prova nell’altra commissione Giustizia, quella del Senato, dove Giuseppe Santalucia e Salvatore Casciaro, presidente e segretario del “sindacato” dei giudici, impallinano la proposta dell’azzurro Pierantonio Zanettin sul sorteggio temperato per l’elezione dei togati al Csm: “Un Csm di sorteggiati presieduto dal Capo dello Stato avrebbe una valenza anche difficilmente comprensibile”, obietta per esempio l’Anm con argomentazione più suggestiva che schiacciante, “resterebbero eletti i laici senza simmetria con la parte magistratuale”. Vero che qui Nordio c’entra (per ora) poco, ma se si pensa che dopodomani la stessa Anm potrebbe proclamare uno sciopero contro il guardasigilli, si ha la misura di quando il “doppio binario” sulla giustizia produca effetti politici incontrollabili. A proposito di Csm, come annunciato ieri dal Dubbio è arrivato dal plenum il parere “perplesso” sull’entrata in vigore dal prossimo 30 giugno del regolamento ministeriale per la cosiddetta “sinteticità degli atti”, riferita essenzialmente al processo civile. “Si rischia di creare non poche difficoltà ai professionisti”, delibera Palazzo dei Marescialli, con un’attenzione dunque anche per l’avvocatura. Assai meno circospetto è il passo del ddl sulle violenze di genere: misure cautelari da infliggere entro trenta giorni, arresto in flagranza differita sulla base di video, braccialetto elettronico a chi maltratta i familiari. Forse la misura più praticabile rischia di essere quella pecuniaria, cioè la “provvisionale” per chi è condannato già in primo grado, da pagare eventualmente anche agli eredi della vittima. Di sicuro, nella raffica di novità approdata a Palazzo Chigi, Nordio non ha messo mano. A riprova che i provvedimenti-lampo sulla giustizia sono delegati a chi, di giustizia, dovrebbe occuparsi solo in seconda battuta. Abuso d’ufficio, Nordio: testo pronto. Ma la maggioranza litiga ancora di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 8 giugno 2023 Un reato che Nordio vuole cancellare del tutto avendo l’occhio alle statistiche che raccontano di pochissime condanne effettive a fronte di un gran numero (ma in calo) di procedimenti aperti. “La prossima settimana”. Al settimo mese abbondante di annunci - Nordio cominciò a illustrare la sua riforma della giustizia qualche minuto dopo aver giurato da ministro al Quirinale, appena fuori dal portone con i corazzieri - forse ci siamo. Il guardasigilli lo ha detto ieri nell’aula della camera, forte di un mezzo accordo con la Lega e spiegando che il primo pacchetto andrà al prossimo Consiglio dei ministri. “Potrei dire la prossima settimana” la formula esatta usata dal ministro, che rispondendo al question time ha parlato anche di un secondo e di un terzo tempo: “Medio e lungo termine”. Arriveranno, cioè, anche le novità che prevedono modifiche alla Costituzione: la separazione delle carriere e un altro cambiamento dell’assetto, appena modificato, del Csm. Ma parliamo di eventualità lontane nel tempo. Invece il primo “pacchetto giustizia” sarebbe pronto. Nordio non ha voluto raccontarlo per bene ai deputati, “sarebbe improprio”, ma dopo tanta attesa ha riconosciuto che “i dettagli coincidono in buona parte con le anticipazioni fatte sulla stampa sul sistema delle intercettazioni, sulla custodia cautelare, sui reati contro la Pubblica amministrazione, sulla segretezza dell’informazione di garanzia”. La questione più tormentata è stata quella dell’abuso di ufficio, reato che Nordio vuole cancellare del tutto avendo l’occhio alle statistiche che raccontano di pochissime condanne effettive a fronte di un gran numero (ma in calo) di procedimenti aperti. Che le indagini si moltiplichino è comprensibile, essendo la fattispecie (come quella collegata del traffico di influenze illecite) assai vaga anche se - o forse proprio perché - ritoccata ripetutamente, l’ultima nel 2020 dal governo Conte 2 (nello stesso decreto di cui si è tornati a parlare per l’introduzione dello scudo erariale). I magistrati e i professori di diritto penale ascoltati in commissione hanno detto che un’abolizione totale dell’abuso d’ufficio è sconsigliata, perché serve agli inquirenti come reato spia di altri più gravi, tipicamente la corruzione. E forse è impossibile, perché l’Italia è vincolata da una convenzione Onu che non consente di abolire il controllo di legalità sui pubblici ufficiali. Da qui i dubbi della Lega per un’abolizione totale e, più sotto traccia, di FdI. Superati dopo un incontro di Nordio con la responsabile giustizia della Lega Bongiorno e l’impegno del ministro, riferito dalla senatrice leghista, a una “rivisitazione completa dei reati contro la pubblica amministrazione”. O forse solo messi da parte visto che proprio ieri in commissione giustizia, sempre alla camera, è slittata l’adozione del testo base sull’abuso d’ufficio. Ce ne sono quattro in discussione e il prescelto è quello di Forza Italia che prevede appunto l’abolizione del reato, soluzione che avrebbe l’appoggio del gruppo calendiano. All’ultimo momento il governo ha chiesto di rinviare, la Lega non lo avrebbe votato. Per il deputato di Azione-Iv Costa è la prova che “le divisioni nella maggioranza sono notevoli, la Lega non accetta l’abolizione secca”. Ma oltre a questo resta da capire che ne sarà del lavoro parlamentare quando il governo finalmente calerà le sue carte. La settimana prossima, forse. Ma io vi dico: quelle parole del dottor Ardita fanno paura di Giuseppe Belcastro* Il Dubbio, 8 giugno 2023 Forse il sistema penale non fa più paura, ma certe affermazioni continuano a farne. E molta. Ne fanno intanto perché provengono dalle bocche sbagliate, quelle che ti aspetteresti pronunciassero parole di equilibrio, manifestando la capacità di comprendere i fatti umani e di governarne le conseguenze; anche i più atroci tra i fatti umani. Anzi, soprattutto quelli, ché quando accadono rischiano di far saltare il patto sociale bruciando la pelle collettiva con l’effetto vischioso del veleno del delitto. Tutto ciò non giova a nessuno. E ne fanno poi perché, piuttosto che lenire la sofferenza ravvivando la traccia dei confini del diritto, piuttosto che alimentare il fuoco comune attorno al quale, a sera, gli uomini di buona volontà possano ancora provare a ritrovarsi, infiammano le strade e avvelenano i pozzi, abbandonando persino il più sfocato lontano simulacro di dubbio. Nei pensieri che quelle affermazioni contribuiscono a disegnare si stagliano nitidi i confini del giusto e dello sbagliato in un momento in cui non serve, perché i lembi della ferita sono ancora così distanti che nessuno ha dubbi su dove collocare le etichette e, dunque, nessuno ha bisogno che glielo si ricordi. E ciò che non serve, qui guasta, perché alimenta il disagio, il dramma, il dolore che dalle periferie del corpo sociale arriva fino al cuore di chi ha assistito da vicino ai fatti delittuosi: le vittime, quando si è fortunati; i loro familiari, negli altri casi. Sono gli unici, costoro, che si deve abbracciare con il religioso silenzio che meritano; qualunque cosa dicano. Tutto ciò non giova a nessuno. E c’è un altro effetto di quelle affermazioni che val la pena osservare: quello determinato dalla messa in crisi di un sistema ad opera di chi, quel sistema, pur con le sue storture, i suoi drammi interni, le sue insanabili contraddizioni, è chiamato invece a proteggere, perché è su di esso che si regge la comunità ed è sulle sue fondamenta che ciascuno di noi ha giurato di operare. Io non condivido nemmeno una virgola di quanto dice il dott. Ardita e potrei dirne almeno sette ragioni; ma mi limito ad una: è massimalista, come potrebbero essere la parole di chi faccia altri mestieri che non quello più alto che invece gli compete, e taglia con l’ascia temi complessi costringendoli in un post che non li contiene. Forse il sistema penale non fa più paura, perché la paura non è il suo obbiettivo primario, ma tutto ciò, queste parole, non giovano a nessuno; men che meno alle donne e agli uomini che sono chiamati a vestire la Toga, che è pesante per tutti; men che meno a chi le pronuncia. *Avvocato Quel volto arcigno dell’ordine costituito che ha trasformato la legalità in paura di Gianpaolo Catanzariti Il Dubbio, 8 giugno 2023 Rovistando nell’archivio di mio padre, ho ritrovato un pezzo di giornale, ingiallito dal tempo, da lui scritto per L’Unità di allora, il giornale fondato da Antonio Gramsci e organo ufficiale del PCI, pubblicato il 9 settembre 1958. Ha un titolo inusuale per i nostri giorni, specie per un giornale politico con una rappresentanza parlamentare. “Indegna montatura ad Africo sul gesto di un senzatetto”. Con un occhiello profetico - Come opera il “governo sociale” - ed un sottotitolo altrettanto significativo “Il dramma del bracciante che occupò una cappella abbandonata - Intervenuti i Carabinieri”. In evidenza, una foto in bianco e nero. Un uomo dal volto scuro e segnato dalla fatica, con un cappello in testa; al suo fianco, una donna dai capelli intrecciati, con in braccio un bimbo riccioluto e dagli occhi, che immagino vispi, neri e impermeabili alle brutture della condizione familiare disagiata. Era la “presa diretta” di una pagina di cronaca avvenuta nel fazzoletto di terra, sito nel comune di Bianco nel reggino, costituito da una “collina talmente arida da non permettere, in mancanza delle opere necessarie di trasformazioni, neanche una discreta attività agricola”, in prossimità del mar Jonio e senza nemmeno una delimitazione territoriale definita. In quella riserva indiana erano stati costretti a trasferirsi, a seguito della tremenda alluvione del 1951, gli “Africoti”, privati della loro terra, dei loro pascoli aspromontani, su decisione alquanto controversa e che aveva fatto, pur con nobili intenzioni, di un popolo montano, un insieme di individui, privi di identità, di cittadinanza, espulsi dal loro mondo e consegnati, come e più di altre popolazioni reggine, ad un destino inesorabile, “O emigrante, o brigante”. L’articolo non era altro che la contro narrazione al mattinale consegnato a un giornale locale da uno Stato che mostrava ai cittadini di questo lembo d’Italia, per molti versi ancora sudditi di una colonia, privi di dignità e diritti, la faccia arcigna di una legalità, non certo strumento per la realizzazione ed il perseguimento dei valori e dei principi costituzionali, quanto piuttosto una ideologia al servizio e per il consolidamento di un potere “legibus solutus” rispetto ai cittadini e ai loro diritti. Il bollettino ufficiale dell’ordine costituito, pubblicato dal quotidiano locale, era inequivoco. Dal titolo, “Sgomberata ad Africo nuovo una famigliola che aveva occupato una chiesa in costruzione”, alla conclusione del resoconto “un caldo plauso all’opera della magistratura… ed all’attività dei solerti militi dell’Arma”. Era avvenuto, in sintesi, che un giovane bracciante di Africo, spossessato della sua terra e costretto a lasciare quel paese, povero, ma almeno “suo”, con moglie e figlioletto di poco più di 1 anno e qualche utensile, segno tangibile di una modestissima