Emergenza carceri. Tentato suicidio a Perugia, agenti feriti ad Augusta e Avellino di Fulvio Fulvi Avvenire, 6 giugno 2023 Detenuta cerca di impiccarsi: salvata da una poliziotta. Il 7 giugno tavolo ministeriale sui fondi alla polizia penitenziaria. Ma il sindacato Osapp per protesta non parteciperà. Ancora alta tensione nelle carceri, con tentati suicidi, aggressioni nei confronti di chi esercita la sorveglianza e forti malumori di chi deve garantire i servizi, l’ordine e il rispetto delle regole. Una situazione destinata a “imbarbarirsi” in vista dell’estate. L’indice di sovraffollamento nei 192 istituti penali italiani raggiunge ormai il 190%, con il 51% dei reclusi che deve scontare un residuo di pena inferiore a tre anni. Non solo. “Dentro” ci sono 1.100 detenuti ultrasettantenni e una quarantina con 80 anni e più costretti a vivere dietro le sbarre per una condanna che, nella stragrande maggioranza dei casi, potrebbe invece essere espletata attraverso adeguate misure alternative. Un terzo della popolazione carceraria (che ammonta a tutt’oggi a 56.000 unità), inoltre, è costituita da persone con problemi psichici e di tossicodipendenza. “Sono alcune delle cifre del disastro che quotidianamente il personale penitenziario si trova a fronteggiare e che solo il governo e i politici ignorano” denuncia il segretario generale del Sappe, Aldo Di Cerceri, il quale sottolinea che, considerata la carenza di addetti (il rapporto è di un poliziotto ogni detenuto e mezzo), “in alcuni istituti non si sa ancora se e quando gli agenti potranno andare in ferie”. E, come se non bastasse, un pesante macigno incombe sui “baschi azzurri” e sull’intero sistema carcerario: i circa 100mila condannati a pene definitive e attualmente a piede libero che - prima o poi - dovranno varcare il portone di una prigione italiana. Intanto i reclusi più fragili e disperati cercano di togliersi la vita mentre altri compiono atti di violenza contro i loro “controllori”. La sequenza di accadimenti è impressionante. Sabato scorso, nella Casa circondariale “Capanne” di Perugia, durante la pausa mensa, una delle 57 donne detenute (in tutto gli ospiti della struttura sono 366) è stata trovata agonizzante, appesa con un lenzuolo al collo alle sbarre della finestra del bagno della sua cella ed è stata salvata da una poliziotta (l’unica in servizio a quell’ora) che, sciolto il nodo che la soffocava, le ha prestato i primi soccorsi chiamando poi i sanitari dell’infermeria. Solo grazie al suo tempestivo intervento, dunque, si è potuto scongiurare un altro decesso. Dall’inizio dell’anno ad oggi nelle carceri della Penisola i suicidi di persone ristrette sono stati 29. E ad Augusta, in provincia di Siracusa, dove nei mesi scorsi si sono registrati due morti tra i reclusi a causa di uno sciopero della fame, un 25enne avrebbe cercato di aggredire più volte un ispettore dentro l’ufficio di sorveglianza lanciandogli contro una spillatrice e sferrandogli un calcio al piede talmente forte da procurargli una frattura. E un poliziotto intervenuto per fermare il giovane carcerato è stato colpito ripetutamente con dei pugni, un terzo agente è rimasto contuso nella frapposizione tra il detenuto e i suoi colleghi. Nella Casa circondariale siciliana a maggio era stato anche scoperto un traffico di sostanze stupefacenti e di telefonini che ha portato gli inquirenti a provvedimenti di arresto per detenuti e addetti alla sorveglianza. Un’altra aggressione va registrata poi nel carcere di Avellino: ieri mattina un recluso di 30 anni originario della provincia di Salerno ha preso a pugni un ispettore mandandolo all’ospedale. Motivo del grave gesto di violenza, il rifiuto di assecondare la richiesta di allontanamento del suo compagno di cella. All’istituto di pena irpino “Antino Graziano” i detenuti denunciano da tempo un clima di “precaria vivibilità”. Per una settimana, alla fine di maggio, si erano verificate qui delle sommosse che hanno portato al sequestro di panetti di hashish e manganelli di legno. Per mercoledì 7 giugno alle 14 è stato convocato dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Dalmastro un tavolo sull’utilizzazione del fondo per l’efficienza dei servizi istituzionali del Corpo di polizia penitenziaria. Il sindacato Osapp ha annunciato però che non parteciperà lamentando “la pervicace assenza dell’attuale capo dell’amministrazione penitenziaria, tra l’altro da qualsivoglia confronto o rapporto con le organizzazioni sindacali del personale di Polizia penitenziaria sulle gravi e irrisolte emergenze negli istituti penitenziari e sul grave stato di sofferenza del personale”. Il sindacato denuncia inoltre, con dure accuse, “le incorrette e approssimative modalità di gestione degli addetti del corpo di polizia penitenziaria” facendo riferimento anche “all’incapacità dell’attuale Amministrazione penitenziaria centrale di disporre adeguate misure a tutela dell’incolumità fisica e morale del personale, soprattutto di polizia penitenziaria e per la prevenzione-repressione degli eventi critici e degli atti di violenza interna quasi sempre cagionati dagli stessi e per nulla sanzionati”. Com’è la vita delle madri detenute in Italia di Alessandra Pellegrini De Luca ilpost.it, 6 giugno 2023 Storie di donne, bambini e bambine all’interno di un ICAM, un carcere pensato per non sembrarlo. “Attesa”, “pazienza”, “noia”: su un armadio dell’ICAM di San Vittore, uno dei cinque Istituti a custodia attenuata per detenute madri esistenti in Italia, Marianna ha appeso queste tre parole ritagliate nella carta. Le ha scritte durante un progetto fatto con gli studenti del liceo per rappresentare e descrivere la vita delle detenute con figli al seguito. Nonostante un ICAM sia diverso da un carcere tradizionale e permetta alle detenute di non separarsi dai figli, Marianna dice di convivere con un forte senso di colpa: “Ogni tanto mia figlia sbatte i piedi per terra e mi dice che vuole andare a casa: fa male, ed è difficile spiegarle che a casa, per un po’, non ci possiamo andare”. La figlia di Marianna va all’asilo ogni giorno, accompagnata dalle due operatrici comunali che lavorano nell’ICAM, e poi torna nella struttura. L’ICAM di San Vittore è a tutti gli effetti un carcere, ma non lo sembra: si trova in un edificio storico nel centro di Milano, le sbarre alle finestre sono sinuose inferriate in ferro battuto, al suo interno non ci sono celle e i corridoi, dipinti color pastello e coi disegni dei bambini ai muri, lo fanno assomigliare a un asilo. C’è anche un piccolo giardinetto con scivoli, tricicli e seggioloni colorati. Le agenti di polizia penitenziaria sono in borghese, senza divisa. Le telecamere non si vedono e i sistemi di sicurezza sono pensati per non essere riconoscibili dai bambini: “Anche i controlli sono spesso effettuati a mo’ di gioco”, racconta Maria, un’agente di polizia penitenziaria di 26 anni che lavora all’ICAM dal 2021. Gli ICAM - così come le sezioni nido delle carceri ordinarie, aree detentive allestite per i bambini - servono ad alleviare in qualche modo l’esperienza del carcere ai figli piccoli delle detenute. Il modello di custodia attenuata che si segue può avere effetti positivi sulle detenute e sul loro percorso di reinserimento della società, ma parliamo comunque di un carcere: per quanto attenuata, e in molti casi gestita con competenza e attenzione, la detenzione viene in ogni caso percepita dai bambini, con potenziali conseguenze negative sul loro sviluppo. Per questo chi si occupa di detenute con figli ritiene che sia sempre necessario il ricorso a misure alternative, come la detenzione domiciliare o le case famiglia protette, in grado di far scontare la pena alle detenute ma anche di garantire ai figli e alle figlie un’infanzia il più possibile assimilabile a quella dei bambini liberi. In Italia, secondo dati del ministero della Giustizia aggiornati al 30 aprile, sono recluse 20 detenute madri con 22 figli al seguito in totale. È un numero piccolo, anche se tra i più alti d’Europa, e chi si occupa di questo problema lo cita spesso per dire che trovare una soluzione non dovrebbe essere così complicato. “I numeri sono diminuiti soprattutto con la pandemia che ha spinto i giudici a usare molto di più le misure alternative al carcere per evitare contagi, a dimostrazione del fatto che è una via praticabile”, dice Susanna Marietti, coordinatrice dell’associazione Antigone e curatrice del rapporto Dalla parte di Antigone, dedicato interamente alla detenzione femminile. In generale in Italia le donne costituiscono poco più del 4 per cento della popolazione carceraria totale. Vanno in carcere soprattutto per reati contro il patrimonio, in particolare per furti. Dal carcere i figli e le figlie di detenute possono uscire liberamente, accompagnati dagli agenti di polizia penitenziaria o da operatori e operatrici del comune che li portano all’asilo, a scuola, dal medico, a una festa di compleanno o magari al corso di nuoto. Possono uscire anche con i propri parenti all’esterno, e magari trascorrere una notte o più giorni fuori per poi tornare dentro, se la madre ha dato l’autorizzazione. A volte è difficile dire cosa sia meglio per loro: chi ha una rete più solida all’esterno esce più spesso, e vede di più la differenza tra il dentro e il fuori. Chi non ce l’ha vede meno questa differenza, ma è più spesso recluso. Spesso vengono presi accorgimenti per evitare troppe domande da parte dei coetanei: “Con il comune abbiamo concordato che per lo scuolabus l’ICAM sia sempre la prima fermata al mattino e l’ultima al ritorno da scuola, in modo che gli altri bambini non ne vedano il grosso cancello d’ingresso”, dice Anna Rita Bossone, vice ispettrice dell’ICAM di Lauro, in provincia di Avellino. In quello di Milano viene insegnato ai bambini e alle bambine a non dire “andiamo o torniamo a casa”, riferendosi al carcere, ma “andiamo o torniamo dalla mamma”. Negli ICAM di Milano e Lauro ci sono anche rispettivamente una ludoteca e una biblioteca, oltre a diverse attività organizzate per i bambini dalle associazioni e dai volontari che frequentano la struttura. Il loro contributo è considerato molto importante, dato che non esiste un programma apposito del ministero della Giustizia per le attività dei bambini, anche perché formalmente non sono detenuti: “Per noi il volontariato è fondamentale, se una bambina ha una festa di compleanno fuori dal carcere alle otto di sera serve un volontario che ce la porti, dato che gli agenti hanno finito il turno”, spiega Domenico Truoiolo, funzionario giuridico pedagogico (un “educatore”, per semplificare) dell’ICAM di Lauro. Sono molto meno attrezzate le sezioni nido delle carceri ordinarie, che a differenza degli ICAM non si trovano in edifici distaccati: delle 12 che ci sono in Italia, otto non hanno nemmeno aree esterne attrezzate per i bambini. In Italia quando una donna viene arrestata e ha figli piccoli non può essere semplicemente messa in carcere. Se i figli hanno meno di un anno è obbligatorio il rinvio della pena, se ne hanno meno di tre il rinvio è facoltativo. A quel punto la donna potrà decidere di affidare i figli a qualcuno e di entrare in carcere, oppure di tenerli con sé, possibilità prevista dalla legge 354 del 1975, la prima tra quelle che in Italia hanno regolamentato la condizione delle detenute madri. “Ho deciso di tenere con me mia figlia perché è l’unica che ho” racconta Anita (nome di fantasia), una donna di 47 anni detenuta all’ICAM di Lauro insieme alla figlia di 4. Anita ha tentato per molti anni di avere figli, riuscendoci quando ormai aveva “perso la speranza”. Quando è stata arrestata era incinta, sua figlia è nata in carcere e lei deve scontare ancora sei anni di pena. “Io ho deciso di tenere mio figlio con me perché non avevo nessuno a cui affidarlo”, dice Bobbi, una donna indiana di 33 anni detenuta all’ICAM di San Vittore a Milano col figlio di due. La famiglia di Bobbi, che ha interrotto tutti i rapporti con lei, è in India. Fuori dal carcere, in Italia, non conosce nessuno. Quando è stata arrestata era in Italia da pochissimo e non parlava l’italiano, la lingua in cui si racconta e che ha imparato proprio all’ICAM. Irene (nome di fantasia), una donna di 32 anni detenuta a Lauro, ha raccontato di aver chiesto il ricongiungimento col proprio figlio perché “ho avuto davvero paura di perderlo”. Nel suo paese di origine ne ha altri due. Quando il figlio ha compiuto un anno, Irene aveva deciso di affidarlo a una cugina e di entrare in carcere, a Foggia. Per una serie di vicende suo figlio era poi stato affidato a una casa famiglia: lei racconta di non averne più saputo nulla per sei mesi, che ha definito “i peggiori della sua vita”. Era dimagrita fino a pesare 38 chili e aveva smesso di alzarsi dalla branda la mattina. Poi aveva chiesto il ricongiungimento. Dice che quando le avevano portato il figlio lui aveva i capelli molto più chiari, e che per un attimo aveva temuto che non fosse lui. “L’ho riconosciuto da una voglia che aveva su una coscia e sono scoppiata a piangere: si sono commosse anche alcune agenti di polizia che erano lì in quel momento”. Irene finirà di scontare la pena nel 2027. Se una donna con figli che deve stare in carcere sceglie di tenerli con sé ci sono due possibilità: se è in custodia cautelare (cioè non è ancora stata condannata) può tenerli con sé fino al compimento dei sei anni, preferibilmente agli arresti domiciliari o in una casa famiglia protetta, struttura di tipo comunitario in cui la donna è comunque sottoposta a sorveglianza. Il carcere è previsto solo in casi di “eccezionale rilevanza”, e preferibilmente (ma non obbligatoriamente) in un ICAM. Se invece la donna sta scontando una condanna definitiva può tenere i figli con sé fino a che non hanno 10 anni: se la pena è inferiore a 4 anni la donna può scontare la pena ai domiciliari o in una casa famiglia protetta, altrimenti può farlo solo dopo aver scontato in carcere un terzo della pena, o 15 anni in caso di ergastolo. Anche in questo caso non è obbligatorio che sia un ICAM. “In teoria il carcere dovrebbe essere predisposto solo in casi di eccezionale rilevanza: nei fatti non è così”, dice Marietti. Spesso le detenute sono di etnia rom, e anche se sono state arrestate per reati minori la detenzione domiciliare viene valutata impraticabile dal giudice. Una soluzione potrebbe essere quella delle case famiglia protette, ma in Italia ce ne sono solo due perché non è prevista una copertura finanziaria da parte dello Stato (ci torniamo). Il gruppo più grande di detenute madri in Italia (8, con 8 figli) è nell’ICAM di Lauro, seguite da quello di Milano (5 detenute e 5 figli): il primo è immerso nel verde dell’Irpinia, nell’Appennino campano, il secondo è nel centro di Milano, di fronte all’ospedale Melloni. Le altre detenute madri sono nell’ICAM del carcere Lorusso e Cotugno di Torino (2 donne e 2 figli), collocato invece all’interno del carcere ordinario, in quello della Giudecca a Venezia (3 donne e 4 figli) e nelle carceri di Foggia e Lecce (1 donna e 2 figli e 1 donna e 1 figlia). A Foggia e Lecce non ci sono ICAM: le detenute e i loro figli si trovano rispettivamente in una sezione nido del carcere ordinario e nel carcere Borgo San Nicola, il più grande della Puglia. In un ICAM, dove non ci sono celle ma uno spazio comune con diverse stanze, chiuso a chiave con la porta blindata, non è raro vedere bambini che tornati da scuola o dall’asilo corrono incontro agli agenti e alle agenti come se fossero amici o parenti. Tre detenute, due nell’ICAM di Milano e una in quello di Lauro, raccontano dei nomignoli familiari che i loro figli danno agli operatori e agli agenti delle strutture: “Il comandante lo chiama “zio”“, dice Irene. Bobbi racconta invece che suo figlio “chiama “nonno” tutti gli operatori maschi”. Capita che con gli agenti i bambini condividano dei ricordi. “Ha visto per la prima volta il mare con un agente di polizia”, dice Anita parlando della figlia, a cui un’agente, passando, fa il solletico. Secondo Anita sua figlia si fida di più delle agenti e degli operatori - le persone che vede tutti i giorni - che dei suoi stessi parenti fuori dal carcere, con cui a volte non vuole uscire. L’impressione è che per i figli e le figlie delle detenute la polizia finisca per diventare una specie di famiglia, anche se inevitabilmente limitata al periodo di reclusione della madre. Le modalità di detenzione previste dalla cosiddetta “custodia attenuata” permettono molta più prossimità tra agenti e detenute rispetto a un carcere tradizionale, secondo alcune testimonianze con effetti positivi per entrambe le parti. Due agenti di polizia penitenziaria sostengono per esempio