Appello dal carcere, la telefonata che salva gli affetti di Grazia Zuffa Il Manifesto, 7 giugno 2023 All’inizio dell’emergenza Covid, la sofferenza forse più grave per chi è stato detenuto o detenuta è stata l’interruzione dei rapporti con l’esterno, delle visite delle persone care. Col tempo, le autorità carcerarie hanno cercato di alleviare la segregazione che il Covid rendeva totale, intensificando le telefonate e permettendo le videochiamate. I detenuti/e hanno dunque avuto accesso alla modalità comunicativa di comune uso per chi sta fuori le mura. Sarebbe stato naturale che questa piccola risorsa tecnologica diventasse di uso ordinario nel carcere, cogliendone appieno la potenzialità di supporto - sempre importante - alla vita affettiva delle persone recluse. E invece pare che si torni indietro. Paradossalmente, la fine dell’emergenza potrebbe cancellare l’innovazione. Contro questo rischio, si è mobilitata la Conferenza Nazionale del Volontariato Giustizia, Ristretti Orizzonti e l’associazione Sbarre di Zucchero, scrivendo una lettera aperta ai direttori degli istituti penitenziari (che in pochi giorni ha ottenuto centinaia di firme di singoli e associazioni). L’attacco è eloquente: “Quelle telefonate che ti “riattaccano alla vita”. Quelle telefonate che sono un’accelerata agli affetti delle persone in carcere”. E ancora: “Scrive un detenuto: poter telefonare ogni giorno a casa aveva aiutato la mia famiglia a ritrovarsi. Ora ritornare da una telefonata al giorno a una telefonata a settimana di dieci minuti significa riperdersi. Questo periodo lo ricorderemo con i miei cari per esserci persi di nuovo. Secondo l’articolo 15 dell’Ordinamento penitenziario il trattamento del condannato e dell’internato è svolto anche “agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”. Ma quei contatti sono invece una miseria: 10 minuti di telefonata a settimana e 6 ore di colloquio al mese, che vuol dire che un genitore detenuto può dedicare al figlio al massimo tre giorni all’anno”. La richiesta è di non cancellare le facilitazioni ai contatti, in nome di un regime più rispettoso delle finalità risocializzanti della pena; ma anche della gravissima emergenza suicidi: “Gentili direttori, non è motivo “di particolare rilevanza” l’aver chiuso il 2022 con 84 suicidi? “Radio carcere” dice che le telefonate a breve potrebbero non essere più quotidiane o comunque molto frequenti, ma noi non ci crediamo. Non vogliamo credere che i direttori, che hanno la possibilità di concedere più telefonate per motivi “di particolare rilevanza”, rinuncino a un potere, che per una volta è davvero un “potere buono”, di far star meglio le persone detenute, e soprattutto le loro famiglie. Certo, per chi ha figli minori dovrebbe restare in ogni caso la telefonata quotidiana, prevista dalla legge, ma tutti quei figli maggiorenni che per anni hanno avuto a disposizione solo dieci miserabili minuti settimanali per parlare con un genitore detenuto, perché devono essere di nuovo penalizzati dopo aver faticosamente ricostruito delle relazioni famigliari decenti con la chiamata quotidiana (o comunque molto frequente)? Gentili direttori, non fateci tornare al peggio del passato, usate il vostro “potere” per prevenire i suicidi con quello straordinario strumento che può essere sentire una voce famigliare nel momento della sofferenza e della voglia di farla finita. Oltre alle videochiamate sostitutive dei colloqui e in numero non inferiore, lasciate le telefonate in più, in nome dell’emergenza suicidi, e anche per dare continuità alla progressività che ispira il percorso rieducativo del detenuto e che è tutelata e garantita dall’art. 27 della Costituzione, attraverso la previsione della finalità rieducativa della pena”. L’affettività è importante, ci auguriamo che i direttori siano sostenuti da un chiaro indirizzo del Capo dell’Amministrazione Penitenziaria. E magari da una parola del ministro Nordio. La vita in carcere è questo: dietro i numeri ci sono le storie dei detenuti di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2023 Antigone riceve tante lettere dalle carceri. A volte sono richieste di aiuto, altre volte sono semplici racconti di uno spaccato di vita che tutti dovrebbero conoscere. Ne condivido stralci da un paio, particolarmente vivide nei contenuti. Ci scrive Eric Mombello: “Hei come va?” “Bene, tutto a posto... tiriamo avanti!” “Novità?” “Macché”. “Il morto?” “Bo”. “Oggi?” “Alle tre c’è ‘Giustizia riparativa’: se mi fanno passare ci vado”. Sono qui vicino a voi, nella Casa Circondariale della città: da un anno vivo in questa strana dimensione che non ha nessun senso. Sono tra quelli che non hanno ancora ceduto alle terapie, alle pillole e alle “goccine” che qua provano a darti anche quando domandi uno sciroppo per la tosse o hai mal di testa. Urla, sangue nelle sezioni e sulle porte e detenuti in crisi di astinenza da psicofarmaci sono la cornice che avvolge questa casa assurda dove dovremmo essere rieducati prima di tornare in mezzo a voi. “Ma quello non era un tipo tranquillo appena entrato?” “Sì, guarda ora…”. Quanti ragazzi ho visto ridotti a larve, tutti tagliuzzati se non gravemente autolesionati. Questa è stata una settimana tranquilla: il morto se n’è andato in silenzio e da qualche giorno niente incendi e devastazioni; il Comandante non ha preso schiaffi e gli appuntati dopo il lavoro fortunatamente sono tornati a casa dalle loro famiglie e non all’ospedale. L’altro giorno, mentre qualcuno sbatteva e urlava pretendendo gli psicofarmaci nel corridoio dell’ambulatorio, la psichiatra con aria sconfitta mi ha detto: “Mi sembra di essere in una piazza di spaccio”. Secondo voi che succede ad un ragazzo che non ha disturbi psichiatrici quando inizia ad assumere psicofarmaci? Chi ha paura ad uscire dalla cella. Chi è solo. Chi fumava spinelli o usava droghe. Chi beveva. Chi attende da troppi mesi l’incontro con l’Educatore del Sert per andare avanti col percorsino. Chi ha appena scoperto che l’Educatore gli ha detto bugie. Chi ha smesso di fidarsi dell’Avvocato che non ci può fare nulla. Chi sta perdendo i denti e non può curarseli nemmeno pagando. Chi perde la patente perché qua la commissione non entra. Chi chiede da mesi di parlare col Comandante o con la Direttrice perché è sbagliata la graduatoria lavorativa. Chi non lavora da un anno e ha i figli a casa che hanno fame e la moglie non sa più come andare avanti. Chi ha la madre in punto di morte qua vicino e non gli è concesso nemmeno vederla per l’ultimo saluto. Chi non riesce ad avvertire genitori lontani di essere vivo. Chi ha migliorato la propria condizione grazie alle telefonate quotidiane alla famiglia e che adesso viene punito con una sola telefonata alla settimana. Chi ha trovato una Comunità o una Cooperativa Sociale ma non gli viene favorito un colloquio. Chi arriva tardi in tribunale all’Udienza. Chi ha gli scarafaggi in cella e pulisce l’unico piatto con la spugnetta di melanzana. Chi va al bagno solo quando c’è qualcuno che lo aiuterà a rialzarsi dalla turca. Chi ha trovato il lavoro dopo un anno di ricerche ma lo perde perché il magistrato non risponde. Chi è debole e cede. Cede allo sconforto, alla depressione, alle pilloline, alle gocce, alla violenza, e così rinuncia alla speranza di migliorarsi. Cede a questa strana dimensione che non ha nessun senso. Il carcere è questo. Giorno dopo giorno dopo giorno. Non siamo riusciti a inventarci nulla di meglio per chi ha sbagliato ma diciamo di voler reintegrare nella società. Ma seguendo quali percorsi? Ce lo racconta un’altra lettera che abbiamo ricevuto. E sembra un racconto di Kafka: In una relazione del carcere data al Tribunale di Sorveglianza si legge: “Il soggetto… alla prima carcerazione ha avuto qualche difficoltà di adattamento alla vita carceraria, che in parte ancora persiste nel senso che preferisce passare il suo tempo a leggere piuttosto che conversare con i compagni di detenzione, laddove non sia impegnato in qualche attività.” …ma ditemi quale persona non avrebbe qualche difficoltà di adattamento a vivere dentro un carcere! A stare 18 ore chiuso in cella e le altre a passeggiare come zombi in un corridoio. Per chiedere qualsiasi cosa occorre fare la ‘domandina’ scritta… sì, la chiamano proprio ‘domandina’…come fossimo dei bambini piccoli! E poi oltre la tua cella… solo un corridoio con le altre celle …una dopo l’altra, nessuno spazio comune, solo una palestra con attrezzi rotti, inutilizzabili, pericolosi! Una biblioteca abbandonata a se stessa. Non uno spazio verde… ma eventualmente uno squallido cortile di cemento per pochi momenti d’aria. E poi sempre chiusi in cella per i pasti, per la colazione, per i medicinali, per il tè… per ogni cosa dobbiamo rientrare in cella e essere chiusi dentro. E continuare a fare domandine, una… due… cinque… chiedendo di incontrare l’educatrice o la psicologa o il medico o il dentista… ma tutto rimane sordo. E lentamente capisci che ciò di cui tu necessiti, che per te è importante, essenziale, urgente e che chiedi …non ha alcun valore! Nessuno risponde alle tue ‘domandine’. Ma ciò che mi ha scandalizzato, indignato, sconcertato è: “difficoltà di adattamento alla vita carceraria, che in parte ancora persiste nel senso che preferisce passare il suo tempo a leggere piuttosto che conversare con i compagni di detenzione” e questa sarebbe la valutazione di educatori e psicologi del carcere? Ma come, secondo loro se uno preferisce leggere, studiare, prepararsi per un esame, scrivere… invece di passare il tempo a conversare con gli altri detenuti è praticamente un disadattato? Dopo qualche mese di prigione l’avvocata ha fatto domanda per la carcerazione domiciliare. Domanda rigettata dal Magistrato di Sorveglianza. Rifiutata in quanto la relazione del carcere diceva “in carenza del minimo passo avanti compiuto dal soggetto da un punto di vista personalogico…” Ma come? Io che sono un ragazzo arabo ignorante, che in vita mia le uniche cose che avevo letto erano le ordinazioni che dal ristorante arrivavano in cucina… io che da solo e solo con la mia forza di volontà, in carcere ho superato l’esame di terza media con 7/10, che in carcere mi sono letto libri importanti per conoscermi e per capire concetti profondi quali la morale, l’etica, la religione e lo strato socio culturali che ci circondano… libri di: Richard Bach, Antoine de Saint-Exupéry, Hermann Hesse, Kahlil Gibran, Franz Kafka, Fabio Geda, Luis Sepulveda, Jack Kerouac, José Saramago, Fred Uhlman, Fëdor Dostoevskij, ecc. e io sarei uno che non ha compiuto passi in avanti da un punto di vista personologico? Ma perché non si chiedono loro, educatori e psicologi del carcere, che cosa hanno fatto loro per aiutarmi e per portarmi a un miglioramento? Quale trattamento personologico hanno messo in campo? Qualche giorno fa abbiamo presentato il Rapporto annuale di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia. È pieno di numeri che ci raccontano la realtà delle carceri italiane. Ecco: dietro ciascuno di quei numeri ci sono storie come queste. *Coordinatrice di Antigone Liberazione anticipata speciale, le ex detenute lanciano la raccolta firme di Luna Casarotti* e Marina Iadanza** Il Dubbio, 7 giugno 2023 Troppi suicidi, sovraffollamento, narrazione distorta di una parte significativa del giornalismo italiano, mancanza di figure essenziali come i mediatori culturali e altro ancora. C’è bisogno di una misura immediata che affievolisca la pressione nelle carceri, creando così i presupposti per altri interventi. Prima bisogna salvare la vita e poi la terapia. Per questo lanciamo una campagna dove è possibile sottoscrivere tramite la piattaforma https://chng.it/KgSZhvWvz5, dove si chiede al Parlamento di approvare la proposta di legge presentata dall’onorevole Roberto Giachetti e sostenuta da “Nessuno tocchi Caino”, affinché venga aumentata la liberazione anticipata per i detenuti. Come dicono le promotrici della campagna “È una proposta di legge che non regala niente ma fortifica una premialità per chi nonostante tutto rispetta le regole e si impegna”. Qui di seguito l’appello. Con questo nostro scritto, vogliamo provare a coinvolgere tutte le realtà che si preoccupano e soprattutto si occupano, con grande impegno, dei diritti dei detenuti e del funzionamento delle realtà penitenziarie. Realtà di cui troppo spesso non si vuol sentire parlare e di cui per paura di perdere consenso la maggioranza dei partiti politici non parla e non si preoccupa contravvenendo anche al diritto/dovere di ispezionare e monitorare gli istituti penitenziari e le condizioni di vita delle persone recluse. Come ex detenute siamo convinte che nessuno debba essere lasciato solo e all’indifferenza delle istituzioni. Bisogna, invece, rispondere con un attivismo civile perché, nonostante le mistificazioni di alcuni “giornalisti” e gli slogan elettorali di certa politica permeati da una incultura repressiva e priva di progettualità e nonostante il poco coraggio di chi anche a sinistra si dimentica degli ultimi tra gli ultimi, tutti meritano una seconda possibilità e il tempo della pena non può essere né fine a se stesso e né continuare nelle condizioni attuali. Una soluzione a medio termine è obbligatoria per rispondere al disagio di occupa le carceri. L’estate si avvicina e il caldo attanaglierà, come sempre, le celle. La disperazione e la paura di un futuro senza soluzioni si trasformeranno in un’escalation di suicidi e di eventi critici... In carcere l’estate è la stagione più dura. Le strutture di cemento e ferro si scaldano molto, le celle sono molto spesso sovraffollate e la carenza d’acqua e i servizi docce che funzionano in maniera discontinua portano i disagi a livelli insostenibili. Le carceri sono sempre state un luogo di sofferenza. Non soltanto per la privazione della libertà a cui sono soggetti i detenuti, ma anche per la separazione fisica e politica dal resto della società. Carenza di educatori, figure fondamentali di riferimento per l’area trattamentale perché incidono su tutto il percorso di ricostruzione sociale della persona, che una volta uscita non rischierà la recidiva solo se adeguatamente accompagnata nel suo percorso di estinzione della pena e per l’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione. Assenza di mediatori culturali, figure anch’esse importanti nella vita quotidiana carceraria per la comunicazione con i detenuti. Un altro immane problema nelle carceri che incide direttamente sulla possibilità di garantire adeguate condizioni di vita per i detenuti è il sovraffollamento. Più volte nel corso degli anni la Corte Europea è giunta a delle sentenze di condanna relative alle condizioni detentive. Nel 2022 hanno perso la vita 84 persone dietro le sbarre, nel 2023 abbiamo già raggiunto i 27 suicidi! una sconfitta per tutti noi. Per questo chiediamo a tutti quelli che hanno onestà intellettuale, che credono nel diritto, nonostante il conformismo dilagante in Italia, di aiutarci a promuovere la proposta di legge dell’onorevole Roberto Giachetti e Nessuno tocchi Caino affinché venga aumentata la liberazione anticipata per i detenuti. Un intervento a medio termine che darebbe respiro a quella realtà soffocante e soffocata che sono le carceri italiane. Questa proposta di legge prevede l’aumento dei giorni di liberazione anticipata a 60 giorni per coloro che hanno tenuto un buon comportamento, ne hanno diritto e che sia direttamente l’ufficio matricola a consegnarli senza aspettare le lungaggini della sorveglianza. E soprattutto propone di concedere 75 giorni reotrattivamente, a partire dal 2016. È una proposta di legge che non regala niente ma fortifica una premialità per chi nonostante tutto rispetta le regole e si impegna. La realtà è che dovrebbe essere preso un provvedimento più urgente ancora come la liberazione anticipata speciale, perché come abbiamo già detto la pena inframuraria con tutte le carenze strutturali ed educative non serve a nulla producendo solo recidiva e rabbia. La proposta è stata depositata a novembre e a gennaio è arrivata in commissione giustizia, e li è ferma. Intanto in carcere e di carcere si muore. Aiutateci a non lasciare soli tutti i detenuti/e e a promuovere questa proposta. *Ex detenuta, Associazione Yairaiha Onlus *Ex detenuta, Le ragazze di Torino Perché il Dap ha assegnato agli istituti 6.000 agenti in meno rispetto ai 37mila? di Rita Bernardini Il Dubbio, 7 giugno 2023 La replica al presidente del CON.SI.PE.. Dispiace la reazione del presidente del sindacato CON.SI.PE. perché ricoprendo quella responsabilità dovrebbe conoscere il decreto ministeriale del 2-10-17 che fissa la ripartizione degli organici della polizia penitenziaria stabilendo che 37.000 agenti siano destinati agli istituti penitenziari mentre per gli altri uffici prevede ulteriori dotazioni. Per la Giustizia minorile e di comunità sono previsti 1.390 agenti, per l’amministrazione centrale (Dap) 562, per i reparti operativi e gruppo sportivo 780, per il Gruppo Operativo Mobile (41- bis) 620, per i Provveditorati regionali 575 e, infine, per le Scuole di formazione e aggiornamento 94 agenti. Il suddetto decreto ministeriale, proprio per evitare fughe dagli istituti penitenziari, prevede altresì che il Direttore Generale del Personale adotti senza ritardo i provvedimenti necessari all’assorbimento del personale che eccede i limiti delle dotazioni organiche stabiliti per ciascuna sede ed ufficio. Fatta questa necessaria premessa, ci chiediamo - e se lo chiede