L’insofferenza a rilievi e controlli di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 5 giugno 2023 Dal Pnrr, a fisco, all’abuso d’ufficio, in nome della “missione” di liberare l’azione degli amministratori pubblici dalle pastoie burocratiche e dalle vessazioni togate che la paralizzerebbe. “Allo stesso modo in cui un cannibale in un certo senso può includere un missionario”: a riassumere così negli anni 30 le idee di Benedetto Croce sul male necessario all’affermarsi del bene sino a diventarne parte essenziale, era il Benedetto Croce apocrifo di Paolo Vita-Finzi: cioè del raffinato diplomatico e letterato talmente padrone dello stile (e persino delle manie espressive) dei vari autori da coglierne il senso più vero proprio nell’”Antologia Apocrifa” con la quale li falsificava, al punto da far infuriare Moravia o indurre un invece ammirato Trilussa a intestarsi appunto uno dei “suoi” sonetti. Attitudine che sarebbe preziosa anche oggi per decifrare l’immagine risultante, come nel giochino della Settimana Enigmistica, dall’unione dei singoli puntini rivendicati dalla maggioranza di governo in nome della “missione” di liberare l’azione degli amministratori pubblici dalle pastoie burocratiche e dalle vessazioni togate che la paralizzerebbe: insofferenza ai controlli, certo, ma - più e prima ancora - insofferenza a qualunque rilievo anche solo dissonante. Se il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione mette in guardia dai contraccolpi del nuovo Codice degli appalti in materia di affidamenti diretti sotto soglia e subappalti, subito viene zittito dalla maggioranza come uno che “non può più stare in quel ruolo” perché “prevenuto, non neutrale e quindi non credibile”. Se alla Camera l’Ufficio parlamentare di Bilancio segnala nella riforma fiscale le distorsioni di equità e le insostenibilità di gettito, o se il Servizio Bilancio del Senato stronca la progettata autonomia regionale differenziata, in automatico i tecnici vengono tacciati di essere “reliquie del passato” che reggono il moccolo alle opposizioni “per difendere lo status quo”. Se la Banca d’Italia esprime perplessità sull’innalzamento del tetto all’uso dei contanti, dal governo la si rampogna “istituzione partecipata da banche private” micragnose nel voler lucrare commissioni sulla moneta elettronica. Se l’ex Ilva resta un problema, ecco un nuovo decreto allargare ad altre potenziali “industrie di interesse strategico nazionale” la franchigia da sequestri giudiziari e da inquinamenti o malattie causati nel rispetto di prescrizioni governative. Se l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza fanno il loro lavoro, e quindi chiedono di pagare le tasse anche a quei lavoratori autonomi tra i quali lo stesso Ministero dell’Economia individua il 69,7% di propensione all’evasione fiscale, la presidente del Consiglio (che pure ha confermato il direttore dell’Agenzia e appena assiso in Eni il comandante GdF uscente) dice che dovrebbero finirla di praticare “il pizzo di Stato a caccia di gettito”. Dall’immigrazione alla siccità, da una acciaieria a una autostrada, se c’è una complessitá il regime ordinario viene derogato dalla nomina di commissari straordinari, già almeno dieci. Se un parlamentare della maggioranza maneggia maldestramente un atto riservato passatogli da un componente del governo, e una Procura valuta eventuali reati in questo disvelato segreto, il governo pretende di autocertificare in Parlamento che segreto possa essere considerato dai pm soltanto ciò che l’autorità politica dichiara segreto. E se da ultimo la Corte dei Conti addita gli obiettivi Pnrr giá falliti o in palese ritardo, e indica il rischio di responsabilità erariali dei dirigenti pubblici, il governo le toglie il “controllo concomitante” sul Pnrr, proroga sino a giugno 2024 la deroga che limita la responsabilità contabile ai soli casi di dolo o inerzia, e nel contempo contraddice il rassicurante “tanto restano i controlli ex post”, annunciando ad esempio