che la vicinanza con le detenute prevista dall’ICAM abbia aperto loro la mente: “Prima di lavorare qui non sapevo niente delle persone rom, su cui avevo molti pregiudizi, né di come funziona la vita in un campo o della loro cultura: sembra retorico dirlo, ma per me lavorare qui è stato un po’ come viaggiare”, dice Maria, agente di polizia dell’ICAM di Milano, che aggiunge: “Mi è anche capitato di chiedermi, per la prima volta in vita mia, che cosa avrei fatto io al posto loro, senza gli strumenti educativi ed economici con cui ho potuto costruire la mia vita”. Anna Rita Bossone dell’ICAM di Lauro sostiene invece di aver imparato a “vedere non una detenuta, ma prima di tutto una persona”. Alcune detenute sostengono che il percorso fatto all’ICAM abbia permesso loro di fare delle scelte di vita anche radicali. Marina, una donna rom di 36 anni che ha finito di scontare la pena e che vive temporaneamente nella casa famiglia protetta di Milano insieme alle figlie di 13 e 16 anni, dice di aver deciso di abbandonare la vita nel campo rom e di lasciare il padre delle sue figlie: “Ho trovato persone con cui sfogarmi e con cui riflettere, ho seguito dei corsi e ho capito che ero capace di fare delle cose, che una volta uscita avrei potuto e voluto vivere del mio lavoro”. Un’esperienza simile è stata condivisa da Irene, che sostiene che l’ICAM l’abbia “cambiata” e di non voler continuare a delinquere. Irene ha detto che all’ICAM ha scritto “quattro quaderni” sulla sua storia, che l’hanno aiutata a “superare la vergogna”. Marina sta ultimando le pratiche per ottenere i documenti necessari per un contratto d’affitto e per poter lavorare. Marianna Grimaldi, funzionaria giuridico pedagogica dell’ICAM di Milano, mostra invece alcune lettere che una ex detenuta le invia regolarmente, in cui la aggiorna sulla sua vita, le invia gli auguri di Natale e la ringrazia per il percorso fatto insieme: in una lettera definisce lo staff dell’ICAM “la mia famiglia”. Ma a fronte di queste esperienze positive ci sono quelle dei bambini. “Lo capisce che questa non è una casa”, dice Marianna parlando di sua figlia, a cui secondo lei mancano il padre e le sorelle, di cui hanno una foto sulla testata del letto nella stanza che condividono con un’altra detenuta. Irene parla delle volte in cui suo figlio le chiede come mai la polizia ha chiuso la porta a chiave: “io gli dico che è perché dobbiamo andare a lavarci, ma lo vedo che non è convinto”. Altre volte suo figlio le chiede come mai non può accompagnarlo all’asilo: “Gli dico che non posso uscire perché devo lavorare, ma molte volte mi blocco di fronte alle sue domande, e lui si spazientisce”. “Il carcere ha delle conseguenze sui bambini: noi ne abbiamo visti arrivare diversi, e soprattutto quando non venivano dagli ICAM c’erano manifestazioni di disagio molto chiaro, per esempio rispetto ai rumori che ricordano le sbarre e i cancelli”, dice Elisabetta Fontana, presidente dell’associazione Ciao che gestisce la casa famiglia protetta di Milano. “Lo vedi anche dai giochi: è tutto un giocare a chiamare la polizia, con una certa ossessione per le chiavi, per i giochi con le chiavi” Il livello a cui i bambini percepiscono la detenzione dipende da tante cose: dal carattere individuale, dall’età, dal fatto che siano o meno nati in carcere, come i figli di Bobbi e Anita, per cui l’ICAM è per così dire la normalità. Ma per quante attività possano esserci all’interno di un ICAM o di una sezione nido, la detenzione delimita inevitabilmente gli spazi e i modelli familiari di riferimento, riduce i contatti con l’esterno e crea una routine imponendo una socializzazione forzata con le altre detenute e i loro figli e figlie. “Lo dicono tutti gli psicologi che gli stimoli sensoriali e relazionali nei primi tre anni di vita sono fondamentali per consolidare personalità e intelligenza: è chiaro che le condizioni di un ICAM non possono soddisfare esigenze evolutive e relazionali dei bambini e delle bambine al loro interno”, dice Marietti di Antigone. Chi lavora negli ICAM sostiene che non siano paragonabili a un carcere tradizionale, e che in alcuni casi possano avere addirittura effetti positivi per i bambini: “Qui dentro prendersi cura della genitorialità significa anche dare dei ritmi regolari, mandare i bambini a scuola, far sì che abbiano un’alimentazione equilibrata: tutte cose che spesso non hanno, nei contesti da cui provengono”, ha detto Truoiolo dell’ICAM di Lauro. D’altra parte, dice Marietti, “l’ICAM è comunque un carcere: de-carcerizzare non significa dipingere di rosa i muri di un carcere”. Secondo Marietti, “senza pensare a soluzioni concretamente percorribili, “Mai più bambini in carcere” è uno slogan: non puoi togliere i bambini dal carcere separandoli dalle madri - sarebbe sbagliato - e nemmeno creare delle sacche di impunità, per cui se hai figli non sconti la pena: il problema si risolve solo creando una vera cultura sull’utilizzo delle misure alternative al carcere come le case famiglia protette”. È dello stesso parere Mauro Palma, il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, organismo indipendente che tutela le condizioni dei detenuti, secondo cui gli ICAM sono “strutture a cui ricorrere solo in casi estremi, la priorità invece va data alle case famiglia protette”. Le case famiglia protette furono istituite con la legge 62 del 2011, senza però prevedere alcuna copertura finanziaria dello Stato. Anche per questo in Italia ne sono state aperte solo due: una a Milano, gestita dall’associazione Ciao, e una a Roma, la Casa di Leda, gestita dalla Cooperativa Alice Onlus. In una casa famiglia protetta le detenute madri possono scontare la pena in detenzione domiciliare: ci entrano con alcune disposizioni del magistrato di sorveglianza, che gli operatori si occuperanno di far rispettare. “Se una detenuta tarda a rientrare anche solo di qualche minuto noi siamo obbligati a chiamare la polizia”, dice Giusy Garbelli, avvocata e criminologa che lavora nella casa famiglia protetta di Milano. Nella struttura dell’associazione Ciao, che è un’associazione laica ma la cui casa famiglia è ospitata in un edificio dell’oratorio locale, nel quartiere Stadera, ci sono tre appartamenti dotati di cucina e bagno e un ampio corridoio su cui danno una serie di stanze comuni. Sui muri ci sono scritte, fotografie e disegni fatti dai bambini e dalle bambine che ci vivono. La struttura può ospitare fino a 6 mamme e 7 bambini in totale, e gli appartamenti sono in condivisione. Per ora la casa famiglia protetta di Milano procede con raccolte fondi, donazioni e partecipazioni a bandi di vario tipo. “Riceviamo una retta dal comune solo se ci è stato assegnato un assistente sociale per qualcuno dei minori, e la Regione Lombardia ha presentato una manifestazione d’interesse per ottenere alcuni dei finanziamenti previsti dalla legge di bilancio”, ha detto Andrea Tollis, il direttore. Il finanziamento pubblico delle case famiglia protette era una delle novità più importanti di una proposta di legge approvata l’anno scorso solo dalla Camera, e poi ripresentata nella nuova legislatura, dal Partito Democratico. Lo scorso marzo il PD l’ha ritirata dopo l’approvazione di alcuni emendamenti da parte della maggioranza di destra, che secondo i promotori della legge ne avevano snaturato obiettivi e principi di partenza. La Lega aveva difeso gli emendamenti dicendo che “essere incinta e/o madre di bambini piccoli non può essere il passepartout per le borseggiatrici abituali e professionali per evitare il carcere e continuare a delinquere”. “Spesso, quando si parla di carcere, i toni sono polarizzati e temi complessi rischiano di essere semplificati”, dice Tollis, secondo cui il tema delle detenute madri è uno dei migliori punti di partenza per ragionamenti molto più ampi: “quello della detenzione femminile, di donne detenute in un sistema abitato e pensato soprattutto da uomini, quello della maternità, quello dell’esecuzione della pena, del partire dalla persona, prima che dal reato, e del vedere la pena come funzionale al reinserimento nella società, non alla punizione”. Noi agenti respingiamo le critiche di Bernardini: nelle carceri con i detenuti dovrebbero esserci direttori ed educatori di Domenico Nicotra* Il Dubbio, 6 giugno 2023 Come sindacato di Polizia Penitenziaria riteniamo doveroso sottolineare alcuni aspetti in relazione all’articolo “Mancanza di agenti in carcere, dai dati emerge una fuga dalle sezioni”, pubblicato su Il Dubbio lo scorso 2 giugno a firma Damiano Aliprandi. In questo articolo si parla di un’analisi dei dati condotta da Rita Bernardini di “Nessuno Tocchi Caino”, secondo la quale una parte significativa del personale penitenziario è impiegato negli uffici e non nelle sezioni degli istituti. La dottoressa Bernardini non conosce, probabilmente, il contesto di cui parla. Innanzitutto ci verrebbe da chiederle se ha mai pensato a quanti Carabinieri lavorano nei reparti territoriali e quanti presso i Comandi Provinciali, Regionali, Interregionali, Comando Generale, Uffici Giudiziari, Presidenza della Repubblica, Senato, Camera e ministeri vari, senza che per questo si parli di “fughe dai servizi d’istituto”. Naturalmente un discorso analogo potrebbe essere fatto per tutte le altre Forze di Polizia. Ma, a parte questo, ci piacerebbe rivolgerle alcune domande. È consapevole di quante umiliazioni, minacce ed aggressioni i poliziotti penitenziari sono costretti a subire ogni giorno? Lo sa che questi poliziotti non sono operatori penitenziari ma agenti di Polizia, semmai specializzati in questo tipo di contesto? (Così come lo sono gli agenti della Polizia ferroviaria o stradale senza per questo essere operatori delle Ferrovie o delle società autostradali). Ha idea di quanti compiti istituzionali siamo chiamati ad assolvere? Lo sa che, per espressa previsione Costituzionale, le pene tendono alla rieducazione e che quindi le Forze di Polizia, quale è la Penitenziaria, nelle sezioni carcerarie non dovrebbero proprio lavorare, se non in casi eccezionali? È consapevole del fatto che gli unici operatori penitenziari professionalmente chiamati a Funzioni rieducative-risocializzanti sono funzionari giuridico pedagogici (noti come educatori) e i dirigenti penitenziari (i direttori) e non la Polizia penitenziaria? Sa che centinaia di educatori sono distratti dai loro compiti istituzionali per lavorare in Uffici regionali e centrali dell’Amministrazione? Ha idea del fatto che due educatori sono addirittura destinati a un reparto tecnico della Polizia (il laboratorio centrale per la Banca dati del Dna) senza alcuna valida ragione per non stare in sezione con le persone detenute? È consapevole che a fronte di 250 dirigenti penitenziari e 189 Istituti di pena mancano i direttori in decine di carceri italiane? Può immaginare che svariati dirigenti penitenziari lavorano, grazie al nullaosta del Dap, presso uffici che non sono dell’Amministrazione penitenziaria né della Giustizia? Alcuni sono al ministero della Difesa, altri al comune di Roma e così via. Sa che se la Penitenziaria non lavora anche con la Magistratura di sorveglianza e presso i nuclei del Corpo deputati al controllo delle misure alternative e delle pene sostitutive, l’esecuzione penale esterna non decolla e le persone condannate non usciranno mai di galera? Infine, visto che la sua analisi è poi stata la base per una interrogazione parlamentare dell’onorevole Roberto Giachetti, è consapevole che dovrebbe chiedere scusa ai poliziotti penitenziari italiani per averli etichettati come fuggitivi dal carcere e, semmai, attivare altro tipo di interrogazioni parlamentari? Alla dottoressa Bernardini ci piace dire che nelle carceri italiane al fianco delle persone detenute, se la Carta Costituzionale ha ancora un significato per lei, dovrebbero esserci direttori penitenziari ed educatori. Di questo lei si dovrebbe interessare, così come di chiedere al Dap quanti dirigenti penitenziari ed educatori sono in contesti diversi dal carcere, quanti “direttori di istituto” non svolgono le loro funzioni nei luoghi di pena e quanti funzionari giuridico- pedagogici lavorano al fianco dei ristretti. *Presidente CON.SI.PE. La giustizia della democrazia di Giovanni Verde Corriere del Mezzogiorno, 6 giugno 2023 Abbiamo la fortuna di essere informati. I supercritici ci spiegano che anche la nostra informazione è funzionale a interessi più o meno occulti e che è o può essere deviante. Anche se così fosse, qui da noi siamo comunque più e meglio informati di quanto lo siano coloro che vivono in regimi dittatoriali. Mi basta questo per sentirmi dalla parte del mondo dei privilegiati che vivono in democrazia. La quale sarà anche malata, ma è quella che ci garantisce uno stile di vita che non è neppure lontanamente equiparabile alle condizioni in cui vivono le persone là dove esistono regimi di tipi dittatoriale o autoritario; di quelli - per intenderci - in cui si scompare misteriosamente o si va in carcere per il fatto di coltivare ed osare di esporre pubblicamente idee non conformi a quelle del regime (perché, al limite, si è considerati pazzi da curare e, in fin di conti, si finisce con l’esserlo); oppure si è uccisi o si scompare o si va in carcere per non essere vestiti adeguatamente o per coltivare relazioni sessuali “diverse”. Oppure si è chiamati ad elezioni in cui non è facile stabilire in quale misura i risultati siano il frutto di un reale e libero esercizio del diritto di voto; e così via. Per questa ragione sono vissuto, coltivando la democrazia come il solo idolo al quale prestare fede e, oggi, nella tarda età, mi sento come il trovatore dei tempi antichi che riesce a cantare una sola canzone, fino alla fine dei suoi giorni. È questa la ragione per la quale mi immalinconisce (e mi fa rabbia) che la giustizia o la ricerca della giustizia possa paradossalmente diventare uno strumento per indebolire la democrazia e per minarla. Ciò avviene quando la ricerca della “giustizia” non è mantenuta nei giusti limiti, perché, come segnalai anni fa in uno dei molti miei inutili scritti, di troppa giustizia una democrazia può morire. Al riguardo, il terreno minato è quello della responsabilità. Ad ogni sciagura, si innalzano a volo le Procure che, come corvi richiamati dal tanfo delle carogne, vanno alla ricerca di responsabilità e di responsabili; e ciò perché da noi l’esercizio dell’azione penale è obbligatoria (come si legge nella Costituzione). Tuttavia, quando le responsabilità sono diffuse - in quanto noi cittadini non siamo stati capaci di curare e proteggere il territorio in modo adeguato e non siamo stati capaci di scegliere rappresentanti politici e amministrativi in grado di farlo -, non ha senso andare alla ricerca di quel cireneo di turno su cui addossare la colpa. E questi finisce con l’essere una sorta di “untore” dei nostri giorni che serve ad appagare il risentimento e il bisogno di chi si ritiene vittima ed è egualmente responsabile (e, quindi, nutre soltanto rabbia e desiderio -non di giustizia, ma - di vendetta). Ho provato grande rispetto e non meno grande ammirazione per gli emiliani e i romagnoli che, nel pieno del disastro, non hanno recriminato (eppure avrebbero avuto ragioni per farlo, perché una cura diversa del territorio avrebbe probabilmente attenuato gli effetti e ridotto i danni dell’alluvione), ma hanno detto: “Non ci piangiamo addosso. Da subito ci diamo da fare per ricostruire, per tornare alla normalità, per produrre di nuovo valore aggiunto. Gli aiuti che chiediamo ci servono e saranno adoperati per rimettere in moto il meccanismo produttivo”. Non ho sentito (scomposte) proteste contro chicchessia e nemmeno richieste di condanne (che sanno tanto di vendetta). E mi ha fatto anche piacere che la Regione si sia ricordata, in tempi di autonomia differenziata, che esiste l’Italia, che è “una e indivisibile”, come vuole il fondamentale e negletto art. 5 della (altrettanto negletta) Costituzione. Tutto ciò rende manifesto che alla Magistratura, che è responsabile del servizio giustizia, è affidato un compito delicatissimo, che è quello di restare nei limiti di ciò che è strettamente necessario, riconducendo la sanzione penale nel recinto dell’umanamente accettabile e per il quale, nell’esercizio di qualsiasi attività in cui il rischio di sbagliare è alto, una responsabilità per colpa non dovrebbe trovare diritto di cittadinanza o dovrebbe trovarlo in casi limite. La conseguenza di un eccesso di acribia investigativa o di controlli, che trasforma tante indagini in inchieste, paradossalmente è quella di allontanare le persone oneste e capaci (ma non temerarie) dai troppi rischi collegati all’esercizio di funzioni