economia domestica, “preso dalla disperazione per la mancanza della casa cui ha diritto in quanto alluvionato”, promessa e mai consegnata, aveva deciso di portarsi presso “un locale abbandonato, che era stato utilizzato provvisoriamente come chiesa”. “Questa abitazione con le porte aperte, incustodita, veniva perfino utilizzata” durante le ore diurne “dai bambini per i loro giochi, dal momento che era stata costruita una sede migliore e più accogliente per la chiesa parrocchiale” ove si era spostata. Salvatore Pangallo, così si chiamava quel bracciante, sfrattato e senza un tetto, aveva deciso di occupare quel locale sconsacrato e senza porte, non potendo più sopportare di vivere sotto il cielo stellato o piovoso. E lo aveva fatto nonostante “tuoni e fulmini” del prete del paese, fratello del sindaco di allora, tutti legati al partito politico, unico detentore del potere. Ma le invettive del parroco finiscono sul tavolo di un funzionario che aveva avuto la fortuna di vincere un concorso, assegnato alla Procura di Locri. Così, il 30 agosto del 1958, alle 5 del mattino, un sostituto procuratore della Repubblica, designato per l’occasione, unitamente ad un capitano e ad un tenente dei carabinieri, si recava per liberare i luoghi abbandonati e senza portone, mettendo sulla strada quel nucleo familiare disperato che aveva osato commettere sacrilegio. Finalmente, era stata ristabilita la legalità violata, grazie all’opera della magistratura e dei solerti militari dell’Arma. In realtà, agli occhi di mio padre, Salvatore Pangallo, sua moglie e il piccolo di poco più di un anno, apparivano non proprio dei banditi incalliti, quanto, piuttosto, le vittime senza voce di una ottusa, insensata e burocratica legalità. Persone che avrebbero visto troppe volte la faccia ostile di uno Stato patrigno che non aveva avuto esitazione alcuna, in nome dell’ordine costituito, ad abbandonarli in una piazzola fuori della chiesa diroccata, con tutto quello che avevano. Un tavolo, poche sedie e materassi con pannocchie di granturco, costretti ad accettare saltuarie ospitalità d’emergenza in case disadorne di qualche parente o amico. Eppure, Salvatore Pangallo, come gli “africoti”, aveva manifestato, protestato, rivendicato il proprio diritto elementare all’abitazione e alle altre infrastrutture basilari. Lo aveva fatto, pur senza conoscerne il testo, in ossequio alla Costituzione italiana. Lo aveva fatto perché immaginava di poter offrire al piccolo riccioluto un posto nel mondo “civile” promessogli. Più volte mi sono domandato come possa essere cresciuto quel piccolo che ha avuto la colpa di essere nato ad Africo. Quale strada possa avere intrapreso. Se abbia trovato un posto dignitoso nel mondo di oggi e se possa essersi sentito, finalmente, cittadino per i suoi diritti riconosciuti. O se anch’egli abbia ingrossato le file del 45% di popolazione detenuta, nata nelle 4 regioni meridionali più popolose; magari poi sarà stato pure assolto, ma senza riparazione alcuna. Ai più la risposta potrà apparire facile e immediata. Una cosa però penso di immaginarla senza dubbio. Quel bimbo, divenuto uomo, con circa 65 anni di età, non avrà sentito di affiancare, festante, i partecipanti istituzionali all’inaugurazione della nuova caserma dei carabinieri. E francamente, nonostante polemiche e invettive di scandalo, quel bimbo, fattosi adulto, non penso possa essere biasimato o facilmente etichettato come ‘ndranghetista per non essere stato lì in piedi a salutare un presidio usuale della fredda legalità che già in passato lo aveva spinto, senza colpe, in mezzo alla strada se non addirittura verso una strada di devianza. Contrada vince in Cassazione, ma giornali ed ex toghe continuano a massacrarlo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 giugno 2023 La Cassazione conferma la riparazione per ingiusta detenzione nei confronti di Bruno Contrada così come stabilito dalla Corte di Appello sezione Prima di Palermo. Rigettando i ricorsi della Procura Generale di Palermo e del ministero dell’Economia e delle Finanze, mette così fine a otto anni di battaglia giudiziaria sostenuta dall’avvocato difensore dell’ex 007, Stefano Giordano del foro di Palermo. Il difensore di Bruno Contrada in un comunicato stampa ha espresso la sua soddisfazione per l’esito del processo. L’avvocato Giordano ha dichiarato che le due sentenze emesse dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo, che hanno stabilito l’illegittimità del procedimento e la condanna ingiusta del suo assistito, sono state finalmente eseguite. Contrada, ex capo della Squadra mobile di Palermo durante il periodo più brutale della mafia, è stato coinvolto in un processo che ha suscitato grande clamore mediatico e ha subito una condanna che darà adito a numerose congetture che vanno oltre il reato per il quale era stato perseguito e infine condannato tra condanne, assoluzioni in appello, rinvio della Cassazione e condanna definitiva. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha finalmente posto fine a quello che l’avvocato ha descritto come un “massacro mediatico e giudiziario vergognoso e putrido” e ha portato alla vittoria finale. Il difensore di Contrada ha sottolineato che il risultato ottenuto è “dovuto alla tenacia e alla determinazione del suo studio legale, nonché alla fede in Dio che lo ha sempre accompagnato nonostante i momenti difficili”. Ha anche espresso gratitudine nei confronti dell’avvocato Cristiana Donizetti, sua moglie e membro fondamentale del team difensivo, riconoscendo il prezioso contributo che ha reso possibile raggiungere questo risultato. Nonostante la gioia per la vittoria processuale, l’avvocato Giordano ha annunciato che da domani il suo studio dedicherà tutti i propri sforzi a portare avanti un’azione legale contro le autorità giudiziarie competenti. L’obiettivo sarà evidenziare tutte le violazioni della presunzione di innocenza commesse da alcuni membri dell’ordine giudiziario e da un certo giornalismo che sembra essere stato influenzato da ideologie politiche. Ricordiamo che la Corte d’Appello di Palermo, in seguito all’udienza tenutasi il 15 dicembre 2022, ha parzialmente accolto la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione presentata da Contrada, con il ministero dell’Economia e delle Finanze condannato a corrispondergli la somma di 285.342,2 euro. Contrada, ex dirigente di Polizia e funzionario del Sisde, era stato condannato nel 2007 a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Tuttavia, la sentenza di condanna è stata successivamente dichiarata ineseguibile e priva di effetti penali dalla Cassazione il 6 luglio 2017. Questa decisione ha segnato la fine di una complessa vicenda giudiziaria che ha coinvolto Contrada, specialmente dopo la sentenza Contrada c. Italia emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 14 aprile 2015. In tale sentenza, la Cedu ha rilevato una violazione dell’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in relazione alla chiarezza e prevedibilità del reato di concorso esterno nell’associazione mafiosa. Nella valutazione della richiesta di riparazione per ingiusta detenzione, la Corte d’appello di Palermo ha esaminato le numerose accuse di “assistenza” esterna a ‘ Cosa nostra’ rivolte a Contrada. L’obiettivo era determinare se, nonostante l’imprevedibilità di una condanna per concorso esterno nel reato associativo, potesse comunque essere prevedibile un’accusa per un diverso reato, come il favoreggiamento di cui all’articolo 378 del codice penale. In risposta a questa questione, i giudici hanno riconosciuto che la circostanza ostacolante per la concessione della riparazione ai sensi dell’articolo 314 del codice di procedura penale consisteva nella partecipazione di Contrada all’ingiusta detenzione con dolo o colpa grave. Di conseguenza, la Corte ha escluso la riparazione per il periodo di custodia cautelare subita da Contrada prima della scadenza del termine di prescrizione per i diversi episodi di favoreggiamento, calcolato in base alla legislazione vigente all’epoca. Tuttavia, i giudici hanno concluso in modo diverso per il periodo di pena detentiva scontato a seguito della condanna definitiva. Poiché il reato di favoreggiamento era estinto per prescrizione in quel momento, in base alla nuova legislazione introdotta nel 2005 dalla legge ex Cirielli, una condanna a tale titolo non sarebbe stata possibile in ogni caso. Pertanto, la richiesta di riparazione è stata accordata solo per l’ultimo periodo di pena detentiva scontato da Contrada. Ora definitiva con la decisione della Cassazione. Non entrando nel merito della discutibile vicenda processuale iniziata con il suo arresto eseguito alla vigilia di Natale del 1992, Bruno Contrada viene perennemente additato per essere la “mente raffinatissima” dietro addirittura il fallito attentato all’Addaura nei confronti di Giovanni Falcone. È stato persino indicato come persona presente sul luogo dell’attentato avvenuto nei confronti di Paolo Borsellino. Ora, con la recente sentenza sul depistaggio di Via D’Amelio, emerge chiaramente che aver indicato Contrada, all’epoca funzionario dei servizi segreti, fosse una forma di depistaggio. I giudici si chiedono perché in un arco temporale prossimo alla strage ci si sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione. A vantaggio di chi? Ecco cosa scrivono i giudici: “Come ben evidenziato da talune parti civili (in primis l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, ndr) Bruno Contrada era “il diversivo giusto”: un soggetto - nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l’organizzazione mafiosa da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l’esplosione”. Ma Contrada viene persino menzionato in alcune sentenze recenti, come l’abbreviato sull’omicidio di Nino Agostino, senza essere inquisito o processato. Lo aveva scoperto per caso l’avvocato Giordano, quando il suo assistito l’anno scorso era stato invitato a comparire, come testimone, al processo del delitto Agostino. A quel punto, autonomamente, l’avvocato Giordano è venuto in possesso della requisitoria della Procura Generale di Palermo e della sentenza del processo per la morte di Agostino celebrata con il rito abbreviato. Ed è in questa sentenza - a firma del Gup di Palermo Alfredo Montalto, l’allora giudice del processo trattativa di primo grado - che ritrova il nome di Bruno Contrada come persona coinvolta in fatti gravi. Addirittura dando per attendibili le dichiarazioni alquanto suggestive di Vito Galatolo, il quale testimonia che ebbe a vedere personalmente Contrada in occasione di alcune visite in vicolo Pipitone e “in alcune di tali occasioni contestualmente ad una persona, “appartenente ai servizi segreti”, soprannominata il “mostro” perché “aveva la guancia destra deturpata da un taglio, la pelle rugosa e arrossata.”