Roberto Giachetti - il motivo per il quale il Dap abbia assegnato agli istituti 6.000 agenti in meno rispetto ai 37mila e come mai ogni volta che visitiamo un carcere i comandanti si lamentino (giustamente) dei pochi agenti assegnati e gli agenti stessi deplorino la poca presenza dei colleghi in sezione, i turni massacranti, lo stress a cui sono sottoposti. Così come è bene interrogarsi su quanto afferma il collega sindacalista Gennarino De Fazio (segretario della UILPA-pen) che stima che negli istituti penitenziari ci siano in tutto meno di 20.000 agenti per 189 istituti. Diverse - e interessanti - sono le riflessioni che fa il sindacalista di CoN.SI.PE in merito all’altrettanto vergognoso deficit di organico degli educatori (è pronta un’elaborazione anche su questo fronte) e dei direttori e del fatto che gli agenti in sezione non ci dovrebbero proprio stare se non in casi eccezionali perché questo significherebbe che gli istituti penitenziari dovrebbero essere pieni ad ogni ora del giorno di personale addetto al trattamento e, quindi, alla funzione rieducativa della pena. Con me e con Nessuno Tocchi Caino sfonda una porta aperta. Anzi, dirò di più. Trovo lunare la spesa che lo Stato italiano destina all’amministrazione penitenziaria rispetto a quella prevista per la giustizia minorile e di comunità, cioè il dipartimento che si occupa delle pene e misure alternative. Pubblicamente le più alte cariche istituzionali affermano che il carcere deve essere l’extrema ratio perché produce recidiva ed è criminogeno, che occorre puntare sulle misure alternative e, invece, a conti fatti, lo Stato destina ben 3 miliardi e 91 milioni di euro all’amministrazione penitenziaria e solo 280 milioni di euro per la giustizia minorile e di comunità. Occorre, a mio avviso, invertire questa realtà se si ha veramente a cuore la funzione rieducativa della pena. Cospito torna a Sassari e sul 41bis aspetta risposta da Nordio di Frank Cimini L’Unità, 7 giugno 2023 Ormai è come il gioco dell’oca perché si torna al punto di partenza. L’anarchico Alfredo Cospito è stato ritrasferito al carcere di Sassari Bancali da quello di Milano Opera dove era stato messo a causa delle condizioni di salute per il lunghissimo sciopero della fame. “Non sussistono più le ragioni che avevano determinato il suo trasferimento a Milano” spiega l’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini che andrà domani in Sardegna per il colloquio settimanale, un appuntamento fisso. Intanto il 19 giugno riprenderà il processo davanti alla Corte di assise di appello di Torino per i pacchi bomba di Fossano dove dopo la decisione della Corte Costituzionale Alfredo Cospito non dovrebbe più rischiare l’ergastolo per strage politica e attentato alla sicurezza dello Stato. La Corte Costituzionale alla quale i giudici del capoluogo piemontese avevano spedito gli atti del processo ha in pratica sancito il diritto alla concessione delle attenuanti a causa dei pochissimi danni provocati dall’azione di cui rispondono Alfredo Cospito e Anna Beniamino. Il procuratore generale di Torino Piero Saluzzo aveva chiesto l’ergastolo per Cospito che ora rischia dopo la scelta della Consulta una condanna tra i 20 e i 24 anni di reclusione. Ma Cospito e il suo difensore aspettano che il Tribunale di Sorveglianza di Roma fissi l’udienza in cui discutere il ricorso per la revoca dell’articolo 41 bis del regolamento penitenziario presentato dopo che il Ministro della Giustizia Carlo Nordio non aveva risposto all’istanza per la fine del carcere duro. Il 41bis non dipende direttamente dalla sentenza che sarà emessa a Torino il 19 giugno, ma va considerato che evitare l’ergastolo potrebbe aiutare e portare Alfredo Cospito nel circuito dell’alta sicurezza, un gradino inferiore. L’applicazione della forma di carcere più dura era stata decisa dal ministro Marta Cartabia a maggio dell’anno scorso. Il 41bis formalmente serve a impedire i contatti con l’organizzazione di appartenenza che nel caso di Cospito anarchico individualista non esiste a maggior ragione adesso. Ma Cospito con è l’unico detenuto politico in questa situazione. Ci sono infatti anche Nadia Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi delle Nuove Brigate Rosse che da ormai vent’anni non ci sono più. Eppure il 41bis viene continuamente prorogato con riferimenti generici a latitanti di altre generazioni che i diretti interessati non hanno peraltro mai conosciuto. Giustizia: più magistrati e più coerenza di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 7 giugno 2023 La riforma da poco entrata in vigore si caratterizza per una più marcata criticità trasversale. La durata del processo deve essere sicuramente ragionevole, ma ciò non può consentire di eludere norme processuali improntate alla realizzazione degli altri valori nei quali pure si sostanzia il processo equo. Tra le non poche già promulgate riforme della giustizia, l’ultima da poco entrata in vigore si caratterizza per una più marcata criticità trasversale. Eppure è tempo di giungere ad un effettivo cambiamento della giustizia nel nostro Paese e affinché ciò possa avvenire, va compreso che questa riforma non è stata varata soltanto per accedere ai fondi Pnrr utili a ridurre la durata dei processi civili e penali, poiché se ci limitassimo soltanto al conseguimenti di tali obiettivi, potrebbe accadere che una volta superate le difficoltà anche rilevanti di questa fase di decollo, si approderebbe, come è già successo in passato, ad un assestamento convenzionale del nuovo impianto legislativo senza sollevare le sorti della nostra instabile giustizia. Questa volta si deve e si può fare molto di più avendo maggiori risorse disponibili che potranno permettere un potenziamento dei servizi digitali, dei sistemi telematici e di gestione delle attività processuali. Ma anche la realizzazione di strutture edilizie più efficienti e moderne e, non ultimo, il rafforzamento delle misure di prevenzione, rieducazione e di reinserimento sociale dei detenuti. Ragioni che da sole giustificano l’intervento riformatore e aiutano a sopportare le difficoltà correlate alla sua concretizzazione. Non di meno, è legittimo interrogarsi se il semplice cambiamento di disposizioni legislative possa consentire una svolta tangibile del sistema, o piuttosto fomenta la percezione che si tratti di un ulteriore imposizione autoritaria espressa nella legge. Certamente, per quanto riguarda la carenza di personale, ben venga l’innesto dei circa settemila nuovi assunti, che a regime supereranno i sedicimila, nell’Ufficio del processo. Un provvedimento risalente all’ormai lontano 2014 con la finalità di risolvere i lunghi tempi di attesa dei processi e il patologico loro arretrato. Va detto però, con franchezza, che oltre ad essere necessario formare adeguatamente queste nuove figure professionali e dotarle di strutture operative, è decisivo aumentare il numero dei magistrati essendo pacifico che quello attuale non è sufficiente al bisogno del pubblico servizio. Ma è anche doveroso incentivare quelli più meritevoli, sia sotto il profilo della produzione che, ancora di più, quello della qualità del loro lavoro essendo ormai acclarato anche da decisioni recenti della Suprema Corte (Ordinanza 24 gennaio 2023, n. 2057) che la durata del processo deve essere sicuramente ragionevole, ma ciò non può consentire di eludere norme processuali improntate alla realizzazione degli altri valori nei quali pure si sostanzia il processo equo. Non basta; bisogna anche invertire radicalmente la rotta nell’utilizzo ormai spregiudicato dei giudici onorari che per la penuria di magistrati in servizio, pur senza averne analoghe competenze, ne detengono gli stessi poteri. Si è giunti al punto che per reggere gli Uffici giudiziari italiani, si fa affidamento vitale sui circa 5000 giudici onorari che vi operano con un costo che, almeno in parte, potrebbe essere utilizzato per l’assunzione di magistrati di carriera. Ecco quindi che ciò di cui abbiamo più bisogno è un cambio di passo culturale partendo dall’ormai non più tollerabile ribaltamento del 40% delle sentenze nei gradi di appello. Detto meglio, quasi una sentenza su due viene riformata, con tutto quanto ne consegue in termini di costi economici, credibilità della giustizia e, non certo per ultimo, impatto devastante per le persone coinvolte. Parliamo di tematiche che costituiscono le cause che alimentano la diffusione delle controversie giudiziarie, potendo chiunque, soprattutto se in mala fede, fare affidamento sulle variegate e variabili interpretazioni delle leggi per sottrarsi alle proprie responsabilità. Eppure, il fenomeno potrebbe essere arginato con l’uniformità interpretativa delle norme giuridiche. Non una utopia, ma un obiettivo raggiungibile attraverso le indicazioni della Corte di Cassazione, l’organo che per propria natura istituzionale è chiamato a garantire questa finalità. Soltanto un processo dall’esito prevedibile può scoraggiare il ricorso ai tribunali e aprire ad una maggiore disponibilità verso soluzioni stragiudiziali che consentirebbero di farci perdere il poco invidiabile primato di litigiosità che colloca il nostro Paese al secondo posto in Europa, dopo la Russia. I magistrati rumoreggiano. “Questa protesta? Ipocrita” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 7 giugno 2023 Toghe in agitazione, l’ipotesi di un flop prima ancora di decidere l’astensione. Mirenda (Csm): “Del tutto fuori luogo”. Articolo 101: “Un inutile polverone”. “Personalmente credo che si tratti di un sciopero del tutto fuori luogo”, afferma Andrea Mirenda, componente togato indipendente del Consiglio superiore della magistratura. “Si tratta - aggiunge il giudice veronese eletto a Palazzo dei Marescialli lo scorso settembre senza un gruppo di riferimento - di un ulteriore esempio della tracimazione dell’Associazione nazionale magistrati dal ruolo sobrio che, come associazione di diritto privato, le dovrebbe essere proprio”. Non scalda gli animi il dibattito alla vigilia dell’Assemblea dell’Anm che, in programma il prossimo fine settimana a Roma, dovrà decidere se scioperare o meno contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Al momento, infatti, Magistratura indipendente, la corrente moderata, sarebbe contraria. E anche da parte di Unicost, il gruppo centrista, non ci sarebbe particolare interesse. Nel mirino delle toghe era finita la decisione del Guardasigilli dello scorso aprile di avviare un’azione disciplinare contro i giudici di Milano che avevano sostituito all’oligarca russo Artem Uss, su cui pendeva un mandato di estradizione negli Stati Uniti, la misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari assistiti da braccialetto elettronico. “Una regola fondamentale della materia disciplinare, immediata traduzione del principio della separazione dei poteri, è che il ministro e il Consiglio superiore della magistratura non possono sindacare l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella valutazione del fatto e delle prove. Sarebbe assai grave se questo limite, argine a tutela della autonomia e della indipendenza della giurisdizione, fosse stato superato”, aveva detto all’epoca il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, esponente di Area, la corrente progressista, l’unica al momento convinta della necessità dello sciopero. Altro motivo di attrito, poi, riguarderebbe le iniziative legislative, al momento però solo annunciate, che il ministro avrebbe in programma di realizzare nel settore penale e che non troverebbero il gradimento dei magistrati. Si tratterebbe, tanto per fare qualche esempio, della stretta sulle intercettazioni telefoniche, della modifica dei reati contro la Pubblica amministrazione, ad iniziare dall’abolizione dell’abuso d’ufficio, di nuove per disposizioni per l’emissione di provvedimenti cautelari, affidandone la competenza ad un collegio. In caso l’Assemblea dell’Anm votasse per lo sciopero, sarebbe il secondo a distanza di un anno. L’ultimo sciopero, contro le riforme volute dall’allora ministra Marta Cartabia, a dire il vero, non aveva avuto un grande successo. La percentuale di adesioni si era fermata poco sotto al cinquanta percento. Nel 2010, governo Berlusconi, la percentuale era stata invece più del doppio, il novantadue percento. In Cassazione, per la cronaca, la percentuale degli scioperanti lo scorso anno aveva superato di poco il ventidue percento. Lo sciopero, in caso venisse indetto, rischia di essere motivo di grande imbarazzo per i numerosi magistrati che sono in servizio a via Arenula e collaborano con Nordio nella stesura dei (contestati) provvedimenti legislativi e delle iniziative disciplinari. “Si conferma anche questa volta la straordinaria capacità dell’Anm a guida correntizia di agitare polveroni riuscendo al contempo a stoppare ogni reale iniziativa rispetto alle azioni di governo, interne o esterne alla magistratura, che meriterebbero di essere, più che denunciate, adeguatamente contrastate”, hanno dichiarato Cristina Carunchio, Giuliano Castiglia e Andrea Reale, componenti del Comitato direttivo centrale dell’Anm eletti nella lista Articolo 101. I togati indipendenti, all’ultima riunione, si aspettavano infatti che alla aspra critica di Santalucia contro il ministro seguisse poi un documento ufficiale dello stesso tenore. “Avevano proposto di arricchirlo - sottolineano - con una iniziativa concreta che ci sembra assai correlata al caso: invitare i soci dell’Anm attualmente fuori ruolo al Ministero della giustizia a chiedere il rientro in ruolo, ma la proposta è stata bocciata”. “Mi pare, senza che nessuno si senta offeso, una divertente contraddizione dell’Anm che, con i suoi migliori esponenti è comodamente rappresentata a via Arenula, salvo prendere le distanze da quanto essa elabora in quella sede”, commenta con un pizzico di ironia Mirenda, secondo cui “questa Anm, insomma, è un po’ Penelope e un po’ partito di lotta e di “sottogoverno”. “L’ipocrisia diviene massima quando, da un lato, si invitano i magistrati a scioperare ma, dall’altro, ci si guarda bene dal chiedere ai fuori ruolo presso il ministero a rientrare nei ranghi. L’impressione è che, ancora una volta, l’obiettivo sia quello di fare tanto chiasso ma, al contempo, di evitare qualsiasi reazione concreta e contrasto effettivo rispetto alle iniziative del governo”, aggiungono quindi i togati di Articolo 101. Attualmente i magistrati italiani sono da settimane in un non meglio precisato stato di “agitazione”. “Gli italiani dovrebbe sapere, però, che l’Anm da anni è addirittura in “stato di mobilitazione”, deliberato dall’assemblea generale nel 2014 e mai revocato”, puntualizzano i togati indipendenti. “Sciopero? Si vedrà. Ma difenderemo la nostra indipendenza” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 giugno 2023 Intervista al segretario di AreaDg, Eugenio Albamonte: “Non è nostra abitudine inflazionare lo strumento dello sciopero altrimenti si rischia, come accaduto con l’Unione Camere penali, di divenire irrilevanti”. Domenica 11 giugno 2023 si terrà l’assemblea generale dell’Anm, presso l’Aula Magna della Corte di Cassazione a Roma, con all’ordine del giorno l’azione disciplinare intrapresa da Nordio nei confronti dei magistrati milanesi che hanno concesso i domiciliari ad Artem Uss, poi fuggito. Il Guardasigilli è stato invitato all’assemblea, ma fonti di via Arenula fanno sapere che potrebbe essere non presente: sabato dovrebbe essere alla festa del Foglio a Venezia e poi andrebbe a casa senza tornare a Roma di domenica. Ne parliamo con Eugenio Albamonte, segretario di Area Dg. Angelo Piraino, segretario di Magistratura indipendente, al Giornale annuncia: “Sbagliato scioperare contro il ministro della Giustizia, è un’iniziativa dal sapore politico”. Lei concorda oppure no? Ritengo che il problema non sia di merito ma di metodo. Lo sciopero è sempre stato per la magistratura associata l’extrema ratio a fronte di iniziative che interferiscano profondamente con il ruolo della giurisdizione o addirittura con il suo inquadramento costituzionale. Faccio riferimento, ad esempio, a quelle ben più pericolose che si profilano all’orizzonte, dove si prevede una riforma costituzionale destinata a trasformare definitivamente non solo l’idea del pm ma anche quella del giudice. Non è nostra abitudine inflazionare lo strumento dello sciopero altrimenti si rischia, come accaduto con l’Unione Camere penali, di divenire irrilevanti. Ma rispetto alle parole di Piraino cosa dice? Le mie posizioni differiscono profondamente dalle sue. Il collega abbraccia una idea di magistratura che è pre- repubblicana. Una magistratura che non avrebbe diritto di parola né di pensiero in ordine alle riforme che riguardano non solo la magistratura stessa ma il suo ruolo nella società, di tutore e garante dei diritti dei cittadini. Secondo lei questa scelta di tacere troppo può essere spiegata col fatto che c’è una sorta di vicinanza politico- culturale con il governo e col fatto che molti esponenti di Mi siano stati nominati al ministero da Nordio? Più si susseguono posizioni di questo tipo da parte di Mi più sembra che questa lettura che lei dà, e che astrattamente mi sembrerebbe impraticabile, comincia ad avere degli elementi di concretezza. Al di là della stretta collaborazione tra Mi e il ministro all’interno di via Arenula, a me sembra di riscontrare la condivisione, con il governo in carica, di un modello culturale di giurisdizione. Questo governo si dimostra forte con