di voler addomesticare l’abuso d’ufficio, restringere l’ambito del traffico di influenze illecite, sterilizzare la conoscibilità di notizie giudiziarie. Unendo tutti i puntini, un complesso di scelte destinate a includere nei processi decisionali delle pubbliche amministrazioni efficienza e trasparenza “allo stesso modo in cui un cannibale in un certo senso può includere un missionario”. Le toghe ai vertici del ministero e i sospetti di una fronda per boicottare Nordio di Domenico Ferrara Il Giornale, 5 giugno 2023 I rumors in via Arenula: i magistrati negli uffici tecnici ostacolano le riforme. Se fosse un romanzo si intitolerebbe: “Quer pasticciaccio brutto de via Arenula”. E gli elementi del giallo ci sono tutti. C’è qualcuno che trama contro il ministro della giustizia? La domanda sorge spontanea, soprattutto dopo un paio di articoli giornalistici degli ultimi giorni che narrano di una fronda composta da toghe che lavorano all’interno del dicastero. Toghe pronte a boicottare le riforme - improntate al garantismo - di Nordio, ma anche quelle già entrate in vigore con la riforma Cartabia. Difesa dei privilegi, insomma. Il Dubbio ha scritto che gli attori sarebbero i magistrati degli uffici tecnici di via Arenula, soprattutto dell’ufficio legislativo, rei di mettere in pratica una sorta di strategia ostruzionistica nei confronti dei dettami del ministro. Ci riferiamo a quelle norme - che dovrebbero giungere sul tavolo del Cdm a metà giugno - e che riguardano l’abuso d’ufficio, le misure cautelari, il traffico di influenze, l’informazione di garanzia e i limiti all’appello del pm. Il condizionale a questo punto però è d’obbligo. Ad aggiungere nubi negli uffici ministeriali ci ha pensato poi il Foglio, che ha puntato il dito contro Giusi Bartolozzi, vice capo di Gabinetto di Nordio, magistrata fuori ruolo ed ex deputata di Forza Italia, considerata l’artefice dell’emendamento che ha rinviato a fine dicembre il termine per emanare i decreti attuativi della riforma Cartabia. Il fine ultimo, come paventato dal Foglio, sarebbe quello di far decadere molte norme invise ai magistrati. Qualche esempio? La valutazione delle toghe, la riduzione di quelle fuori ruolo e i limiti alle porte girevoli tra politica e magistratura. Secondo una fonte interna al ministero citata dal Foglio, la Bartolozzi avrebbe “accentrato tutto nelle sue mani”. Interpellata dal Giornale, la diretta interessata ha però preferito non rilasciare alcuna dichiarazione. Tra i magistrati che lavorano a stretto contatto con Nordio c’è anche Alberto Rizzo, capo di gabinetto del ministro, ex presidente del tribunale di Vicenza che nel 2016 ha decretato la chiusura del tribunale di Bassano del Grappa, decisione opposta rispetto alle intenzioni dichiarate da Nordio, disponibile a riaprire le sedi minori. C’è poi Gaetano Campo, capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi, appartenente alla corrente di Magistratura democratica, corrente che ha più volte stigmatizzato l’operato del ministro. Alla fine, seppur nominate da Nordio, restano sempre toghe iscritte all’Anm. Ci si può davvero fidare? Per Ciro Maschio, presidente della Commissione Giustizia in quota FdI, “le toghe di via Arenula hanno un ruolo tecnico. Il governo con il Parlamento e la maggioranza è pronto ad attuare quello che è il programma del centrodestra”. Dello stesso avviso il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, che sulla presunta fronda di via Arenula risponde: “A me non consta”. Gian Domenico Caiazza, presidente Unione Camere Penali italiane, ha lanciato l’allarme: “Nessuna riforma liberale della giustizia è possibile se non si risolve il nodo della presenza abnorme della magistratura nei ruoli chiave del ministero”. C’è poi da considerare pure il rapporto turbolento tra Nordio e l’Anm. Pochi mesi fa, il presidente Santalucia ha definito le idee del ministro “uno scenario che dovrebbe allarmare tutti i cittadini”. Insomma, sarà più forte la fedeltà alla propria