pubbliche. Di più. È quella di alimentare un culto delle regole, che servono da scudo protettivo per chi opera, che imbavagliano qualsiasi attività nella camicia asfissiante di una burocrazia invadente, oppressiva e, spesso, idiota. La nostra è diventata la Repubblica dei regolamenti (e, purtroppo, lo sta diventando anche l’UE). Avviene, così, che il mondo politico sia tentato di mettere il bavaglio alla magistratura. Trova in questo modo giustificazione la recente decisione del Governo di presentare un emendamento al decreto sulla Pubblica Amministrazione al fine di prolungare di un anno lo “scudo erariale” che limita la responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici ai casi di dolo o colpa grave e che esautora la Corte dei conti dalla vigilanza sul Pnrr, abolendo il cosiddetto controllo concomitante dei giudici contabili sull’utilizzo dei fondi del piano. I giudici contabili protestano. Forse, faremmo tutti (insieme con i giudici) meglio a riflettere sul fatto che la democrazia è uno strumento assai delicato, che rischia di continuo di andare in frantumi e che potrebbe davvero andare in frantumi per un eccesso di acribia di stampo giustizialista. Riforme, i primi ddl di Nordio a Palazzo Chigi: Anm pronta a scioperare di Simona Musco Il Dubbio, 6 giugno 2023 Domani il governo potrebbe esaminare i testi su abuso d’ufficio, misure cautelari e “ascolti”. Le toghe di Articolo 101: dimissioni in massa dei fuori ruolo a Via Arenula. Lo scontro tra il ministro della Giustizia Carlo Nordio e la magistratura si acuisce. Con la possibilità, all’esito dell’assemblea generale convocata per domenica prossima, di un nuovo sciopero, dopo quello a dire il vero poco incisivo contro la riforma Cartabia. L’assemblea verrà preceduta, secondo quanto filtra da via Arenula, dalla presentazione delle proposte di riforma annunciate da Nordio, che dopo una lunga attesa e molti rinvii dovrebbero approdare in Consiglio dei ministri domani. Questa volta senza timidezze - dopo le iniziali preoccupazioni della parte meloniana del governo per il rischio di un conflitto con le toghe - e, dunque, sulla linea del referendum sulla giustizia dello scorso anno, con interventi sulla custodia cautelare, le intercettazioni e l’abolizione di fatto dell’abuso d’ufficio. Le toghe si riuniranno a Roma dopo l’iniziativa disciplinare promossa dal ministero contro i magistrati milanesi, “rei” di aver mandato l’imprenditore russo Artem Uss ai domiciliari, da dove poco dopo è fuggito. Ma l’evento sarà anche l’occasione per discutere dell’atteggiamento del governo, ritenuto illiberale dalle toghe, secondo quanto dichiarato in un’intervista a Repubblica dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia. Il sindacato dei magistrati ha già proclamato lo stato di agitazione, “con riserva di adottare in quella sede iniziative ulteriori e più incisive”. Ma il clima interno, a livello distrettuale, non sarebbe poi così vivace, secondo le testimonianze di alcuni esponenti dell’Anm. “Il sentore è che non sarà una riunione partecipatissima - spiega una toga -. Potrà anche partecipare l’80 per cento dei colleghi, ma dopo l’ultimo flop che effetto può avere?”. Quel che è certo è che l’argomento unisce le diverse anime della magistratura, tutte pronte a solidarizzare con i magistrati milanesi e a polemizzare con Nordio. Ma non a seguire, forse, l’idea suggerita dalle toghe di Articolo 101 nel corso dell’ultimo comitato direttivo centrale, quando hanno messo sul tavolo una proposta ben più incisiva della semplice astensione dalle udienze: le dimissioni in massa di tutti i fuori ruolo attualmente in servizio al ministero della Giustizia, “l’unica vera soluzione efficace” secondo il giudice Andrea Reale. La sensazione, tra le toghe, è che il governo riuscirà comunque a portare a casa le riforme già in pentola da diversi mesi. L’unica trattativa possibile - e forse su questo si giocheranno gli equilibri tra governo e magistratura - è che vengano fatti finire nel nulla altri progetti, come quello per il sorteggio della componente togata del Consiglio superiore della magistratura, la separazione delle carriere e anche il fascicolo del magistrato, tra le incombenze da portare a termine con i decreti attuativi della riforma del Csm. Decreti che, stando alle indiscrezioni raccolte nei giorni scorsi dal Dubbio, potrebbero essere rallentati proprio dai fuori ruolo in servizio a via Arenula. Con l’assemblea di domenica, dunque, l’Anm prova a fare pressione sull’azione del governo, che finora, in tema di giustizia, non si è dimostrato particolarmente coraggioso. Se non nei proclami, limitandosi in realtà a misure eccezionali, dettate da un’urgenza punitiva e - tanto per citare Nordio - per dare un segnale “politico”. Un segnale rivolto all’elettorato della destra-destra meloniana, da controbilanciare, ora, con una riforma di stampo liberale, invocata dalla componente forzista del governo e in parte anche dalla Lega, a metà strada tra le due forze di maggioranza. Il pacchetto in arrivo prevede l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, collegato ad una più ampia riforma dei delitti contro la Pubblica amministrazione, così come richiesto dal Carroccio. Una prospettiva “del tutto irragionevole”, secondo Santalucia, secondo cui “eliminare questo reato completa un percorso di riforme che, dopo gli emendamenti sulla Corte dei conti, non rafforza i controlli di legalità che proprio adesso andrebbero potenziati”. Ma non solo: sul piatto ci sono anche una modifica del reato di traffico di influenze illecite e misure a tutela della riservatezza di persone terze, estranee all’indagine, che però spesso finiscono ingiustamente nel tritacarne mediatico e le cui conversazioni non verranno più trascritte. Un intento rispetto al quale Santalucia ha espresso non poche perplessità, dal momento che “se quelle parole possono costituire una potenziale prova non le si può buttare via” e “se prova non sono il sistema in vigore già prevede che siano scartate”. Ci sarà poi una diversa comunicazione dell’avviso di garanzia e il pieno rispetto del contraddittorio, con un interrogatorio - in alcuni casi - che precede l’emissione della misura cautelare. Il pacchetto prevede inoltre la custodia in carcere come “eccezione dell’eccezione”, strada da seguire anche attraverso l’idea di un gip collegiale nel caso di misure cautelari privative della libertà personale - progetto che dovrà scontrarsi con la carenza di magistrati - e che mira ad evitare l’appiattimento dei giudici sulle richieste dei pm e garantire maggiore indipendenza. Ultima proposta di modifica la limitazione del potere del pm di impugnare le sentenze di assoluzione per alcuni reati, con l’obiettivo di superare le obiezioni espresse dalla Corte costituzionale con la sentenza 26 del 2007 sulla legge Pecorella, che stabiliva l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, prevedendo, quindi, limiti solo per alcuni reati, ancorandoli a dati già esistenti, sia per il pm sia per l’imputato. Il magistrato Ardita come Mara Venier di Angela Stella L’Unità, 6 giugno 2023 Parlando del delitto di Senago, l’ex consigliere del Csm attacca i benefici e le misure alternative. Tanti like sui social, ma piovono critiche di avvocati e anche di alcuni giudici. Non c’è dubbio che l’uccisione di Giulia Tramontano da parte del suo fidanzato Alessandro Impagnatiello, padre anche del figlio che la donna portava in grembo, rappresenti un delitto tra i più orribili che si possano immaginare. Tuttavia stupisce molto la presa di posizione che sulla vicenda ha assunto il magistrato, nonché ex consigliere del Csm, Sebastiano Ardita: “Giulia Tramontano aveva 29 anni e tra 2 mesi avrebbe dato alla luce il suo primo figlio; invece è stata uccisa dal suo compagno, lei ed il bimbo che portava in grembo. Colpita a coltellate e poi infierendo sul suo corpo e provando a bruciarlo. L’assassino è reo confesso e fin da subito - sulla base della riforma cd Cartabia - potrà chiedere di avviare percorsi di giustizia riparativa (attraverso iniziative varie, magari chiedendo di incontrare i parenti della vittima). Se sarà condannato ed avrà qualche attenuante o beneficio (le attenuanti per la confessione, o i benefici per i percorsi di giustizia riparativa), tra liberazione anticipata e misure alternative/liberazione condizionale, dopo una decina di anni di carcere tornerà libero per rifarsi una vita, come è già accaduto per altri. Lei invece rimarrà sottoterra, viva solo nel ricordo e nel dolore dei suoi cari ...vittima di un crimine efferato in un sistema penale che non fa più paura”. Considerazioni di questo tipo in genere vengono fatte da persone con pulsioni giustizialiste, che sono solite commentare le vicende di cronaca nera sui social media senza conoscere i fatti e le regole di uno Stato di Diritto. Oppure da esponenti politici come Matteo Salvini o il sottosegretario di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro delle Vedove, ai quali piace ripetere come un mantra di essere “garantisti nel processo, ma giustizialisti nell’esecuzione penale”, perché “certezza della pena” vuol dire che la persona condannata deve scontare in carcere fino all’ultimo giorno di reclusione, senza sconti o benefici. Considerazioni di questo tipo ce le saremmo aspettate da persone come Mara Venier che domenica, mandando un abbraccio anche ai genitori dell’indagato, ha tenuto subito a precisare dinanzi a milioni di telespettatori che “sì, signora Impagnatiello, suo figlio è un mostro”, alimentando forse ancora di più l’odio social che si è scatenato su questa vicenda, anche nei confronti dell’ormai ex difensore dell’indagato, l’avvocato Sebastiano Sartori, che ieri ha rinunciato al mandato, reo di aver esercitato la sua funzione difensiva, come Costituzione pretende. Ma leggere un j’accuse così duro nei confronti dei benefici di legge e delle misure alternative da un magistrato del calibro di Ardita, che per di più in passato ha anche ricoperto il ruolo di direttore generale del dipartimento detenuti e trattamento del DAP, e che pertanto dovrebbe riuscire a capire quanto siano importanti i percorsi trattamentali all’interno del carcere grazie ai quali la persona reclusa ha la possibilità di “tornare libera per rifarsi una vita”, ci lascia davvero sgomenti e senza parole, non foss’altro perché, in quanto magistrato, il dott. Ardita ha una grande responsabilità quando comunica i suoi pensieri. Tanto è vero che il suo commento, apparso su Facebook e apprezzato da migliaia di utenti, ha dato subito la stura a giudizi molto pesanti nei confronti di Impagnatiello: “bestia”, “certi elementi devono marcire in carcere”, “Dovrebbero dargli l’ergastolo senza processo, un bastardo del genere non può avere nessuna attenuante”. Sia chiaro, di fronte a crimini orrendi e brutali siamo abituati a leggere reazioni di questo tipo, ma è opportuno che a scatenare questi istinti tribali sia un magistrato? Le parole del consigliere Ardita hanno fatto trasecolare anche alcuni suoi colleghi i quali, da noi interpellati, hanno preso nettamente le distanze da questa presa di posizione giudicata errata e inopportuna. Tra l’altro, un magistrato ci ha scritto: “La paura del sistema penale, quale strumento di prevenzione generale è proprio una bufala. Il resto è espressione tipica del populismo penale imperante. Mi dispiace, ma ricordavo un Ardita più lucido e pacato...”. Non sono mancati anche commenti pubblici da parte di alcuni avvocati, tra cui Nicola Canestrini: “Mi stupisco che un magistrato strumentalizzi così biecamente una vicenda di cronaca”. Noi abbiamo raccolto il parere di Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione Camere Penali: “Le parole di Ardita sono una perfetta rappresentazione di cosa sia il populismo penale, cioè agitazione gratuita, pretestuosa e strumentale del sentimento di indignazione, di dolore, di condanna sociale, per condizionare e travolgere ogni regola del giudizio e del processo penale”. “Per il populista, quale lui è - prosegue il leader dei penalisti - le regole del giudizio, che impongono al giudice di adeguare la pena al fatto ed al soggetto che ha commesso l’illecito, sono fastidiosi ostacoli sulla strada di una giustizia concepita unicamente come vendetta. È un mondo ideale tremendo, rozzo nelle argomentazioni, pericoloso rispetto ai sentimenti che rischia di suscitare, irrispettoso della cruciale funzione sociale del giudice e del processo in contraddittorio tra le parti. Uno spettacolo desolante, tanto più se inscenato da un magistrato. Un mondo che intendiamo combattere senza tregua, in nome ed in difesa dei valori fondanti del vivere civile”, conclude il vertice dell’Ucpi. “Non dimentichiamoci delle vittime: meritano la certezza della pena” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 giugno 2023 Il post del magistrato Sebastiano Ardita sul caso di Giulia Tramontano ha suscitato molte polemiche. Ne parliamo con il giudice Aldo Morgigni, già consigliere del Csm. Condivide quanto detto dal suo collega Sebastiano Ardita? Senza entrare nel merito, in quanto non mi esprimo su vicende che non conosco nei dettagli, posso dirmi completamente d’accordo con quanto letto. E partirei dall’ultima parte del post: il problema purtroppo sono le posizioni dei parenti della vittima. Intanto la partecipazione alle fasi decisionali del processo è marginale, soprattutto per quanto concerne l’applicazione della pena. Inoltre non intervengono neanche durante un eventuale procedimento di sorveglianza. Dal post si evince che l’indagato sia irrecuperabile, se il dottor Ardita mette in discussione il sistema di benefici... In generale posso dire che esistono una serie di istituti premiali importanti perché bisogna attuare l’art. 27 della Costituzione. Tuttavia ci sono principi convenzionali, assunti per esempio in sede europea, che tutelano in modo particolare le vittime di particolari reati. Bisognerebbe che i congiunti delle vittime o le vittime stesse avessero più voce in capitolo anche in merito al percorso trattamentale del condannato. Se dovessimo prendere in esame anche il parere della vittima o dei parenti, per reati molto gravi non spenderebbero forse mai una parola favorevole per l’ottenimento dei benefici... Io non penso ad un potere di veto, ma la possibilità - non vincolante ai fini della concessione del beneficio - di esprimere la propria opinione. Di questo dovrebbe farsi carico il legislatore. Ma la strada migliore sarebbe quella propria della giustizia riparativa... In quel caso però occorre il consenso di entrambe le parti. In quello che propone lei su cosa si baserebbe il giudizio del familiare? Chi è interno al carcere può fornire al magistrato di sorveglianza elementi concreti, una vittima cosa potrebbe mai aggiungere? La vittima potrebbe riferire se ci sono state forme di contatto col condannato. Alcune volte potrebbero cercarli per chiedere perdono, altre addirittura per minacciarli. Ma ciò non esclude che una lettera di ravvedimento possa essere solo un escamotage, come fanno i pentiti quando mentono per ottenere sconti di pena... Questo rischio esiste, come esiste anche per le eventuali dichiarazioni del condannato in merito al suo cambiamento. Noi giudici siamo sempre in balia di qualcuno che potrebbe mentire. Però il giudice è una parte imparziale, la vittima no... Certo, ma allora non dovrebbe costituirsi neanche parte civile nel processo. Alcuni giuristi, come Ennio Amodio, sostengono proprio questo perché vediamo processi con molte parti civili che mettono la difesa nella posizione di giocare contro due avversari... Dicevano i romani: actus trium personarum, ossia il giudice, uno che chiede e uno che si oppone. Quindi per me un provvedimento di sorveglianza senza la partecipazione di chi ha subìto il reato è una circostanza iniqua. Quello che dico io è previsto dalla Convenzione europea dei diritti delle persone offese. Una cosa è la persona offesa, altra cosa sono le parti civili... Certo, ma nel 90% dei casi coincidono le due posizioni. Quando siamo in presenza di un omicidio i prossimi congiunti esercitano i diritti della persona deceduta. Un suo collega magistrato nel commentare il post di Ardita mi ha scritto: “la paura del sistema penale, quale strumento di prevenzione generale è proprio una bufala. Il resto è espressione tipica del populismo penale imperante”... Il collega Ardita è un profondo conoscitore della fase processuale e di quella dell’esecuzione. Non mi sembra che abbia detto nulla di sconvolgente. Probabilmente, poi, le cose scritte si possono interpretare in più modi. A me sembra che lui abbia voluto solo dire: non dimentichiamoci delle vittime di