i deboli e debole con i forti; un governo che non si preoccupa di interferire in modo grave anche sui diritti di libertà dei cittadini: è di ieri la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale di una norma, a parer mio liberticida, per cui anche senza querela si può arrestare un cittadino e tenerlo in guardina per 48 ore, salvo poi liberarlo con tante scuse. Questa è soltanto l’ultima delle iniziative assunte dal ministro liberale e garantista. Più fonti di via Arenula sostengono che a prendere le decisioni non sia in realtà Nordio ma il suo cerchio magico di magistrati. Secondo lei è plausibile? È sempre sbagliato una lettura dietrologica. Esempio è lo sciopero pro- Nordio indetto dall’Ucpi, sostenendo che i magistrati intorno al ministro gli impedirebbero di fare le riforme. Rimango a quelli che sono i principi costituzionali: il responsabile del governo dell’azione relativa alla giustizia e alla magistratura è il ministro che costruisce il suo staff, secondo il suo rapporto fiduciario. Non credo sia possibile percorrere alcune ipotesi di un esautoramento del ministro, che resta il mio unico interlocutore. Si potrebbe andare verso uno sciopero se oggi in Cdm Nordio portasse il suo pacchetto di riforme? È impossibile fare un vaticinio senza conoscere nel dettaglio la portata delle nuove norme. Poi sarà l’Assemblea a decidere quali misure prendere. Neanche l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione vi spingerebbe a scioperare? Le reazioni possono essere forti anche a prescindere dall’utilizzazione dello strumento dello sciopero. Ci sono altre forme, come la partecipazione critica al dibattito. L’astensione peraltro è uno strumento poco adatto a sostenere un ragionamento giuridico particolarmente articolato come nel caso che mi sta sottoponendo. Quindi vi vedremo scioperare solo se arriverà seriamente un testo di riforma della separazione delle carriere? C’è di più della separazione delle carriere. In uno dei testi in discussione alla Camera, che richiama quello dell’iniziativa popolare dell’Ucpi, si parla dell’abolizione della norma costituzionale che sostiene che “il giudice è sottoposto soltanto alla legge”, eliminando la parola “soltanto”. Il che lascia degli spazi di compressione della sfera di autonomia del giudice e non del pubblico ministero. Stiamo anche parlando della interruzione del rapporto virtuoso tra polizia giudiziaria e pm, che vorrebbe dire consegnare l’azione penale nelle mani del governo che attraverso i ministeri competenti gestisce le forze dell’ordine. Si tratterebbe di intervenire sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, che è la riaffermazione in campo della giustizia penale dell’articolo 3 della Costituzione, ossia l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. In questo caso, se fallissero altre strade di confronto, forse varrebbe la pena scioperare. Qualche suo collega ha fatto notare che poteva essere la Gec dell’Anm a convocare l’assemblea generale, è stata, invece, “imposta”, dalle Geslocali. Lei conferma e come giudica questo? L’assemblea è stata chiesta da quattro giunte sezionali. A fronte di tale richiesta è obbligatorio per il presidente convocarla. Questo per me è sintomo vitalità della magistratura associata che ancora si indigna e vuole confrontarsi su temi delicati. Come sono i rapporti tra la magistratura e Nordio? Vi ascolta? Questo dovrebbe chiederlo al presidente Santalucia. Io conosco solo i resoconti ufficiali diffusi dal ministero. Spero comunque che sia in atto un confronto e che sia anche vitale e non stereotipato come accaduto con la Cartabia che a cose fatte ci inviava una bozza dei testi il giorno prima di inviarli in Cdm, giusto per dire che aveva consultato la magistratura. Da un ministro, ex magistrato, e dal suo staff mi aspetto che le interlocuzioni siano vitali. Avete invitato all’Assemblea anche il ministro Nordio. Verrà? Mi risulta che sia stato invitato. Sarà una assemblea di magistrati che vogliono sentire il suo punto di vista e chiarire nell’assoluta compostezza e rispetto istituzionale le reciproche posizioni. Il ministro sarebbe ben accolto se decidesse di partecipare. Violenza sulle donne, ecco le nuove misure: distanza minima di 500 metri, intervento anche senza la denuncia della vittima di Alessandra Ziniti La Repubblica, 7 giugno 2023 Il disegno di legge verrà portato domani in Consiglio dei ministri: foto e video validi per l’arresto in flagranza, braccialetto elettronico applicato in automatico. Ammonimento e convocazione in questura anche senza bisogno di denuncia da parte delle donne, applicazione automatica del braccialetto elettronico, distanza minima di 500 metri dalle potenziali vittime, foto e video validi per l’arresto in flagranza di reato. Insieme alla velocizzazione dei tempi per la richiesta di misure cautelari (30 giorni) e all’aumento di magistrati specializzati, sono queste le proposte fondanti del disegno di legge che domani verrà portato in Consiglio dei ministri per segnare un ulteriore giro di vite contro la violenza sulle donne. Sono 15 gli articoli del disegno di legge proposto insieme dai ministri della Famiglia Eugenia Roccella, dell’Interno Matteo Piantedosi e della Giustizia Carlo Nordio. La bozza è stata portata questa sera all’esame del preconsiglio. Più poteri ai questori contro i reati spia - Due gli articoli scritti dagli uffici legislativi del Viminale: il primo dà più poteri agli interventi preventivi dei questori che adesso, se a conoscenza di atteggiamenti violenti o di minaccia da parte degli uomini (i cosiddetti reati spia) potranno adottare provvedimenti come l’ammonimento o la convocazione in questura anche senza la querela di parte. Un intervento ritenuto necessario visto che sono ancora la maggior parte le donne che subiscono in silenzio violenze che preludono ad atti più gravi senza trovare il coraggio di denunciare. Vietati agli uomini violenti i luoghi frequentati dalle vittime - Nuove misure anche per l’utilizzo del braccialetto elettronico che, sempre però su disposizione del tribunale, potrà essere utilizzato per monitorare gli spostamenti di uomini che avranno imposto di mantenersi a distanza (sempre maggiore) dalla loro potenziale vittima, distanza non solo dalla persona ma anche da tutti i luoghi di potenziali incontri. Nuove regole per l’arresto in flagranza - Rilevanti anche le novità sull’arresto finora possibile solo in flagranza di reato. Il nuovo disegno di legge prevede che anche i video o le foto possano essere utilizzati come prova per far scattare l’arresto in flagranza differita. Si legge infatti: “Si considera comunque in stato di flagranza colui il quale, sulla base di documentazione video fotografica o di altra documentazione legittimamente ottenuta da dispositivi di comunicazione informatica telematica”, dalle quali “emerga inequivocabilmente il fatto, ne risulta autore sempre che l’arresto sia compiuto non oltre il tempo necessario alla sua identificazione e comunque entro le quarantott’ore dal fatto”. Aumentate le pene per gli ammoniti - Inoltre, vengono aumentate le pene se il “fatto è commesso nell’ambito della violenza domestica da soggetto già ammonito, anche se la persona offesa è diversa” da quella per cui è scatta la misura. E ancora, tra le novità, si prevede un iter “preferenziale” e più veloce per le misure cautelari, procedimenti per i quali viene disposta la “priorità”, disponendo che i pm decidano “con urgenza”. Percorsi di recupero per tre anni per i violenti - L’uomo che sarà raggiunto da provvedimenti cautelari dovrà attendere tre anni per la revoca e solo dopo la valutazione della sua partecipazione a percorsi di recupero che dovranno essere frequentati senza interruzioni: basterà infatti una sola assenza per far scattare la revoca della sospensione condizionale della pena. Quei verbali dati in pasto al pubblico per togliere i diritti al “mostro” di Simona Musco Il Dubbio, 7 giugno 2023 Ecco come il diritto di cronaca viene sostituito dalle regole del mercato, dalla volontà di assecondare pancia e istinti peggiori, cannibalizzando ancora una volta il corpo di Giulia. Stavolta ci tocca dare ragione al Fatto Quotidiano: privacy e garantismo, nel caso Tramontano, sono andati a farsi benedire. Da giorni assistiamo infatti alla pubblicazione voyeuristica e dettagliata del delitto di Giulia e del bambino che portava in grembo, ad opera di un uomo che diceva di amarla. Una storia non nuova, purtroppo. E da giorni leggiamo sui giornali, tutti ben sincronizzati, ogni particolare: le dichiarazioni della madre del presunto omicida, quelle “dell’altra” e gli sms scambiati nelle ore convulse che hanno preceduto e seguito il delitto; fino ad arrivare al modo con cui Alessandro Impagnatiello si aggiusta il cappellino specchiandosi dopo l’interrogatorio. Ogni dettaglio, ogni singola orribile immagine di una storia che ha scioccato tutti, senza alcuna distinzione, è finita in pasto all’opinione pubblica, senza aggiungere nulla all’orrore. Con un solo scopo: rendere ancora più odioso, più detestabile, un uomo che non ha alcun bisogno di aiuto per essere considerato malvagio. Per fortuna non saremo noi a doverlo giudicare, non saranno i genitori, i familiari o gli amici di Giulia, né sarà Mara Venier o qualche altro opinionista a doverci dire come sono andate le cose. Saranno dei giudici, seguendo le regole dello Stato di diritto, che grazie al cielo non tengono conto del nostro disprezzo e della nostra mancanza di empatia. C’è da esserne grati e bisognerebbe essere terrorizzati dal tentativo di “mostrificare” un uomo che fino all’altro ieri era considerato perfettamente normale. Un’operazione di deumanizzazione che altro non è se non un tentativo di esorcizzare il rischio di poter diventare noi stessi dei mostri. Un esorcismo di massa che passa attraverso la violazione delle regole del diritto, agevolato dalla pubblicazione di verbali assolutamente segreti e il tentativo di privare il mostro del diritto costituzionale di difendersi, il tutto in una fase ancora delicatissima delle indagini. Quel diluvio di dettagli ha favorito il processo parallelo celebrato ai tavolini dei bar, dove tra uno spritz e un caffè ognuno si sente autorizzato a disquisire di aggravanti e premeditazione. “Ecco che i buonisti lo faranno uscire”; “non pagherà nulla”; “vedrete che sarà libero tra qualche anno”, si sente e si legge ovunque. Il tutto senza uno straccio di elemento che non sia quello sapientemente selezionato, imburrato e infornato, pronto da servire in pasto al lettore. Una violazione della deontologia, dunque, dove il diritto di cronaca viene sostituito dalle regole del mercato, dalla volontà di assecondare pancia e istinti peggiori, cannibalizzando ancora una volta il corpo di Giulia, che tutto questo spettacolo lo sta subendo senza poter più dire nulla. Ci siamo abituati ai funerali in diretta, alla gente in manette davanti agli obiettivi, alle macchine fotografiche puntate con freddezza su un padre che piange sul corpo del figlio appena ritrovato. Ci siamo abituati a tutto. È il diritto di cronaca, risponderà chiunque si tenti di interpellare per problematizzare la questione. Che si trasforma in un problema che va ben oltre la deontologia: è proprio trasformando tutto in un film dell’orrore che smettiamo di interrogarci sulle ragioni che stanno dietro a delitti come questo. Ci anestetizziamo. E produciamo soltanto altre vittime. Venezia. “Devi restare in carcere”. Detenuto non regge: si toglie la vita in cella di Roberta Brunetti Il Gazzettino, 7 giugno 2023 Morto suicida nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore dopo aver ricevuto un’ordinanza di custodia arrivata a così tanta distanza dai fatti. Ben cinque anni, in cui per Bassem Degachi - 39enne tunisino, da anni residente a Mestre, alle spalle una storia di droga, tra consumo e spaccio - erano cambiate tante cose: stava scontando una pena per fatti di droga, da un anno aveva ottenuto la semilibertà e usciva regolarmente dal carcere per andare a lavorare nel cantiere di una remiera, soprattutto cominciava a immaginare un futuro diverso. Così quando ieri, in cella, gli è stato consegnato quel plico di carte che disponeva la sua custodia cautelare in carcere per altri fatti di droga del 2018, deve essergli crollato il mondo addosso. Ha chiamato la moglie, Silvia Padoan, per dirle addio. Un’unica telefonata, disperata, che ha gettato tutti i familiari nell’angoscia. Per tre volte raccontano di aver chiamato il carcere per chiedere agli operatori di stare vicino al loro congiunto. Tutto inutile. Tre ore dopo è stato l’ufficio matricola di Santa Maria Maggiore a chiamare Silvia Padoan e a comunicarle il suicidio del marito. Una vicenda che farà molto discutere, quella di Bessem Deghaci, tra gli indagati di questa nuova operazione contro lo spaccio in via Piave che ha avuto tempi tanto dilatati. I familiari sono intenzionati a presentare una denuncia, per fare chiarezza sulle ultime ore trascorse in carcere dal loro caro. E “sconvolto” si dice anche l’avvocato Marco Borella, difensore di fiducia di Bessem Degachi: “In passato aveva fatto i suoi errori, certo, ma stava pagando. Aveva già scontato due anni e mezzo. Da circa un anno era in semilibertà e lavorava in un cantiere, dove erano molto contenti di lui. Ho le lettere di encomio del datore di lavoro. Tra pochi giorni avrebbe avuto un permesso premio di una settimana e a settembre speravamo di ottenere la messa alla prova per farlo uscire dal carcere. In questo periodo era tranquillo, felice, gli stava andando tutto bene. Fino all’ordinanza di ieri che deve averlo fatto crollare. Era per fatti vecchi, avremmo trovato una soluzione”. Ma Degachi non ha retto il peso. E ora lo strazio dei familiari è misto alla rabbia. Troppo provata per parlare la moglie Silvia, a fare da portavoce è la cognata Elisa Poletto. “Questa vicenda non può restare nascosta. Non si può far morire così una persona. Noi avevamo chiamato per tre volte il carcere per dire che stessero attenti, che Bessem voleva uccidersi. Per tre volte ci hanno risposto che andava bene, che avevano capito. Invece”. Poletto ricostruisce queste ore drammatiche. “Dopo la notifica dell’ordinanza Bessem è stato isolato. Alle 12 ci ha chiamato con il telefono che aveva avuto con la semilibertà, che però non può ricevere telefonate. Era fuori di sé. Ci ha detto che non poteva reggere questa nuova carcerazione, che si sarebbe ucciso, che gli dispiaceva di lasciare la moglie sola, ma che non ce la faceva più. Abbiamo cercato di rassicurarlo, ma era disperato. Noi, che lo conosciamo, abbiamo capito che la situazione era grave. Bessem sembrava un uomo forte, in realtà era una persona molto fragile. Non potevamo chiamarlo al suo telefono, così abbiamo contattato il carcere”. Tre telefonate in cui i familiari ricevono rassicurazioni generiche. “Ma noi non eravamo tranquilli - continua Poletto - E alle 15.40 è arrivata la telefonata dell’ufficio matricole. “Mi scusi, devo comunicarle una cosa brutta. Suo marito si è suicidato” hanno detto a Silvia e poi hanno messo giù il telefono. Tutto è questo non è giusto! Noi siamo i primi a dire che chi sbaglia deve pagare. Ma non pagare così, con la vita”. Venezia. La telefonata alla moglie “Disperato”. Bassem aveva già un lavoro di Antonella Gasparini Corriere del Veneto, 7 giugno 2023 Non ce l’ha fatta più ad andare avanti. Quando gli hanno consegnato l’ordinanza e ha visto che sarebbe dovuto rimanere nuovamente in carcere tutto il giorno è crollato e si è ucciso. Bassem Degachi da mesi lavorava con la cooperativa sociale “Il cerchio”, in regime di semilibertà, con le remiere. Inserito in un percorso di accompagnamento, voleva tornare a una vita normale, dopo il carcere, con un mestiere dignitoso in mano. Sognava il suo riscatto e si stava impegnando per rifarsi una vita dopo gli errori del passato. La luce si era accesa di nuovo e traguardava di tornare a casa. Quando gli è stata notificata l’ordinanza che gli toglieva la semi-libertà l’uomo, 39enne di origini tunisine, ha fatto prima una telefonata drammatica alla moglie e poi si è ucciso impiccandosi. “Da un anno lavorava fuori dal carcere, per poi tornarci a dormire la sera - racconta il suo legale, Marco Borella. A settembre avremmo avuto l’udienza per l’affidamento in prova ai servizi sociali. Si è sentito perso. Che senso ha avuto disporre quest’ordinanza per fatti di cinque anni fa?”