casta o la sana collaborazione con Nordio? Il tempo si incaricherà di dirlo. “Esecutivo illiberale, toghe contro Nordio pronte allo sciopero” di Liana Milella La Repubblica, 5 giugno 2023 Intervista a Giuseppe Santalucia, presidente della Anm. L’assemblea generale dei magistrati convocata per l’11 giugno. E fioccano dure critiche contro le riforme annunciate dal ministro della Giustizia. Una dura settimana di scontro tra gli organi di controllo e il governo. E domenica prossima in Cassazione ci sarà l’assemblea plenaria dell’Anm perché anche le toghe sono in allarme e pensano allo sciopero. Il presidente Giuseppe Santalucia questo clima lo conosce assai bene. “Ho seguito con grande attenzione la questione del controllo concomitante della Corte sull’attuazione del Pnrr. E sinceramente non riesco a comprendere le ragioni che spingono il governo ad eliminarlo e perché mai una verifica in corso d’opera debba essere vista come un ostacolo che rallenta l’azione amministrativa. Io guardo a quei compiti della Corte in termini opposti, come un aiuto e una collaborazione costruttiva che può prevenire problemi maggiori e far correggere tempestivamente ciò che non va. Il pallino comunque resta sempre nelle mani del governo”. Dovrebbe essere così, ma questo esecutivo è allergico agli “esami”. Come giudica gli emendamenti sul controllo concomitante e sullo scudo erariale? “Spero che non vengano approvati. La prima misura, checché ne dica qualche giurista di chiara fama, è solo utile al governo stesso. Quanto alla seconda siamo di fronte a un intervento problematico perché limita la stessa funzione giurisdizionale della Corte dei conti. E poi non dobbiamo dimenticarci che fu introdotta nel luglio 2020 dal governo Conte in piena pandemia, giustificata quindi dall’eccezionalità della situazione, che oggi non mi pare proprio ci sia”. Sarà un caso, ma giusto domenica ci sarà la vostra assemblea sul caso Uss. Da lì non verranno certo parole dolci per il governo... “È un’assemblea che esprime una forte preoccupazione prim’ancora della voglia di contestare il governo. Non è su quel piano che vogliamo misurarci, ma è certo che la decisione del ministro Nordio ha suscitato sconcerto, disorientamento e forte preoccupazione tra i magistrati”. E certo, tant’è che dalle assemblee sul territorio è venuta la richiesta della grande riunione a piazza Cavour. E anche, come nel caso di Napoli, il caldo invito a prevedere una giornata di scioperi. La vostra assemblea potrà finire con la proclamazione dello stato di agitazione, anticamera dello sciopero? “Ma noi siamo già in stato di agitazione da due settimane, perché un’assemblea come questa non s’improvvisa e i colleghi stanno discutendo nelle singole realtà. Ovviamente l’assemblea è sovrana, nessuno può, neppure io, anticiparne qui le decisioni, ma se vado col pensiero alle assemblee che già ci sono state, in particolare quella di Milano, prendo atto che il livello di preoccupazione è davvero molto alto”. E su Napoli che chiede lo sciopero che mi dice? “Sì è così, quell’assemblea non lo ha escluso”. Cosa temono le toghe italiane? “Il nostro timore è che l’azione disciplinare contro i colleghi possa costituire un precedente pericoloso perché non è stato rispettato il limite invalicabile che impedisce al titolare dell’azione disciplinare, cioè il Guardasigilli, di sindacare il merito delle decisioni dei giudici. Su questo confine si misura l’indipendenza effettiva dei tribunali e delle corti”. Nordio vuole punire i giudici per una decisione che va contro i desiderata del governo visto che se ne augurava una, la detenzione in carcere, in sintonia con la richiesta d’estradizione degli Usa? “Non so cosa avesse in mente il ministro, ma un fatto è certo: abbiamo sotto gli occhi una sua iniziativa che, stando alle regole, non è accettabile. Tutti i colleghi, e anche gli avvocati, lo hanno detto con molta chiarezza. E anche durezza. Adesso sarà l’assemblea a tirare le conclusioni”. Surrettiziamente