“. Quest’ultimo sarebbe Giovanni Aiello, conosciuto con il soprannome “Faccia da mostro”. Anche lui compare in sentenza, senza essere processato. La differenza con Contrada, è che lui è morto da qualche anno. Non potrà più difendersi dalle gravi illazioni. Il depistaggio verso i servizi segreti è stato il tipico modus operandi della mafia corleonese. Ricordiamo cosa disse Totò Riina, intercettato al 41 bis nel 2013, precisamente il 24/09/2013: “La pensata gli è venuta… ai Graviano… di questi Servizi segreti… di questa gente intelligente”. Ma questa è un’altra storia che dovrà essere laicamente affrontata. Se non si analizzano scientificamente i fatti, il diritto alla verità diventa altro. Puro intrattenimento. Venezia. Si suicida in carcere: la moglie aveva avvertito l’Istituto. Ma nessuno l’ha ascoltata di Francesco Furlan La Repubblica, 8 giugno 2023 “Ho chiamato tre volte spiegando che mio marito era disperato e voleva uccidersi”, racconta la donna, Silvia Padoan. L’uomo aveva quasi scontato la pena quando era stato raggiunto da una nuova ordinanza. “Mi hanno sempre detto di stare tranquilla. Però poi mi hanno telefonato dicendomi che si era ammazzato”. Mi ha chiamata disperato, mi ha detto che non lo facevano più uscire, temeva di aver perso tutto: il lavoro, la famiglia”. Lei ha cercato di tranquillizzarlo: “Dai Bassem, vedrai che tutto si risolve”. E però, preoccupata, ha telefonato al carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia, per dire che il marito era disperato e voleva uccidersi, per chiedere che qualcuno andasse a controllare. “Alle 15.40 mi hanno telefonato per dirmi che mio marito, Bassem Degachi, si era suicidato”. Per questo ora la moglie, Silvia Padoan, chiede giustizia. “Pretendo di capire che cosa è successo. Mio marito stava uscendo dal tunnel dei brutti giri. E invece adesso è morto”. È una storia con molti aspetti ancora da chiarire quella di Bassem Degachi, tunisino residente a Marghera che il prossimo 11 agosto avrebbe compiuto 39 anni. Ieri mattina stava per uscire dalla sua sezione, come tutti i giorni, per andare al lavoro alla remiera di Sant’Alvise che collabora con la cooperativa sociale “il Cerchio” per il reinserimento lavorativo dei detenuti. Degachi, in carcere da due anni e mezzo per spaccio di droga e in regime di semilibertà da poco meno di un anno, stava aspettando l’udienza di settembre per l’ulteriore passaggio dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Poco prima di uscire dal carcere è stato bloccato perché destinatario, nell’ambito di una vasta operazione contro lo spaccio di droga in via Piave a Mestre, di un’ordinanza di custodia in carcere: arrestato per reati risalenti alla fine del 2018 e all’inizio del 2019. Degachi era accusato di aver comprato da alcuni albanesi alcune partite di eroina per poi rivenderla al dettaglio ai clienti di quel gran bazar della droga del Triveneto che è via Piave. Una vita turbolenta quella di Degachi, tra consumo e spaccio di droga. In carcere per reati commessi dal 2017 al 2020, tre distinti procedimenti poi unificati. Ma in questi due anni e mezzo il suo percorso carcerario sarebbe stato esemplare. Ieri, quando gli è stata notificata l’ordinanza, ha pensato che ogni suo sforzo era stato vano. E che sarebbe stato costretto e rimanere in carcere: addio lavoro al cantiere, addio permessi premio, addio messa alla prova. “Stava uscendo dal tunnel, al cantiere erano contentissimi di lui”, racconta ancora la moglie. “La prima volta mi ha chiamato poco dopo le 9 con il telefono in uso al carcere, era disperato. Poi mi ha chiamato altre volte. Io ho sempre cercato di tranquillizzarlo, di fargli capire che una soluzione si sarebbe trovata e che non avrebbe perso il lavoro”. L’ultima telefonata alla moglie, che era insieme alla cognata, è delle 12.21. Bassem Degachi ha pronunciato queste parole: “Scusami amore, dì alla mia famiglia che le voglio bene”. “Ho chiamato tre volte il carcere, il centralino, spiegando che mio marito era disperato e voleva uccidersi”, aggiunge Silvia Padoan “e mi hanno sempre detto di stare tranquilla. Però poi mi hanno chiamato che si era suicidato. Qualcuno è andato a vedere come stava, qualcuno ha preso in considerazione le mie parole? Non accuso nessuno ma voglio una risposta”. Per questo presenterà denuncia. Anche l’avvocato dell’uomo, Marco Borella, è sconvolto. “Sono estremamente colpito da quello che è successo. Era una persona che stava uscendo da quel giro, che si stava impegnando nel lavoro, anche dal cantiere dove prestava servizio sono arrivati solo apprezzamenti”. A Natale Degachi aveva avuto un permesso premio ed era tornato qualche giorno a casa dalla moglie. Tra pochi giorni ne avrebbe avuto un altro. Nel merito del suicidio, di cui si sta occupando la procura veneziana, la direzione del carcere non entra. “Questa vicenda ci tocca profondamente sul piano umano”, si limita a dire la direttrice Immacolata Mannarella, “siamo tutti molto scossi”. “Ieri lo Stato ha fallito. Nel carcere di Venezia è si è suicidato un detenuto cui hanno revocato il beneficio della semilibertà”, denunciano Gianpietro Pegoraro, coordinatore regionale Cgil della Polizia penitenziaria e Franca Vanto, della segreteria Fp Cgil, “sicuramente nessuno ne piangerà la perdita e nessuno farà qualcosa per limitare i suicidi in carcere e, come al solito ci saranno tante parole ma nulla si muoverà. Come Fp Cgil denunciamo lo scarso interesse e l’assenza dell’amministrazione penitenziaria che non fa nulla sia per i suicidi in carcere che per le aggressioni al proprio personale e non investe in progetti di recupero e di tutela del personale mantenendo carceri come quello di Santa Maria Maggiore, privo di spazi e in sovraffollamento con situazione acuita dalla mancanza di personale”. Venezia. Torna in carcere per lo spaccio di droga di 5 anni fa e si uccide. Aperta un’inchiesta di Roberta Brunetti e Davide Tamiello Il Gazzettino, 8 giugno 2023 Un suicidio in carcere su cui si dovrà fare chiarezza. La Procura ha aperto un’inchiesta sulla morte di Bessem Degachi, detenuto già in semilibertà, che si è tolto la vita martedì, nella sua cella di Santa Maria Maggiore, dopo aver ricevuto la notifica di un’ordinanza di custodia cautelare per fatti di droga vecchi ormai di cinque anni. A rendere la vicenda ancor più drammatica la denuncia dei familiari di Degachi che più volte, in quelle ore terribili, avevano telefonato in carcere per riferire della disperazione in cui era caduto il loro caro, dopo la notifica, e dei suoi propositi di farla finita. Tutto inutile. E sul caso si è mosso anche il garante per i detenuti di Venezia, l’avvocato Marco Foffano, che con Bassem aveva un rapporto particolare. “Il caso volle che sette mesi fa fossi io ad accompagnarlo dal carcere al lavoro della semilibertà - racconta - l’avevo incontrato dieci giorni fa: era sorridente, contento. Un animo sereno, sollevato, proiettato a una nuova vita. Quella notifica per lui ha avuto l’effetto di una bomba”. Ma in un caso come il suo c’erano veramente le esigenze cautelari? E quel suo percorso di redenzione non poteva essere un fattore? “Purtroppo la domanda sembra retorica: a mio avviso doveva esserlo di certo. Ma gli organi della magistratura si parlano? Temo di no, agiscono seguendo solo il proprio canale. Evidentemente chi ha scritto l’ordinanza non sapeva della condizione di Bassem”. La legge, però, non ammette ignoranza. “Il giorno stesso il magistrato di Sorveglianza è andato in carcere per portare un mazzo di fiori. Per me un gesto che dice tutto, parla da uomo alla famiglia, da magistrato alla magistratura, da cittadino alla società. Sembra dire: “Cosa abbiamo fatto”. Parliamo dei tempi? Incredibile che dopo 5 anni si sia ancora in fase istruttoria, assurdo notificare oggi delle ordinanze per fatti avvenuti nel 2018”. Anche il carcere dovrà prendersi le sue responsabilità: se confermata la versione della famiglia, Bassem si sarebbe tolto la vita poco dopo la segnalazione della moglie all’istituto. “Sicuramente qualcosa non ha funzionato e dovranno essere fatti degli accertamenti”. Materiale per la Procura, che si sta già muovendo. Sul caso indagherà il pubblico ministero Lucia D’Alessandro, che già martedì si era recata in carcere per raccogliere i primi elementi utili. Ieri ha disposto l’autopsia sul corpo dell’uomo che si terrà lunedì. Esame importante per stabilire l’ora della morte. Elemento su cui insistono i familiari, convinti che il loro caro potesse essere salvato. Ma sono tanti gli interrogativi che pone questa vicenda. A cominciare appunto dai tempi di un’ordinanza arrivata a tanti anni di distanza dai fatti contestati. Misura richiesta dalla Procura nel 2020, dopo un’indagine dei carabinieri su episodi di spaccio del 2018. Lo scenario è quello di via Piave, tutt’ora piazza incontrastata del mercato di droga non solo locale. Insomma un fronte caldissimo, ormai da anni. Ma l’ufficio gip di Venezia, che deve esaminare la richiesta e disporre le eventuali misuri, è in drammatica carenza di organico. Allora, come oggi. E così, per ben due anni, la richiesta resta in congelatore. É il primo passaggio che dovrà essere chiarito. Ma ancora più delicato è quello successivo, quando nell’autunno scorso la richiesta viene finalmente presa in mano da un gip che, per prima cosa, chiede se è ancora di attualità. La Procura, sentiti i carabinieri, conferma l’attualità del pericolo, con una nota datata 18 ottobre 2023. Per una tragica coincidenza, lo stesso giorno in cui altri magistrati, quelli di sorveglianza, confermano a Degachi, stabilmente in carcere dal 2020, la semilibertà, a riprova del suo percorso di recupero. Quasi due percorsi paralleli, tra organi diversi della magistratura, che evidentemente non si sono parlati. Anche di questo si riparlerà. Così si arriva all’ordinanza eseguita martedì, con le 27 misure cautelari, di cui 11 in carcere. Tra gli 11, c’è anche Bessem Degachi. Un colpo insopportabile per questo 38enne di origini tunisine, da anni residente a Mestre, che credeva di aver lasciato alle spalle il passato da spacciatore: dall’anno scorso lavorava in un cantiere veneziano gestito da una cooperativa, dove era molto apprezzato, aveva in prospettiva un permesso premio per il compleanno della moglie e a settembre un’altra udienza davanti alla sorveglianza per l’affidamento in prova, di fatto la possibilità di lasciare Santa Maria Maggiore. Invece, quell’ordinanza, lo fa crollare. Telefona alla moglie per dirle che “tutto è finito”, che ha già “preparato la corda”. Arriviamo così alle ore concitate di martedì, su cui soprattutto dovrà far luce l’inchiesta. La moglie chiama il carcere e per tre volte la tranquillizzano. L’ultima telefonata è delle 14.41. Il certificato di morte di Bessem Degachi è delle 14.42. Venezia. Suicida in cella: “Vogliamo giustizia” di Antonella Gasparini Corriere del Veneto, 8 giugno 2023 La rabbia della moglie: ho dato l’allarme più volte. La procura apre un’inchiesta. Non si dà pace la moglie di Bassem Degachi, che dopo l’arresto, martedì, si è suicidato mentre era solo in cella. “Poteva essere salvato. Vogliamo giustizia”, dice. Degachi era detenuto in regime di semilibertà con la prospettiva di un affidamento ai servizi sociali a settembre. “È stato commesso un errore