. Dopo due anni e mezzo di reclusione per il 39enne era arrivata l’attività nella cooperativa. “Una persona corretta, amabile, che si è sempre comportata bene - commenta il presidente della onlus Giorgio Mainoldi. La notizia del gesto estremo ci ha segnati particolarmente”. Nell’ultima telefonata alla moglie verso mezzogiorno l’uomo avrebbe annunciato di volersi togliere la vita: “Sono rovinato, mi uccido”. La donna allora aveva subito allertato il carcere. “Hanno cercato di telefonarmi in studio per farmi parlare con lui - prosegue l’avvocato - Gli avrei detto di stare tranquillo, che non era un problema”. Ma qualcosa non è andato per il verso giusto e il colloquio non c’è stato. Intanto la moglie aveva provato a telefonare sia alla matricola del carcere che a un conoscente, anche lui in semilibertà, per dirgli di calmarlo, ma Degachi era probabilmente già piombato nello sconforto. “Non ha retto all’idea di tornare in carcere - continua Mainoldi - Questa sentenza è arrivata per fatti legati a un passato ormai lontano e quest’uomo stava svolgendo in maniera corretta e precisa il suo lavoro”. L’uomo si era ripreso la vita in mano, la cooperativa gli aveva rinnovato il contratto e aveva avuto dei permessi premio. Ieri, per la Funzione pubblica della Cgil, “lo Stato ha fallito”. Verso le 17.35 in carcere è scoppiata una protesta e un detenuto, dopo un alterco con un famigliare, ha aggredito un poliziotto. “L’amministrazione penitenziaria non fa nulla - dice la Cgil - Non investe in progetti di tutela del personale, e manda avanti un carcere, come il Santa Maria Maggiore, privo di spazi, in sovraffollamento e con una situazione di cronica mancanza di personale. Chiediamo urgentemente un incontro istituzionale”. Venezia. I problemi delle carceri: “Poco personale, barche fuori uso, aggressioni” di Maria Ducoli La Nuova Venezia, 7 giugno 2023 Visita dei sindacati di Polizia penitenziaria a Santa Maria Maggiore e alla Giudecca: “Meglio una struttura unica a Mestre”. Nemmeno la Cittadella della giustizia potrà porre fine al collasso del sistema penitenziario. “Sarebbe stato meglio chiudere le due carceri della Venezia insulare per fare una sola struttura a Mestre. La cittadella alleverà alcune criticità, ma non sarà la soluzione”. Lo dicono i sindacalisti dell’Unione dei sindacati di Polizia penitenziaria (Uspp), che lunedì 5 giugno hanno visitato le case circondariali di Santa Maria Maggiore e della Giudecca. Una visita amara, al termine della quale non è stato possibile fare altro se non la conta di cosa non va. “Innanzitutto, la carenza di personale”, spiega Giuseppe Moretti, presidente nazionale dell’Uspp, “alla Giudecca dei 114 agenti previsti, ne sono attivi 96, di cui 23 in uscita, tra pensioni e maternità. Al carcere maschile, invece, ne mancano 60”. Dei 170 previsti da un decreto ministeriale del 2017, ne sono effettivamente presenti solo 107, di cui 13 sono agenti della navale e 21 compongono il nucleo delle traduzioni nelle aule di giustizia. “Questo si traduce in un carico di lavoro enorme, ogni mese gli straordinari arrivano a superare le 60 ore”. Anche la navale si trova in sofferenza: “Dalle 30 unità previste, sono rimasti in 13”. A questo, si somma anche il problema legato alle imbarcazioni, molte fuori uso. “Su 12 ne funzionano solo 3, la situazione è così da tempo ma non si sta facendo nulla per risolverla”, continua Moretti, indicando la sfilza di barche parcheggiate davanti alla casa circondariale, immobili ed emblematiche della situazione in cui si trova il sistema penitenziario. Non è solo il numero di agenti a preoccupare il sindacato, ma anche la mancanza di specialisti in grado di trattare le situazioni più delicate. “I dipendenti della polizia penitenziaria diventano anche educatori, psichiatri e assistenti sociali a seconda del bisogno”, prende la parola Leonardo Angiulli, segretario regionale Uspp del Triveneto, spiegando che i professionisti della psichiatria di Usl 3 e del Servizio di recupero delle tossicodipendenze vengono nelle carceri saltuariamente, mentre l’esigenza è continua, dal momento che solo a Santa Maria Maggiore, i detenuti con problemi di droga sono 60. “Un altro problema riguarda le aggressioni, ogni anno causano oltre 55 i giorni di assenza”. L’ultima è avvenuta solo un mese fa, alla Giudecca, con una detenuta che si era barricata in reparto e aveva ferito tre agenti, rispettivamente con delle prognosi di 21, 7 e 3 giorni. Per far fronte all’episodio, era stato necessario chiedere i rinforzi da Padova, vista la scarsità di agenti. A influire sul vuoto organico è la specificità della città d’acqua. “Non è stato messo a disposizione un parcheggio per i dipendenti, in difficoltà soprattutto nelle ore serali e notturne”. A tal proposito, i sindacati hanno avuto un incontro sia con il prefetto che con l’autorità marittima ma è stata proposta loro una soluzione a pagamento che non li ha soddisfatti. “400 euro l’anno per un posto nel verde, nemmeno sterrato. Perché poi dobbiamo pagare per offrire un servizio allo stato?”, si chiedono. Sulmona (Aq). Poche chiamate a casa, i detenuti Sulmona inscenano la “battitura” ansa.it, 7 giugno 2023 Sbattono le pentole contro le sbarre per protesta. Sono i detenuti del carcere di Sulmona (L’Aquila) che contestano così, da questa mattina, la riduzione delle ore riservate al contatto telefonico con i congiunti. I reclusi, durante la pandemia, avevano la possibilità di telefonare più assiduamente, anche con videochiamate. La cessazione formale dello stato di emergenza ha ripristinato di fatto la possibilità di contattare i congiunti solo due volte al mese. Si è quindi generato un clima di malcontento nella popolazione carceraria. Torino. “Siamo persone non baby gang”, la lettera dei giovani detenuti di Luca Monaco La Repubblica, 7 giugno 2023 Messaggio alla città di Torino, scritta nell’ambito del progetto “Lettere dal carcere” promosso dall’associazione Jonathan finanziato dall’ufficio del Garante dei detenuti di Torino e presentata martedì a palazzo Civico. “Sulla stampa ci definiscono ‘bande etniche’, ma siamo ragazzi nati a Torino, siamo persone, non siamo i reati che possiamo aver commesso”. Con una lettera dal carcere Dani, Amza, Giuseppe, Sami e Amin, cinque giovani di età compresa tra i 20 e i 25 anni detenuti nel penitenziario Lorusso e Cotugno prendono la parola e raccontano la durezza della loro condizione. Lo fanno prendendo spunto dai toni usati per raccontare l’assalto ai negozi di via Roma del 2020, anche se loro sono detenuti per altre ragioni. Nelle due pagine della lettera aperta alla città di Torino, scritta nell’ambito del progetto ‘Lettere dal carcere’ promosso dall’associazione Jonathan finanziato dall’ufficiale del garante dei detenuti di Torino e presentata martedì a palazzo Civico, i cinque ragazzi scelgono, attraverso il loro scritto, di intervenire nel dibattito pubblico sulla devianza giovanile in città. Dani, Amza, Giuseppe, Sami e Amin prendono la parola per liberare il campo dai luoghi comuni. Non ci stanno a essere ghettizzati, definiti come i figli peggiori delle periferie, tratteggiate a loro volta “come luoghi degradati e violenti - sottolineano i ragazzi - i cui abitanti si dividono tra poveri ignoranti e incalliti criminali”. La lettera é stata presentata nel corso della seduta della commissione consiliare sulle Politiche giovanili alla presenza della garante dei detenuti di Torino Monica Gallo, delle assessore comunali Gianna Pentenero (Rapporti con il sistema carcerario), Carlotta Salerno (Politiche giovanili), Franco Prina già ordinario di Sociologia giuridica e della devianza dell’università di Torino, e Gianfranco Todesco della polizia municipale. “Il primo risultato di questo piccolo progetto, ancora in fase sperimentale - sottolinea Gallo - ha dato modo di trovare un momento di confronto molto importante. Per rilevare anzitutto che la scelta del linguaggio sul fenomeno andrebbe migliorata”, aggiunge la garante dei detenuti. “Il tempo vuoto del carcere - afferma ancora - va riempito di contenuti per restituire dei ragazzi più maturi e consapevoli alla società civile”. Del resto è un concetto che Dani e gli altri esprimono per primi nelle due pagine di lettera alla città. Perché prima di arrivare ai fatti di via Roma, all’assalto al centro cittadino mosso nella notte tra il 26 e il 27 ottobre 2020, con le vetrine in frantumi e il saccheggio dei negozi in via Roma, “l’esclusione sociale - si legge nella lettera - inizia con le parole scelte negli articoli di giornale (un pezzo in particolare che definiva i giovanissimi ‘Bande etniche’) e continua col tempo vuoto dalla ‘branda al carrello’, ovvero, con la mancata applicazione delle misure alternative alla detenzione”. I giovani delle periferie, continuano i ragazzi, “secondo i media sono pericolosi criminali con nessun rispetto per le regole di convivenza. A fare le spese di questo tipo di narrazione - ragionano - sono tutte le persone che vivono nelle zone periferiche della nostra città, che, perciò, finiscono per essere ancor più ghettizzate e marginalizzate”. Senza trascurare il rispetto della privacy, con i nomi e i cognomi dei giovanissimi arrestati spesso pubblicati senza scrupoli. “Questo modo di raccontare le persone - scrivono ancora Dani e gli altri - finisce per definirle con l’etichetta del reato che hanno commesso, senza indagare chi davvero siano e che vissuti abbiano”. Forse senza farsi sufficienti domande sull’origine della rabbia che ha innescato una notte di violenza cieca e apparentemente immotivata. “Siamo i figli di Torino”, ripetono i ragazzi. É la garante dei detenuti osserva come sia necessario, per evitare fatti analoghi, implementare i progetti di inclusione sociale per intercettare questi ragazzi, “prima che finiscano in carcere”. Verona. Schiaffi, calci, spray urticante. 5 poliziotti sono stati arrestati: “Violenti e sadici” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 giugno 2023 Pestaggi, insulti: 5 i poliziotti messi agli arresti domiciliari. Un agente ha urinato su un fermato a terra, dicendo ai colleghi: “So io come svegliarlo”. Un altro poliziotto ha raccontato alla fidanzata al telefono le vessazioni nei confronti dei detenuti nell’“acquario”, la stanza dei fermati: “Violenti e sadici”. La prima “tortura” contestata in ordine di tempo è quella contro un fermato italiano, e risale al 22 agosto scorso: percosse varie e poi un “vigoroso schiaffo sul volto tale da fargli perdere i sensi per dieci minuti”, con successivo calcio da parte di un collega “istigato a infierire”; la seconda è del 21 ottobre, nei confronti di un cittadino africano apostrofato come “tunisino di merda, figlio di puttana, cosa ci fai qui?”, colpito con lo spray urticante al momento del fermo e poi preso a calci quando scendeva dalla macchina, con annessa “azione degradante consistita nell’avere, uno dei poliziotti, urinato sulla parte lesa distesa a terra dopo aver proferito le espressioni ‘so io come svegliarlo”; la terza sarebbe avvenuta il 26 ottobre a carco di un altro cittadino africano, stavolta chiamato “marocchino di merda” e “bastardo”, colpito con un calcio; la quarta è della notte tra il 9 e il 10 novembre e ha riguardato ancora un africano preso a “calci, sberle e spintoni”, anche lui riempito di spray urticante e con la minaccia di spruzzarglielo anche “nel culo”. Sono gli episodi riassunti nell’atto d’accusa del giudice dell’indagine preliminare che ha mandato agli arresti domiciliari cinque poliziotti in servizio alla Questura di Verona, di età comprese fra i 24 e i 44 anni, messi sotto inchiesta dai loro stessi colleghi della squadra mobile dopo che - nell’ambito di un’altra inchiesta nella quale era sorto il sospetto di una perquisizione “compiacente” a carico di alcuni albanesi inquisiti per tentato omicidio e altri reati - in alcune intercettazioni si parlava di percosse nei confronti di persone fermate. In particolare uno degli indagati, l’agente non ancora venticinquenne, “ripetutamente descriveva al telefono alla propria fidanzata, con evidente compiacimento, la commissione, da parte sua e di altri colleghi, di condotte gratuitamente violente e sadiche nei confronti di soggetti privati della libertà personale, anche solo per identificazione, spesso trattenuti nella stanza fermati, denominata cinicamente ‘L’acquario’ per la presenza di una parete in plexigas attraverso la quale il personale di polizia era ed è in grado di osservare ‘i pesci’ rinchiusi’ “. Per accertare i fatti i funzionari della stessa Questura, d’accordo con i pubblici ministeri della Procura, hanno messo sotto intercettazione telefonica e ambientale i poliziotti sospettati, e attivato le telecamere in alcuni uffici da loro frequentati, oltre che visionato le immagini registrate dall’impianto di videosorveglianza nella stanza-fermati chiamata “acquario”. È stato dunque lo stesso Corpo di appartenenza, guidato dal questore Roberto Massucci, che ha fornito ai magistrati il materiale per procedere alle contestazioni e agli arresti nei confronti dei poliziotti indagati, ma ha pure allontanato dai rispettivi impieghi una ventina di altri agenti considerati responsabili di omissioni o coperture in favore degli accusati, procedendo a un immediato trasferimento ad altri incarichi in attesa degli sviluppi dell’inchiesta penale. “È innegabile - scrive il giudice nell’ordinanza di custodia cautelare - che tutti gli indagati abbiano tradito la propria funzione comprimendo i diritti e le libertà di soggetti sottoposti alla loro autorità, offendendone la stessa dignità di persone, creando essi stessi disordine e compromettendo la pubblica sicurezza, commettendo reati piuttosto che prevenirli, in ciò evidentemente profittando della qualifica ricoperta”. In uno dei casi di violenza, due poliziotti sono accusati non solo di aver picchiato una persona sottoposta a fermo di identificazione, ma anche di averla costretto a urinare nella stanza fermati, scrive il Gip di Verona nell’ordinanza nei confronti degli indagati, sottolineando che gli stessi l’hanno poi l’hanno spinta in un angolo facendola cadere a terra e usandola “come uno straccio per pulire il pavimento”. Inoltre il gip aggiunge “un’altra amara considerazione”, relativa a un particolare: “I soprusi, le vessazioni e le prevaricazioni poste in essere dagli indagati risultano aver coinvolto in misura pressoché esclusiva (tranne un caso, ndr) soggetti di nazionalità straniera, senza fissa dimora ovvero affetti da gravi dipendenze da alcol o stupefacenti, dunque particolarmente ‘deboli’”. Una circostanza che, secondo il giudice, “da un lato ha consentito agli indagati di vincere più facilmente eventuali resistenze delle loro vittime, e dall’altro ha rafforzato la convinzione dei medesimi di rimanere immuni da qualunque conseguenza di segno negativo per le loro condotte, non essendo prevedibile nella loro prospettiva che alcuna delle persone offese si potesse determinare a presentare denuncia o querela pronto”. Senza fare i conti, però, con i colloqui causalmente registrati dalle microspie attivate per un’altra inchiesta, e con la determinazione a indagare a fondo - una volta emersi i primi sospetti - della stessa Questura di cui facevano parte. Verona. Umiliazioni e violenze sui più deboli. Quando i criminali sono poliziotti di Youssef Hassan Holgado e Nello Trocchia Il Domani, 7 giugno 2023 Ci sono le violenze, i pugni, gli schiaffi e le umiliazioni, come quella che è stata inflitta a un cittadino straniero, il cui corpo è stato impiegato “come uno straccio per pulire il pavimento”, sporco d’urina. È lunga la galleria degli orrori di cui si sono resi protagonisti cinque poliziotti della questura di Verona, all’epoca dei fatti al nucleo volanti, arrestati dai colleghi della squadra mobile, su ordine della procura locale. I reati contestati ai cinque indagati sono, a vario titolo, tortura, lesioni, falso, omissioni di atti d’ufficio, peculato e abuso d’ufficio. Gli agenti, in tutto gli indagati sono ventidue, hanno utilizzato il loro potere per umiliare i fermati, alcuni durante una semplice procedura d’identificazione, ovvero il controllo dei documenti. Una vicenda che ricorda la caserma dei carabinieri di Piacenza, trasformata, in quel caso dai militari dell’arma, in un luogo di violenze e violazioni sistematica dei diritti umani. Uno dei malcapitati è stato brutalizzato da due agenti, entrambi ai domiciliari. Il cittadino straniero era stato fermato per l’identificazione e portato in questura dove è stato “percosso con un calcio e alcune sberle”. Hanno continuato “colpendolo con due violenti colpi al volto facendogli perdere i sensi (...) trascinandolo nuovamente all’interno della stanza fermati e dunque, crudelmente, spruzzandogli sul viso spray urticante, mentre l’uomo era in terra privo di sensi, dove dunque veniva abbandonato (...)”