Nordio vuole imporre ai giudici decisioni politicamente allineate con il governo? “Questo è un pericolo che va scongiurato”. In questo clima perché avete invitato pure Nordio? “Perché noi non contestiamo le attribuzioni costituzionali del ministro, e tentiamo ogni volta di costruire un dialogo, un confronto, e non uno scontro, soprattutto quando la situazione, come in questo caso, ci appare particolarmente grave”. Grave anche perché, dopo ben sette mesi di mediazioni all’interno di una maggioranza divisa sulla giustizia, gli annunci dicono che Nordio alla fine ce l’avrebbe fatta. E sono tutte misure - dall’abuso d’ufficio forse abolito, alle intercettazioni limitate, all’arresto cautelare deciso da tre giudici - che voi avete già contestato duramente. Un anno fa avete scioperato per molto meno... “Tra le tante indiscrezioni, noi non abbiamo ancora capito in che direzione andrà Nordio. In particolare sulle intercettazioni. Ad esempio non comprendo l’ipotesi di non trascrivere i riferimenti che chi sta al telefono fa nei confronti di una terza persona. Se quelle parole possono costituire una possibile prova non le si può buttare via. Se prova non sono invece, il sistema in vigore già prevede che siano scartate”. E buttare via l’abuso d’ufficio? “È del tutto irragionevole. Mi pare impossibile che il diritto penale possa disinteressarsi del pubblico ufficiale che sfrutta il suo ruolo a fini personali. Di certo eliminare questo reato completa un percorso di riforme che, dopo gli emendamenti sulla Corte dei conti, non rafforza i controlli di legalità che proprio adesso andrebbero potenziati”. Piantedosi: “Braccialetto elettronico, maggiore prevenzione e più poteri ai questori” di Grazia Longo La Stampa, 5 giugno 2023 Il piano del governo contro i femminicidi. Il ministro dell’Interno: “Stiamo studiando un intervento da portare in Cdm. Pene severe necessarie ma non riportano in vita la vittima e non esauriscono il problema”. Ogni tre giorni in media nel nostro Paese viene uccisa una donna. E abbondano anche i casi di violenza, stalking, minacce, lesioni personali e atti persecutori. Per tutelare maggiormente le vittime, il governo sta studiando un disegno di legge che rafforzi le misure in loro difesa. Un lavoro di squadra tra il Guardasigilli Carlo Nordio, la ministra della Famiglia, delle Pari opportunità e Natalità Eugenia Roccella e il titolare del Viminale Matteo Piantedosi. Proprio quest’ultimo fa con noi il punto della situazione. Il femminicidio è un’emergenza? “La violenza di genere e i femminicidi rappresentano un fenomeno particolarmente grave e odioso, intollerabile tanto più in una società avanzata come la nostra”. Per questo avete optato per un’azione interministeriale? “Sì, con i colleghi di governo, in particolare con i ministri Nordio e Roccella, stiamo lavorando a una ipotesi di intervento normativo da portare all’attenzione di uno dei prossimi Consigli dei ministri. Ma non ci limiteremo a questo”. A cosa allude? “A un’azione più collegiale. Quando il governo interverrà, in Parlamento ci sarà l’opportuno confronto tra le forze politiche. Sono sicuro che non mancherà un concreto spirito di condivisione e collaborazione”. Il femminicidio, peraltro, è in costante crescita... “I dati sono sicuramente preoccupanti. I casi sono stati 119 nel 2020, 120 nel 2021, 126 nel 2022. Nel corso di quest’anno, dal 1 gennaio al 28 maggio sono stati registrati complessivamente 129 omicidi volontari di cui 45 vittime sono donne. Trentasette sono state uccise in ambito familiare-affettivo e tra queste sono 22 le donne che hanno trovato la morte per mano del partner o ex partner”. In che modo pensate di potenziare l’attività di prevenzione? “L’obiettivo è evitare che la violenza o addirittura l’omicidio sia commesso. Le pene severe servono, sono necessarie ma non riportano in vita la vittima e non esauriscono il problema. Per quanto di competenza del Viminale, stiamo ipotizzando un rafforzamento delle misure di prevenzione