e non vogliamo che succeda a nessun altro”, aggiunge. La procura ha aperto un’inchiesta per fare luce su quanto avvenuto in carcere. “Poteva essere salvato. Vogliamo giustizia. Non chiediamo soldi. È stato pagato uno sbaglio con la vita di un uomo, e non deve succedere mai più a nessuno di non tornare più a casa per questo”. Silvia Padoan ed Elisa Poletto sono la moglie e la cognata di Bassem Degachi, il 39enne pusher tunisino già detenuto e in regime di semilibertà quando martedì gli è stata notificata una nuova ordinanza cautelare nella maxi-inchiesta dei carabinieri di Mestre sullo spaccio nella zona della stazione di Mestre. Degachi non ha retto allo choc e si è impiccato in cella dopo qualche ora. La procura di Venezia ha aperto un’inchiesta e ha disposto l’autopsia. Silvia, che cosa è successo? “Come ogni mattina verso le 8 doveva uscire dal carcere e andare a lavorare al cantiere di Sant’Alvise. Invece martedì l’hanno bloccato. Mi ha telefonato verso le 9.45, era agitato e preoccupato, ma non disperato. Un quarto d’ora dopo mi ha richiamata in lacrime. Era turbato. Mi ha detto: “Mi faccio la corda. Scusami amore se ti abbandono. Saluta la mia famiglia e di’ che voglio a tutti un gran bene”. Ho chiamato subito la portineria del carcere. Ho chiesto che lo andassero a vedere, perché aveva minacciato di uccidersi”. E dopo? “Mi hanno risposto di stare tranquilla. Poi mio marito mi ha richiamata altre volte. Era nel panico. Non l’ho mai sentito piangere in quel modo in dieci anni che siamo assieme. Cercavo di tranquillizzarlo, gli ho passato mia cognata Elisa, ma non è servito a nulla. Quindi ho richiamato il carcere, tre, quattro volte. Mi rispondeva ogni volta una persona diversa e continuavano a dirmi: sono procedure interne, stia tranquilla”. Quando ha sentito Bassem per l’ultima volta? “Alle 12.21. Alle 14.30 ho richiamato la portineria e a quel punto credo che lo abbiano trovato morto. Alle 15 infatti la matricola con una freddezza impressionante mi ha fatto sapere che Bassem non c’era più. Io ed Elisa siamo corse in carcere”. Glielo hanno fatto vedere? “Non hanno permesso neanche che ci avvicinassimo alla cella. Ci hanno mostrato un sacco nero da lontano, dicendo che lì c’era mio marito. Non è stato possibile vedere nemmeno il viso per qualche secondo. Allora siamo corse all’obitorio all’ospedale dell’Angelo e lì un operatore ci ha chiuso la porta in faccia. Sappiamo chi è e lo denunceremo alla direzione sanitaria. Il personale delle onoranze funebri Lucarda mi ha restituito la fede nuziale”. Ora comincia una dura battaglia... “Io e la mia famiglia non molleremo. Vogliamo giustizia. Bassem era felice, sereno. Da ottobre la sua vita era cambiata. Era entusiasta del suo nuovo lavoro. Diceva, “finalmente ho imparato un mestiere, faremo una vita regolare e non avrò più a che fare con quella schifezza”. Ora noi diciamo, d’accordo, chi sbaglia paga. Ma non con la vita. Bassem stava cambiando, sognava di farsi assumere lì alla remiera, e il suo titolare lo apprezzava facendogli capire che lo avrebbe tenuto. Voleva anzi insegnargli a manovrare il muletto per le barche”. Come vi siete conosciuti? “Dieci anni fa, poi otto anni fa ci siamo sposati. Mio marito era arrivato da regolare. Poi ha frequentato cattive compagnie. Era un brutto momento, non riusciva a trovare un lavoro. Io credo che se si fosse sistemato con un impiego come quello che aveva in carcere, tutto questo non sarebbe successo. Voglio ricordarlo con il viso sereno che aveva domenica, quando l’ho visto l’ultima volta e siamo andati al ristorante assieme”. Modena. Rivolta in carcere, salgono a quattordici i poliziotti indagati di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 8 giugno 2023 Si allarga l’inchiesta della Procura sui fatti dell’8 marzo 2020 al Sant’Anna. Gli agenti devono rispondere anche dei reati di tortura e lesioni. Non sono cinque ma quattordici gli agenti della Polizia penitenziaria indagati per il reato di tortura nell’ambito della maxi rivolta all’interno del carcere Sant’Anna, avvenuta l’8 marzo del 2020. A seguito della rivolta persero la vita nove detenuti. La procura di Modena aveva prorogato fino a maggio le indagini appunto, dal momento che erano in corso ulteriori e delicati accertamenti relativamente alle presunte torture. A seguito degli stessi sarebbero stati quindi iscritti nel registro degli indagati altri nove agenti della polizia penitenziaria, oltre ai cinque ‘iniziali’, che rispondevano di tortura e lesioni e che erano già stati sentiti direttamente dai magistrati titolari delle indagini nei mesi scorsi. Gli stessi si erano dichiarati assolutamente estranei ai fatti. Un secondo ‘filone’ di indagine, svolto dalla squadra mobile ha portato quindi ad ‘allargare’ l’accusa di tortura ad altri nove agenti nei confronti di due presunte vittime, entrambi marocchini di 23 e 24 anni. La richiesta di proroga era arrivata lo scorso novembre e appunto il termine era fissato a maggio ma la notifica agli indagati sarebbe avvenuta proprio in questi giorni. A denunciare l’operato degli agenti erano stati gli stessi detenuti presenti il giorno della rivolta, che avevano spiegato di essere stati vittime di violenze e pestaggi. Ai nuovi agenti indagati sarebbero stati contestati comportamenti violenti e ‘atti di tortura’ nella fase successiva allo sgombero. A quanto pare, però, gli stessi devono ancora essere sottoposti ad interrogatorio. Probabilmente a portare all’iscrizione dei nuovi nove indagati sul fascicolo è stata anche la testimonianza di un agente della polizia penitenziaria. L’agente denunciò che le violenze erano avvenute nei confronti di carcerati resi nel frattempo inoffensivi. ‘Vedevo i detenuti entrare in un modo e poi li vedevo uscire sanguinanti’ - aveva dichiarato all’epoca. In quelle drammatiche ore, lo ricordiamo, quattro detenuti morirono durante la rivolta e altri quattro nel corso dei successivi trasferimenti in altri penitenziari ma per quei decessi il fascicolo è stato archiviato da tempo. Le morti, infatti, secondo la procura erano legate ad overdose di metadone: i carcerati avevano saccheggiato la farmacia del penitenziario abusando delle sostanze. Le denunce dei familiari di due delle vittime erano contestualmente approdate sul tavolo della magistratura tunisina. Gli avvocati delle vittime, Simona Filippi e Luca Sebastiani, si erano rivolti anche alla Corte internazionale dei diritti dell’uomo. In questi mesi, dunque, le indagini sono state estese ad altri agenti ed ora si avviano a conclusione. Ricordiamo che sono invece settanta i detenuti indagati per aver preso parte e organizzato la ‘sanguinaria’ rivolta. Torino. “Abitare il carcere femminile” cr.piemonte.it, 8 giugno 2023 Le condizioni della vita carceraria femminile, con particolare riguardo alle problematiche dell’abitare, dei bisogni materiali, psicologici e relazionali delle detenute, sono state al centro del seminario “Abitare il carcere femminile. Spazi, sicurezza, diritti”, che si è svolto mercoledì 7 giugno alle 17 presso lo spazio Combo (corso Regina Margherita 128) di Torino. L’incontro, organizzato da Aidia, Associazione italiana donne ingegneri e architetti sezione di Torino, ha ricevuto il sostegno della Consulta femminile regionale. L’obiettivo è stato quello di conoscere la realtà in atto, le esperienze positive e, di contralto, di mettere in evidenza quali sono le criticità della carcerazione in relazione agli spazi riservati alle donne e ai loro figli. “In un sistema declinato al maschile, manca una considerazione specifica dei bisogni femminili e delle potenzialità che la detenzione femminile può avere nel plasmare una nuova idea di carcere”, ha affermato Gianluca Gavazza, componente dell’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale delegato alla Consulta femminile -. Comprendere le donne in carcere significa accedere fisicamente ai loro spazi anche per riprogettarli a misura di donna. Da questo si può e si deve ripartire per creare un modello di detenzione nuovo e più aperto, con spazi carcerari che pongono attenzione alle esigenze femminili, e non solo, con pene che acquistano significato, con la creazione di una rete territoriale capillare e continua. Il seminario di Aidia ci restituisce consapevolezza e riflessione su questo tema che non può e non deve essere più accantonato”. “Le donne sono poco più del 4% della popolazione carceraria italiana, una quota da sempre molto bassa. Nei 17 istituti minorili sono solo il 2,6% del totale. Si tratta, quindi, di una popolazione ampiamente minoritaria inserita in un sistema pensato al maschile, con la conseguenza che appare difficile che essa possa fruire delle medesime attività che sono previste in carcere per il recupero dei detenuti maschi”, ha commentato Ornella Toselli, presidente della Consulta femminile regionale. “Bisogna coniugare la giusta esigenza di far scontare la pena, trattandosi di persone che hanno commesso reati, con la considerazione, da un lato, che anche per le donne in carcere deve esserci la medesima attenzione che è posta per il recupero dei detenuti maschi e, dall’altro, con la necessità che i figli non subiscano, nel limite del possibile, ripercussioni derivanti dal crescere in un ambiente costretto come quello del carcere”. Le donne detenute in Italia sono 2.504 (dati al 31 maggio 2023), pari al 4,3% delle 57.230 persone ristrette, di cui 20 mamme con 21 bambini al seguito. In Piemonte sono 153 le detenute su un totale di 3.981 presenti (pari al 3,8% inferiore alla media nazionale): 120 a Torino e 33 a Vercelli (le due Case circondariali che in Piemonte hanno attive le sezioni femminili). Al 30 giugno 2022 il numero di detenute presenti nell’istituto penitenziario di Torino “Lorusso-Cutugno” era di 117, mentre a Vercelli 43 per un totale di 160; al 31 dicembre 2022 erano 115 e a Vercelli 32 per un totale di 147 su 4mila detenuti complessivi, pari al 3,6%. Nell’Istituto a custodia attenuata per mamme con bimbi al seguito (Icam), collocato presso la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, al 31 dicembre 2021 erano presenti 2 madri straniere e 2 figli al seguito. Al 27 luglio 2022 le mamme erano 4 con 4 figli, ma al 31 maggio 2023 c’era solo una mamma straniera con un figlio al seguito. Le Case famiglia, dove i bimbi possono rimanere con la madre fino agli 11 anni, sono soltanto due in tutta Italia (Milano e Roma) e al 30 giugno 2022 erano 25 bimbi. La Regione Piemonte ha attivato un progetto finanziato con fondi nazionali per garantire percorsi alternativi alle mamme con figli al seguito: una lista di strutture convenzionate che si rendono disponibili ad accogliere le mamme con bambini in contesti protetti, ma non penitenziari. “Proprio il numero esiguo delle donne storicamente presenti nell’ambito dell’esecuzione penale in carcere dovrebbe spingere le istituzioni, statali e regionali, a fare valutazioni diverse e innovative”, ha dichiarato Bruno Mellano, garante regionale delle persone detenute, intervenuto fra i relatori. “Per le 2.504 detenute, come ancor di più per le 