. Non bastavano i pugni, l’utilizzo illegale dello spray, i colpi al fianco, i due agenti non hanno consentito alla vittima di andare in bagno così da indurla a urinare all’interno della stanza. Poco dopo sono entrati all’interno, lo hanno spinto e premuto al suolo per fargli ripulire, come se il suo corpo fosse uno straccio, l’urina. “Tunisino di merda, figlio di puttana, cosa ci fai qui”, urlava, invece, un altro poliziotto ai domiciliari, contro un arrestato. Di nuovo botte, violenze e l’uso disinvolto dello spray. La vittima, appena giunta la volante in questura, era caduta in terra sfiancato dai colpi subiti. Tomaselli, in compagnia di altri tre agenti, assisteva così a una scena indegna, uno dei poliziotti urinava addosso al fermato dopo aver proferito queste parole: “So io come svegliarlo”. Le intercettazioni - Ma come è stato possibile per la procura di Verona ricostruire queste condotte? Tutto è partito da un’inchiesta su alcuni indagati di nazionalità albanese e dalle intercettazioni disposte “sono emersi elementi di prova della commissione di gravi reati da parte degli agenti”, scrive Livia Magri, giudice per le indagini preliminari. I poliziotti erano consapevoli della gravità delle azioni che commettevano e si davano consigli per evitare di farsi inquadrare dalle telecamere predisposte negli uffici. “Evitiamo di alzare le mani nell’acquario”, diceva uno degli agenti ai suoi colleghi. Con il termine “acquario” si intendeva la stanza dei fermi dove erano posizionate le telecamere. “Magari iniziano a controllare a cagare il cazzo”, aggiungeva prima di dare un consiglio ai colleghi: “Se dovete dare qualche schiaffo nei corridoi”. I poliziotti individuavano i punti oscuri, quelli non raggiunti dalle inquadrature, come ad esempio, il “tunnel”, il luogo dove sostano le auto di servizio. Nelle conversazioni intercettate dagli inquirenti, Migliore raccontava alla sua compagna come picchiava uno dei fermati: “Ho caricato una stecca amò bam lui chiude gli occhi di sasso per terra è andato a finire è rimasto là (...) si è irrigidito tutto ed è caduto sai hai presente i ko (...) io gliel’ho tirata bene gli ho detto adesso lo sfondo, bam”. Il poliziotto, ora ai domiciliari, si beava delle botte inferte e si lasciava andare, come i colleghi, a insulti razzisti contro i fermati. “Altra amara constatazione è quella per la quale i soprusi, le vessazioni e le prevaricazioni poste in essere dagli indagati risultano aver coinvolto, in misura pressoché esclusiva (unica eccezione T.M.), soggetti di nazionalità straniera, senza fissa dimora, ovvero affetti da gravi dipendenze da alcool o stupefacenti, dunque soggetti particolarmente “deboli”, scrive la giudice. Un’inchiesta che ricorda l’importanza delle intercettazioni e del reato di tortura, strumenti che il governo delle destre vorrebbe ridimensionare e rivedere. Verona. Da quei poliziotti vigliaccheria oltre alla ferocia, l’unica strada è denunciare di Francesca Fagnani La Stampa, 7 giugno 2023 Quattro agenti e un ispettore sono finiti agli arresti domiciliari con accuse gravissime, dalla tortura al falso, per aver picchiato, vessato e umiliato persone sottoposte a fermo e affidate alla responsabilità dello Stato e delle sue leggi. Ci risiamo. Stavolta non c’è stato neanche il tempo di togliersi dagli occhi le immagini brutali del video della trans pestata da alcuni agenti della Polizia locale di Milano che ecco un altro caso di vergognoso abuso della propria autorità da parte di poliziotti in servizio presso la Questura di Verona. Quattro agenti e un ispettore sono finiti agli arresti domiciliari con accuse gravissime, dalla tortura al falso, per aver picchiato, vessato e umiliato persone sottoposte a fermo e affidate alla responsabilità dello Stato e delle sue leggi che non prevedono certo che la persona privata della propria libertà sia picchiata fino a farle perdere i sensi o sia costretta ad urinare in terra per il gusto sadico di farla poi rotolare come uno straccio nei propri escrementi. L’attività della Squadra Mobile di Verona - che ha condotto le indagini a carico dei colleghi - ha registrato per otto mesi il comportamento di cinque poliziotti che in almeno sette occasioni hanno dato sfogo ai loro peggiori impulsi nei confronti di stranieri senza fissa dimora o tossicodipendenti, aggiungendo vigliaccheria alla loro ferocia. Quanto coraggio da parte di chi poi si vantava delle proprie imprese con gli altri e addirittura con la fidanzata: “Com’è che non l’hai ammazzato?”. Si provi ad avere lo stesso comportamento con chi è consapevole dei propri diritti o è in grado di pagarsi un avvocato e raccontargli tutto per filo e per segno. Inutile precisare che gli abusi non sono accettabili mai e nei confronti di nessuno, ma è ancora più spregevole e doloroso quando ad esserne vittima sono gli ultimi e gli emarginati. Come Hasib Omerovic, il rom sordomuto precipitato l’estate scorsa dalla finestra della sua casa popolare, dopo un blitz non autorizzato dei poliziotti del commissariato di Primavalle a Roma. Gli uomini in divisa in quel caso avrebbero agito dando seguito ad alcune voci degli abitanti del quartiere, secondo le quali Hasib avrebbe infastidito le ragazze. Tanto era bastato agli agenti oggi indagati per picchiarlo violentemente e legargli i polsi con il filo della corrente di un ventilatore, fino a procurarsi l’accusa - per quel volo di nove metri dalla finestra - di tentato omicidio, nonostante gli strenui tentativi di depistaggio. Minacciavano il ragazzo disabile brandendo un coltello: “Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, la stessa intenzione, ma con lo spray al peperoncino, manifestata dagli agenti di Verona nei confronti di chi finiva nelle loro mani. Un linguaggio pieno di odio e di violenza che trasforma uomini di Stato in banditi, confondendo i piani di chi dovrebbe stare seduto dalla parte giusta della storia e che invece occupa la sedia sbagliata, ingenerando - come si diceva giorni fa nel caso della trans pestata senza motivo - quel senso di smarrimento e di sfiducia nei cittadini da cui è sempre difficile poi tornare indietro. Nella brutta vicenda di Verona che coinvolge i cinque agenti arrestati però è necessario sottolineare e incoraggiare un cambio di passo significativo da parte della Polizia stessa che in questo caso ha deciso di allontanare dagli incarichi operativi altri 17 poliziotti non direttamente coinvolti nelle azioni violente, ma che hanno coperto i colleghi non denunciandoli. Difficile ipotizzare infatti che nessuno abbia visto dal momento che le torture avvenivano in un locale dotato di una vetrata in plexiglass. Un segnale importantissimo che interrompe quella che purtroppo è una consuetudine, ovvero l’abitudine al silenzio e ai depistaggi che trasferiscono sull’intero corpo l’onta di comportamenti individuali per cui poi non regge certo la solita teoria delle poche mele marce. Alzare il tappeto e denunciare la polvere che sta sotto è l’unica via tra l’altro per indurre altri colleghi timorosi a infrangere quel muro di omertà che circonda quasi sempre fatti simili e che non fa altro che amplificare la gravità della situazione. Inoltre, ogni volta che un abuso viene insabbiato e coperto si determina nei cittadini non solo un sentimento generale di sfiducia ma anche un retropensiero molto pericoloso, il timore cioè di finire colpevoli o no sotto la responsabilità dello Stato. Un rischio che le istituzioni non possono (più) permettersi di correre non solo perché sarebbe ingiusto per tutti coloro che indossano con onore la divisa, ma soprattutto perché se è vero che viviamo in uno Stato di diritto nessuno è al di sopra della legge, nemmeno i colleghi. Verona. Il questore: “Arresti dolorosi, ma non possiamo coprire gli abusi. La divisa va indossata con onore” di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 7 giugno 2023 Roberto Massucci è in carica nella città scaligera da aprile, quando le violenze e le indagini erano già terminate: “Metteremo a disposizione della magistratura tutti gli elementi perché ci sia un processo giusto”. Ci sono due parole che il questore di Verona, Roberto Massucci, arrivato qui ad aprile quando tutto era già terminato (le indagini e dunque le violenze visto che tutti i protagonisti erano stati trasferiti) ma ancora tutto doveva cominciare (gli arresti, la vergogna dei fatti ma anche “l’orgoglio” di non aver chiuso gli occhi), usa con più frequenza: “Dolore e dovere”. “Tutto quello che abbiamo fatto è stato doloroso ma doveroso. Il messaggio che vogliamo dare non deve avere sottintesi: la Polizia di Stato non è disponibile a coprire alcun abuso, a maggior ragione quando sono commessi da chi, come noi, dedica la propria vita a difendere i cittadini”. Si è chiesto: com’è potuto succedere? “Quando, appena arrivato, ad aprile, sono stato messo a conoscenza delle indagini che si erano appena concluse, mi sono certamente domandato come affrontare quello che è accaduto. Al di là di quelli che saranno gli esiti dell’indagine penale, abbiamo voluto dare delle risposte molto chiare: chi non si è comportato da poliziotto, non per forza commettendo degli eventuali reati, dovrà dare delle risposte convincenti. La divisa che portiamo va onorata ogni giorno, e questo non è un modo di dire. Anche in un momento doloroso come questo, sono fiero che la Polizia di Stato abbia dato comunque le risposte che doveva”. In che senso? “Pur nella sofferenza di dover indagare su dei poliziotti, l’indagine è stata svolta per mesi dall’interno per accertare in modo chiaro e trasparente comportamenti non legittimi. Non è stato facile. Ripeto: è stato doloroso, ma assolutamente doveroso. In un momento così difficile per noi abbiamo mostrato che la parte sana della Polizia alla fine è quella che vince”. Che reazione hanno avuto i vostri colleghi quando oggi avete messo le manette? “Io ho lavorato come capo delle Volanti qui, tanti anni fa. E per questo sono stato particolarmente felice ed emozionato quando ho avuto l’opportunità di tornare in città come Questore. Ricordo sempre le parole di un sovrintendente proprio di Verona, tragicamente caduto in un conflitto a fuoco quando mi diceva che una volta messe le manette anche il peggiore criminale è una persona e come tale è da rispettare sempre”. Quello che si legge negli atti d’indagine, però racconta qualcosa di molto diverso. “L’indagine è il frutto del lavoro delle donne e degli uomini della questura di Verona, e per questo li ringrazio. Le indagini tecniche, l’ascolto delle vittime, il lavoro di riscontro è stato fatto tutto dai nostri poliziotti. Riguardo alle responsabilità: se qualcuno è venuto meno al principio base del rispetto è giusto che sia la magistratura a valutarlo sulla base delle indagini che abbiamo sviluppato, come scritto dal Gip in modo encomiabile”. Ecco: quando oggi avete notificato l’arresto ai colleghi che reazioni hanno avuto? “Le operazioni si sono svolte nel massimo della serenità. Li abbiamo portati qui in Questura e si è svolto tutto come si deve fare in questi casi. Sanno che ora a loro toccherà difendersi. E noi che, come sempre, metteremo a disposizione della magistratura tutti gli elementi perché si tenga un processo giusto. È il nostro mestiere, quello di poliziotti”. Bergamo. La persona oltre il reato. A Daste una rassegna per parlare di carcere di Serena Valietti ecodibergamo.it, 7 giugno 2023 “Unlock - Evasioni artistiche” è una rassegna socio-culturale dedicata al tema della reclusione che porterà spettacoli, performance, proiezioni e dialoghi all’ex centrale Daste di Bergamo dal 9 all’11 giugno. Un appuntamento che diventa occasione di riflessione sul tema del carcere e del perché ci fa così paura, grazie al contributo del professor Ivo Lizzola, impegnato sui temi della giustizia riparativa e di un’umanità da ritrovare dietro le sbarre. Quando e? stato che la nostra vita ha preso quella piega? E se, quella volta, quel giorno o in quel momento, avessimo agito diversamente? Quante volte ci siamo posti questi interrogativi? Domande come queste non sono solo nostre, ma ritornano anche nelle biografie delle persone che hanno commesso un reato. ““Loro” non sono diversi da “noi”“ spiega il professor Ivo Lizzola, ordinario di Pedagogia sociale e di Pedagogia della marginalità e del conflitto e della mediazione all’Università degli Studi di Bergamo. “Siamo simili nelle storie nostre, nelle fatiche delle relazioni, nei disagi personali, nelle nostre interiorità, nelle reattività. Siamo davvero molto simili. Le storie che si sentono raccontare in carcere sono vicinissime a noi, sono come le nostre. Chi è recluso non è una persona particolare perché vive in carcere, lì c’è solo una concentrazione di problematicità che fuori sono più disperse e rischiano di essere abbandonate e lasciate in solitudine”. Contro questo isolamento, progetti riabilitativi, creatività, espressione e cultura possono tanto, sia per chi è “dentro”, sia per chi non lo è, aiutando anche noi a comprendere un mondo che ha tanto da dirci. “Unlock - Evasioni artistiche “ è un’occasione per scoprirlo più da vicino, una rassegna socio-culturale dedicata al tema della reclusione e alla condizione di chi la vive, che verrà esplorata attraverso proiezioni, spettacoli, performance e dialoghi. La rassegna si terrà all’ex centrale Daste dal 9 all’11 giugno, a ingresso libero su prenotazione. Dai racconti di reclusione alle nostre vite possibili - Alla riflessione proposta dagli spettacoli, si affianca quella del professor Lizzola, da anni impegnato sui temi come vulnerabilità sociale, disagio esistenziale, carcere e giustizia riparativa, che con il suo contributo apre una prospettiva profondamente umana su chi si è recluso: “La percezione più pericolosa di tutte è che chi ha compiuto un reato sia quel reato. Se fosse così, tutti noi saremmo condannati a essere solo il momento in cui abbiamo espresso il peggio di noi”. Una riflessione che risuona nelle parole dei detenuti stessi in “Racconti di reclusione”, primo appuntamento di “Unlock”, una mattina di proiezioni e dialoghi sull’esperienza di 15 anni di teatro sociale nel carcere di Bergamo. Protagonisti il 9 giugno alle 11 i video girati dai reclusi durante il laboratorio teatrale condotto da Teatro Piroscafo (prenotazione facoltativa). “Racconti di reclusione” - “Nelle carceri si incontra un’umanità molto fragile, molto dolente, che spesso ha accumulato gravi problematicità e tanti svantaggi - spiega il professore - Quelli che portano al reato sono meccanismi che appartengono a persone normali, ma che hanno dei contatti con la realtà molto limitati, miti sbagliati, ricerca di denaro facile, consumismo sfrenato o vivono delle situazioni di forte disagio o dipendenza. Tutto questo è ben presente all’esterno, dove a volte ha anche manifestazioni più eclatanti”. Come molti potranno obiettare, anche Lizzola specifica che “ce n’è anche fuori di questa umanità, che non per questo ha compiuto reati. Però è anche vero che, pur essendoci persone che lo compiono e lo vogliono il reato, persone che hanno una sorta di mentalità criminale, ce ne sono anche moltissime per cui il reato è stato uno scivolamento, frutto di una serie di debolezze e di casualità. Casualità vissute anche da noi “fuori”, che però non raggiungiamo il momento finale del reato. Molti dei detenuti si trovano nel reato e rischiano da lì di costruirsi una sorta di destino, a volte una “carriera criminale”, come diceva un grande studioso come Gateano De Leo”, professore ordinario di psicologia giuridica e sociale dell’Università degli Studi di Bergamo, fondatore della cattedra di psicologia giuridica dell’Università La Sapienza di Roma. E quindi torna ancora quel bivio, quel “Come sarebbe stato se avessi fatto diversamente?”. Sono queste le domande chiave di “Se…”, lo spettacolo teatrale che il 9 giugno andrà in scena a Daste alle 14, risultato del laboratorio di teatro sociale “Fragili legami”, condotto nella casa di reclusione di Brescia Verziano, prodotto dall’Associazione Briganti in collaborazione con la direzione e l’equipe educativa del carcere (prenotazione obbligatoria). Punto di partenza è la storia di Giulietta e Romeo: come si sarebbero evolute le cose se lui avesse ricevuto la lettera in cui si diceva che la morte dell’amata era solo una finzione? Da questi spunti si aprirà poi uno spazio di riflessione condiviso con il pubblico. Lo spettacolo sarà in replica anche la mattina del 10 giugno presso la Casa circondariale Brescia “Nerio Fischione”, un’occasione per entrare in spazi normalmente inaccessibili al pubblico (prenotazione obbligatoria). Il laboratorio di teatro sociale “Fragili legami” Da riflessione e dialogo si passa poi all’atto creativo, protagonista di “Istantanea #03”, performance che andrà in scena il 9 giugno alle 16, interpretata da un gruppo di detenute e detenuti insieme ai performer di Compagnia Lyria, che hanno partecipato al laboratorio di danza contemporanea, scrittura creativa e Metodo Feldenkrais® presso la Casa di Reclusione Verziano Brescia nell’ambito del Progetto Verziano. “Istantanea #03” è uno spettacolo che lavora sulla “capacità di essere in contatto con se stessi e, contemporaneamente, di sintonizzarsi con gli altri, coglierne gli stimoli per creare un dialogo imprevedibile attraverso il movimento”. Ed è questa capacità di “sentire” non solo chi abbiamo davanti, ma di “fare i conti con il dolore arrecato all’altro e sentirlo” ad essere, come spiega il professor Lizzola, “una delle vie di contatto con il proprio gesto e le sue conseguenze più forti. Se noi facciamo avvenire ciò, questo scioglie la capacità del reato di cristallizzare quasi una predestinazione a una carriera criminale, una marginalità, una pericolosità o un destino già segnato”. “Alda. Parole al vento” - Ed è sempre il sentire al centro dello spettacolo “Alda. Parole al vento”, in programma il 9 giugno alle 17 a Daste, un momento di musica e poesia, tra leggerezza, amicizia e sorellanza, che prende spunto da testi scritti dalla poetessa Alda Merini o a lei dedicati, su cui hanno lavorato le donne recluse di San Vittore (prenotazione obbligatoria). Come mai il carcere e chi ci sta dentro fa così paura? “Da dove arriva il senso di rifiuto e timore davanti a chi sta in carcere? Da noi. Quello che troviamo “dentro” siamo ancora noi - spiega Lizzola - Chi è “dentro” ci spaventa perché ci spaventa incontrare noi stessi o le potenzialità che ci abitano. Invece incontrare questo “altro che è in noi” primo, ci farebbe benissimo, perché ne diventeremmo consapevoli e potremmo lavorarci su, secondo, impareremmo a non demonizzare chi ha compiuto gesti offensivi, che hanno fatto male o hanno distrutto e rotto le fedeltà a quel legame sociale su cui noi riposiamo, nella fiducia degli uni o degli altri. Chi ha compiuto un reato, non ha solo compiuto un reato, ma ha reso più incerta tutta la comunità nel vivere le relazioni con gli altri e questa è una cosa da ricucire. Quante relazioni ferite sono presenti fuori pur non avendo la forma del reato?”