personali a partire dall’ammonimento nei confronti degli autori delle condotte violente e di informazione alle vittime, estendendo le possibilità e i casi di intervento del questore”. Informazione delle vittime in che senso? “È importante comunicare alle donne vittime di abusi la presenza dei centri antiviolenza che operano sul territorio, mettendole in contatto con queste strutture”. E nei confronti degli uomini a cosa pensate? “Innanzitutto al potenziamento dell’uso del braccialetto elettronico nel caso in cui l’autorità giudiziaria decida l’adozione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, nei confronti dei soggetti indiziati di delitti, consumati o tentati, nell’ambito della violenza di genere e domestica”. Ritiene necessaria anche una prevenzione a livello socio-culturale? “C’è un grande lavoro da fare. Le norme sul fronte della prevenzione e sulla sanzione penale sono fondamentali, ma certamente non bastano. C’è un tema più ampio che riguarda l’educazione e la formazione che deve partire con efficacia fin dai primi anni di scuola. La premessa di qualsiasi ragionamento sulla violenza contro le donne e sul suo culmine, il femminicidio, infatti, è che non si tratta di un fatto individuale ma sociale. Questa precisazione è decisiva perché parlare di un fenomeno sociale significa che le sue cause non sono da rintracciare soltanto nella devianza del singolo. Certo, le situazioni di cui parliamo ci pongono dinanzi a soggetti che hanno indubbiamente una propensione criminale. Ma chi rivolge la propria indole prevaricatrice verso una donna, per lo più la propria compagna, spesso è convinto intimamente di essere legittimato a farlo”. Come si può intervenire? “Chi calpesta la dignità di una donna, anche nei casi più estremi, vive un certo senso di impunità. È qui che si rintraccia la matrice culturale della violenza contro le donne, in questo sentimento di possesso irrazionale che disinibisce i loro aguzzini. Per questa ragione, lo strumento per contrastare il fenomeno non può essere limitato alla repressione del reato, ma deve essere agganciato a un progetto culturale, che comporti l’assunzione di una responsabilità collettiva e multidisciplinare per prevenirlo e contrastarlo. Si deve affermare compiutamente il rispetto della vita umana e della altrui libertà affinché in nessun modo la donna possa essere trattata come un oggetto, una proprietà, uno strumento”. La violenza contro le donne si combatte anche con una comunicazione adeguata di Giorgio Varano huffingtonpost.it, 5 giugno 2023 Occorre cambiare completamente l’approccio, favorendo un’evoluzione culturale e cercando anche di accogliere chi ha bisogno di aiuto senza dargli la sensazione che sarà sottoposto a giudizio. Le tragiche e assurde morti di Giulia Tramontano e di Pier Paola Romano riaccendono l’attenzione sulla violenza contro le donne. Due vicende terribili in cui, soprattutto per il brutale omicidio di Milano, il racconto evidenzia uno dei problemi irrisolti nella declinazione di questo grave tema: la sua comunicazione. È immediatamente partito, infatti, il cosiddetto “gioco delle colpe” causato da una divulgazione sbagliata che ha come effetto quello di allontanare molte donne dalla comprensione e dalla prevenzione delle violenze. La conferenza stampa della procura di Milano - che a tratti è apparsa come un programma tv sul crimine - ha mostrato come le competenze in materia di reati non sempre si accompagnano a quelle in tema di comunicazione, e anche una certa trasbordante tendenza degli inquirenti a sconfinare dalla funzione di repressione dei reati ad una missione paideutica nei confronti non solo degli autori ma anche delle vittime delle violenze. Affermare che “questa vicenda rappresenta la tragica conseguenza di atteggiamenti di violenza sopportati dalla donna”, e “a noi donne insegna che non dobbiamo mai andare ad un ultimo incontro chiarificatore. Si tratta di un momento estremamente pericoloso”, significa da un lato arrendersi