reato. Io invece ho letto il post di Ardita in questo senso: certezza della pena vuol dire che la persona condannata deve scontare in carcere fino all’ultimo giorno di reclusione, senza sconti o benefici. Ma questi ultimi fanno parte delle regole del nostro Stato di Diritto... In generale il fatto che esistano dei benefici previsti per legge è del tutto normale. Poi come vengono applicati va valutato caso per caso. Beccaria diceva che le pene dovevano essere miti ma dovevano essere applicate fino in fondo per evitare che gli uomini onesti odiassero le leggi. E la nostra Costituzione parla di “pene” e non di carcere... Non c’è dubbio. Comunque fino ad ora la pena più idonea che siamo riusciti a trovare per contenere la pericolosità è il carcere modulato in base ai principi di rieducazione. Cafiero de Raho: “Il governo consente a mafia e corrotti di sguazzare nel fango dell’illegalità” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 6 giugno 2023 “Rimuovendo gli argini dei controlli, il governo consente a mafie e corruzione di sguazzare nel fango dell’illegalità”, dice Federico Cafiero de Raho, ex procuratore nazionale antimafia, oggi deputato del M5S. Che cosa pensa dell’intervento sulla Corte dei Conti? “Incomprensibile. Il controllo concomitante era finalizzato a evidenziare eventuali carenze nel funzionamento della macchina amministrativa, tanto più rispetto alla enorme mole di investimenti del Pnrr e a fronte di una legislazione antimafia immutata”. Con quale logica? “Non ostacolare l’attuazione del Pnrr; al contrario stimolarla, correggendo gli errori e aumentando l’efficienza”. I controlli della Corte restano, ma successivi. “Alla fine, quando questa funzione non ha più senso. L’operazione del governo ha come effetto non di aiutare l’attuazione del Pnrr, ma di indebolire ulteriormente il buon andamento dell’amministrazione pubblica”. In cosa consiste il buon andamento? “La velocità è un valore, ma non assoluto e non meno importante di legalità e trasparenza. Indebolire la macchina amministrativa, eliminare i controlli e negare il rispetto delle regole significa agevolare eventuali inquinamenti provenienti da corruzione e mafia”. Le regole sugli appalti sono adeguate? “Il codice dei contratti pubblici varato dal governo ha confermato in via generale le norme previste nel 2020 per l’emergenza pandemica: innalzamento delle soglie per affidamenti diretti a 150mila euro e per procedure negoziate a 500mila euro. Regole che riducono la concorrenza e rendono più agevoli le infiltrazioni criminali”. Esistono anticorpi? “Comuni privi di adeguate professionalità si ritrovano enormi poteri e responsabilità. Condizionare le piccole stazioni appaltanti, sia per i corruttori che per i mafiosi, è più facile in assenza di meccanismi di selezione delle imprese e di regole protettive. E da oggi, anche senza il controllo della Corte dei Conti”. Quando è nato il Pnrr, lei era procuratore nazionale antimafia. Si discusse di questi rischi? “Certo. Si puntò sulla verifica degli appalti attraverso la banca dati del Viminale sui motivi ostativi per contiguità mafiosa dei soggetti economici; sull’aggiornamento dei prefetti con elementi sopravvenuti; sulla totale ristrutturazione della banca dati dell’Autorità Anticorruzione, aggiungendo ai dati sulle aggiudicazioni quelli sulla partecipazione agli appalti”. Per quale motivo? “Per individuare, anche a livello nazionale, imprese che sembrano concorrere agli appalti ma in realtà celano partecipazioni fittizie, con l’obiettivo di agevolare assegnazioni predeterminate. I cosiddetti cartelli”. Questa misura è stata sviluppata? “Siamo ancora in ritardo. Comuni anche di dimensioni non piccole lamentano di non avere personale per svolgere tutte queste attività”. Che cosa pensa dell’attacco della destra alla Procura nazionale antimafia, accusata di svolgere un ruolo politico di opposizione? “È una polemica che non merita commenti. Si tratta di questioni che non mi interessano, perché sviano dai fatti e dalle vere esigenze di legalità e trasparenza, su cui si gioca il destino del Paese”. La lotta alla mafia, anche in chiave Pnrr, è una priorità? “Dovrebbe, ma guardando alle scelte del governo pare che lo sia solo per magistratura e forze di polizia. Invece la politica, che più dovrebbe preoccuparsene, la ignora. Il messaggio che manda ai cittadini è che si consente alle mafie di muoversi liberamente. Senza alzare alcun nuovo argine, anzi rimuovendo quelli già esistenti”. A quali argini si riferisce? “Zero regole sugli appalti. Meno controlli sulla discrezionalità della pubblica amministrazione. Abolizione o limitazione di reati come abuso di ufficio e traffico illecito di influenze, che la stessa presidente della Commissione europea definisce obblighi irrinunciabili per gli Stati membri. Infine la proclamazione pubblica delle tasse come pizzo di Stato”. Che c’entrano le tasse? “Segnalo quanto detto dalla procuratrice europea Laura Codru?a Kövesi, facendo il bilancio di un anno di attività. Su 14 miliardi di frodi rilevate sui fondi europei, 6,7 miliardi sono frutto di evasione fiscale, di cui 2,7 miliardi realizzata in Italia. Nessun Paese Ue ha questi numeri. Non sono dicerie. E il governo cosa fa? Esalta l’evasione paragonandola alla ribellione al pizzo mafioso e chiede all’Agenzia delle entrate, che la combatte, di sacrificare nel bilancio 10 milioni di euro”. C’è un problema tra governo e poteri neutri? “Mi pare evidente. Se il presidente dell’Anac evidenzia l’esigenza di alcuni correttivi al codice degli appalti, si chiedono le sue dimissioni. Se la Corte dei Conti svolge il compito previsto dalla legge, evidenziando carenze e ritardi nella gestione del Pnrr, si fa un emendamento in corsa perché non se ne occupi più. Si proclama la sacralità della magistratura, ma la si intacca spudoratamente. Insomma sta diventando vietato criticare il governo, mentre si consente a mafie e corruzione di sguazzare nel fango dell’illegalità di Stato”. Prodi vede segnali di involuzione autoritaria, altri giuristi non concordano. “Io penso che questi fatti siano inequivocabili. Basta metterli in fila. Ce n’è uno sottovalutato: la giunta per le elezioni intende cambiare retroattivamente le regole elettorali, contravvenendo a quelle codificare dal Viminale, pur di recuperare un seggio per un esponente calabrese. Come dire: chi ha il potere si fa le regole per sé, le cambia e le cancella. Anche a posteriori. Si tocca il cuore della democrazia. Alla faccia del principio di legalità”. La giustizia in stile “Minority Report”. Ecco il software che prevede i crimini di Manuela Messina Il Giornale, 6 giugno 2023 Il sistema “Giove” alle forze di polizia per gestire le informazioni- Predire e prevenire i reati di maggiore allarme sociale, ovvero i più comuni e anche più odiosi: molestie sessuali, furti in abitazione, rapine e raggiri ad anziani e fragili. Con la possibilità di estenderne l’utilizzo anche in altri ambiti, man mano che migliora la tecnologia, come ad esempio il terrorismo. Un obiettivo ambizioso che si prefigge “Giove”, il primo “sistema di analisi automatizzata per l’ausilio alle attività di polizia”. Passaggio necessario alla sua completa attuazione da parte delle questure italiane non prima di un anno - sarà il via libera del Garante per la privacy. “Siamo in una fase avanzata ma incoraggiante”, le parole di Francesco Messina, direttore centrale Anticrimine della Polizia di Stato. “Giove spiega Messina - perfeziona e amplia esperienze che abbiamo già avuto a livello sperimentale. In pratica, connettendosi con le banche dati, abbatte i tempi dell’accertamento degli elementi che noi usiamo a fini investigativi”. Si tratta di ottimizzare gli esiti delle informazioni che le forze di polizia consultano quotidianamente, tramite meccanismi di analisi che indicano come possono verificarsi determinati fenomeni senza introdurre elementi fuori controllo. Il sistema è nato nel 2020 grazie a un lavoro del Dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno e include tutte le sperimentazioni della questura di Milano, a partire dal 2008, effettuati con un altro software, il Keycrime, utilizzato soprattutto per il contrasto alle rapine in farmacia e nei negozi. Il sistema si avvale di un set di domande da porre alla vittima in fase di denuncia, la possibilità di inserire file multimediali audio e video (che non consentono direttamente l’individuazione di sistemi coinvolti) e molto altro. Ciò dovrebbe consentire quindi di elaborare quegli “elementi ricorrenti” utili alle forze di polizia per la loro attività investigative. Giove agisce in due sensi: prevenzione e repressione. “Quanto alla prevenzione sottolinea sempre Messina significa dare alle questure la possibilità di comprendere come si sviluppano determinati fenomeni, senza scendere nelle singole soggettività”. L’altro tema è la repressione. “Prendiamo i furti agli anziani, un reato odioso. Non c’è dubbio che un maggiore controllo da parte delle forze di polizia si traduca in un calo di quei reati. Tradotto in parole povere: i ladri saranno meno incentivati a entrare in un appartamento se il territorio è presidiato. Ma se io non incido dal punto di vista repressivo sul fenomeno, il ladro si sposta in un’altra zona della città. Ed è un gatto che si morde la coda”. Ragionamento che non fa una piega. “Quello che cerchiamo di fare grazie all’intelligenza artificiale è invece raccogliere tutti gli elementi che caratterizzano il modus operandi di un gruppo o di un singolo criminale, che sia ad esempio responsabile di svariati furti, per essere presenti, in un determinato momento, con una macchina della squadra mobile o in borghese. Una volta che ho sottoposto la banda o il singolo all’autorità giudiziaria, ho abbassato del tutto i furti”. Venendo ai rischi, Messina sottolinea che nell’impiego di questo sistema vengono prima di tutto il rispetto del tema etico e l’elaborazione secondo la norma. “Ad esempio succede che la macchina, con il sistema Sari (Sistema automatico di riconoscimento immagini) individua una somiglianza fotografica con un determinato soggetto: a quel punto io non mi attengo solo alle sue elaborazioni, ma faccio intervenire il tecnico di polizia scientifica che fa il suo lavoro come prima. Nel nostro sistema vi è quindi una doppia sorveglianza: non solo l’etica del programmatore, ma anche la valutazione dell’operato della macchina da parte dell’uomo. E in questo caso rischi ce ne sono pochissimi”. Omicidio Cerciello Rega, “bendare il fermato è un’anomalia assoluta non prevista dalla legge” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 giugno 2023 Le motivazioni della condanna del carabiniere per la misura adottata nei confronti di Hjorth. “Sull’assoluta anomalia della misura adottata dal sottufficiale imputato non possono, in concreto, nutrirsi dubbi di sorta in quanto non solo la stessa non è espressamente prevista (e il dato non è solo meramente formale) da alcuna disposizione di legge, ma la totalità dei testi cui la relativa domanda è stata posta nel presente procedimento ha escluso, nonostante trattasi di soggetti con diversi anni di esperienza in attività di polizia giudiziaria, di aver mai proceduto o assistito al bendaggio di un fermato, procedura infatti che non rientra certo nelle prassi operative delle forze di polizia italiane”. È quanto scrive il giudice monocratico di Roma Alfonso Sabella nella sentenza con cui lo scorso febbraio ha condannato a due mesi, pena sospesa, Fabio Manganaro, il carabiniere accusato di misura di rigore non consentita dalla legge per aver bendato Gabriel Natale Hjorth nella caserma di via in Selci dopo il fermo dei due americani, Hjorth e l’amico Finnegan Elder Lee, per l’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, ucciso con undici coltellate nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2019 nel centro della Capitale. Nel corso del procedimento l’imputato aveva riferito di aver bendato il giovane americano per calmarlo. Tesi che non ha convinto il giudice. “Il tribunale - si legge nelle motivazioni della sentenza - non riesce a comprendere bene la relazione tra il bendaggio di un individuo in un contesto quale quello chiaramente emerso in dibattimento e la necessità di tranquillizzarlo ritenendo che, a differenza di quanto avviene per gli uccelli rapaci quando vengono privati degli stimoli visivi, un essere umano appena aggredito con quelle modalità dovrebbe, all’esatto contrario, agitarsi molto di più non potendo nemmeno vedere se qualcuno si appresta a colpirlo e da che punto arriva la minaccia (e del resto lo stesso Manganaro ha dichiarato anche di avergli coperto gli occhi... per disorientarlo)”. Per i legali di Gabriel Natale, gli avvocati Francesco Petrelli e Fabio Alonzi, le motivazioni con le quali il giudice ha giustificato la condanna dell’autore di quel gesto “ci appaiono solide ed approfondite, con interessanti riferimenti anche ai limiti di applicazione dei cd. regimi speciali ex art. 41 bis, e alle norme convenzionali e costituzionali di riferimento, poste a tutela dell’umanità dei trattamenti restrittivi e della dignità della persona”. Il giudice ha ribadito in tal senso ““l’assoluta anomalia della misura adottata” chiarendo che la stessa “non rientra certo nelle prassi operative delle Forze di polizia italiane”. La condotta dell’imputato - come si legge in sentenza - “fu produttiva di una “condizione inutilmente mortificante e gravosa per il fermato” e ciò appare sufficiente ad integrare il reato di abuso di autorità”. Come ricostruito nel processo, Gabriel Natale, mentre era bendato e ammanettato, venne infatti anche video ripreso e fu sottoposto a una sorta di interrogatorio del tutto informale da parte del carabiniere Varriale, che si svolse peraltro - come ricostruito in sentenza - con modalità caratterizzate da particolari definiti dal giudice “inquietanti” come quello emerso dalla visione del video stesso della presenza di un soggetto (non identificato) collocato alle spalle di Natale che durante l’interrogatorio “tiene saldamente con una mano la testa di quest’ultimo”. Il giudice dà atto nelle sue motivazioni di tali situazioni, “ribadendo non solo che “il bendaggio di un fermato non è una misura di rigore consentita dalla legge italiana”, ma che la stessa era risultata in quel caso “certamente umiliante”. Si legge ancora in sentenza che, “a giudizio del Tribunale”, il gesto dell’imputato Manganaro di bendare Natale “può trovare solo una giustificazione individuabile nella necessità di impedire al fermato di memorizzare i volti di coloro che potevano aggredirlo in quel frangente”, concludono i legali. Intenti aggressivi, parzialmente portati a compimento, dei quali il giudice rinviene prova nel contenuto piuttosto esplicito delle chat dei militari acquisite agli atti del processo all’esito di perizia informatica. Uno di questa diceva: “speriamo che gli fanno fare la fine Cucchi”, un’altra suggeriva di “squagliarli nell’acido”. Indagati e imputati hanno l’obbligo di comunicare solo le proprie generalità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2023 La Corte costituzionale, sentenza n. 111 pubblicata oggi, ha stabilito che devono sempre essere avvertiti del diritto al silenzio che si estende anche alle domande sulle qualità personali dell’imputato. Chi è sottoposto a indagini o è imputato in un processo penale deve essere sempre espressamente avvertito del diritto di non rispondere alle domande relative alle proprie condizioni personali. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 111 pubblicata oggi (redattore Francesco Viganò), con cui sono stati dichiarati parzialmente illegittimi gli articoli 64, terzo comma, del codice di procedura penale e l’articolo 495 del codice penale. Il Tribunale di Firenze doveva decidere sulla responsabilità penale di un imputato per il reato di false dichiarazioni a un pubblico ufficiale sulla propria identità o le proprie qualità previsto dall’art. 495 del codice penale, che - accompagnato in Questura per l’identificazione nell’ambito di un procedimento penale - aveva dichiarato alla polizia di non avere mai subito condanne, senza essere stato avvertito della facoltà di non rispondere. Successivamente era emerso che, in realtà, quella persona era stata già condannata due volte in via definitiva. Il giudice rimettente aveva osservato che il codice di procedura penale, così come interpretato dalla costante giurisprudenza della Corte di cassazione, richiede che ogni persona sottoposta a indagini sia avvertita della propria facoltà di non rispondere soltanto alle domande relative al fatto di cui è accusata, ma non alle domande relative alle circostanze personali elencate all’art. 21 delle disposizioni di attuazione del Cpp: e cioè, tra l’altro, se abbia un soprannome, quali siano le sue condizioni patrimoniali, familiari, sociali, se eserciti uffici o servizi pubblici o ricopra cariche pubbliche, e ancora se abbia già riportato condanne penali. Il Tribunale aveva, allora, chiesto alla Corte costituzionale se questa disciplina fosse compatibile con la dimensione costituzionale del cosiddetto diritto al silenzio, che è parte del diritto di difesa riconosciuto, tra l’altro, dall’articolo 24 della Costituzione, dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato in seno alle Nazioni Unite. Con la sentenza odierna la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittima la disciplina vigente. La Corte ha sottolineato come il diritto al silenzio operi ogniqualvolta l’autorità che procede in relazione alla commissione di un reato “ponga alla persona sospettata o imputata di averlo commesso domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, possano essere successivamente utilizzate contro di lei nell’ambito del procedimento o del processo penale, e siano comunque suscettibili di avere un impatto sulla condanna o sulla sanzione che le potrebbe essere inflitta”. È questo, appunto, il caso delle domande previste dall’articolo 21 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale. La circostanza, ad esempio, che la persona interrogata sia già stata condannata può indurre la polizia a disporre il suo arresto quando questo sia solo facoltativo, può determinare un importante inasprimento della pena, e può essere utilizzata, tra l’altro, per valutare la sua pericolosità sociale ai fini dell’applicazione di misure cautelari, del riconoscimento di circostanze attenuanti o della decisione sulla sospensione condizionale della pena. La conoscenza del soprannome della persona può essere anch’essa di grande importanza a fini investigativi, ad esempio in presenza di intercettazioni in cui il soggetto venga indicato dai propri complici con uno pseudonimo. La Costituzione e le norme internazionali che tutelano i diritti umani consentono, ha osservato la Corte, che si possa imporre ad una persona sospettata di aver commesso un reato il dovere di indicare all’autorità che procede le proprie generalità (nome, cognome, luogo e data di nascita), ma non anche il dovere di fornire ulteriori informazioni di carattere personale, non essendovi per l’indagato o l’imputato alcun obbligo di collaborare con le indagini e il processo a proprio carico. Per garantire una tutela effettiva a questo diritto, è dunque necessario fornire all’indagato e all’imputato un esplicito avvertimento della facoltà di non rispondere anche a queste domande; ed è altresì necessario escludere la sua punibilità nel caso in cui egli risponda il falso, quando non sia stato debitamente avvertito di questa sua facoltà. Sardegna. Solo 3 direttori per le 10 carceri della Regione cagliaripad.it, 6 giugno 2023 “Si profila ancora un’estate da incubo per chi dovrà garantire la gestione dei 10 Istituti Penitenziari della Sardegna con 2.079 ricoveri al 31 maggio. Sono infatti solo tre, Marco Porcu, Patrizia Incollu ed Elisa Milanesi, a ricoprire la carica. Una Direttrice, Giulia Russo, arriva addirittura a Secondigliano dove è la titolare. Insomma, la situazione sull’isola continua a peggiorare. In queste condizioni sembra molto difficile rispettare i diritti di chi lavora e di chi è privato della libertà”. Lo sostiene Maria Grazia Caligari dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, ricordando che “solo a settembre, quando terminerà il tirocinio per chi avrà superato il concorso indetto dal Ministero per il posto dirigenziale, si saprà chi sarà destinato alla Sardegna. Nel frattempo, un Direttore dovrà prendersi cura di oltre mille detenuti (47 donne).” “Il titolare del carcere di Cagliari-Uta (573 persone private della libertà - 28 donne 110 straniere) ricopre infatti lo stesso incarico presso il “Giovanni Bacchiddu” di Sassari Bancali (442 di cui 92 41bis - 19 donne e 123 stranieri). Insomma, è un totale di 1015 persone ristrette. Il Direttore però - ricorda Caligaris - non si occuperà solo di chi ha perso la libertà ma tra Cagliari e Sassari dovrà vedersela con oltre 600 operatori della Polizia Penitenziaria, 56 amministrativi e 17 funzionari. Una mole di lavoro che richiede indubbie capacità gestionali soprattutto in un momento così difficile per l’intero sistema insulare dove la carenza di personale non aiuta a portare avanti un adeguato progetto di recupero sociale delle persone ristrette”. “Tuttavia, il Dipartimento - puntualizza l’esponente di Sdr - non ha risparmiato il superlavoro ai Consiglieri. Patrizia Incollu, direttrice del Badu e Carros di Nuoro (202 detenuti, 7 stranieri e 6 dei 41bis) deve vedersela con Mamone (140 detenuti - 97 stranieri) e Lanusei (25 detenuti). Il minor carico di detenuti rispetto al collega Porcu non può far dimenticare la distanza tra Nuoro e Mamone (la Colonia Penale è pressoché isolata con gravi difficoltà per i collegamenti) e Lanusei (una viabilità anche in questo caso problematica). In queste realtà sono presenti anche 268 Agenti Penitenziari, 21 amministrativi e 9 funzionari”. “Non va meglio al Direttore Elisa Milanesi con 413 detenuti divisi tra Oristano Massama (256 - 13 stranieri - quasi tutti dell’Alta Sicurezza), e le Colonie Penali di Is Arenas (80 e Isili (77) con 291 Agenti, 41 amministrative né per Giulia Russo che dovrà dividersi tra Secondigliano (dove può contare su tre Deputati) e gestire Alghero 112 detenuti e Tempio 172. Operatori penitenziari a tutti i livelli. Le questioni cruciali non vengono nemmeno prese in considerazione. E quest’estate accadrà, come l’anno scorso, quando, per le tanto attese ferie e/o per problemi familiari, nella sorte dei detenuti, del personale e della famiglia è rimasta una sola persona con il titolo di dirigente”. Cosenza. Il Comune è alla ricerca del Garante per i detenuti calabria.live, 6 giugno 2023 “È stato pubblicato l’avviso per la presentazione delle candidature per ricoprire la carica di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Cosenza, a cui ci auguriamo si possa registrare un’ampia partecipazione”. È quanto affermano in una nota congiunta il sindaco Franz Caruso e il presidente della commissione legalità, Chiara Penna, che nello scorso mese di febbraio hanno avviato le procedure per l’istituzione anche a Cosenza dell’importante figura volta a tutelare la funzione costituzionale della pena, condividendo le richieste provenienti in tal senso alla Camera penale “Fausto Gullo” di Cosenza. “Lo stimolo proveniente dalla Camera penale di Cosenza non poteva, per quanto ci riguarda - prosegue la nota - che essere condiviso pienamente ed immediatamente. Siamo fortemente convinti, infatti, che le istituzioni devono garantire vicinanza all’avvocatura soprattutto in questo momento storico, in cui la difesa dei diritti fondamentali spesso viene messa in secondo piano in nome della sicurezza. Ma non bisogna dimenticare mai la reale scala dei valori di un ordinamento democratico e, soprattutto, bisogna vigilare affinché gli istituti penitenziari non siano luoghi di violenza e di sofferenza, ma di rieducazione. A tal fine il Garante comunale per i diritti delle persone private della libertà personale, rappresenta uno strumento importante e fondamentale”. La nomina del Garante, le cui funzioni saranno solte a titolo gratuito, spetta al sindaco, sentita la conferenza dei presidenti dei gruppi consiliari, sulla base delle candidature presentate. Una volta nominato, rimane in carica due anni e può essere rinnovato per una sola volta. La candidatura ed il curriculum, a pena di esclusione, dovranno essere sottoscritti dai candidati e trasmessi via pec al seguente indirizzo: comunedicosenza@superperpec.eu, indicando come oggetto la dicitura: “Presentazione candidatura per Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Cosenza”. Sono ammesse solo domande provenienti da caselle di posta elettronica certificata. La candidatura dovrà pervenire, nelle modalità suindicate, entro e non oltre le ore 12:00 del 17.06.2023. Per ulteriori informazioni l’avviso pubblico è consultabile al link: https://www.albo pretorio.it/albo/archivio4_atto_0_496272_0_3.html. Rimini. Un Garante “tra le sbarre” di Filomena Armentano ilponte.com, 6 giugno 2023 Eletto Giorgio Galavotti, avvocato riccionese di formazione cattolica. “Sarò in carcere per ascoltare i detenuti. E i Casetti non siano separati dal resto della città”. “Per me è importante che capiscano che sono lì per loro, che trovino in me ascolto, una persona a cui importa quello di cui hanno bisogno, disposta ad attivarsi affinché le loro richieste, quelle personali, non legali, possano essere onorate”. Avvocato civilista, riccionese doc “da molte generazioni”, formazione cattolica, amante del teatro e della musica, incline ad attività di solidarietà e volontariato, Giorgio Galavotti è il garante delle persone private della libertà personale in seno al Comune di Rimini, un ufficio rimasto vuoto per diversi anni. Compito del garante è promuovere l’esercizio dei diritti, la partecipazione alla vita civile e l’accesso ai servizi comunali per le persone detenute o limitate nella libertà di movimento. “Il carcere è dentro la città, un pezzo di essa, magari strano, ma non un luogo staccato da essa. Su questo mi sento di dover sollevare l’attenzione dell’amministrazione. Il rispetto della dignità umana dentro il carcere, sia per i detenuti, sia per chi ci lavora, amministrativi o forze dell’ordine, è una questione che riguarda l’intera città”, sottolinea Galavotti. Primo: ascoltare - “Ho cercato subito la direttrice, Palma Mercurio. Di lei ho grande stima, mi sembra mossa dalle migliori intenzioni”. Cosa avete deciso insieme, per iniziare? “Potrò entrare senza limitazioni e a venerdì alterni sarò a disposizione dei detenuti per ascoltare dalla loro viva voce le loro richieste. È di fatto un punto di ascolto, che terrò in collaborazione con la Caritas, che ha già attivato un servizio simile”. Presi anche i primi contatti con le numerose associazioni già presenti. “Voglio conoscere quali attività si svolgono già, sia per valorizzarle sia per capire cosa di nuovo si possa sviluppare”. Ha già in mente qualcosa? “Il tema del lavoro dentro il carcere non è importante solo in un’ottica riabilitativa, educativa, nell’ottica di quando i detenuti torneranno alla vita fuori. Bisogna non trascurare infatti la questione del sopravvitto (consiste in generi alimentari e di conforto che il detenuto può acquistare in carcere, ndr). Molti hanno la famiglia lontana e quindi non hanno disponibilità economica. In alcuni casi ci si aiuta tra detenuti. In altri casi potrebbe venire in soccorso il lavoro in carcere”. Attualmente sono una trentina i detenuti addetti a mansioni lavorative ai Casetti. “Si occupano delle pulizie e della cucina”. E si potrebbero creare nuovi posti di lavoro “trasformando i terreni circostanti in orti”, pensa Galavotti, “ovviamente dopo aver risolto problematiche come la guardiania, per esempio”. Ai Casetti i numeri sono un problema, che d’estate cresce - Nella sezione 1sono 32 i detenuti presenti a oggi, ma i posti sono solo 23. Più in generale, nei Casetti ci sono circa 139 detenuti per 118 posti, con uno scarto del 15% tra i posti disponibili e i posti necessari. Rispetto all’organico, invece, dovrebbero essere 150 le persone in servizio, ma in servizio effettivo sono solo circa 90 perchéuna decina è in procinto di andare in pensione e gli altri assenti per malattia. “Non tutte le persone che si trovano in carcere dovrebbero per forza stare lì”. C’è chi, infatti, è dentro semplicemente perché non ha una casa dove scontare i domiciliari, per esempio. Attualmente a Rimini si trovano in questa situazione una decina di persone. “Mi piacerebbe capire con l’amministrazione, di cui sono emanazione, circa la possibilità di mettere a disposizione appartamenti allo scopo. La mia proposta non vuole essere quella di chi pensa di arrivare e risolvere tutti i problemi che restano lì fermi da anni, ma credo che con uno sforzo di coordinazione maggiore, qualcosa si possa migliorare”. L’emergenza della Sezione 1 - “La sezione prima è in condizioni degradate e necessiterebbe di un intervento radicale (c’è chi ne chiede la chiusura, ndr)”, non può che ammettere Galavotti. Nel corso della sua prima uscita pubblica da garante, una visita ai Casetti organizzata da radicali e Camera penale, è stata resa nota l’ordinanza firmata da un magistrato bolognese riguardante proprio la sezione 1, visitata su richiesta del legale di un detenuto. Si riportano alcuni passi del verbale di un’ispezione effettuata dalla Asl a fine 2021. Si parla di “bagni nelle celle, utilizzati unicamente come angolo cottura, direttamente comunicanti con la zona dove si trovano i letti”, di tracce di umidità sulle pareti e sul soffitto dei locali docce, di cui quattro sarebbero inutilizzabili, di sporcizia su pareti e pavimenti sia delle celle sia dei corridoi. “Sono state riscontrate condizioni igieniche molto scadenti, con rischio sanitario per i detenuti”, sostiene la Asl. Tutto confermato dal magistrato durante la sua visita, tanto da scrivere: “La presenza di criticità di tal fatta, non ancora risolte, ha senza alcun dubbio contribuito ad intensificare la sofferenza inevitabilmente legata alla condizione detentiva, rendendola tale da superare la soglia del trattamento inumano e degradante in violazione dell’articolo 3 della Cedu, la dichiarazione europea dei diritti umani”. C’è da dire che per seguire bene la vicenda della sezione 1 il Comune ha deciso pochi giorni fa di istituire un’apposita commissione, muoverà i primi passi a breve. Inoltre, l’intervento “radicale” auspicato da Galavotti, la cui competenza è ministeriale, sarebbe già in programma. Prevede il recupero del primo piano per le celle dei detenuti e del piano terra per attività lavorative in collaborazione con imprese del territorio. “La ristrutturazione completa comporterà anni”, fa notare però Galavotti. I fondi sono stati reperiti e adesso “siamo nella fase del bando per il progetto, manca l’esito e mancano sia il bando per le opere sia la loro esecuzione. Credo che, nel frattempo, ci sia qualcosa che si possa fare per migliorare le condizioni di vita dei detenuti ospitati, qualcosa, penso alle docce non funzionanti, che si possa sistemare con un piccolo investimento. Vedremo”. Genova. 