. Quando invece questo è presente, c’è anche la punizione, di cui professor Lizzola non nega l’importanza, ma che sottolinea vada inserita in un contesto riparativo, capace di offrire davvero una possibilità di riabilitazione della persona: “Una società ha il diritto di punire, ma nel modo in cui costruisce la pena deve segnare una distanza netta dal male commesso. Se è stata fatta una violenza e la pena la costruisci violenta ed espiativa o ricattatrice - per cui solo il furbo riesce a convivere bene in carcere e non quello che riesce ad esercitare responsabilità - allora in fondo rinforzi la stessa logica”. Il laboratorio “Ninna nanna prigioniera” - “L’esecuzione penale deve invece riportare le persone dentro i luoghi della convivenza, in cui il rispetto del legame con l’altro e il sentire la responsabilità gli uni per gli altri abbiano un’evidenza fortissima e permettano di ripensarsi e di tornare a scegliere - aggiunge Lizzola - Non basta dire “diamogli una seconda occasione”, bisogna far conoscere alle persone il mondo nelle sue contraddizioni e anche nella bellezza di una vita degna, vissuta per altri e con altri, di vita rispettata . Molte delle biografie in carcere queste realtà le hanno incontrate pochissimo e farle rincontrare è una forza grande”. La forza delle relazioni per riabilitare la persona reclusa - La famiglia e gli affetti possono essere la leva più potente che porta le persone a ripensarsi, a studiare, fare cose utili, informarsi e impegnarsi e a lavorare su di sé, anche nei percorsi con gli psicologi. Spiega il professore: “la famiglia può essere il punto di dolore più forte ed è importante attivarsi anche fuori, sostenendo chi ha qualcuno dentro e creare la possibilità di mantenere o ricucire relazioni, oltre a smontare gli stereotipi”. Questo è ciò che fa “Ninna nanna prigioniera”, il documentario in programma il 10 giugno alle 20.30 al cinema “Lo schermo bianco” di Daste, insieme all’incontro con la regista Rossella Schillaci (prenotazione obbligatoria). Il film racconta il quotidiano di una piccola famiglia reclusa: Yasmina di 24 anni e i suoi figli più piccoli vengono raccontati tra il bagnetto, il pranzo, le passeggiate lungo i corridoi del carcere e rivelano il dramma con cui ogni madre si troverebbe a confrontarsi in una situazione simile. In questa delicata pellicola, la regista riporta allo spettatore un ritratto intimo e partecipe su maternità?, responsabilità? e scelte, e sull’energia vitale dell’infanzia, capace di trasformare anche il mondo carcerario. La proiezione “Affiorare” - In programma anche un secondo lavoro di Rossella Schillaci, “Affiorare”, una proiezione in realtà virtuale, proposta a Daste per tutta la durata di “Unlock”; un documentario sperimentale in cui le animazioni si fondono con riprese all’altezza degli occhi bambini, raccontando la vita quotidiana di madri e figli che vivono in carceri o istituti di custodia per detenuti. In programma anche un incontro con l’autrice l’11 giugno alle 14 sempre all’ex centrale. Uno sguardo insolito “da dentro” sarà offerto anche da “VR Free (We Are Free)”, la proiezione proposta dal 9 all’11 giugno, un secondo documentario in realta? virtuale che racconta la vita all’interno della Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. In scena le reazioni dei detenuti che ritrovano la vita fuori dal carcere attraverso video a 360° e audio, da una partita di calcio, a un’immersione, all’incontro con i propri cari “fuori”. La dignità del lavoro in carcere ha il profumo del pane - Il terzo giorno di “Unlock” invece è all’insegna di acqua, farina e lievito: l’11 giugno alle 16 il pubblico sarà invitato a partecipare a “Dolci sogni liberi”, un laboratorio di panificazione aperto a tutti, per raccontare il progetto di inserimento lavorativo ideato e realizzato dalla Cooperativa Sociale Calimero presso la Casa Circondariale di Bergamo. Le persone detenute protagoniste di questo progetto “sono brave, sono lavoratori competenti, che garantiscono qualità - spiega il professor Lizzola - L’associazione di panificatori bergamaschi ne è orgogliosa. Le aziende che hanno lavorazioni svolte in carcere stanno poi attentissime a non perdere chi hanno formato all’interno”. Oltre all’aspetto economico, l’importanza del lavoro è custodita in un messaggio importante: “grazie a ciò che fai la società ti considera una risorsa, ti rispetta in quanto “capace di” e questo rinforza il tuo valore di persona - aggiunge il docente - Io ti punisco per quello che hai fatto, ma ti aspetto e mi aspetto che tu faccia altro. Ecco, il lavoro è quel “fare altro”, è una barriera alla recidiva, al tornare a commettere reati. Funziona per davvero. Purtroppo, però, negli istituti di pena italiani non si riesce a offrire l’occasione di lavorare, se non per un numero ridotto di detenuti, dipende molto dalla risposta del territorio”. Il laboratorio “Dolci sogni liberi” - In Lombardia, ad esempio, il numero di persone coinvolte tra lavoro, scuola e attività culturali o espressive, secondo i dati regionali riportati dal docente, non supera in media il 38% del totale dei detenuti nelle carceri: “tutti gli altri “stanno sulla branda” per usare il gergo interno e spesso sono i più fragili dei fragili, considerando che quando si parla di detenuti, si parla di persone. Importante anche considerare che la maggior parte di loro si trova in carcere per aver compiuto reati non gravi. Molto probabilmente la gran parte delle persone recluse dovrebbe vivere l’esecuzione penale diversamente, in luoghi diversi, in modo impegnativo e costruttivo, per rendersi conto di essere capace di essere altro e per ritrovare un posto in una società a cui dare il proprio contributo. Questi impegni, insieme ad un lavoro serio ed esigente, condotto nel tempo, per riparare i legami spezzati e i danni arrecati, e per vivere difficili incontri con le vittime, rappresentano una frontiera decisiva”. Compassione e clemenza, le virtù dei leader. E non è debolezza di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 7 giugno 2023 I libri di Francesca Rigotti (Clemenza) e di Donato Tramuto (Leadership compassionevole) e la comune consapevolezza che chi comanda non dev’essere per forza cattivo. Due libri sono planati insieme sulla scrivania. Clemenza (il Mulino), scritto dalla classicista Francesca Rigotti, e Leadership compassionevole (Rizzoli BUR), di Donato Tramuto, attivista per la salute globale. Mi ha colpito la coincidenza. Entrambi spiegano che chi comanda non dev’essere per forza cattivo. Anzi. “La clemenza ha natura non forzata / cade dal cielo come pioggia gentile / sulla terra sottostante; è due volte benedetta / benedice chi la offre e chi la riceve”. Così, citato da Rigotti, Shakespeare, nel Mercante di Venezia. La clemenza non è pietà, spiega l’autrice, perché non mette in gioco le passioni, bensì la ragione. Quanto servirebbe questo atteggiamento, in un mondo di arrabbiati perenni. E la leadership compassionevole? È il sogno di tutti trovare un capo comprensivo. L’idea che l’autorità debba essere feroce è assurda: i dirigenti migliori, spesso, sono buoni. Certo, qualcuno scambierà la dolcezza per debolezza, e cercherà d’approfittarne. Ma combinerà poco. Quella è la sua punizione. Clemente, se ci pensate. È il confronto sociale (e la solitudine) a creare l’insicurezza odierna di Maurizio Pugno* Il Domani, 7 giugno 2023 L’insicurezza è diventata un grave problema perché fa sentire le persone esposte a una serie di minacce su cui, individualmente, non hanno alcun controllo. E questo le paralizza, le fa diventare più passive. Le minacce economiche diventano minacce sociali, come quando recessioni e disuguaglianze portano conflitti sociali. Non stupisce quindi se l’insicurezza da dimensione individuale ha assunto una dimensione sociale. “Perché l’insicurezza è un grande problema dei nostri tempi” è il titolo di un articolo di Letizia Pezzali pubblicato di recente su Domani. È vero, l’insicurezza è un problema, ed è persino un problema crescente, come mostrano i dati degli ultimi anni sulla sicurezza economica della gran parte della popolazione europea e statunitense, e in particolare italiana. L’insicurezza è diventata un grave problema perché fa sentire le persone esposte a una serie di minacce su cui, individualmente, non hanno alcun controllo. E questo le paralizza, le fa diventare più passive. Nouriel Roubini, l’economista che predisse la crisi economica globale del 2008 quando invece le aspettative prevalenti erano ottimistiche, elenca dieci minacce che ci potrebbero portare nel prossimo futuro alla Grande Catastrofe, come titola il suo recentissimo libro. Sono tutte minacce sistemiche, su cui la singola persona può fare davvero poco. Si va dalle crisi finanziarie alla stagflazione, dalla crisi climatica all’intelligenza artificiale, dalla de-globalizzazione alle guerre. Le minacce economiche diventano minacce sociali, come quando recessioni e disuguaglianze portano conflitti sociali. E viceversa, minacce sociali diventano minacce economiche, come quando il crollo demografico rende insostenibile il pagamento delle pensioni. Non stupisce quindi se l’insicurezza da dimensione individuale ha assunto una dimensione sociale. Tutto questo però suona un po’ paradossale. Infatti, le minacce ci sono sempre state, sia quotidiane, come le malattie un tempo incurabili, sia ricorrenti, come le carestie, mentre oggi ci siamo dotati di una tecnologia formidabile, ed abbiamo costruito una rete di protezione sociale, per quanto diseguale e piena di difetti. Questo dovrebbe farci sentire più al sicuro. Perché dunque c’è questo paradosso? La risposta più ovvia spiega il persistere dell’insicurezza sistemica con il persistere della difesa prioritaria degli interessi di parte, come gli interessi di classe, delle nazioni, di gruppi etnici, con la conseguenza di intralciare un coordinamento ed una collaborazione che porterebbero benefici a tutti. Basta pensare a quanto sia difficile costruire un’Europa più unita, e quindi più autorevole nel mondo, o quanto sia difficile far pagare sempre le tasse dovute, la qual cosa consentirebbe di rafforzare la protezione sociale di tutti. La difficoltà è rinunciare a qualche particolare beneficio oggi per un maggior benessere generale domani. Ebbene, ciò che è progressivamente cambiato negli ultimi 15/20 anni è proprio l’orizzonte con cui guardiamo al futuro che si è drammaticamente ravvicinato. La finanza, che tipicamente specula con un orizzonte temporale brevissimo, si è globalizzata, con l’effetto di dominare l’economia reale e di condizionare la politica economica dei governi. Le imprese hanno rivolto sempre più attenzione alla massimizzazione degli utili di breve termine. I partiti populisti, che rispondono ai bisogni immediati di specifiche sezioni di popolazione, si sono moltiplicati e rafforzati nei paesi occidentali. Ma se anche osserviamo le famiglie, vediamo che sono sempre meno propense a pianificare il loro futuro. Lo stesso fenomeno di focalizzazione sul presente è chiaramente osservabile nella nostra vita di tutti i giorni, perché così indotti da un progresso tecnologico lasciato in mano al mercato. È vero che progresso tecnologico e mercato ci hanno portato nel corso di decenni a uscire dalla povertà e a non temere terribili malattie, ma recentemente sono entrati nella nostra vita personale più intima. Nuovi prodotti e servizi di mercato stimolano, ad un ritmo sempre più veloce, nuovi bisogni prettamente individuali. E la dimensione sociale ci costringe a tenere il passo. Emblematico è il bisogno di impiegare tutti ritagli di tempo libero guardando il mondo attraverso i nostri piccoli schermi, ciascuno guardando il suo. L’esito è di aumentare l’individualismo e il paragone sociale, di sostituire la competizione dove prima c’era la collaborazione, di non attrezzarsi adeguatamente per il futuro. L’esito è di farci sentire più passivi e più soli; e la solitudine è esattamente il fattore di malessere su cui pochi giorni fa la massima autorità sanitaria statunitense, Vivek Murthy, ha lanciato l’allarme. Ma competizione sociale e solitudine non possono che alimentare insicurezza e impotenza. *Economista Il disagio dei ragazzi e la solitudine degli insegnanti di Franco Lorenzoni La Stampa, 7 giugno 2023 Quale credibilità abbiamo noi adulti agli occhi dei più giovani, visto che continuiamo a ignorare le catastrofi annunciate? Ogni volta che si parla in generale della scuola si rischia di collezionare una gran quantità di superficialità e approssimazioni, perché la scuola è un corpo complesso dalle mille sfaccettature. Certo, se un gruppo di ragazzi interrompe la lezione in un istituto tecnico con bombolette puzzolenti si può essere portati ad affermare che quel gruppo sta mettendo in scena il senso di estraneità verso l’istruzione superiore che cova in troppe famiglie. Se poi uno di quei ragazzi, dopo qualche settimana, arriva ad accoltellare alle spalle la sua professoressa, c’è chi arriva a dire che tanto vale abolirla, la scuola, o almeno abolirne il nome, perché queste sono le conseguenze della troppa libertà. Ma se ascoltiamo la professoressa ferita, ci accorgiamo che le sue parole sono assai più equilibrate. Dall’ospedale ha affermato infatti, con parole sagge, di “non avere una spiegazione per quel gesto. Ci penseranno i magistrati e gli psicologi, ma non penso si possa ascrivere a un disagio diffuso tra i giovani. Il malessere c’è, ma non porta a questi gesti”. Il grado di disagio e sofferenza degli adolescenti e sempre più anche di ragazze e ragazzi giovanissimi, già nella scuola primaria, è in spaventoso aumento. Tagli inferti al proprio corpo, autolesionismo, chiusura ermetica nelle proprie stanze, disturbi alimentari, tentati suicidi. La pandemia ha costretto a vivere per intere stagioni il contatto come contagio in una età in cui il corpo è imprescindibile fonte di conoscenza e desiderio. Poi è arrivata una guerra, sentita assai più vicina delle tante che costellano il pianeta. E a rendere ancor più cupo il nostro tempo basta ascoltare il segretario generale dell’Onu, che lo scorso aprile affermava che “stiamo viaggiando ad alta velocità verso il precipizio del disastro climatico senza nessuno che si preoccupi di tirare il freno. Molte città sott’acqua, ondate di calore e tempeste senza precedenti, scarsità di acqua, estinzione di un milione di specie di piante e animali…”. Anche se tutto ciò non lo si studia a scuola con l’attenzione che meriterebbe, quale credibilità abbiamo noi adulti agli occhi dei più giovani, visto che continuiamo a ignorare le catastrofi annunciate, puntualmente confermate da ciò che accade anche nel nostro paese. Ha allora senso dire che ragazze e ragazzi sono incontenibili, prepotenti e violenti per la troppa libertà che gli concediamo? Per gli effetti nefasti della “cultura dell’illimite”? Non sarà vero piuttosto il contrario? Non sarà che proprio gli orizzonti angusti dei lavori precari e sottopagati che li attendono rende opache le loro aspettative e accerchia e avvilisce il loro immaginario, in un paese saldamente nelle mani di generazioni anziane assai poco lungimiranti. La scuola è il principale luogo pubblico di incontro tra le generazioni. Dovrebbe sempre essere il luogo dello scambio vitale tra esperienze e linguaggi che hanno radici diverse, oggi lontanissime per l’irrompere di tecnologie e intelligenze artificiali sempre più sofisticate. Eppure constato che ragazze e ragazzi, ogni volta che incontrano insegnanti persuasi, appassionati e in ricerca, sono felici. E se trovano ascolto hanno mille domande da porre perché, nonostante tutto, è grande il desiderio di allargare il loro orizzonte. I ragazzi oggi hanno straordinario bisogno di ascolto e di cura e ben venga il supporto di psicologi all’altezza delle loro sofferenze. Ma il ruolo di noi insegnanti è diverso. La scommessa dovrebbe essere, a mio avviso, quella di considerare la cultura come cura, la relazione con le conoscenze e il sapere come terreno di incontro con se stessi e con gli altri. Ecco allora che sì, dobbiamo arricchire e trasformare la scuola per farne laboratorio attivo in cui tutte e tutti imparino a prendere la parola avendo fiducia di essere ascoltati. Per arricchire la lingua e renderci capaci di discutere, argomentare e rimbalzare su letteratura e scienza e arte scoprendone la meraviglia, ciascuno a modo suo, ragionandone poi insieme. Anni fa Marianna, una mia alunna di quinta elementare, al termine di una ricerca durata mesi attorno all’affresco di Raffaello dedicato alla Scuola di Atene, ha detto: “Raffaello ha fatto veri i filosofi per metà, noi li abbiamo fatti veri per l’altra metà”. Le sue parole mi appaiono come la più nitida descrizione di ciò che dovremmo ricercare a scuola, badando bene a non trascurare l’altra metà della verità, a cui ha diritto di accedere ogni studente con la fatica, il travaglio e il tempo necessario a ogni vera scoperta. Patto Ue su immigrazione e asilo: accordo vicino ma niente obblighi sulle quote di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2023 Il governo: “Non puntiamo sulla relocation”. La commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johansson ha presentato oggi il piano della Commissione per fronteggiare l’immigrazione illegale nel Mediterraneo Occidentale e l’area atlantica, in vista del prossimo Consiglio europeo previsto per fine mese, e del prossimo Consiglio Giustizia e Affari interni dell’8 e 9 giugno dove, ha spiegato la commissaria, sul Patto Migrazione e Asilo “c’è una grande possibilità che si possa fare un passo avanti molto importante