20 mamme con 21 bambini al seguito, o ancora per i 385 minorenni o giovani adulti negli istituti penali minorili il carcere come pena potrebbe davvero essere superato ed archiviato con altre forme di restrizione della libertà e con altri percorsi maggiormente efficaci ed efficienti nell’assicurare la “rieducazione” prevista dalla nostra Costituzione repubblicana e garantire la vera sicurezza sociale. Lo scandalo donne ristrette può aiutarci a tramutare in sistema le buone prassi esistenti anche in Italia, partendo dalla considerazione che le donne ristrette in ambiti sempre inadeguati, strutturalmente e funzionalmente, molto spesso sono mamme, a volte nonne o bisnonne, sempre figlie”. Il garante regionale delle persone detenute ha colto l’occasione del convegno per proporre l’effettuazione di un monitoraggio degli spazi dedicati in Piemonte all’esecuzione penale delle donne anche per comprendere il destino che hanno avuto le carceri un tempo destinate alle donne e poi dismesse. Milano. Teatro & carcere, a Opera un binomio ricco di frutti (sociali e artistici) di Fabio Postiglione Corriere della Sera, 8 giugno 2023 Rinascere. O meglio ancora, partorire. Sognare. Anzi no: costruire. Il teatro che diventa vita e la vita che ribolle grazie alla volontà, l’impegno, la condivisione di un percorso unico, essenzialmente eccezionale. E poi la fatica, la visione comune e il “sistema”. Il palco sì, l’arte, ma anche i mestieri: costumisti, sartoria, luci, audio. Ovvero tutti i mestieri che ruotano attorno alla messinscena. Opera Liquida è tutto questo. Ma, incredibilmente, anche molto di più. Dà concretezza alle parole di chi il più delle volte ha poca voce. E libertà per chi è recluso tra le mura di un carcere. Un’associazione che, grazie al teatro, favorisce l’inclusione sociale, promuove la legalità e previene i comportamenti a rischio nei giovani. Lavora nella casa di reclusione di Milano Opera da ormai da 15 anni. Palcoscenico, luogo di riflessione - Dal 2016 ha ideato un progetto dal nome emblematico: “La nostra bolla” insieme all’associazione Bambinisenzasbarre, con laboratori a sostegno della genitorialità reclusa, allargando il progetto anche nelle carceri di San Vittore e Bollate. Dal 2014 porta all’interno delle scuole secondarie il progetto: “Stai all’occhio!” per la prevenzione di comportamenti a rischio nei giovani, ideato dagli ex detenuti. Utilizza il palcoscenico come luogo per riflettere e interrogarsi, dentro e fuori il carcere, su temi sociali di attualità portando in scena opere originali che nascono dai testi degli attori detenuti. Attualmente, con sette attori detenuti, quattro ex detenuti e un’attrice. Un teatro di ricerca sotto la regia di Ivana Trettel, direttrice artistica e organizzativa ma soprattutto drammaturga, regista e motore spirituale (e pratico) dell’associazione, da lei fondata. Otto spettacoli già prodotti. Un nuovo progetto in cantiere e tante, tantissime idee. L’ultima opera “Noi guerra! Le meraviglie del nulla!”, uno straordinario apporto di linguaggi artistici differenti e complementari uniti nell’indagine sull’assurdità dell’odio, nasce dall’esigenza di confrontarsi con il conflitto. “Le meraviglie del nulla” sono i travestimenti, il belletto preciso e stantio di cui rivestiamo la realtà, per sopportarla, rileggerla e giustificarla. L’impianto drammaturgico alterna la Redazione dell’odio, dove si distribuisce l’odio alle categorie più paradossali, a una raccolta di meccaniche fisiche ed estetiche, per poi aprire la lente d’ingrandimento emotiva e cercare di comprendere ciò che accade all’essere umano odiato o in lotta contro sé stesso. Nuovi lavori e docenti di livello - “Per ridisegnare lo spazio scenico - racconta Trettel — ci aiutano le opere di Giovanni Anceschi, artista cinetico. A partire dalle sue “Possibilità Liquide” del 1959, Anceschi ha progettato con noi e ci ha donato la possibilità di realizzare tre opere di grandi dimensioni, nucleo centrale della drammaturgia scenica: tre sacche contenenti le celebri colate rosse, vitali e mortifere. La prima libera, in interazione con i corpi degli attori, le altre due, incorniciate e incastonate su strutture girevoli, a ridisegnare i mondi che andiamo a narrare e le loro prospettive”. A Bologna, al DamSLab, un successo incredibile, inaspettato (forse) ma tanto ricercato. Il laboratorio teatrale e drammaturgico al carcere di Opera, un miracolo possibile anche grazie a tutto il personale e al direttore Silvio Di Gregorio, si svolge regolarmente due giorni a settimana ed è rivolto ai detenuti comuni. Seguendo il processo di formazione dell’attore, i partecipanti entrano in uno spazio neutro, una bolla magica in cui tutto è possibile”. I docenti sono tutti di alto livello. “Nel laboratorio teatrale sono affiancata da Eleonora Cicconi, assistente e attrice, mentre Mario Barzaghi di Teatro dell’Albero interviene con la sua perizia sulle costruzioni coreografiche. I costumi sono ideati da Salvatore Vignola che collabora con Opera Liquida da diversi anni ed è affiancato da Tommaso Massone, modellista, che realizza i costumi, nella costumeria del carcere, con i detenuti costumisti. Il laboratorio di scenografia è condotto da Marina Conti, quello di formazione per tecnici audio e luci da Silvia Laureti. Nicoletta Prevost si occupa di produzione, organizzazione, rapporti con le istituzioni e ufficio stampa. Vittorio Mantovani, il nostro responsabile amministrativo. E ora la prossima sfida. Il 9 novembre debutterà il nuovo spettacolo che si chiamerà “Extravagare. Rituale di reincanto”. Vuole approfondire la società della Dea Madre, società incredibile vissuta per 20mila anni, occupandosi di cultura e di bellezza pacifica”, racconta Trettel. “Una società matrifocale, con una perfetta parità dei generi, che però non ci viene narrata in maniera sistematica”. Airola (Bn). Teatro, l’Iliade raccontata dai ragazzi dell’Istituto penale per i minorenni di Alley Oop Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2023 Fra gesta di eroi e battagli di dei sul palco del Teatro Trianon di Napoli andrà in scena un’Iliade rivisitata che avrà come protagonista una compagnia teatrale mista composta da studentesse dell’I.I.S. “A. M. De’ Liguori”?di Sant’ Agata De’ Goti e ragazzi in regime ristretto dell’Istituto Penale per i Minorenni di Airola. Un’iniziativa per dare voce ai giovani, anche a quelli in momentanea difficoltà. Crisi Come Opportunità, l’associazione impegnata dal 2006 in progetti di inclusione sociale attraverso l’utilizzo dell’arte in tutte le sue forme all’interno degli Istituti Penali per Minorenni, presenta l’opera inedita “Disadirare: un’altra Iliade” scritta e diretta da Adriana Follieri, con musiche originali scritte dal rapper e formatore Luca Caiazzo, in arte Lucariello e costumi donati dal Teatro San Carlo di Napoli. L’opera teatrale, realizzata in collaborazione con i giovani detenuti del carcere minorile di Airola, sarà presentata in anteprima al Teatro Trianon di Napoli, nell’ambito del Campania Teatro Festival, sezione progetti speciali, il 16 giugno 2023 alle 20:00. Unire mondi diversi - “DISADIRARE: un’altra Iliade” rappresenta un’esperienza trasversale e unica, capace di unire arte, creatività e trasformazione. Attraverso un intenso laboratorio teatrale all’interno dell’Istituto Penale per i Minorenni di Airola (BN), i giovani attori detenuti hanno lavorato insieme alle studentesse dell’I.I.S. “A. M. De’ Liguori”?di Sant’ Agata De’ Goti (BN), coinvolte all’interno dei percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento (PCTO). Uno straordinario lavoro di gruppo, basato sull’alleanza tra operatori, educatori, ragazzi e ragazze dentro e fuori il carcere, per mettere in scena uno spettacolo in grado di superare le barriere facendosi potente portavoce di un messaggio di speranza e trasformazione. Un’opera che, ispirandosi all’epica greca dell’Iliade, mescola linguaggi poetici, musica e scenotecnica dinamica e dove i personaggi si muovono in un mondo che cambia forma, trasformando la guerra in un’opportunità per la pace conquistata attraverso la forza delle relazioni umane. “Il teatro dell’IPM di Airola nei miei occhi luminosi ambisce a diventare lo spazio materiale e immateriale in cui dar vita alla ricerca artistica condivisa con i giovani attori detenuti - commenta Adriana Follieri - per la nascita di spettacoli che sappiano essere una pratica di libertà, un’esperienza di democrazia autoriale, occasione di ricerca, trasformazione e dunque creazione. Non credo basti recitare, credo sia indispensabile per questi attori leggere e scrivere, decifrare i codici teatrali, metterli insieme in composizioni virtuose, perché avere parole vuol dire avere voce”. Dare voce a chi non ce l’ha - L’intero progetto ha avuto fin da subito questo obiettivo: “dare voce a chi non ne ha” attraverso il teatro, creando una compagnia teatrale mista con le studentesse e i ragazzi in regime ristretto, scrivendo e mettendo in scena uno spettacolo destinato a debuttare in uno dei più prestigiosi festival di teatro in Italia. Sarà il Campania Teatro Festival il primo palcoscenico di “Disadirare: un’altra Iliade” dove lo spettacolo ha un posto d’onore all’interno della programmazione. Questa iniziativa, così come tutti i progetti di CCO - Crisi Come Opportunità, sono anche occasione di riflessione sull’impegno dei giovani detenuti nel coltivare la propria creatività ed offrono al pubblico un’esperienza teatrale unica nel suo genere. Partecipare a questo spettacolo non significherà essere solo spettatori, ma testimoni e attori di un percorso di crescita e trasformazione. Crisi Come Opportunità - Il progetto nazionale, Presidio Culturale Permanente negli Istituti Penali per Minorenni è coordinato da CCO - Crisi Come Opportunità grazie al sostegno di Fondazione San Zeno e Fondazione Alta Mane Italia. Crisi Come Opportunità (che trovate anche su Youtube) si occupa di laboratori di formazione e sensibilizzazione di giovani e comunità locali attraverso l’uso dell’arte, in tutte le sue forme: teatro, rap, sceneggiatura, fotografia e cinema. Da oltre dieci anni realizza documentari, pubblicazioni, video testimonianze, spettacoli teatrali, campagne di sensibilizzazione e progetti formativi lavorando nelle periferie, nelle carceri minorili e nelle scuole del nostro Paese, su tematiche legate alla cittadinanza attiva, questione di genere e lotta alle mafie. La metodologia di intervento privilegiata è quella della co-progettazione e della creazione di reti a livello locale e nazionale. Dal 2017 ha sede presso la Casa internazionale delle donne di Roma, di cui è socia. Bergamo. Capitale della Cultura, anche in carcere: eventi e iniziative con protagonisti i detenuti Adnkronos, 8 giugno 2023 La cultura come strumento di prevenzione e socializzazione che influenza il benessere delle persone attraverso processi di inclusione e accoglienza: è questo uno degli obiettivi del progetto ‘La cultura come cura’ che Bergamo Brescia Capitale Italiana della Cultura 2023 si propone di raggiungere. Un obiettivo ben