18 detenuti diventano accompagnatori di persone con disabilità sulle spiagge libere comune.genova.it, 6 giugno 2023 Merito del progetto “Genoa Sea Inclusion”, promosso da Comune di Genova, Bagni Marina Genovese, Società Salvamento Nervi, Casa Circondariale di Marassi e associazioni del territorio. Si è tenuto oggi ai bagni San Nazaro di Genova il primo corso di formazione per accompagnatori di persone con disabilità sulle spiagge libere genovesi, rivolto ai primi 8 detenuti della Casa Circondariale di Marassi dei 18 complessivamente coinvolti nel progetto, denominato “Genoa Sea Inclusion”. Il corso, organizzato dal Comune di Genova tramite gli assessorati al Lavoro, al Demanio Marittimo e ai Servizi Sociali in partnership con Bagni Marina Genovese, Società Salvamento Nervi, Casa Circondariale di Marassi e le associazioni del territorio genovese, mira a reinserire socialmente e lavorativamente i detenuti, dando loro l’opportunità di imparare un mestiere e costruirsi così una nuova vita. “L’obiettivo della fruibilità e della accessibilità a tutti delle spiagge, in primis ai disabili - dichiara l’assessore comunale al Demanio Marittimo e al Lavoro Mario Mascia - viene perseguito in questo caso anche tramite percorsi di reinserimento sociale. L’inclusione sociale così diviene non solo fine ma anche mezzo in una corrispondenza biunivoca che crea circoli virtuosi sul territorio”. “La pena nel nostro ordinamento ha una funzione di riabilitazione per arrivare ad un reinserimento nella comunità - commenta l’assessore ai Servizi Sociali e Tutela dei diritti delle fasce deboli Lorenza Rosso - Con questo progetto si riempie di contenuto la funzione della pena e si formeranno dei soggetti in grado di accompagnare per tutta l’estate le persone disabili in spiaggia. Una doppia inclusione che fa bene a tutti”. “Con la nostra adesione a questo progetto di grande rilevanza sociale, abbiamo voluto offrire ai detenuti una concreta possibilità di riscatto - spiega la direttrice della Casa Circondariale di Marassi Tullia Ardito - L’obiettivo resta quello di ridurre il fenomeno della recidiva, costruendo un ponte tra il mondo di dentro e quello di fuori in maniera da ricucire, laddove possibile, la frattura tra l’individuo e la società civile”. Al termine della giornata formativa, che comprende anche un corso di primo soccorso, i 18 detenuti conseguiranno l’abilitazione all’erogazione di un servizio molto importante per le persone con disabilità, che potranno contare per tutta l’estate, da giugno a settembre, sul supporto e la collaborazione di accompagnatori qualificati per entrare in spiaggia, fare il bagno ed usufruire dei servizi su 8 spiagge libere genovesi - ancora in corso di definizione - di cui 4 a Ponente e 4 a Levante, tutte con particolari condizioni di accessibilità per persone disabili. Tra le spiagge coinvolte nel progetto spiccano la “spiaggia dei bambini” di Voltri e quella di Vernazzola. Il servizio sarà erogato tra le 8 e le 10 ore al giorno, tutti i giorni da giugno a settembre, su turni di 5 ore. Ogni spiaggia, presidiata da un bagnino con la maglia rossa, avrà un accompagnatore con la maglia bianca pronto e qualificato per aiutare le persone disabili in tutte le loro esigenze. Fondamentale, per la messa a terra del progetto, il ruolo delle associazioni del territorio che da tempo, in collaborazione con il Comune di Genova e Bagni Marina Genovese, lavorano per la realizzazione di spiagge inclusive, accessibili e solidali. Pavia. I cani entrano in carcere per aiutare i detenuti nel percorso riabilitativo primapavia.it, 6 giugno 2023 Progetto “Qua la zampa”: aiutare i detenuti nel percorso riabilitativo attraverso la costruzione di un rapporto affettivo con i cani. Attualmente sono tre i detenuti che si occupano quotidianamente dei cani, e che frequentano regolarmente il corso di educatore cinofilo, usufruendo di un percorso in borsa lavoro. Aiutare i detenuti nel loro percorso di recupero e imparare un nuovo mestiere per il futuro. Questi gli obiettivi dell’innovativo progetto “Qua la zampa”, fortemente voluto dal Direttore della Casa Circondariale di Pavia Stefania D’Agostino, dal direttore generale di ATS Pavia Mara Azzi e dall’ex garante provinciale dei detenuti Vanna Jahier, in collaborazione con la Scuola Cinofila “Il Biancospino” di Casteggio. Presentato questa mattina presso la Casa Circondariale Torre del Gallo di Pavia, il progetto ha permesso la costruzione, nell’area dell’intercinta esterna dell’Istituto, di uno spazio di accoglienza stabile di due cani provenienti dal canile di Voghera e l’attivazione di un percorso di educazione cinofila per i detenuti, finalizzata all’ottenimento di un patentino di educatore. Cura ed eduzione dei cani - Gli istruttori della scuola cinofila sono responsabili del percorso educativo che prevede un impegno quotidiano da parte dei detenuti nella cura ed educazione dei cani, mentre le cure veterinarie sono garantite dall’Area Veterinaria di ATS Pavia guidata dalla Dott.ssa Gabriella Gagnone. Attualmente sono tre i detenuti che si occupano quotidianamente dei cani, e che frequentano regolarmente il corso di educatore cinofilo, usufruendo di un percorso in borsa lavoro. Le competenze che acquisiranno durante il corso offriranno loro un’opportunità di impiego dopo la scarcerazione. Bologna. “E state alla Dozza!”, tre serate di teatro nel cortile del carcere Il Resto del Carlino, 6 giugno 2023 Il cortile del carcere diventa un teatro a cielo aperto. Lo sarà per tre sere, a partire da oggi, con la rassegna di teatro e musica “E state alla Dozza!”. Il cartellone, curato da Teatro del Pratello e Teatro dell’Argine, apre gli spettacoli a una platea “mista”, composta da detenuti da un pubblico esterno alla casa circondariale Rocco D’Amato. ‘La semplicità ingannata - Satira per attrice e pupazze sul lusso d’esser donne’ di Marta Cuscunà inaugura, questa sera alle 18,30, la ressegna. Liberamente ispirato alle opere letterarie di Arcangela Tarabotti e alla vicenda delle Clarisse di Udine, riporta alla luce la voce di un gruppo di giovani donne che, nel Cinquecento, lottarono contro le convenzioni sociali, rivendicando libertà di pensiero e di critica nei confronti della cultura maschile. Domani, sempre alle 18,30, andrà in scena ‘Vecchia sarai tu!’ di Antonella Questa. Lo spettacolo mette a confronto tre generazioni, offrendo un ritratto divertente e amaro sullo scorrere del tempo. Una pièce che con leggerezza e sensibilità porta a riflettere su quanto la vecchiaia possa anche essere un dono e regalare ancora momenti ricchi e belli. La rassegna si chiude giovedì con il concerto della cantante e musicista bolognese Eloisa Atti, insieme a Marco Bovi, Emiliano Pintori, Stefano Senni e Marco Frattini. La serata è organizzata collaborazione con l’associazione culturale Bologna in Musica, organizzatrice del Bologna Jazz Festival. È necessario fare richiesta di partecipazione compilando il modulo al link teatrodelpratello.itagenda-eventi e attendere conferma dell’autorizzazione. Ingresso del pubblico alle 18; inizio spettacoli alle 18,30; posto unico: 10 euro. La Spezia. In scena detenuti e studenti, dialoghi di libertà di Paola Pellai Confidenze, 6 giugno 2023 A La Spezia un progetto speciale ha dato vita a uno spettacolo emozionante, recitato da detenuti e studenti del liceo. L’ho visto. E ho scoperto quanto il teatro possa unire ambienti diversi e abbattere i pregiudizi. Il teatro è uno spazio di libertà. Da questa certezza, nel 2018 è partito il progetto Per Aspera ad Astra, promosso sul territorio nazionale da Acri e sostenuto da 11 fondazioni bancarie. L’obiettivo? Riconfigurare il carcere attraverso cultura e bellezza. Un impegno che, nella quinta edizione, ha coinvolto in un percorso di 330 ore di formazione professionale un migliaio di detenuti di 15 diversi istituti. Quest’anno, grazie a un lavoro finanziato da Fondazione Carispezia e rappresentato al teatro Dialma di La Spezia, per la prima volta i carcerati della casa circondariale Villa Andreino hanno interagito con i ragazzi liceali del laboratorio No recess!, sotto la direzione artistica di Scarti-Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione. Insieme hanno dato vita a Dirimpetto. Sinfonia di un tratto di strada: 11 detenuti e una quarantina di studenti si sono mescolati alla pari in uno spettacolo emozionante, per raccontare come le barriere non hanno ragione di esistere (e resistere). Due mondi a confronto - La rappresentazione parte da un fatto: Villa Andreino e l’istituto Cardarelli, a La Spezia, distano solo 490 metri. Di fatto, i due edifici si guardano da anni. Eppure, reclusi e studenti non sapevano nulla dei rispettivi dirimpettai. Da qui, l’idea di mettere in contatto i due mondi. E di farli interagire in un campo libero, quello da calcio in scena, trasformando il teatro nell’occasione di un dialogo comune. “Prima che si incontrassero” spiega il regista Enrico Casale “mi sono chiesto quale linguaggio potesse unire generazioni e percorsi di vita così differenti. Ho pensato a Maradona, conosciuto tanto dal teenager quanto dall’anziano detenuto. E poi, ho ripescato una frase di Pasolini che indica nella partita di pallone e nella messa gli ultimi riti collettivi in cui il popolo ancora si rispecchia. Il “pibe de oro” e il papa aprono lo spettacolo proprio su un campo libero come quello del calcio”. La verità è, come ha sottolineato Andrea Cerri, presidente di Scarti, che “Questo spettacolo ha cambiato un po’ tutti: artisti, operatori e pubblico”. A me sono bastati i due incitamenti iniziali: “ascoltate, respirate”. “Occorre prestare attenzione senza giudicare” sottolinea il regista. “E avvertire il respiro che il carcere toglie insieme all’aria. Me lo ha ricordato Alessandro al termine della prova generale: insieme alla polizia penitenziaria stava fumando una sigaretta alle 23 nel cortile del teatro. Erano 11 anni non provava l’emozione di essere all’aria aperta a quell’ora”. Casale mi spiega che per conquistare la fiducia dei reclusi si è affidato alla delicatezza. “In carcere non la conoscono. Ma se al termine dello spettacolo mi sono commosso, è perché questa immane fatica ha fatto centro portando felicità ed emozioni. Agli spettatori, ma anche agli interpreti”. Parlano i reclusi - Negli occhi del tunisino Rammah Heitem, 37 anni, in Italia da 18 leggo la felicità. “Nella vita ho commesso degli errori, però sono pronto a scrivere una pagina nuova. Ho sposato un’italiana e ho due bimbe che sono il mio riscatto. Il teatro mi ha insegnato tanto. E agli studenti ho ripetuto spesso che stare al mondo è bello, ma bisogna seguirne le regole e rifuggire dalla droga. L’emozione più grande me l’ha regalata mia figlia di sei anni, che dopo avermi visto mi ha detto che vuole recitare come me. Il difficile è stato quando è scoppiata a piangere perché voleva che tornassi a casa con lei”. È cresciuto tanto anche il napoletano Francesco Felici, 60 anni, di cui quasi la metà trascorsa in carcere. “Il teatro è vita e adrenalina” spiega. “Ti aiuta a dare un senso al tempo che, se speso bene, ti permette di diventare uomo con la U maiuscola. Io sono entrato in prigione con la quinta elementare e ora sono iscritto a Giurisprudenza. Il primo incontro con gli studenti è stato magico, senza preconcetti, né bisogno di raccontare le nostre storie. La storia siamo noi”. I ragazzi, entusiasti - Lo confermano gli studenti. Alessandro Prezioso, 18 anni, racconta: “Al primo incontro in carcere eravamo in ansia. Ma appena ci siamo ritrovati nella stessa stanza non c’erano distanze, eravamo solo un gruppo di attori pronti a tirare fuori il meglio di noi stessi. Ho scoperto il teatro un anno fa e mi ha aiutato a relazionarmi con chiunque, a prescindere da chi è”. Lucrezia Anastasi, 17 anni, sostiene che “Stare sul palco è una forma d’arte rivoluzionaria”. Mentre Tommaso Donato (18) è ribadisce: “Tra studenti e reclusi ci siamo riconosciuti subito come un cast di attori affiatati. Sembrava lavorassimo insieme da sempre”. Christian Alberto Rotundo, torinese, 34 anni, da quattro detenuto dice: “Ho scontato metà della pena e oggi ho trovato il bello anche in un contesto difficile come il nostro. Da uomo libero voglio guadagnare il tempo perso. Sogno di essere felice e di restituire tutto l’amore ricevuto a mia mamma Anna Maria, alla mia compagna e a mio figlio Ryan, che a 13 anni ed è già più alto di me. Stare lontano da loro è la pena più grande”. Passione, amore, rispetto - Lo spettacolo, sold out in tutte e quattro le rappresentazioni al Dialma, è intenso e coinvolgente. “Il lavoro che faccio in prigione” racconta il regista “si nutre di tutte le suggestioni possibili. Questo spettacolo nasce dagli spunti individuati da un detenuto in Insulti al pubblico di Peter Handke, un manifesto contro un teatro di convenzioni. Ci siamo impegnati attingendo a fonti diverse, dal Faust di Goethe al monologo di Al Pacino in Scarface, arrivando a Gioachino Rossini. Perché io in carcere obbligo ad ascoltare musica classica, altrimenti molti si perderebbero nella violenza e la volgarità di troppi testi trap”. Un percorso di recitazione scandito da tre parole: passione, amore e rispetto. “Non era così scontato mettendo di fronte due realtà tanto diverse” conferma Casale. “Invece, mi ha stupito il reciproco ossequio tra i gruppi: mai un gesto, una parola o uno sguardo fuori luogo. Per non parlare della collaborazione tra studenti e detenuti in scena e nelle prove. Una bella finestra aperta sul futuro”. Un libro racconta le origini dello strapotere delle toghe di Frank Cimini L’Unità, 6 giugno 2023 Molti credono che nasca col terremoto di Mani pulite, ma non è così. Leggete “La Repubblica Giudiziaria” di Ermes Antonucci. Vale davvero la pena di leggere “La Repubblica Giudiziaria. Una storia della magistratura italiana” (Marsilio) frutto del lavoro di Ermes Antonucci soprattutto per un motivo spiegato nella controcopertina: “Molti credono che la preminenza della magistratura sulla politica sia stata innescata dal terremoto provocato da Mani pulite, ma solo un ingenuo può pensare che questa rottura sia avvenuta all’improvviso”. “Lo strapotere della magistratura è il risultato del sommarsi di tensioni tra diverse faglie istituzionali” si spiega. Chi scrive queste poche righe per invogliare a leggere il libro di Antonucci aggiunge che tutto comincia con la madre di tutte le emergenze, quella rubricata con l’etichetta di terrorismo ma che fu in realtà un tentativo di rivoluzione fallito. Decine di migliaia di persone passate per le carceri rappresentarono un problema politico che la politica non volle affrontare direttamente delegando la questione della sovversione interna alla magistratura che ne approfittò per aumentare il proprio potere e per andare a riscuotere il credito acquisito nel 1992. Le leggi premiali utilizzate per risolvere il problema furono pretese e ottenute dalla magistratura sempre storicamente interessata alle scorciatoie come poi andrà in epoca successiva con l’utilizzo smodato delle intercettazioni fi no al trojan che continua a fare danni irreparabili ai diritti dei cittadini. Con le leggi premiali non vale più quello che un imputato ha fatto ma ciò che pensa delle sue azioni e soprattutto se fa l’autocritica agli altri. La catena di Sant’Antonio delle chiamate di correo finirà per fare danni agli stessi politici in occasione della falsa rivoluzione di Mani pulite. Quando la politica si suicida abolendo l’immunità parlamentare sotto la forma dell’autorizzazione a procedere. E con quella scelta la politica non ha mai voluto fare i conti fino in fondo, salvo lamentarsi che la magistratura ha un potere eccessivo che esercita tuttora. Con la differenza che in passato lo faceva soprattutto svolgendo indagini e ora, quando le conviene, lo fa evitando di compiere gli accertamenti che sarebbero doverosi secondo il codice. Basta ricordare il caso di Expo quando l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi ringraziò la procura di Milano per avere dimostrato responsabilità istituzionale. E a questo proposito basta riportare il passaggio in cui nel libro si ricorda “il lungo percorso culturale, politico e ideologico di una istituzione divisa fra la fedeltà a valori comuni e visioni della giustizia contrastanti. In una accurata ricostruzione storica che svela luci e ombre di un ‘ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere’, la parabola di un sistema controverso, tra interessi personali e rappresentanza delle istanze collettive”. L’importanza di raccontare di Dacia Maraini Corriere della Sera, 6 giugno 2023 Teniamo presente che le donne spesso sono sole, plagiate, divise fra il bisogno di mantenere unita la famiglia e la voglia di ribellarsi all’interno di una comunità che spesso le condanna a priori. Perciò insistiamo sulla necessità di fare sapere senza vergogna quello che succede in molte famiglie italiane e denunciare prima che sia troppo tardi. Ieri mattina a Radio 3, nel bel programma “Tutta la città ne parla”, si è discusso sull’orripilante femminicidio riguardante la povera Giulia Tramontano uccisa col suo bambino in grembo. Una voce femminile diceva che non bisogna parlare di mostri, perché questi uomini che uccidono sono normali, fanno parte di una cultura che non considera le donne come persone, ma come proprietà di cui si può disporre. Un cane, un gatto si possono fare fuori e senza che nessuno venga a indagare. È la mia donna, sono io a decidere, cosa pretende una legge astratta, che non mi riguarda? Più o meno è questo il ragionamento. La voce insiste che si tratta soprattutto di una cultura di base, ancora molto resistente in un Paese che si pretende democratico ma in realtà ha antiche e possenti radici da cui non vuole staccarsi. L’amore per costoro è visto come presa di possesso dell’altra. Infatti quasi sempre, l’uomo presapiens uccide quando la donna che considera sua, mostra segni di autonomia. Un’altra voce alla radio ha denunciato lo sfruttamento mediatico. Secondo lei sarebbe meglio parlare di donne che escono dal servaggio per dare esempi positivi e non sempre di donne torturate e uccise. Qui però non sono d’accordo. Perché raccontare le violenze sulle donne, naturalmente in modo non morboso, aiuta a creare coscienza, fa capire quanto sia pericoloso non denunciare, non tenere le distanze da chi si mostra possessivo in maniera maniacale e morbosa. È vero, da quanto mi dicono, che sui social molti approfittano di queste occasioni per versare valanghe di fango sulle donne. Ma non identificherei i social con l’Italia intera. Ormai tutti hanno capito che si tratta di uno sfogatoio anonimo e meschino da prendere con le molle. Una terza voce ha sostenuto che indirizzare tutte le raccomandazioni alle donne: non uscire non fidarti di chi ti schiaffeggia una volta , tieni le distanze