già giovedì a Lussemburgo perché - ha detto - nei negoziati gli Stati membri sono ora molto vicini”. Dopo otto anni di confronti inconcludenti, dunque, forse ci siamo. Ma di cosa stiano trattando davvero i Paesi Ue è già chiaro e lo stesso piano per il Mediterraneo occidentale presentato oggi conferma un’impostazione basata sull’esternalizzazione delle frontiere, sull’implementazione di rimpatri finora esigui, e su un principio di solidarietà tra Stati membri che però non è obbligatorio tanto che gli Stati che non vogliono i migranti potranno semplicemente pagare o “dare supporto operativo” perché continuino ad occuparsene i Paesi di primo ingresso. Il governo Meloni? Nonostante gli attacchi all’Europa che “deve fare la sua parte”, sembra avere già rinunciato alla possibilità di una redistribuzione per quote delle persone giunte nel nostro Paese. Ieri, dopo un colloquio telefonico con il ministro per la Migrazione svedese, Maria Malmer Steenergard, in vista della possibile conclusione sul negoziato per il Patto su immigrazione e asilo, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha dichiarato che “il nostro Paese continua a non puntare sullo strumento della relocation perché non si è rivelato un meccanismo solidale così come concepito”. Piuttosto, ha spiegato come l’Italia si aspetti un cambio di passo da parte dell’Europa soprattutto nell’ambito della dimensione esterna, “unica vera soluzione strutturale al problema delle migrazioni dall’Africa”. Il piano annunciato oggi amplia i lavori rilanciati nel Consiglio straordinario dello scorso novembre, dove gli Stati membri si erano impegnati ad attuare i piani Ue per il Mediterraneo centrale e quello per i Balcani occidentali e ad approvarne di nuovi per le altre rotte che puntano all’Europa. Il piano d’azione su Mediterraneo occidentale e area atlantica presenta 18 misure strutturate su due pilastri. “L’obiettivo è sostenere gli Stati membri a rafforzare la gestione della migrazione lungo questa rotta - scrive la Commissione - prevenendo le partenze irregolari e salvando vite umane, lavorando a stretto contatto con i principali Paesi partner”. Il primo pilastro è appunto quello che riguarda il rafforzamento dell’impegno con i Paesi partner, che per la rotta occidentale e l’area atlantica sono in particolare Marocco, Senegal, Mauritania e Gambia, per i quali il piano prevede specifiche partnership. “L’attenzione si concentra sulla prevenzione della migrazione irregolare, combattendo il traffico di migranti e la tratta di esseri umani e rafforzando la gestione delle frontiere”, scrive la Commissione che prevede interventi sull’intera rotta migratoria, “promuovendo una maggiore cooperazione bilaterale con Frontex”, l’Agenzia europea più volte coinvolta in operazioni di respingimento, anche verso la Libia. Se un tempo si parlava di “ingressi irregolari”, nell’era dell’esternalizzazione delle sue frontiere l’Ue preferisce parlare di “partenze irregolari”, delegando ai Paesi di transito di definire la regolarità di chi si mette in viaggio, anche quando si tratta di Paesi che non garantiscono il rispetto dei diritti fondamentali. L’obiettivo è dunque quello di impedire il transito e bloccare le rotte, limitando il più possibile l’accesso alla procedura d’asilo in Europa. “Secondo pilastro: rafforzare le misure operative di ricerca e salvataggio, le procedure di rimpatrio e una solidarietà volontaria più agevole e rapida”, si legge nel comunicato. Che prevede “rafforzamento della cooperazione tra gli Stati membri dell’UE in materia di rimpatrio nei Paesi partner, consulenza per il rimpatrio, supporto per l’identificazione e il rilascio dei documenti di viaggio, coordinamento dei voli di rimpatrio, ecc.”. Intenzioni espresse anche nei piani riguardanti le altre rotte, comprese quelle che interessano più direttamente l’Italia. Che raggiungano i loro obiettivi sarà tutto da dimostrare, visti i numeri esigui sia sul fronte di corridoi umanitari e reinsediamento in Paesi Ue di persone a rischio, sia su quello dei rimpatri: in Italia ogni anno non si va oltre le 6mila persone rimpatriate e questo perché, nonostante gli annunci, gli accordi con i Paesi d’origine sono sempre gli stessi e per lo più i rimpatri sono rientri in Tunisia, dove la premier Giorgia Meloni si è recata oggi per rinforzare gli accordi con un Paese in forte crisi economica, mentre nei confronti di stranieri e minoranze è in atto una severa repressione tanto da spingere molte organizzazioni umanitarie a ribadire che non può considerarsi Paese sicuro. Da ultimo, il secondo pilastro del piano promette di “realizzare reazioni più efficienti e rapide nell’ambito del Meccanismo volontario di solidarietà, con il sostegno della Commissione e dell’Agenzia dell’Ue per l’asilo. Poiché il meccanismo continuerà ad essere attuato, gli Stati che vi si impegnano sono anche incoraggiati ad essere flessibili per alleviare la pressione sul sistema di accoglienza negli Stati membri di primo ingresso”. Un meccanismo virtuoso ma debole nei numeri e nella lentezza delle procedure, che fin dalla sua adozione, nel giugno 2022, non ha previsto che poche migliaia di ricollocazioni e senza alcun obbligo. Anzi, con la possibilità di sostenere economicamente i Paesi di primo ingresso per le operazioni di rimpatrio delle persone cui è stato negato il permesso di soggiorno. È su questa linea che si concluderà, forse già giovedì prossimo, il negoziato sul Patto per l’immigrazione e l’asilo, che proprio nei giorni scorsi ha visto nascere e morire l’ipotesi di una “multa” da 22.000 euro per ogni migrante la cui ricollocazione viene negata da un Paese Ue. Tutti d’accordo sul rafforzamento di Frontex, sull’aumento dei controlli alle frontiere e sulla loro esternalizzazione attraverso le danarose partnership coi Paesi terzi. E fino alla costruzione di muri fuori e dentro l’Europa. Quanto alla solidarietà tra Stati membri e in particolare verso i Paesi del Sud Europa come l’Italia, la parola d’ordine rimane “nessun obbligo”. Il governo svedese, presidente di turno dell’Unione e quindi responsabile del negoziato sulla bozza per il Patto europeo lo aveva messo in chiaro: “Il ricollocamento obbligatorio non era, non è e non sarà nella proposta”, aveva scritto la ministra per la Migrazione Stenergard in un tweet, immediatamente rilanciato dalla commissaria europea Johansson. Che oggi ha dichiarato: “Se concordiamo un approccio comune sulla migrazione saremo tutti vincitori, compresi i migranti, perché nessun Paese può fare da solo, i dibattiti nazionali cercano invece di dipingere uno scenario da vincitori e perdenti”. Quanto alla bozza di testo sulla quale i Paesi si confronteranno giovedì, “è bilanciata anche se ci sono ancora cose da limare”. Cosa dirà il governo Meloni sul “bilanciamento” di un Patto che una volta per tutte esclude il tanto agognato superamento del regolamento di Dublino e l’equa spartizione degli oneri di accoglienza? Opporsi al Patto significherebbe innanzitutto litigare apertamente con i paesi del blocco di Visegrad dove governano i partiti sovranisti dei leader amici come l’ungherese Viktor Orbán. In alternativa si potrà spiegare agli italiani, come già tenta il ministro Piantedosi quando dice che l’Italia non punta sulla redistribuzione, che in cambio di un sostegno economico tutto da precisare dovranno accettare che in Italia ci sia un maggior numero di rifugiati perché i partner europei semplicemente non ne vogliono sapere. Con buona pace di tutti coloro che fino ad oggi hanno gridato all’emergenza, al sistema di accoglienza al collasso. Tunisia nell’abisso di Francesca Mannocchi La Stampa, 7 giugno 2023 Bavaglio alla stampa, giudici depotenziati. Il presidente Saied scrive il manuale dei regimi autoritari. “Lei dice a voce alta quello che gli altri tacciono” sono le parole che il Presidente tunisino Kais Saied ha riservato alla premier Giorgia Meloni durante la visita di ieri, nel lungo colloquio (quasi due ore) che li ha visti protagonisti. Al centro la gestione dei flussi migratori, le politiche di investimenti e soprattutto lo sblocco del piano di salvataggio del Fondo Monetario Internazionale sospeso da febbraio. Meloni ha confermato il sostegno a Saied, nonostante l’inasprimento delle politiche repressive in un Paese in cui la democrazia è ormai sospesa di fatto da due anni. “Abbiamo portato avanti un’azione di sostegno alla Tunisia nei negoziati con il Fondo Monetario Internazionale - ha detto la premier - sia a livello di Unione europea sia di G7, con un approccio pragmatico, perché pragmatico deve essere l’approccio, chiaramente tenendo in considerazione le regole di funzionamento del Fondo”. Quando parla di pragmatismo la premier Meloni sottintende che l’Europa, l’Italia in primis, non può permettersi il default della Tunisia perché questo equivarrebbe a un’ondata di arrivi dalle coste del Paese nordafricano. Ma che Paese è oggi la Tunisia? E sarebbe davvero applicabile il piano di riforme che il Fondo Monetario chiede come condizione del prestito? La libertà di stampa - A fare le spese della virata autoritaria della presidenza Saied è anche la libertà di stampa, una delle principali conquiste della rivoluzione del 2011. Lo scorso 16 maggio Haythem el Mekki, conduttore della popolare emittente radiofonica Mosaique FM è stato convocato in tribunale, con l’accusa di diffamazione verso le forze dell’ordine dopo che il giorno prima durante la trasmissione che da anni conduce ogni mezzogiorno aveva parlato della corruzione endemica nelle forze armate. Erano passati pochi giorni dall’attacco terroristico di Djerba in cui hanno perso la vita due persone e tre agenti di sicurezza nell’attacco effettuato da un membro della guardia nazionale e El Mekki analizzando l’accaduto metteva in luce gli scarsi standard di reclutamento degli agenti e le conseguenze dell’applicazione del dannoso Decreto 54 che di fatto pone i media nazionali in uno stato di censura e timore di ritorsioni permanente. Emanato nel settembre del 2022, il decreto nasce allo scopo di punire i reati relativi all’informazione ma è di fatto una norma repressiva che si concentra sulle pene detentive fino ai dieci anni su chi presuntamente diffonde notizie ritenute dal governo “fake news”. L’altra norma sotto la lente delle organizzazioni in difesa dei diritti umani è la legge anti-speculazione, sempre emanata nel 2022, che criminalizza la diffusione di “notizie o informazioni false o inesatte che indurrebbero i consumatori ad astenersi dall’acquistare o interromperebbero l’offerta di beni ai mercati e quindi causerebbero aumento dei prezzi”. Legge definita da Amnesty International una minaccia alla libertà di espressione e che a oggi ha portato all’arresto di una quindicina di persone. Lo stesso direttore della testata, Noureddine Boutar, è stato arrestato a febbraio insieme ad altri 30 oppositori politici del presidente, accusati di riciclaggio e di complotto contro lo Stato. Un altro giornalista della stessa emittente Khalifa Guesmi è stato condannato a cinque anni di carcere dopo aver rifiutato di rivelare le fonti di un articolo sullo smantellamento di un gruppo terroristico nella città meridionale di Kairouan. Guesmi è stato interrogato per nove ore e accusato di avere legami con i gruppi terroristici citati nei suoi articoli. A fare le spese delle politiche repressive non sono solo i cronisti. Il 17 maggio la polizia ha arrestato due studenti per aver pubblicato su social una canzone satirica sulla polizia, criticando il trattamento che le forze di sicurezza riservano ai carcerati. Rischiano fino a un anno di carcere. Il governo di Kais Saied limita da anni il lavoro dei media, Amira Mohamed, vicepresidente dei sindacati dei giornalisti, è preoccupata per la libertà di espressione e la libertà di stampa “il lavoro giornalistico è sempre più difficile - ha detto - essere un cronista oggi in Tunisia significa sapere di rischiare il carcere e questo sta favorendo forme di autocensura”, molti media privati hanno interrotto i programmi di approfondimento politico e va peggio, come è ovvio, nel settore pubblico dove è ancor più complicata l’indipendenza, e dove il presidente ha diritto di nomina del direttore. La giustizia - Non va meglio per l’indipendenza della magistratura. Il mese scorso 37 organizzazioni tra cui Human Rights Watch e Amnesty International hanno pubblicato una dichiarazione congiunta esprimendo preoccupazione per le politiche repressive contro la magistratura e i limiti al diritto di un equo processo in Tunisia. I gruppi firmatari hanno chiesto la fine delle “ingerenze esecutive negli affari giudiziari” e il rispetto del diritto fondamentale a un processo equo da parte di un “tribunale indipendente e imparziale”. Anche nel controllo della magistratura, infatti, il percorso di Kais Saied dura da anni. Da quando ha preso il potere, nel 2021, ha emanato una serie di decreti che hanno di fatto privato il potere giudiziario delle prerogative che gli sono proprie. Il primo già nel 2022, abrogando l’ordine costituzionale e emanando una nuova Costituzione l’anno dopo attraverso un referendum votato con un’affluenza inferiore al 30 per cento che ha privato il Consiglio Superiore della Magistratura della sua sostanza e del suo status di organo costituzionale. Con il Decreto n. 2022-11 Saied ha sciolto il Consiglio superiore della magistratura istituito dalla Costituzione del 2014 che garantiva l’indipendenza della magistratura, sostituendolo con un Consiglio provvisorio, i cui membri sono nominati direttamente da Saied. Ha poi destituito 57 giudici dopo essersi conferito un’ennesima delega con un ennesimo decreto. Nonostante la causa promossa dai giudici revocati e nonostante il tribunale amministrativo tunisino abbia chiesto il loro reintegro, il governo non solo si rifiuta da due anni di rispettare la sentenza ma il ministero della Giustizia ha avviato procedimenti penali contro i giudici destituiti, accusandoli retrospettivamente attraverso l’unità giudiziaria antiterrorismo. Un sistema giudiziario compromesso, sotto il controllo diretto del Presidente Saied e che, dunque, non è più in grado di svolgere il ruolo di garante delle libertà e dei diritti fondamentali. Economia al collasso - In Tunisia cominciano a mancare medicinali di base. Non ci sono soldi e quindi lo Stato deve ridurre anche le importazioni di medicinali costringendo i cittadini a due strade: l’attesa o il contrabbando. Sugli scaffali delle farmacie cominciano a mancare i trattamenti costosi per malattie cardiache e cancro ma anche medicinali di base e i generici. Il capo del sindacato tunisino delle farmacie, Naoufel Amira, ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters pochi giorni fa che centinaia di medicinali non sono più disponibili, inclusi quelli per il diabete, l’anestesia e il trattamento del cancro. “La farmacia centrale tunisina - ha detto - devono circa 1 miliardo di dinari (325 milioni di dollari) ai fornitori e le compagnie di assicurazione pubblica e gli ospedali stanno ritardando il pagamento delle bollette fino a un anno”. È questo l’ultimo segno in ordine di tempo della portata della crisi economica tunisina che sta trascinando un numero sempre crescente di famiglie in uno stato di indigenza che rischia di sfociare in nuove ondate di proteste e rabbia sociale. Orizzonte che rende quanto mai necessario il prestito di due miliardi di dollari previsto dal piano di salvataggio del Fondo Monetario Internazionale sospeso da febbraio, dopo l’inasprirsi delle politiche repressive di Saied. A colloqui archiviati e con gli allarmi delle agenzie di rating che mettono il Paese in allerta su un possibile, rapido, default sul debito sovrano, l’Europa trema e Saied continua a respingere le condizioni poste dal Fmi che prevedono una drastica riduzione della spesa pubblica e un piano di riforme che imporrebbe un ripensamento globale del finanziamento di beni sussidiati, politica che, però, sostiene le famiglie tunisine da decenni. La Tunisia sovvenziona i generi alimentari di base dagli Anni 70, inizialmente per tutelare le fasce più povere della popolazione dalle variazioni fuori controllo dei prezzi, ma con le crisi economiche e la conseguente riduzione dei redditi, i sussidi sono diventati sempre più necessari per un numero crescente di persone e sono stati anche la ragione delle proteste per il pane che attraversano la storia delle proteste sociali nel paese da quarant’anni. Oggi la Tunisia spende circa 800 milioni di dollari l’anno in sussidi, l’equivalente del 5% del PIL, mentre le necessità del Paese aumentano a causa della guerra in Ucraina e il relativo aumento dei prezzi e aumentano dunque le richieste di trasferimento di denaro alle famiglie più bisognose. In questo contesto è evidente la necessità del prestito internazionale fondamentale per risollevare il Paese e dare il via al programma di riforme necessario per liberare ulteriore credito promesso da altri donatori. Ma Kais Saied da mesi si oppone a quelli che definisce i “diktat” esteri, lasciando dapprima immaginare possibili salvataggi da uno degli stati BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), che però appare lontano, e poi suggerendo la possibilità di aumentare la tassazione alle fasce privilegiate del paese per aumentare la liquidità. Max Gallien, politologo e ricercatore presso l’International Center for Tax and Development e l’Institute of Development Studies, in un’analisi per Newlines Magazine, sottolinea