evidente nelle numerose iniziative culturali, artistiche ed espressive che in questo anno si stanno realizzando anche dentro alle mura della casa circondariale di Bergamo, e che coinvolgono direttamente i detenuti e le detenute e si sono dimostrate un’importante occasione per evidenziare la stretta connessione fra il carcere e il resto della città. La casa circondariale rappresenta, infatti, un vero e proprio ‘quartiere delle culture’, anche se spesso dimenticato: luogo di convivenza fra culture, esperienze, lingue, usanze e abitudini diverse; luogo dove poter fruire e produrre cultura: “Il carcere rappresenta un luogo vivo, ricco di umanità e potenzialità creative - spiega l’assessore alla Cultura del Comune di Bergamo, Nadia Ghisalberti. Rappresenta una comunità chiusa dentro i suoi confini di sicurezza, ma fortemente inclusa dentro la comunità più grande che ne è al di fuori, ma con cui il legame e la relazione sono quotidiani e vitali per entrambi. E questo scambio non solo è reso possibile, ma direi nutrito costantemente grazie alle molte istituzioni e associazioni attive sul territorio nell’ambito culturale che lavorano realizzando percorsi progettuali centrati sull’obiettivo di rendere ogni esperienza una dimensione pienamente ricreativa, rigenerativa, riabilitativa”. Alcuni di questi percorsi partecipano al palinsesto di Bergamo Brescia 2023 arricchendo di senso sia la dimensione tematica della cultura come cura, ma anche quello dei tesori nascosti, comprendendo tra questi le tante iniziative artistiche, come scrittura, lettura, teatro, ceramica, cucina e molto ancora, di cui i detenuti sono protagonisti spesso sconosciuti ai più: “In quest’anno così speciale - aggiunge Ghisalberti - tutto questo merita di essere portato alla luce, sulla ribalta, condiviso e goduto”. L’importanza di queste esperienze culturali nel percorso dei detenuti e delle detenute è ribadita dalla direttrice della casa circondariale, Teresa Mazzotta: “Bergamo Brescia Capitale della Cultura investe positivamente anche gli istituti penitenziari delle due città che hanno costruito un gemellaggio in molteplici e diversificate iniziative. La cultura contribuisce alla valorizzazione del percorso di maturazione dell’individuo ristretto facilitandone la responsabilizzazione e il processo di risocializzazione”. In questo, “un ruolo fondamentale gioca la comunità esterna. Le iniziative oggi presentate sono un reale ponte di collegamento del carcere con la città, oltre che un costante stimolo al lavoro di rete tra operatori penitenziari e contesto esterno. La cultura come valore per la persona privata della libertà personale va intesa nelle sue svariate forme di espressione: educazione, scolastica e formativa, artistica, lavorativa, sportiva. La detenzione non deve essere solo punizione ma, per contribuire nel concreto a realizzare difesa sociale, deve spingere l’individuo ad abbandonare il percorso di devianza. È pertanto fondamentale portare la cultura all’interno delle strutture penitenziarie come scambio virtuoso tra interno ed esterno. Solo attraverso una positiva contaminazione si può ottenere l’inclusione sociale del reo”. Quindici le iniziative finora già realizzate grazie al coinvolgimento di enti e volontari che affiancano i detenuti e le detenute nei percorsi culturali: attività nelle due biblioteche (sezione maschile e sezione femminile), Circolo dei narratori e delle narratrici, laboratorio teatrale, fruizione di spettacoli della stagione di prosa del Teatro Donizetti, progetti d’arte con Gamec, corsi musicali, concorso letterario ‘Pensieri ed Emozioni’ con relativa pubblicazione, laboratorio di scrittura autobiografica e redazione della rivista Spazi, laboratorio di ceramica, progetto ‘Pappamondo’ dedicato alla cultura del cibo, dialoghi sulla Costituzione, attività sportive, un percorso alla scoperta della Diga del Gleno. A queste attività si aggiunge, inoltre, quella produttiva del forno che partecipa alla Capitale attraverso la realizzazione del dolce Mèasa. Più di 150 il numero dei detenuti e delle detenute coinvolte per un totale di 919 ore dedicate, che hanno portato la propria testimonianza diretta all’interno del dossier che racconta i progetti in corso. Forlì. “La Partita con mamma e papà” forlitoday.it, 8 giugno 2023 “La Partita con mamma e papà” è creata e organizzata dall’Associazione Bambini senza sbarre Ets in collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Dal primo giugno, negli istituti penitenziari italiani, si disputa la settimana edizione de “La Partita con mamma e papà”, l’atteso incontro tra i genitori detenuti e i loro figli, all’interno della annuale campagna “Carceri aperte”, che fa accedere negli istituti le famiglie a partecipare a un evento atteso e “relazionale”. La possibilità di giocare una partita con la mamma detenuta o con il papà e di condividere questo momento ludico, normale per tutti gli altri bambini, risulta eccezionale per i figli dei genitori detenuti e le loro famiglie e rimane a lungo nella loro memoria. A Forlì si disputerà sabato alla casa circondariale di via Della Rocca, 4. “La Partita con mamma e papà” è creata e organizzata dall’Associazione Bambini senza sbarre Ets in collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. “La Partita con mamma papà” e “Carceri aperte” si inscrivono, come ogni giugno, nella campagna europea “Non un mio crimine ma una mia condanna” del network europeo Cope (Children Of Prisoners Europe). La Campagna vuole sensibilizzare sul tema dell’inclusione sociale e delle pari opportunità per tutti i bambini e ha l’obiettivo di portare in primo piano il tema dei pregiudizi di cui spesso sono vittime i 100 mila bambini in Italia (2,2 milioni in Europa) che hanno la mamma o il papà in carcere e per questo sono emarginati. Sono bambini che vivono in silenzio il loro segreto sul genitore recluso nel tentativo di non essere stigmatizzati ed esclusi. Obiettivo principale di Bambinisenzasbarre, perseguito da vent’anni, è il “mantenimento del legame tra bambino e genitore detenuto”, diritto sancito dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Per raggiungere questo obiettivo Bambinisenzasbarre ha creato, negli anni, strumenti specifici, dallo “Spazio Giallo” in carcere, al colloquio esclusivo, dai gruppi di parola al laboratorio artistico, all’azione molto coinvolgente dell’incontro tutto particolare “giocato dentro come se fosse fuori” (dal carcere). “La partita con mamma e papà” diventa un’azione che incide anche sul carcere che ritrova sé stesso a mobilitarsi in ogni suo settore, anno dopo anno, e ad introiettare il fatto che i bambini possono essere, con la sola loro periodica presenza ai colloqui, dei veri fattori di cambiamento dell’istituzione carcere. L’azione è partita otto anni fa con l’adesione di 12 istituti, 500 bambini e 250 papà detenuti e si è tenuta tutti gli anni salvo la sospensione di due anni a causa della pandemia. Nel 2022 è stato raggiunto il numero di 82 incontri giocati in altrettante carceri e città, da Belluno a Palermo, da Roma a Cagliari, da Napoli a Bari, coinvolgendo migliaia di bambini e loro genitori detenuti, oltre agli agenti di polizia penitenziaria, gli educatori, soggetti del terzo settore operanti nelle carceri, la cittadinanza, i media locali e nazionali. “Prigione 77”, dall’orrore alla lotta per la libertà di Mazzino Montinari Il Manifesto, 8 giugno 2023 La “transizione” dopo la morte di Francisco Franco, la detenzione, le conquiste. Alberto Rodríguez si immerge nella storia spagnola. Barcellona, febbraio 1976, sono passati tre mesi dalla morte di Francisco Franco. Manuel è in custodia cautelare. Quando potrà sedersi davanti a un giudice per reclamare la propria innocenza? L’avvocato d’ufficio è sbrigativo, ha troppi casi da seguire e, comunque, non saprebbe cosa rispondere. La legge percorre strade tortuose e lunghe, inutile tentare una previsione. La dittatura volge al termine, siamo nel mezzo della “transizione” ma, nel carcere, la democrazia è ben lontana dall’affermarsi. Dopo il periodo di custodia potrebbe arrivare un verdetto di colpevolezza con una condanna a sei anni di reclusione. Insomma, per il giovane contabile si mette davvero male. Gli viene attribuita l’appropriazione indebita di quasi un milione di pesetas anche se lui afferma di averne sottratte solo cinquantamila. Il mondo raffigurato in Prigione 77, il nuovo film di Alberto Rodríguez, appare inizialmente come un buco nero. Manuel, tra le quattro mura di una cella senza letto e acqua, è solo e non ha alcuna possibilità di salvezza, di trovare un alleato col quale affrontare il nemico. È SOLO L’INIZIO, però. Il detenuto incontra i suoi simili, i compagni di un nuovo presente. Prigionieri politici, piccoli criminali, uomini condannati per i loro orientamenti sessuali. Vittime di un orrendo sistema giudiziario che non si arrende all’incedere degli eventi. È con questi complici improvvisati che Manuel si avvia alla lotta per i diritti di tutti, nessuno escluso. Si grida “amnistia” per dare un senso alla “transizione”, a quel ricominciare da zero dopo gli orrori della dittatura. E come per tutte le battaglie, anche questa passa attraverso dolorose perdite, piccole conquiste, divisioni e unioni, senso di frustrazione e di onnipotenza. Rodríguez è regista che attinge spesso dal passato della storia spagnola, rielaborata attraverso generi cinematografici. Prigione 77 è in quel solco, con un linguaggio fin troppo definito che non concede molto all’immaginazione, ma anche con una narrazione che genera personaggi e situazioni, che mostra la genesi di una rivolta e di una conquista fragile che non bisogna dare per scontata in Spagna come in Italia pensando, per esempio, ai fatti dell’Istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Europa, oggi si decidono le sorti del Patto sulle migrazioni di Carlo Lania Il Manifesto, 8 giugno 2023 Meloni incontra a Palazzo Chigi il premier libico Dabaiba. A Bruxelles la mettono così: “È una situazione delicata. Al momento le possibilità di trovare un accordo sono del 50%”. La previsione, fatta da una fonte diplomatica dell’Ue, riguarda l’esito del vertice dei ministri dell’Interno che si tiene oggi a Lussemburgo. Sul tavolo ci sono le proposte di riforma del Patto di immigrazione e asilo e in particolare la gestione delle frontiere europee e i ricollocamenti, entrambi argomenti che toccano da vicino gli interessi dell’Italia che oggi però rischia di rimanere in minoranza. La spinta per sbloccare una situazione in stallo da più di due anni (la presentazione del piano da parte della Commissione è del 2020) potrebbe infatti convincere i ministri a procedere per la prima volta non più all’unanimità ma con una maggioranza qualificata, che prevede che come minimo 15 Paesi rappresentanti il 65% della popolazione Ue siano a favore delle proposte avanzate. Oggi si capirà se queste condizioni esistono oppure no e nel caso arrivare al voto, anche se poco o niente delle richieste avanzate da mesi da Roma è stato accolto. Da qui i rischi di isolamento del