da chi ti insulta ecc…, è un modo di condizionare il comportamento femminile, mentre da vincolare, e anche urgentemente, cominciando dalle scuole, sarebbe quello maschile. Siamo d’accordo, ma teniamo presente che le donne spesso sono sole, plagiate, divise fra il bisogno di mantenere unita la famiglia e la voglia di ribellarsi all’interno di una comunità che spesso le condanna a priori. Perciò insistiamo sulla necessità di raccontare, di fare sapere senza vergogna quello che succede in molte famiglie italiane e denunciare prima che sia troppo tardi. Quei docenti offesi e picchiati dai ragazzi che rifiutano le regole di Paola Mastrocola La Stampa, 6 giugno 2023 Non tolleriamo più nulla che restringa l’ampiezza della nostra libertà. E i luoghi d’istruzione diventano una vessazione insopportabile. Insegnanti insultati, malmenati, accoltellati, colpiti da pistole ad aria compressa. Devo dire che non mi stupisce, e vorrei spiegare perché. Giorni fa mi è capitato di avere in casa per una mezz’oretta un bambino, sui dieci anni. Mai visto prima, figlio di amici di amici. Appena entrato, il bambinetto sconosciuto si mette a correre per tutte le stanze, apre cassetti, tocca ovunque e giochicchia con ogni oggetto. Gli dico di non toccare, glielo ripeto anche imperiosamente, più volte. Niente. Quando afferra un affilato tagliacarte e lo agita per aria a mo’ di sciabola gli intimo di smettere, ma siccome non smette glielo tolgo di mano e lo poso in alto su un ripiano. Lui si arrampica, lo riprende e ricomincia a vorticarlo pericolosamente intorno agli occhi, suoi e miei. Non succede nulla di grave, per fortuna, e la mezz’oretta passa. Il padre, che finora non ha visto niente perché stava lontano - persona distinta, gentile, bene educata e, non so se sia rilevante ma lo dico: di classe alta - si riprende il pargolo, il quale prima di uscire afferra ancora al volo due o tre soprammobili. Ora il padre vede, e interviene: dice al figlio di non toccare niente senza permesso. Parole che si perdono nel nulla. Non credo che quel padre non abbia educato il figlio. Lo ha fatto di sicuro. Ma è proprio su quel nulla dove si sono perse le sue parole che dobbiamo interrogarci, su quei divieti alati che svolazzano inutili nell’aria delle attuali famiglie. I bambini si abituano subito a queste stravaganti parole che non approdano a nessun significato: non fare questo, non dire così, chiedi scusa, vieni subito qui, saluta il nonno… Manca sempre un pezzo, la capacità di far valere quel che si è appena detto. Ma sull’educazione dei figli sarebbe un discorso lungo, mi fermerei qui, alle parole al vento. Altri due racconti. Autostrada Torino-Milano. Ho fretta e vado fissa sui 130, non oltrepassando il limite ben noto a tutti. Nella corsia di sorpasso sfrecciano centinaia di auto che, visto che mi superano, immagino debbano andare tra i 140 e i 160 almeno, e che mi tallonano a un metro facendosene baffi della distanza di sicurezza prevista dalle norme di guida. Infine a Roma, ultimi fatti di cronaca. Turista fa il bagno nella fontana di Trevi e, invitata dal poliziotto di turno ad andarsene, esce e lo schiaffeggia. All’aeroporto di Fiumicino, nella fontana all’ingresso, turista in mutande si fa lo shampoo. Fine del breve repertorio. Non amiamo le leggi, le regole, i divieti, ogni forma d’imposizione e ogni sorta di limitazione. Non tolleriamo più nulla che restringa l’ampiezza smisurata della nostra libertà e dei nostri capricci, qualsiasi uzzolo frivolo e passeggero ci sfiori la mente. Lo vediamo in ogni ambito, in ogni dove. Mi sorge una domanda (automatica, visto il mestiere che ho fatto per trent’anni): come si può far scuola a ragazzini che aprono cassetti in case di sconosciuti? Come si può “tenerli”, in classe, fermi, attenti, convincendoli pure a studiare? Che scuola si può mai inventare, se noi stessi superiamo i limiti di velocità, schiaffeggiamo poliziotti, ci buttiamo in fontane cittadine e ci insultiamo normalmente con violenza sui social? La scuola è per definizione un luogo che limita, dà imposizioni e mette divieti: è un edificio chiuso, ti chiede di studiare e ti dà 4 se non studi, ti vieta di uscire, ballare in classe, farti una pastasciutta sul banco, videotelefonare nell’ora di lezione. Se siamo una società abituata a non soffrire più nessuna forma di autorità limitante, ovvio che non possiamo sopportare che qualcuno, un insegnante nella fattispecie, ci interroghi, ci dia voti, ci imponga lezioni, che ci insegni quel rispetto delle regole e degli altri che non vediamo più da nessuna parte. La scuola diventa una vessazione insopportabile, un ostacolo da rimuovere, una persona da accoltellare. Agiamo d’istinto, nell’unica forma possibile in un mondo dove abbiamo azzerato la cultura e che, di conseguenza, torna a essere il mondo dei primordi: la violenza. Se la scuola resta l’ultimo luogo dove si esercita una forma, anche se pallida, di autorità, ecco che diventa inaccettabile. E la vita quotidiana dei ragazzi si presenta insopportabilmente spezzata in due: al mattino nel luogo di tortura della scuola, e il resto del tempo nell’olimpo dei bagordi dove tutto è lecito, famiglia compresa. Non è disagio giovanile. È cultura dell’illimite. Insopportazione continua di ogni cosa che limiti o dispiaccia, restringendo il campo dell’azione e del piacere. E come stiamo rispondendo a questo? Col motto: cambiamo la scuola! Siccome i giovani non la reggono più, siccome non rispecchia più quel che siamo diventati tutti, invece di proteggerla e potenziarla come unico e ultimo baluardo contro la barbarie, ecco che la smantelliamo definitivamente, eliminando ogni cosa che disturbi, vieti, imponga, infastidisca, turbi, demoralizzi, intristisca o frustri: via le lezioni, via i libri, via i voti, e a breve via gli insegnanti. Temo che facciamo bene, visto che siamo incapaci di prendere altre vie. Non si può che seguire il percorso intrapreso, in quella logica dell’ineluttabile che intristisce quanti di noi non credono ciecamente nel progresso e vorrebbero che qualcosa si salvasse, che qualcosa rimanesse fermo e incrollabile a fare da scoglio e arginare i flutti tempestosi. Continuiamo pure, dunque, a smantellare la scuola in modo che sia più conforme all’attuale società, a dispetto degli orrori che vediamo e vogliamo continuare a denunciare. Chiederei solo un favore: non chiamiamola più scuola: per rispetto verso quel che la scuola è stata finora. Troviamo un altro nome, a questa “cosa” nuova, informe e deforme. Abbiamo dimostrato ultimamente una fantasia neo-nominalistica eccezionale, non ci sarà difficile. Le parole sono importanti, come diciamo sempre: chiamare una cosa nuova con un nome vecchio mi sembra induca solo confusione e smarrimento. Molto smarrimento. Migranti. Meloni a Tunisi inseguita dall’incubo sbarchi di Simone Canettieri Il Foglio, 6 giugno 2023 La premier da Saied come garante del prestito del Fmi da 1,9 miliardi al motto “sono Giorgia mi manda Georgieva”. Doveva andare a Tunisi con l’olandese Marke Rutte per una missione europea. Invece alla fine la premier questa mattina incontrerà da sola il presidente Kais Saied. Nella speranza che la prossima volta sia in compagnia magari di Ursula von der Leyen. Nel frattempo Meloni gioca d’anticipo. Vuole evitare di passare l’estate a contrastare il boom di sbarchi dall’Africa. Altro che blocco navale. A Saied dirà: sono Giorgia, mi manda Georgieva. Nel senso di Kristalina, direttrice del Fmi che dovrebbe sganciare un prestito da 1,9 miliardi di dollari. Finora i principali ostacoli a questa operazione sono arrivati dagli Usa, dunque dall’alleato principe dell’Italia che chiede alla Tunisia riforme pesanti. Ecco perché Meloni si trova in una posizione non facilissima: da una parte il rischio default del paese con sbarchi incontrollati nelle nostre coste, dall’altra la contrarietà dell’amministrazione Biden. Secondo l’agenzia Reuters, Saied non ha mai sostenuto pubblicamente un accordo con il Fondo monetario internazionale. L’organizzazione teme perciò che il presidente possa annullare le riforme una volta ottenuto il prestito, oppure addossarle la colpa per la difficile situazione economica. Da Palazzo Chigi sono convinti che ci siano degli spiragli, che siano possibili dei negoziati: “Altrimenti il presidente non sarebbe partito”. Non è chiaro però se quello di Meloni sia un tentativo disperato o una strategia ben collaudata per arrivare al risultato. Si è parlato anche di uno schema Pnrr: un prestito a tranche. Come spiegato a Nicola Porro a “Quarta Repubblica” su Rete4, per la premier “la Tunisia è in una situazione delicata: se salta rischiamo l’arrivo di 900 mila persone”. La faccenda dura da mesi: Meloni l’ha tirata fuori la prima volta al termine del Consiglio europeo lo scorso 23 marzo. Poi se l’è portata dietro in Italia durante il bilaterale con Rutte e di nuovo in Giappone al G7 quando ha parlato con Georgieva, cercando anche di ammorbidire, in un gioco di sponde, la posizione di Joe Biden sul prestito. In questa partita manca anche la Francia. Ma non ci sono casi diplomatici particolari, se non il perenne gioco di specchi tra la politica interna di due paesi e le relazioni diplomatiche. Comunque sta di fatto che giovedì scorso dal vertice europeo in Moldavia è scattata la telefonata fra Meloni e il presidente tunisino Saied. Da qui la visita di oggi. L’Italia prova a farsi da garante per facilitare il prestito ed evitare che la situazione imploda. “Ma serve un chiaro impegno del vostro governo, nel pieno rispetto della vostra sovranità e calibrando le riforme strutturali alle esigenze sociali della popolazione”, ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani all’omologo Nabil Ammar nell’incontro preparatorio in vista della missione lampo della presidente del Consiglio: alle 10 è attesa a Tunisia, alle 16 l’agenda la dà già di ritorno a Roma per partecipare alla presentazione della candidatura italiana per Einstein Telescope. Inizia così una settimana internazionale in vista dell’arrivo del cancelliere tedesco Olaf Scholz, previsto per giovedì nella capitale. Intanto, ci sono le grane interne ad agitare il governo a partire dalla vertenza aperta con la Corte dei conti sul Pnrr. Su questo punto, Meloni si rifà a Mario Draghi, il suo ingombrante predecessore. “Sommessamente osservo che facciamo quello che ha fatto il precedente governo”. E qui bisogna osservare che no, non è proprio così. Perché se è vero che la proroga dello scudo erariale si pone in scia con una scelta di Conte prima e di Draghi poi, la revoca del controllo concomitante da parte della Corte dei conti sul Pnrr è invece una scelta con cui Meloni sconcia quello che il suo predecessore a Palazzo Chigi aveva fatto, d’intesa con Bruxelles. Da qui parte però, anche a dispetto delle evidenze, un ragionamento un po’ vittimista, già sentito in questi mesi. “Il problema - dice la premier - è che c’è una deriva autoritaria se qualcuno che viene da destra e non da sinistra non avesse gli stessi diritti che hanno loro. Questo è un problema. Loro dicono che c’è una deriva autoritaria sulla Corte dei Conti che continua a fare i controlli, fa la relazione semestrale e nessuno le ha messo un bavaglio”. Oggi la fiducia al decreto Pubblica amministrazione dove sono inserite le nome sulla Corte dei conti: il Terzo polo balla tra l’astensione e il voto contrario. Dettaglio di cronaca nell’intervista a Porro di ieri, la seconda da quando è premier, Meloni attacca per la prima volta Elly Schlein, segretaria del Pd. Casus belli: la contestazione alla ministra Eugenia Roccella durante il Salone del Libro. “Se non distingue il dissenso dalla censura, in Italia sì che abbiamo un problema”. Niente a che vedere con l’ombra di sbarchi incontrollati nelle coste italiane, il vero assillo di Meloni in queste ore. Il risiko Tunisia e il prezzo da pagare per fermare gli sbarchi di Francesca Mannocchi La Stampa, 6 giugno 2023 La premier Giorgia Meloni oggi incontrerà il presidente tunisino Kais Saied e la premier Najla Bouden. Visita ambiziosa e difficile insieme. Meloni ha bisogno di un interlocutore che gestisca sull’altra sponda del Mediterraneo centrale il sempre più pericoloso flusso migratorio e porta in cambio la promessa del sostegno italiano con il Fondo Monetario Internazionale che ha sospeso un prestito di quasi due miliardi necessario all’economia tunisina affogata nell’inflazione, garantirà aiuti economici e quote di ingressi legali. Il nodo principale è quello del prestito del FMI, bloccato da mesi dopo che Saied, a fine febbraio, aveva pronunciato un discorso violentissimo contro le persone migranti di origine subsahariana presenti nel paese, provocando un’ondata di assalti e violenze. Saied aveva ordinato alle sue forze di sicurezza di espellere tutte le persone considerate irregolari denunciando quella che ha definito “una cospirazione per cambiare la demografia della Tunisia rendendola più africana e meno araba”. Dopo il discorso di Saied le partenze verso l’Europa sono aumentate vertiginosamente e in reazione alla grave crisi sociale, al mancato rispetto dei diritti umani, alla deriva sempre più autoritaria del Presidente Saied, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno sospeso i prestiti, congelando i finanziamenti col rischio di impantanare ancora di più un paese allo stremo, indebitato per l’80% del suo PIL, con un tasso di disoccupazione giovanile che nelle aree più remote sfiora il 40%. L’Italia sa che senza i fondi la Tunisia potrebbe non riprendersi dalla crisi economica col rischio di una nuova ondata di partenze soprattutto dalle coste meridionali del paese, per questo corre ai ripari. Prima le visite di Piantedosi, le chiamate della Premier Meloni a Saied e oggi una nuova visita lampo nella capitale. L’Italia vuole sbloccare i fondi ma sa che gli aiuti non si ottengono senza riforme, e questo è il nodo più complesso. L’idea è quella di proporre due finanziamenti internazionali, con l’appoggio dell’Unione europea, uno subito per tamponare l’emergenza e un altro finanziamento quando le riforme siano state messe in campo. Romdhane Ben Amor, responsabile del dossier migratorio del Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes), da anni monitora il flusso migratorio dalle coste tunisine e analizza l’inefficacia e le conseguenze delle politiche europee. Ben Amor definisce il 2023 l’anno ‘tragico’ delle rotte tunisine. E i numeri gli danno ragione. Dei circa 51 mila sbarchi alla prima settimana di giugno circa 26.555 erano salpati dalla Tunisia, secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite, contro i 3.658 dello stesso periodo del 2022. I numeri dell’anno precedente erano già allarmanti. Nel 2022 quasi 500 persone sono state dichiarate disperse sulle coste tunisine “è sempre più frequente - dice Ben Amor - che di fronte alla scomparsa di barchini partiti dalle coste di Zarzis i funzionari tunisini non rispondano. C’è sempre meno trasparenza sui numeri dei naufragi delle vittime e dei dispersi, continuiamo a chiedere giustizia, a chiedere spiegazioni ma le autorità tunisine sono sempre più opache persino rispetto a barchini carichi di minori e famiglie. Tutto questo è legato alla situazione politica, economica e sociale ma anche alla forte pressione esercitata sul tema dell’immigrazione irregolare. Parla un solo partito: l’Unione Europea e i suoi Paesi membri. La Tunisia rimane in silenzio”. Come a dire che il silenzio sulle morti in mare, l’opacità sui dati, le mancate sanzioni e il mancato controllo sull’operato della Guardia Costiera tunisina siano il prezzo da pagare per gli accordi (leggasi fondi) dell’Unione Europea. “L’Unione europea - continua Ben Amor - non è interessata alla democrazia e al rispetto dei diritti umani, ma alla stabilità all’interno dei paesi situati ai suoi confini meridionali, una stabilità che ha più le fattezze di Ben Ali e Gheddafi che non di un processo democratico”. Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani ritengono che la pressione a cui è sottoposta la Tunisia da parte dei paesi europei abbiano il solo scopo di trasformare il paese in una zona cuscinetto che garantisca la sicurezza e il blocco delle partenze e dunque degli sbarchi, inasprendo un approccio repressivo che probabilmente riduce il fenomeno nel breve periodo, e andiamo incontro all’estate dunque il periodo di maggiori sbarchi, ma continua a non risolvere il fenomeno che ha bisogno di un approccio più largo che coinvolga non gli apparati di sicurezza ma un piano di lungo termine di sviluppo dei paesi coinvolti e soprattutto una strategia di tutela e rispetto dei diritti umani, che dovrebbe essere la precondizione degli accordi, non un tema laterale degli incontri bilaterali. “La Tunisia è la guardia costiera d’Europa ma l’UE continua a non avere una vera strategia per gestire il flusso migratorio internazionale” continua Ben Amor. Kais Saied ora è di fronte a un dilemma: gestire le aspettative accettando riforme dolorose o rischiare un ulteriore declino economico e ulteriore instabilità. Perché non sono solo i migranti subsahariani vittime di razzismo a scegliere di imbarcarsi e attraversare il Mediterraneo, sono sempre più i tunisini che decidono di lasciare il paese. “Sono oltre tre milioni i tunisini che si trovano ad affrontare la minaccia di insicurezza alimentare”, queste le parole pronunciate il 27 maggio dal presidente del Centro tunisino per gli studi sulla sicurezza globale Ezzedine Zayani che ha parlato di notevole rischio di emergenza alimentare per la Tunisia. Cifre allarmanti in un paese di poco più di 11 milioni di abitanti e che fotografano una crisi economica in costante peggioramento che secondo gli analisti rischia di portare la Tunisia sull’orlo del default, come il Libano che vive analoghe emergenze. Anche di fronte a questi dati e a questi allarmi, Kais Saied ha risposto inasprendo i toni e additando colpevoli nella platea dei suoi oppositori politici. La settimana scorsa in visita al Ministero dell’Agricoltura, il presidente ha attaccato alcuni “noti partiti” accusandoli di aver provocato la mancanza di pane nel paese. La situazione in alcune aree della Tunisia è particolarmente tesa, gli scaffali dei supermercati si stanno svuotando perché l’aumento dei prezzi e l’inflazione hanno ridotto la quantità di cibo sovvenzionato dallo Stato. Cresce il numero di chi non può permettersi alimenti di base, sempre più costosi perché è precipitato il potere d’acquisto soprattutto delle fasce più vulnerabili della popolazione. Saied lo sa e come nei mesi e negli anni appena passati cerca il capro espiatorio non avendo soluzioni rapide ed efficaci. Rivolgendosi ai funzionari del ministero, perciò, non ha portato un piano ma colpevoli. Ha accusato “circoli e lobby di alimentare la crisi” e gli stessi funzionari di servire i loro interessi di parte per causare crisi e ottenere un tornaconto politico. “Vogliono infiammare la situazione ma noi porremo finire a tutto questo”, frasi che evocano una nuova ondata di arresti e repressione. Indagati sbattuti in cella, confessioni coatte, torture: l’inchiesta del Qatargate non è soltanto un flop ma un insulto al diritto di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 6 giugno 2023 Chissà se il giudice istruttore Michel Claise è ancora convinto, come disse una volta in tv, che la sua missione sia estirpare la corruzione nel mondo. Probabilmente sì, anche se in fondo basterebbe che si limitasse a rispettare lo Stato di diritto come non è invece accaduto nell’inchiesta del cosiddetto Qatargate (o Qatar- Maroccogate). Che oltre ad assumere i contorni del fiasco giudiziario è stata un insulto alla dignità delle persone indagate, alla presunzione di innocenza, alla separazione dei poteri. Le parole rilasciate al Corriere dall’eurodeputata Eva Kaili, tornata in libertà dopo quattro mesi di reclusione e due di braccialetto elettronico sembrano uscite dalle cupe cronache della repressione iraniana: “Mi hanno messa in isolamento in una cella con luci e telecamera di sorveglianza sempre accese, senza acqua corrente. Ho sofferto il freddo gelido perché mi è stato tolto il cappotto. Ero preoccupata per la mia bambina, perché i primi giorni non mi è stato permesso di chiamare un avvocato, né la mia famiglia”. Lo scorso dicembre il difensore di Kaili Michalis Dimitrakopoulos aveva denunciato il trattamento degradante subito dalla sua assistita, alla quale furono negate le coperte per ripararsi dal freddo, e l’uso della doccia nonostante avesse il ciclo mestruale, accusando Claise di “tortura”. Senza che ci fosse alcun pericolo di fuga o di inquinamento delle prove Kaili è stata inoltre separata dalla figlia di appena due anni in aperta violazione della Convenzione sui diritti dei minori. Se voleva rivederla, doveva soltanto confessare. Il metodo di Claise è semplice e collaudato: ti tengo in prigione finché non parli e se denunci gli altri indagati avrai uno sconto di pena. Con il lobbista Antonio Panzeri (il proprietario del sacco con 700mila euro in contanti da cui è partita l’inchiesta e per il momento unico elemento materiale in mano agli inquirenti) l’uso spregiudicato e vessatorio della custodia cautelare ha funzionato a meraviglia; trattato come un pentito di Mafia o di terrorismo l’ex eurodeputato e sindacalista ha ottenuto i suoi benefici e la sua riduzione di pena. Con Eva Kaili, che si è sempre dichiarata innocente, no. Al contrario, la persecuzione che ha subito sembra averla resa più forte e consapevole: “Se avessi fatto nomi importanti sarei uscita ma avrei dovuto mentire non ho mai nemmeno pensato che potesse essere un’opzione. Sono convinta che Panzeri sia stato minacciato”. L’ex vicepresidente del parlamento europeo ha denunciato poi uno degli aspetti più allarmanti dell’intera vicenda ovvero il ruolo svolto dai servizi segreti belgi: dal fascicolo giudiziario emerge infatti che gli 007 di Bruxelles avrebbero spiato le attività dei membri della commissione speciale Pegasus (che indaga sull’uso dello spyware Pegasus usato dalle autorità del Marocco contro oppositori e attivisti), tutti eurodeputati. Che le spie del Belgio sorveglino degli eletti dal popolo su mandato di una procura è un fatto inquietante o, per usare le stesse parole di Kaili “il vero scandalo” dell’intera vicenda. Ma l’inchiesta giudiziaria a che punto è? Si è allargata “a macchia d’olio” come profetizzavano i giornali gli scorsi mesi in un crescendo ansiogeno e giustizialista? Doveva essere il caso che avrebbe sconquassato l’Unione europea, il più grande scandalo di sempre, pompato a e sospinto dai grandi media e dallo zelo di un magistrato- sceriffo che non si è fermato davanti a nulla pur di inverare il suo teorema giudiziario, Prime pagine dei giornali, aperture dei Tg, accigliati dibattiti sulla trasparenza dell’Unione e ridicole agiografie dello stesso Claise dipinto come una specie di eroe moralizzatore dell’ Europa hanno distorto la realtà sovrapponendo il consueto processo mediatico all’inchiesta vera e propria. Ma dalle settimane successive a 9 dicembre, data dell’arresto di Kaili, non c’è stato nessun altronuovo indagato a parte i soliti noti (Kaili e il compagno Francesco Giorgi, Panzeri con moglie e figlia, il deputato belga Marc Tarabella, quello italiano Andrea Cozzolino) e soprattutto i collaboratori di Claise non sono stati in grado di individuare nessuna circostanza in cui il Qatar e il Marocco avessero ottenuto privilegi materiali in qualche decisione o votazione ufficiale dell’Ue. Allo stesso tempo il caso non ha mai varcato i confini dell’europarlamento contagiando altre istituzioni comunitarie come invece pronosticavano gli organi di informazione. Tutto è rimasto nel fumoso campo degli indizi e delle supposizioni, purtroppo a mancare sono le prove della presunta corruzione. Le stesse “confessioni” di Panzeri, che ha patteggiato la sua pena a fine gennaio. non sembrano aver dato grandi slanci alle indagini. Non si sa nemmeno quando inizierà il processo. È probabile che le udienze saranno concomitanti alla campagna elettorale per le elezioni europee che si terranno nel giugno del 2024. Intanto Kaili (come del resto Cozzolino) è stata espulsa dal suo partito come se fosse già stata condannata in via definitiva. Nessuno tra i suoi compagni ha alzato un dito per difenderla dai metodi brutali della procura al contrario l’hanno scaricata. Per paura e per vigliaccheria. “Così nei Paesi Bassi si criminalizza il diritto di manifestare” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 giugno 2023 Nei Paesi Bassi, la sorveglianza illegale nei confronti dei manifestanti pacifici sta minacciando il diritto alla riservatezza e sta avendo un effetto raggelante sul diritto di protesta. Amnesty International ha recentemente pubblicato il rapporto intitolato “Poteri incontrollati: i controlli d’identità e la raccolta dei dati nei confronti dei manifestanti pacifici”, in cui denuncia che i metodi di sorveglianza delle forze di polizia nel paese non rispettano le leggi nazionali né gli standard internazionali sui diritti umani. Secondo la direttrice di Amnesty International Paesi Bassi, Dagmar Oudshoorn, chiedere regolarmente ai manifestanti pacifici di esibire le loro carte d’identità non solo viola il diritto alla riservatezza, ma ha anche un effetto deleterio sulla libertà di protesta pacifica. Oudshoorn ha affermato che l’ampia discrezionalità con cui le forze di polizia decidono chi fermare e controllare durante le proteste crea il rischio che tale potere venga utilizzato in modo arbitrario e discriminatorio, scoraggiando così le persone dal partecipare alle manifestazioni. La ricerca condotta da Amnesty International ha coinvolto 50 manifestanti nel periodo compreso tra settembre 2020 e novembre 2022, giungendo alla conclusione che esiste un diffuso modello di azioni intimidatorie da parte delle forze di polizia. Gli agenti hanno un’enorme discrezionalità nel decidere chi fermare e sottoporre a controlli durante le proteste, utilizzando regolarmente le carte d’identità per raccogliere dati sui manifestanti pacifici. Il rapporto individua una serie di metodi utilizzati dalle forze di polizia per identificare e controllare i manifestanti, tra cui accertamenti illegali d’identità, monitoraggio delle attività sui social media, utilizzo di droni durante le proteste, infiltrazione nelle app dei gruppi e ispezioni domiciliari senza preavviso. Inoltre, ogni carta d’identità controllata viene conservata nel database della polizia per almeno cinque anni, violando così il diritto alla riservatezza. Il rapporto rileva anche che queste pratiche portano a un maggiore controllo su determinati gruppi, in particolare quelli che temono discriminazione e interventi illegali da parte delle forze di polizia. Le forze di polizia nei Paesi Bassi non rispettano la Legge sull’obbligo di identificazione del 2003, che stabilisce chiaramente che i controlli d’identità sono consentiti solo quando ragionevolmente necessari per lo svolgimento del loro lavoro. Le attuali pratiche di sorveglianza vanno chiaramente contro quanto consentito da tale normativa. Amnesty International sottolinea che il diritto di protesta è un diritto fondamentale, non un privilegio, e che è sempre più criminalizzato nei Paesi Bassi. Questa criminalizzazione delle proteste scoraggia le persone dal fare sentire la propria voce e ostacola la partecipazione democratica. Invece di sorvegliare segretamente i manifestanti pacifici, le forze di polizia dovrebbero facilitare lo svolgimento delle proteste, garantendo la sicurezza e il rispetto dei diritti umani dei partecipanti. Amnesty International chiede alle autorità olandesi di adottare misure immediate per porre fine al monitoraggio illegale dei manifestanti pacifici e per garantire che i controlli d’identità siano eseguiti solo in caso di ragionevole sospetto di gravi reati. Il rapporto di Amnesty International è stato pubblicato nell’ambito della campagna ‘ Proteggo la protesta’ dell’organizzazione, che si impegna a documentare gli attacchi alle proteste pacifiche in tutto il mondo, mostrando solidarietà verso coloro che sono presi di mira e sostenendo i movimenti sociali che lottano per i diritti umani e il cambiamento. È importante che le autorità olandesi prendano sul serio le conclusioni e le raccomandazioni di Amnesty International. Devono garantire che le forze di polizia agiscano nel rispetto della legge e dei diritti umani, limitando l’uso della sorveglianza e dei controlli d’identità ai casi in cui vi sia una reale necessità, evitando qualsiasi forma di discriminazione o profilazione. La libertà di protesta è uno dei pilastri delle società democratiche e deve essere tutelata. Le restrizioni e l’abuso di potere da parte delle forze di polizia non solo minacciano la partecipazione civica, ma anche l’integrità delle istituzioni democratiche nel loro insieme. È cruciale che i Paesi Bassi adottino le misure necessarie per garantire che la sorveglianza illegale e i controlli d’identità arbitrari diventino una pratica del passato. Solo attraverso il rispetto dei diritti umani fondamentali e la protezione della libertà di protesta si può riaffermare lo Stato di Diritto. La Corte di giustizia Ue boccia la riforma della giustizia polacca: minaccia l’indipendenza dei giudici di Carmine Di Niro L’Unità, 6 giugno 2023 Il governo di Varsavia viene nuovamente bocciato dall’Unione europea. La Corte di giustizia dell’Ue ha cassato la riforma della giustizia polacca del 2019, accogliendo il ricorso della Commissione europea contro il Paese per la mancata tutela dell’indipendenza dei giudici. “Il valore dello Stato di diritto fa parte dell’identità stessa dell’Unione quale ordinamento giuridico comune e si concretizza in principi che comportano obblighi giuridicamente vincolanti per gli Stati membri”, afferma la Corte la Cgue in una nota con cui ha comunicato la decisione. Il 14 luglio 2021 il giudice europeo aveva ordinato la sospensione dell’applicazione delle norme relative in particolare alle competenze della camera disciplinare della Corte suprema, mentre nell’ottobre dello stesso anno la Corte aveva comminato una multa da un milione di euro al giorno per non aver sospeso la camera disciplinare, multa dimezzata ad aprile scorso dopo il parziale adempimento da parte dell’esecutivo di estrema destra di Varsavia guidato da Mateusz Morawiecki. Nella sentenza, riferisce l’Agi, la Corte del Lussemburgo conferma che “il controllo del rispetto, da parte di uno Stato membro, di valori e principi come lo Stato di diritto, la tutela giurisdizionale effettiva e l’indipendenza della giustizia rientra appieno nella sua competenza”. I giudici rilevano che “nell’esercitare la loro competenza in materia di organizzazione della giustizia, gli Stati membri devono conformarsi agli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione. Essi sono altresì tenuti a provvedere affinché sia evitata qualsiasi regressione, sotto il profilo del valore dello Stato di diritto, della loro legislazione in materia di organizzazione della giustizia, astenendosi dall’adottare norme che possano pregiudicare l’indipendenza dei giudici. Tale valore fondamentale, relativo all’identità stessa dell’Unione, si concretizza in obblighi giuridicamente vincolanti a cui gli Stati membri non possono sottrarsi basandosi su disposizioni o una giurisprudenza interne, anche di rango costituzionale”. In secondo luogo, la Corte, fondandosi sulla sua precedente giurisprudenza, ribadisce la sua valutazione secondo la quale la Sezione disciplinare della Corte suprema polacca “non soddisfa il necessario requisito di indipendenza e di imparzialità”. “Essa ne deduce che la semplice prospettiva, per i giudici chiamati ad applicare il diritto dell’Unione, di correre il rischio che un siffatto organo possa decidere in merito a questioni relative al loro status e all’esercizio delle loro funzioni, in particolare autorizzando l’avvio di procedimenti penali nei loro confronti o il loro arresto oppure adottando decisioni riguardanti aspetti fondamentali dei regimi di diritto del lavoro, di previdenza sociale o di pensionamento ad essi applicabili, e idonea a pregiudicare la loro indipendenza”. In terzo luogo, la Corte ritiene che, “in considerazione del carattere relativamente ampio e impreciso delle disposizioni della legge di modifica denunciate dalla Commissione e del contesto particolare in cui tali disposizioni sono state adottate, esse si prestano a un’interpretazione che consente che il regime disciplinare applicabile ai giudici, nonché le sanzioni previste da tale regime, siano utilizzati per impedire agli organi giurisdizionali nazionali di valutare se un organo giurisdizionale o un giudice soddisfino i requisiti riguardanti la tutela giurisdizionale effettiva derivanti dal diritto dell’Unione, se del caso interrogando la Corte in via pregiudiziale”. Per i giudici di Lussemburgo “le misure in tal modo adottate dal legislatore polacco sono incompatibili con le garanzie di accesso a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge. Infatti, tali garanzie implicano che, in talune circostanze, gli organi giurisdizionali nazionali sono tenuti a verificare se essi stessi o i giudici che li compongono oppure altri giudici o organi giurisdizionali soddisfino i requisiti previsti dal diritto dell’Unione”.