che il governo tunisino sia storicamente il più grande datore di lavoro del Paese, e “tagliare il salario pubblico metterebbe milioni di tunisini in difficoltà finanziarie. I tagli alle sovvenzioni sono comprensibilmente impopolari e la ristrutturazione delle imprese statali è sia praticamente una sfida che un affronto per i grandi gruppi politici”. Saied lo sa, è per questo che le condizioni del Fmi sono per lui politicamente indigeribili, ed è per questo che, in assenza di alternative e soluzioni, l’unico strumento che ha per indirizzare la rabbia e lo scontento sociale in una direzione lontana dalle sue responsabilità cerca da mesi capri espiatori, come i migranti di origine subsahariana a febbraio, accusati in un discorso pubblico di voler alterare la demografia del Paese. Le riforme di cui la Tunisia ha bisogno richiedono un tempo lungo e una visione economica di ampio respiro che è mancata negli anni post rivoluzionari, in cui il Paese è stato più impegnato a liberarsi dell’eredità della dittatura di Ben ALi che a costruire un programma di futuro, non solo economico, condiviso. Un periodo, quello post 2011, in cui partiti erano più impegnati a consolidare le proprie reti di potere che a immaginare un orizzonte di lungo periodo del Paese, condizione che ha portato a una disaffezione dell’elettorato verso i partiti che hanno governato per quasi dieci anni e ha aperto la strada al consenso intorno Saied e persino a ritenere preferibile, almeno sulle prime, il suo autoritarismo a patto di una migliore amministrazione. Oggi di questo compromesso, però, rimane solo l’autoritarismo, Kais Saied continua a non avere soluzioni e non può permettersi una crisi sociale, non può permettersela nemmeno l’Europa, terrorizzata dal possibile arrivo di una nuova ondata migratoria. Per questo anche l’Europa oggi sta in fondo stringendo un compromesso con l’autoritarismo di Saied, chiudendo un occhio o forse entrambi sul rispetto dei diritti in cambio del controllo delle coste. La Cop-28 negli Emirati arabi, lì dove vigono sorveglianza online e soppressione del dissenso di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2023 Inizia oggi a Bonn una riunione da cui uscirà una prima proposta di agenda dei lavori della Cop-28, la Conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che si svolgerà dal 30 novembre al 12 dicembre a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. Amnesty International ha colto l’occasione per inviare alle delegazioni statali presenti a Bonn un rapporto sulla situazione dei diritti umani nello stato del Golfo e per far presente che, come in occasione della Cop-27 in Egitto, svolgere una conferenza su temi di diritti - come quello a un ambiente salubre - in un ambiente fortemente repressivo rischia di comprometterne il successo e di impedire la piena partecipazione di un attore-chiave, come la società civile. Le principali preoccupazioni sui diritti umani riguardano la soppressione del diritto alla libertà d’espressione, la sorveglianza online e anche - aspetto ancora più strettamente legato alla Cop-28 - l’ostinazione con cui gli Emirati rifiutano di prendere in considerazione una rapida fuoriuscita dalla produzione e dall’uso di energia fossile. Nessuna meraviglia: il presidente della Cop-28 è il capo dell’agenzia petrolifera degli Emirati. Le leggi in vigore negli Emirati vietano l’espressione di critiche nei confronti dello stato e del governo e prevedono anche l’ergastolo e la pena di morte per chi si oppone al sistema di governo o danneggi l’unità nazionale o gli interessi dello stato: formule del tutto vaghe e generiche che si prestano a punire la legittima espressione pacifica del dissenso. Sono tuttora in carcere due ex presidenti dell’Associazione dei giuristi, “colpevoli” di ave firmato nel 2011 una petizione che chiedeva riforme democratiche. E non sono affatto gli unici… Gli Emirati ricorrono da tempo e massicciamente alla sorveglianza digitale nei confronti dei difensori dei diritti umani e di chi critica le autorità. Il caso più celebre è quello di Ahmed Mansoor, arrestato nel 2017 e condannato a 10 anni di carcere per “offesa al prestigio degli Emirati Arabi Uniti”, solo per aver pubblicato post sui social media. Inchieste giornalistiche, denunce delle organizzazioni per i diritti umani e persino una sentenza di un tribunale del Regno Unito hanno confermato che le autorità emiratine avevano spiato il defunto difensore dei diritti umani Alaa al-Siddiq e pure un membro della Camera dei Lord. Si sospetta che siano stati spiati anche direttori e giornalisti del Financial Times, dell’Economist e del Wall Street Journal. Il rischio che verranno sottoposti a spionaggio digitale anche gli esponenti della società civile presenti alla Cop-28 è dunque molto elevato. Altre aree problematiche dal punto di vista del rispetto dei diritti umani sono lo sfruttamento del lavoro migrante, la discriminazione di genere, la criminalizzazione delle relazioni omosessuali consensuali tra adulti e l’intervento nei conflitti in Libia e nello Yemen, che ha causato violazioni del diritto internazionale umanitario. *Portavoce di Amnesty International Italia Torture in carcere negli Emirati arabi, ma palazzo Chigi ferma la denuncia di Michele Giorgio Il Manifesto, 7 giugno 2023 I rapporti con gli Emirati, ricchi e potenti, non si toccano. Si potrebbe riassumere così la decisione del governo Meloni di prendere le distanze dall’imprenditore milanese Andrea Costantino che si è rivolto a uno studio legale statunitense al fine di ottenere un risarcimento per le torture fisiche e psicologiche che ha detto di aver subito nei mesi trascorsi nelle carceri di Abu Dhabi. La nota diffusa da Palazzo Chigi è molto chiara: “Le dichiarazioni e le iniziative giudiziarie annunciate da Andrea Costantino nei confronti degli Emirati Arabi Uniti non sono condivise dal governo italiano che coglie l’occasione per ringraziare gli Emirati per la collaborazione dimostrata nel caso, prova dell’amicizia con l’Italia”. Una scelta quella italiana che è dettata dalla realpolitik, frutto degli interessi economici e dei rapporti di sicurezza con la monarchia del Golfo. E che ricorda quelle fatte da precedenti governi italiani per l’assassinio in Egitto di Giulio Regeni. La vicenda di Costantino, 51 anni, ha inizio nel marzo 2021 quando fu arrestato all’ingresso di un hotel di Dubai, davanti alla compagna e alla figlioletta di tre anni, e rimasto negli Emirati per 21 mesi, prima nella famigerata prigione di massima sicurezza Al Wathba, a cui Amnesty International ha dedicato non pochi dei suoi rapporti, e poi confinato nell’ambasciata italiana ad Abu Dhabi, senza poter tornare in Italia fino allo scorso dicembre. In cella Costantino ha fatto lo sciopero della fame e urlato la sua innocenza ricevendo in cambio, così racconta, abusi e torture. Al trader non sono mai state rivolte accuse precise. A un certo punto si è parlato di “finanziamento del terrorismo” ma l’ipotesi è apparsa subito poco credibile. Costantino si è convinto di aver subito una vendetta per il blocco della vendita di armi italiane agli Emirati e all’Arabia saudita, parziale nel 2019 per decisione del primo governo Conte e poi totale, a partire dal 2021, durante il secondo mandato del presidente del consiglio pentastellato. Il governo Meloni ha “sistemato” la questione revocando il divieto di esportazione di armi e Andrea Costantino così è tornato a casa. Deve però ancora risarcire lo Stato italiano che a dicembre ha pagato la “cauzione” per la sua scarcerazione: più di 500 mila euro, poi ridotti della metà dalle autorità di Abu Dhabi. In più i nostri servizi ora gli consigliano vivamente di non portare avanti la sua richiesta di risarcimento per gli abusi e le torture subite nel Golfo. “Perché potrebbe creare problemi con il partenariato con gli Emirati, problemi economici, questa la loro preoccupazione”, ha raccontato l’imprenditore a Ofcs Report. Sullo sfondo ci sono gli Emirati che dietro la loro immagine brillante nascondono gravi violazioni dei diritti umani. L’ultimo rapporto di Amnesty International riferisce che nella monarchia del Golfo la libertà di espressione è ampiamente limitata, che la critica al governo e il dissenso politico sono vietati e giornalisti, attivisti e difensori dei diritti umani sono sbattuti in carcere spesso senza un processo equo e senza accesso a un avvocato difensore. Chi ha avuto la fortuna di tornare libero ha riferito di maltrattamenti fisici e psicologici durante l’interrogatorio, di abusi sessuali, privazione del sonno, umiliazioni e minacce. Uno dei casi più emblematici è quello di Ahmed Mansoor, un attivista per i diritti umani e vincitore del premio Martin Ennals. Arrestato per aver criticato il governo sui social e condannato a dieci anni di prigione, Mansoor ha denunciato di essere stato ripetutamente torturato dai suoi carcerieri. Malawi. Rifugiati, compresi molti minori, sono stati trasferiti con la forza e confinati in campi sovraffollati La Repubblica, 7 giugno 2023 Lo denuncia oggi Human Rights Watch. Il Parlamento del Paese africano ha affermato che i rifugiati che vivono e fanno affari al di fuori dei campi profughi sono incompatibili con la legge nazionale. Il governo del Malawi ha arrestato e trasferito forzatamente rifugiati e richiedenti asilo in tutto il Paese senza riguardo per i loro diritti umani fondamentali. Lo denuncia oggi Human Rights Watch. Le autorità del Malawi dovrebbero prontamente invertire questa azione e rispettare i diritti di tutti alla libertà di movimento, all’istruzione e a uno standard di vita di base. Il 26 maggio scorso, il ministero della sicurezza interna del Malawi ha dichiarato di aver detenuto 902 rifugiati e richiedenti asilo dal 17 maggio. La polizia, aiutata dai militari, ha arrestato uomini, donne e bambini che vivono a Lilongwe, la capitale del Malawi, e in altri distretti, ha chiuso le loro attività, li ha temporaneamente detenuti nelle prigioni e li ha lasciati a mani vuote nel campo profughi di Dzaleka, a circa 40 chilometri da Lilongwe. Alcuni degli arrestati hanno riferito di percosse e distruzione o furto delle loro proprietà. Gli abusi delle autorità. “I trasferimenti forzati di rifugiati e richiedenti asilo nel campo di Dzaleka in Malawi sono una risposta fuorviante e sproporzionata a presunte preoccupazioni economiche e di sicurezza, alimentata dal capro espiatorio del governo”, ha detto Idriss Ali Nassah, ricercatore senior per l’Africa presso Human Rights Watch. “Non solo le autorità commettono abusi durante gli arresti e detengono i bambini, ma anche rimuoverli sommariamente dalle loro case equivale a sfratti forzati illegali”. Le retate di rifugiati e richiedenti asilo. Seguono una direttiva del governo del 27 marzo per far rispettare la sua cosiddetta politica di accampamento. Il governo ha ordinato a tutti i rifugiati e richiedenti asilo che vivono nelle aree urbane e rurali di tornare volontariamente al campo profughi di Dzaleka entro il 15 aprile o affrontare il trasferimento forzato. Le notizie secondo cui i bambini sono stati tra quelli coinvolti nelle retate e portati con la forza nella prigione centrale di Maula, una prigione di massima sicurezza a Lilongwe, sono di grave preoccupazione, ha detto Human Rights Watch. I bambini non dovrebbero essere detenuti per motivi di immigrazione e non dovrebbero mai essere detenuti in prigioni per adulti, secondo gli standard internazionali sui diritti umani. Molti dei bambini non erano mai stati nel campo profughi. Le classi sovraffollate e le cattive condizioni nel campo possono causare loro danni a lungo termine, ha detto Human Rights Watch. La Commissione per i diritti umani del Malawi ha dichiarato all’Organizzazione per i diritti umani di aver intervistato circa 20 rifugiati e richiedenti asilo nella prigione di Maula e nel campo profughi di Dzaleka che hanno affermato di essere stati aggrediti durante i raid e che i loro soldi sono stati loro sottratti. Un richiedente asilo di 27 anni proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo, arrivato in Malawi nel 2019, ha detto che circa 20 agenti di polizia armati hanno sfondato la porta della sua casa alle 3 del mattino del 18 maggio. “Mi hanno tenuto a terra e hanno usato un manganello per picchiarmi sulla schiena”, ha detto. “E ho lesioni come risultato”. E’ stato portato nella prigione di Maula e poi nel campo di Dzaleka, dove le condizioni erano terribili, con centinaia di persone bloccate senza un riparo, cibo o vestiti adeguati. Per migliaia e migliaia solo aiuti umanitari. L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ha riferito che a maggio il Malawi ha ospitato oltre 50.600 rifugiati e richiedenti asilo, di cui oltre 32.000 dal Congo, quasi 11.000 dal Burundi e oltre 6.000 dal Ruanda. La maggior parte si trova nel campo profughi, destinato ad ospitare fino a 12.000 persone. L’UNHCR ha affermato che il campo sovraffollato non è stato in grado di soddisfare le esigenze di cibo, salute, acqua, riparo e servizi igienico-sanitari della sua popolazione esistente. Si stima che circa 8.000 rifugiati abbiano vissuto nelle aree rurali e urbane del Malawi per un tempo considerevole. In generale, il Malawi non consente ai rifugiati di cercare lavoro o opportunità educative al di fuori del campo, e la maggior parte dei rifugiati dipende dagli aiuti umanitari. Tuttavia, alcuni, compresi quelli con diplomi professionali, hanno ricevuto permessi per perseguire un impiego e altre opportunità al di fuori del campo. Un leader della comunità di rifugiati burundesi ha detto ai media che un accordo con il governo ha permesso loro di avviare e gestire piccole imprese nelle comunità rurali e urbane “in modo che non facciano affidamento sui sussidi” nel campo profughi di Dzaleka. L’imposizione di restare chiusi nei campi per rifugiati. Nell’aprile 2021, il ministero della sicurezza nazionale ha ordinato ai rifugiati e ai richiedenti asilo che vivono fuori Dzaleka di tornare al campo, sostenendo che rappresentavano rischi per la sicurezza nazionale. La Corte Suprema del Malawi ha emesso un’ingiunzione contro l’ordine, ma l’Alta Corte di Blantyre ha annullato l’ingiunzione nell’agosto 2022. Il Ministero della Sicurezza Nazionale ha fissato una scadenza al 30 novembre 2022 per i rifugiati e i richiedenti asilo che vivono nelle aree rurali per tornare al campo di Dzaleka e febbraio 2023 per quelli nelle aree urbane. La sua direttiva di marzo ha poi fissato una nuova scadenza ad aprile. In una dichiarazione del 21 maggio, il Parlamento del Malawi ha affermato che i rifugiati che vivono e fanno affari al di fuori dei campi profughi designati senza permesso sono incompatibili con la legge nazionale e “una ricetta per il caos”, che “ha reso le nostre leggi sui rifugiati quasi inutili”. Un patto che proibirebbe i trasferimenti. Il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e la Carta africana dei diritti umani e dei popoli, entrambi ratificati dal Malawi, proibiscono gli sgomberi forzati, definiti come l’allontanamento permanente o temporaneo di individui, famiglie o comunità contro la loro volontà dalle loro case o terre, senza accesso a forme appropriate di protezione legale o di altro tipo. Prima di effettuare sfratti legali, i governi dovrebbero esplorare tutte le alternative possibili in consultazione con le persone colpite, “evitando, o almeno minimizzando, la necessità di usare la forza”. Disattesa la convenzione del 1951. Il Malawi è parte sia della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati del 1951 che della Convenzione africana sui rifugiati del 1969 (OUA). L’articolo 26 della Convenzione del 1951 riconosce il diritto alla libertà di movimento e alla scelta della residenza per i rifugiati legalmente all’interno di un paese, mentre l’articolo 31 proibisce le restrizioni alla libertà di movimento dei richiedenti asilo a meno che tali restrizioni non siano ritenute “necessarie”. Tuttavia, il Malawi ha espresso riserve quando ha ratificato la Convenzione del 1951, affermando che considerava alcune disposizioni “solo come raccomandazioni e non legalmente vincolanti”, compresi i diritti dei rifugiati alla libertà di movimento, all’occupazione, alla proprietà e all’istruzione pubblica. Il Refugee Act del Malawi del 1989 prevede procedure per determinare lo status di rifugiato, ma non affronta i diritti dei rifugiati. Il Malawi dovrebbe togliere le sue riserve alla Convenzione sui rifugiati del 1951, che sono incompatibili con i diritti umani internazionali e gli standard del diritto dei rifugiati, e modificare di conseguenza la sua legge nazionale sui rifugiati per porre fine alla sua politica sugli accampamenti, ha detto Human Rights Watch. Gli impegni presi nel 2019. Il Malawi si è già impegnato a modificare le sue politiche sui rifugiati. Durante il Global Refugee Forum del 2019 si è impegnato a includere i rifugiati nell’agenda nazionale per lo sviluppo e alla riforma “legale e politica” per eliminare alcune delle sue riserve alla Convenzione sui rifugiati del 1951, anche sulla libertà di movimento e l’accesso alle scuole pubbliche e all’occupazione. “Ci si può aspettare che i trasferimenti forzati danneggino i diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo alla salute, all’istruzione e a un adeguato tenore di vita”, ha detto Nassah. “Il governo del Malawi dovrebbe fermare immediatamente i trasferimenti forzati, che sono contrari ai suoi impegni internazionali sui diritti umani”.