nostro paese: uno scenario “non auspicabile ma possibile” ammetteva ieri sempre la fonte. Mesi di trattative non sono stati sufficienti alla presidenza svedese per arrivare a un accordo che convincesse tutti. Le distanze restano soprattutto su questioni cruciali come i ricollocamenti, che continuano a essere volontari e non obbligatori come chiesto più volte dall’Italia con Malta, Spagna, Grecia e Cipro, il club Med5, e la gestione delle frontiere. La proposta svedese prevede una “solidarietà obbligatoria” con la ripartizione in quote dei migranti tra i vari Stati, che restano però liberi di scegliere se accoglierli o contribuire fornendo ai paesi di approdo mezzi per il controllo dei flussi o aiuti finanziari pari, secondo l’ultima proposta, a 20 mila euro per ogni mancato ricollocamento. Cifra contro la quale si sono già espressi Polonia e Ungheria (altri paesi sarebbero disposti a pagare al massimo 10 mila euro). Ma che non trova d’accordo neanche l’Italia e gli altri paesi che affacciano sul Mediterraneo, che ai soldi preferirebbero maggiori garanzie sul fatto che la responsabilità dei migranti non continui a rimanere, come previsto, a carico loro. E qui subentra il secondo atto legislativo che preoccupa l’Italia e gli altri paesi del Mediterraneo ovvero la “procedura frontiere” che prevede la creazione vicino ai confini di centri chiusi dove trattenere quanti fanno richiesta di asilo, minori compresi. Uno scenario che fa temere il ripetersi di situazioni di esasperazione simili a quelle viste nelle isole greche. Di fronte a questa situazione resta da capire cosa farà oggi il ministro Piantedosi, se si opporrà alle modifiche proposte oppure no. Non è esclusa neanche la possibilità che tutto resti così com’è, anche se questo significherebbe non arrivare all’approvazione del Piano prima della fine della legislatura nel 2024. Intanto dopo il viaggio lampo in Tunisia di martedì (una nuova missione è prevista a giorni, questa volta con la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen), Giorgia Meloni ieri ha ricevuto a palazzo Chigi il primo ministro del Governo di Unità nazionale libico Abdulhameed Mohamed Dabaiba e una delegazione di ministri. Un vertice servito alla premier per ribadire la preoccupazione di nuovi sbarchi nel corso della stagione estiva e durante il quale Piantedosi ha firmato un’intesa sulla sicurezza con il suo omologo libico. Stando a quanto trapelato, l’Italia si sarebbe impegnata per una nuova fornitura di mezzi per fermare le partenze dei barconi in cambio di aiuti alle comunità locali attraverso i progetti del Fondo Migrazioni. Migranti, quei patti con i libici nonostante gli abusi di Giorgia Linardi La Stampa, 8 giugno 2023 L’ennesima contraddizione: le Ong impegnate nel soccorso in mare sono state ascoltate ieri dalle commissioni Esteri e Difesa riunite a Montecitorio, nell’ambito della partecipazione dell’Italia a missioni militari internazionali, mentre a Palazzo Chigi si è tenuto l’incontro del nostro esecutivo con una delegazione di ministri del governo di Tripoli. Al centro la discussione e la sigla di una nuova intesa sulla cooperazione in materia di sicurezza e lotta alla migrazione irregolare. L’accordo impegnerebbe le due parti ad avviare iniziative di cooperazione per ridurre l’afflusso di migranti irregolari, oltre a fornire i mezzi necessari per le “operazioni di salvataggio in mare” - in realtà vere e proprie operazioni di cattura, spesso violente, come testimoniato dalle immagini divulgate dagli aerei di monitoraggio civile di Sea-Watch. Questi guardiani dei diritti calpestati nel Mediterraneo hanno visto la sedicente guardia costiera libica speronare pericolosamente navi cariche di persone in pericolo, frustarle e bastonarle durante quelle che non possono ipocritamente chiamarsi operazioni di soccorso, lanciare patate - sì, patate - contro gli equipaggi delle Ong durante le delicate operazioni di soccorso con persone in acqua, minacciare di sparare contro le navi di soccorso civili e di abbattere i nostri aerei: testimoni scomodi dei crimini contro l’umanità commessi davanti alle nostre coste nella più totale impunità. Insomma, il governo stringe di nuovo la mano ai libici per rivendicare e rafforzare ulteriormente lo stesso approccio criminale, nonostante le evidenze esposte ancora una volta ieri dalla società civile in Parlamento sul feroce ciclo di abusi alimentato dagli accordi con la Libia nei confronti di chi, anche se riportato indietro, non ha alternativa se non ritentare la fuga via mare. Di questi abusi ha parlato - per la prima volta accanto alle Ong in un contesto di audizione parlamentare - David Yambio, arrivato circa un anno fa da Tripoli con un volo umanitario dopo essere stato ricercato dai libici per aver guidato la protesta delle persone migranti attraverso il movimento “Refugees in Libya”. Bambino-soldato a cui in Sud-Sudan hanno messo un fucile in mano a 12 anni: “Ho sparato alla mia gente”, ha raccontato - senza aver avuto scelta, se non quella di fuggire. In Libia è stato in 17 luoghi di detenzione e tortura, dove ha vissuto e testimoniato le sevizie in cui i trafficanti sahariani sono veri e propri maestri. “L’ho vissuto sulla mia pelle” - ha commentato David in riferimento alle conseguenze degli accordi tra Italia e Libia. Ma nulla sembra poter fermare la corsa dell’Italia alla creazione di un cordone di sicurezza nel Canale di Sicilia, alla vigilia dell’estate e del voto odierno a Bruxelles sul Patto europeo su migrazione e asilo. L’incontro con il premier libico, infatti, è stato preceduto da un incontro in Tunisia martedì con l’autoritario presidente Saied. La società civile tunisina, a rischio di ritorsioni e arresti arbitrari, ha risposto unendosi in protesta e definendo Meloni “persona non grata”. Intanto l’inesorabile conta dei dispersi nel Mediterraneo sale a oltre 1150 persone (fonte Oim) e ha una nuova, tragica foto-simbolo che mostra il corpicino galleggiante di una bambina di pochi mesi, imbottita di acqua e infagottata in una tutina da neve rosa, alla deriva senza vita e senza madre, inghiottita anch’essa dal mare, davanti alle coste tunisine. Le immagini di protesta da Tunisi mostrano donne che chiedono giustizia per i propri figli scomparsi in mare, stringendo un cartellone con una scritta in italiano che così commenta la visita della premier Meloni: “Meglio porco che fascista”. Oxfam: “Ancora una volta l’obiettivo dell’Europa è negare il diritto di asilo” Il Manifesto, 8 giugno 2023 Dopo anni di stallo, questa settimana i ministri degli Interni e della Giustizia dei Paesi Ue hanno la possibilità di cambiare rotta sulle politiche migratorie europee, ma ancora una volta l’orientamento è rafforzare i meccanismi di respingimento dei migranti, esternalizzare le frontiere, minando di fatto il diritto di asilo. Intanto, nonostante le procedure previste dal patto rischino di trasformare l’Italia in una grande prigione per richiedenti asilo, il Governo, con il Decreto Cutro, si è già mosso nella direzione voluta dall’Europa. È l’allarme lanciato da Oxfam alla vigilia del Consiglio Ue in programma l’8 e 9 giugno, che avrà al centro la definizione di un accordo tra gli Stati membri su due dossier fondamentali per il presente e futuro di decine migliaia di persone in fuga verso l’Europa, a causa di conflitti, fame e crisi climatica: la definizione di nuove politiche comuni di controllo delle frontiere europee, che potrebbero prevedere anche la detenzione di minori negli hotspot Ue, sul modello greco; il raggiungimento di un meccanismo europeo di ricollocamento dei richiedenti asilo, per cui agli Stati è data la possibilità di non accettare migranti ricollocati dai paesi di primo ingresso, pagando una quota per ogni persona non accolta. “Entrambe sono proposte che non risolveranno in alcun modo le croniche carenze del sistema di asilo europeo - sottolinea Giulia Capitani, policy advisor di Oxfam Italia su migrazione e asilo - Al contrario esprimono chiaramente l’obiettivo di blindare l’Europa. Quanto poi alla proposta in discussione per il controllo delle frontiere, siamo di fronte a nient’altro che all’esatta copia del modello disumano e fallimentare applicato fino ad oggi nelle isole greche, che finirà solo per rinchiudere altri rifugiati, bambini compresi, in centri simili a prigioni, negando il loro fondamentale diritto di asilo nel territorio dell’Unione”. L’Italia al centro del nuovo modello detentivo - Il “Decreto Cutro”, recentemente convertito in legge, è del tutto in linea con queste scellerate politiche europee. Oltre a confermare l’applicazione di procedure di frontiera già previste dal “Decreto Lamorgese”, promuove infatti un modello di “detenzione diffusa”, nel quale un numero potenzialmente altissimo di richiedenti asilo saranno trattenuti al confine o in altri luoghi come hotspot di nuova costruzione o Centri per il Rimpatrio, privati della libertà personale, al solo scopo di vedere esaminata la loro domanda. “Che i numeri saranno alti è confermato dal fatto che a livello europeo si continua ad escludere un meccanismo di redistribuzione obbligatoria: a nessun Stato membro si richiede di accogliere i migranti arrivati in Italia, che quindi, al di là di quelli che riusciranno a scappare, resteranno qui. - continua Capitani - L’Italia diventerà una grande zona di frontiera, di contenimento, con una sostanziale mancanza di garanzie per le persone in cerca di rifugio”. Si conferma inoltre la volontà politica di esternalizzare il controllo delle frontiere nella gestione dei flussi migratori. “Stiamo assistendo anche al tentativo degli Stati Ue di aumentare le pressioni sui Paesi terzi, ad esempio in nord Africa, a cui affidare il controllo delle frontiere. - aggiunge Capitani - Un sistema che come nel caso dell’accordo Italia-Libia, non solo non blocca gli arrivi (da gennaio ad oggi sono oltre 51.000), ma perpetua la violazione dei diritti umani fondamentali delle persone, comprese donne e minori, detenute nei lager libici e vittime di torture e soprusi indicibili”. L’appello a Ue e Stati membri - Se i ministri dell’Unione europea troveranno un accordo sui due dossier al centro del vertice, si apriranno quindi i negoziati con il Parlamento europeo. In questo contesto Oxfam lancia perciò un appello urgente per la creazione di un sistema di asilo europeo in grado di funzionare davvero: stabilendo regole che prevedano un’equa condivisione dell’accoglienza dei richiedenti asilo in tutta Europa tra gli Stati membri e scongiurando il rischio di replicare quanto succede in Grecia, dove l’incapacità di una condivisione di responsabilità tra gli Stati, lascia migliaia di persone in un limbo legale, intrappolate in baraccopoli o in centri simili a prigioni finanziati dall’Ue; smettendo di stringere accordi con Paesi terzi per esternalizzare la responsabilità europee nei confronti delle persone in cerca di sicurezza in Europa; creando meccanismi indipendenti di monitoraggio su ciò che accade alle frontiere europee, con l’obiettivo di contrastare il rischio di violazioni dei diritti umani. Morire in cella in Giappone di Lorenzo Lamperti Il Manifesto, 8 giugno 2023 La storia di Gianluca Stafisso, simbolo degli abusi sugli stranieri nel paese asiatico: permesso di soggiorno ritirato dopo il divorzio, la detenzione in un centro per l’immigrazione e infine la morte, sospetta, in cella. “La persona desiderata non è più qui”. Alla signora A, che chiede di restare anonima, è stato risposto così dai funzionari del centro per l’immigrazione di Shinagawa. È uno dei 17 istituti per stranieri irregolari di Tokyo. Era il 18 novembre scorso e l’anziana donna era andata a visitare Gianluca Stafisso, detenuto da poco più di tre settimane. Il giorno dopo, la signora A. legge sul giornale che nel centro di Shinagawa è morto un cittadino italiano per un sospetto suicidio. È una storia presto dimenticata. Una storia come diverse altre in Giappone, dove negli ultimi 15 anni sono morti 18 stranieri nei centri per l’immigrazione, secondo diversi racconti spesso più simili a prigioni. Una storia su cui arrivano nuovi dettagli, grazie alla testimonianza di Asayo Takazawa, un’interprete che svolge attività di assistenza volontaria per gli stranieri irregolari. Il Giappone, che di recente ha ospitato il summit del G7 a Hiroshima, è spesso considerato come un fulgido esempio di democrazia in Asia. Ma le sue leggi in materia di immigrazione sono a dir poco stringenti, nonostante un crollo demografico che richiederebbe una facilitazione dell’assimilazione di stranieri. In questi centri ci sono tante persone alla ricerca dello status di rifugiati. “Quasi nessuno lo ottiene”, spiega Takazawa al manifesto. Anche se negli ultimi mesi pare sia stata creata una corsia preferenziale per gli ucraini. Ma finiscono dentro anche coloro a cui è scaduto il permesso di soggiorno e non sono in grado di rinnovarlo. Una volta entrati, è quasi impossibile uscire, se non venendo rimpatriati nel proprio paese di origine. Poco importano i legami costruiti in Giappone. “Essere in pericolo, una madre o un padre di bambini nati e cresciuti in Giappone, non conta. Se il documento è scaduto si resta nei centri, senza limiti di tempo, a meno che non si riesca a ottenere il rilascio provvisorio per motivi speciali. Chi è dentro rimane senza servizi pubblici, senza assicurazione medica e solo noi volontari cerchiamo di aiutarli cercando per loro una casa e portandogli del cibo. Chiediamo agli ospedali di mandare dei medici a visitarli. E poi gli parliamo. Le loro difficoltà non sono solo legali e materiali, ma anche psicologiche”, racconta Takazawa. Tante volte non basta. Come nel caso di Stafisso. Originario di Assisi, l’uomo di 56 anni viveva in Giappone dal 2005. Sposato con una donna locale dal 2008, dal 2020 era finito a vivere sotto un ponte nello stesso quartiere dove viveva con la moglie. L’uomo, un fotografo che avrebbe sofferto di problemi di salute a livello psicologico, aveva testimoniato più volte la sua situazione in video pubblicati sui social. Con la fine del matrimonio era anche rimasto senza permesso di soggiorno valido, dopo quasi due decenni di permanenza regolare in Giappone. Dopo oltre due anni di vita da clochard, a inizio ottobre 2022 il personale di un’azienda incaricata del rivestimento del ponte sotto cui si era sistemato gli chiede di andarsene. Di lì a poche settimane dovevano iniziare i lavori. Ma la signora A., che lo vedeva lì da qualche tempo e ci aveva fatto amicizia, prova ad aiutarlo. Come racconta Takazawa, la donna si reca il 5 ottobre al centro immigrazione di Shinagawa, spiega di voler procurare una dimora a Stafisso e si offre di diventare la sua garante per consentirgli di ottenere i documenti necessari a non lasciare il paese. Eppure, il 25 ottobre degli impiegati del centro vanno a prelevarlo. Lei gli fa visita, convinta che la situazione burocratica possa risolversi vista la sua offerta. Non è così. Il 18 novembre viene trovato morto dopo aver trascorso tre settimane in isolamento. “In quel momento la prassi era di due settimane di isolamento a causa del Covid, non si sa perché lui ci sia rimasto più a lungo”, spiega Takazawa. Secondo la ricostruzione ufficiale, Stafisso si sarebbe suicidato con una scarica elettrica del cavo televisivo della sua stanza. Nessun bigliettino, nessun messaggio. “La novità grave è che c’era una famiglia pronta ad accoglierlo e quel desiderio di aiuto è stato ignorato”, dice Takazawa. Non solo. Secondo nuove informazioni rese pubbliche dai media giapponesi, le autorità italiane avevano notificato al centro le difficoltà di salute di Stafisso, che avrebbero consigliato cure supplementari. Il sospetto è che il centro lo abbia lasciato in isolamento per evitare problemi relazionali con gli altri “ospiti” del centro. O per evitare di mostrare che stava detenendo una persona non sana. Takazawa spiega di aver inviato una lettera di protesta alle autorità, con l’aiuto di un parlamentare della Camera alta giapponese, Taiga Ishikawa. Un piccolo segnale che forse la politica proverà a intervenire su regole e centri. Nel frattempo, il 10 gennaio scorso la signora A. scopre che il corpo è stato cremato. Dal 18 gennaio il vaso delle ceneri di Stafisso si trova nella casa dell’anziana. Ci sono diversi altri casi tragici. Nel marzo 2021 è morta Wishma Sandamali, 33enne originaria dello Sri Lanka, trovata senza vita dai dipendenti del centro di Nagoya a causa di problemi di salute. I volontari lamentano la noncuranza degli impiegati, che non avrebbero fornito assistenza e le cure necessarie per salvarla. “Non posso accettare tutta questa crudeltà disumana da parte dell’amministrazione del mio paese - dice Takazawa - Voglio che le cose cambino”. La situazione nelle carceri di Haiti è sempre più grave ilpost.it, 8 giugno 2023 I detenuti sono spesso lasciati senza acqua, cibo né medicine, in condizioni sovraffollate e aspettando anni per i processi. Ad Haiti, uno dei paesi più poveri del mondo, dove è in corso da tempo una gravissima crisi politica, sociale ed economica, si stanno aggravando ulteriormente le condizioni delle carceri: sono spesso sovraffollate, i detenuti sono lasciati senza acqua, cibo né cure quando sono malati. A peggiorare la situazione c’è la diffusissima violenza dovuta alle bande criminali, ormai molto forti nel paese, che rendono ancora più difficili le poche forme di assistenza su cui i detenuti hanno potuto contare finora. Secondo l’avvocato Arnel Rémy, coordinatore dell’Associazione degli avvocati per la difesa dei diritti umani di Haiti, nelle carceri del paese si sta creando una “catastrofe umanitaria”. Ad Haiti, paese con circa 11 milioni di abitanti, ci sono 17 carceri, di cui 5 in via di costruzione, sovraffollate e con condizioni detentive ritenute ampiamente al di sotto degli standard internazionali. Associated Press ha raccontato di come vivono i detenuti del Penitenziario nazionale di Port-au-Prince, la capitale di Haiti: è il carcere più grande del paese e ospita circa 4mila detenuti anche se era stato costruito per ospitarne circa 800. Al suo interno ci sono decine di detenuti malati di tubercolosi lasciati con scarse cure: molti arrestati per reati minori, come furti. In generale ai detenuti non viene data né acqua né sufficiente cibo, e molti di loro hanno riferito di dormire in piedi perché le celle sono sovraffollate e non hanno abbastanza spazio per sdraiarsi. Altri hanno raccontato di defecare in secchi comuni, dentro la cella, e che molto spesso il carcere resta senza elettricità, a volte per mesi, per guasti ai generatori di corrente che non è possibile riparare in tempi brevi. Le pessime condizioni delle carceri di Haiti non sono una novità, e se ne parla ciclicamente. L’anno scorso per esempio il governo di Haiti ha liberato più di 70 detenuti condannati per reati minori dopo la circolazione online di alcuni video che ne mostravano le pessime condizioni di salute. Molto più spesso però le condizioni dei detenuti restano sconosciute e ignorate. Ad Haiti oltre l’80 per cento degli oltre 11mila detenuti totali è in custodia cautelare: ma i tempi dei processi sono molto lunghi e secondo diversi esperti di diritti umani e avvocati che nel tempo si sono occupati delle loro condizioni potrebbero trascorrere anni prima che vengano ascoltati da un giudice e sottoposti a un processo. Sono stati inoltre documentati numerosi casi di arresti arbitrari, in cui le autorità trattengono le persone in carcere con accuse non specificate. Uno studio pubblicato lo scorso dicembre da alcuni ricercatori di un’università in Florida, e basato sulle condizioni di oltre 1.000 detenuti in due prigioni di Haiti, tra cui proprio il Penitenziario nazionale, ha concluso che la maggior parte di loro veniva sottoposta a una dieta da meno di 500 calorie al giorno, meno della metà del fabbisogno quotidiano, e che più del 75 per cento era a rischio di una serie di patologie legate anche alla mancanza di vitamine. Secondo dati delle Nazioni Unite l’anno scorso ad Haiti sono morti 185 detenuti, molti dei quali per conseguenze della malnutrizione. Solo quest’anno ne sono morti 20. Secondo diversi esperti di quell’area i numeri potrebbero aumentare a causa delle conseguenze della crisi politica e sociale del paese, di cui da tempo approfittano le numerose bande criminali attive nel paese: queste bande sono diventate molto influenti, e negli ultimi anni hanno sfruttato anni di alleanze e legami con i politici haitiani per accrescere il loro potere. Controllano ampie porzioni di territorio, strade e porti, e già in passato hanno bloccato i rifornimenti di carburante, elettricità e cibo, oltre a rendersi responsabili di rapimenti e uccisioni. Tutto questo sta complicando le poche forme di assistenza su cui potevano contare i detenuti. Molti di loro fanno affidamento su parenti e conoscenti che portino loro cibo e pasti: ad Haiti non è raro vedere fuori dalle carceri decine di persone, spesso donne, con sacchi di cibo per le persone recluse, con scritto sopra il nome del detenuto e della cella. Molte di loro rischiano di finire coinvolte in episodi di violenza per strada, rischi che corrono anche gli stessi dipendenti della prigione: lo scorso maggio per esempio un agente di polizia è stato colpito da un proiettile una volta uscito dal carcere. In altri casi le persone non riescono a raggiungere la prigione perché non funzionano i mezzi pubblici o perché le strade sono bloccate dalle bande. C’è anche chi non ha una rete di persone fuori dal carcere in grado di assisterlo: è il caso di un detenuto ascoltato da Associated Press, che ha detto di mangiare solo una volta al giorno un po’ di riso. Health through Walls, un’organizzazione no profit della Florida che dà assistenza medica ai detenuti di varie carceri nel mondo, fornisce regolarmente ai detenuti di Haiti integratori alimentari per evitare la malnutrizione, e ha insegnato a decine di loro a riconoscere una persona malata all’interno della prigione, dato che l’insicurezza e l’instabilità del paese stanno impedendo a gran parte del personale medico di fare il proprio lavoro.