alla privazione di determinate libertà, dall’altro rischiare di creare distanze e vergogne in chi è sottoposto ad una fase di grave difficoltà emotiva. Senza considerare che nel caso di Giulia la povera vittima è tornata a casa sua e che (almeno a quanto pare) non c’erano stati mai, prima dell’omicidio, episodi di violenza fisica. Occorrerebbe cambiare passo, con un approccio divulgativo inclusivo e accogliente che consenta alle donne che subiscono violenze di non chiudersi in loro stesse e a chi le commette di comprendere la gravità dei propri comportamenti prima di arrivare ad epiloghi dolorosi o peggio ancora tragici. Il tema di fondo riguarda la libertà emotiva (che non significa irresponsabilità). Ogni donna deve essere libera di provare sentimenti, di fare o non fare determinare scelte, senza che le sue emozioni o le sue decisioni vengano giudicate errate o imprudenti, magari con il famoso senno di poi in cui eccellono in tanti. Fornire giudizi o linee guida sui comportamenti di chi subisce delle violenze fa scattare quel “gioco delle colpe” che è proprio alla base delle difficoltà nell’uscire da rapporti violenti. Attardarsi su argomenti quali quello di relazioni extra coniugali, messaggi privati o tardività nella scelta di troncare un rapporto serve solo a stimolare la pruriginosità dei media e a perseverare nel non comprendere che ognuno è libero di fare le proprie scelte emotive senza doverne pagare le conseguenze, perché non è di proprietà di nessuno. Basti pensare che Giulia è stata assassinata perché considerata un ostacolo dal suo omicida, mentre Pier Paola è stata assassinata perché aveva scelto di non continuare la propria relazione con il suo omicida. Inoltre, pensare che le regole di precauzione possano valere per tutte le situazioni significa non capire che ogni persona non può prevedere come reagirà in un rapporto distorto, proprio perché il primo problema che ha è il comprendere tale distorsione. Se, come tutti dicono, il tema è quello della prevenzione delle violenze, è necessario affermare con forza che le persone hanno la facoltà di scegliere, non il dovere di farlo. Si ottiene molto di più consigliando di “scegliere” di parlare di questi gravi problemi con persone specializzate, piuttosto che elencando i “doveri” (“non andare ad un ultimo incontro chiarificatore”, “non sopportare le violenze”, etc.). Occorre da un lato aiutare le donne a vincere imbarazzi, inconsapevolezze, ritrosie, a riconoscere sottovalutazioni e segnali di violenze, dall’altro aiutare gli uomini ad acquisire consapevolezza della gravità dei propri comportamenti, che non sempre si concretizzano in violenze fisiche. Occorre, in altri termini, superare l’idea che le emozioni, anche altalenanti, siano disarmonie o segni di debolezza e che chiedere aiuto sia un’ammissione di fallimento. Invece, complici una serie di dettagli e di valutazioni giuridiche, ora tutta l’attenzione si è concentrata su alcune circostanze tecniche complesse che vengono sviscerate solo per gridare al pericolo che l’omicida “eviti” il massimo della pena. Parlare di presenza o assenza di premeditazione oltre ad essere del tutto inutile quanto alle conseguenze sulla pena (in questo caso, viste le altre aggravanti, di cui una oggettiva) serve solo a creare le opposte fazioni - tipiche del format mediatico per questi casi - utili allo share e dannose per la possibilità di prevenire altri reati del genere attraverso una comunicazione accogliente ma soprattutto finalizzata alla comprensione delle complesse problematiche della violenza contro le donne. La politica, come sempre accade in questi casi, interviene per annunciare come prima reazione degli aumenti di pena e poi delle misure utili alla prevenzione di tali reati. Come se chi usa violenza si fermasse a ragionare perché in caso di consumazione di un reato prenderebbe qualche anno in più di carcere o perché sarebbe marchiato da uno stigma di riprovazione sociale. Come se chi subisce violenza fosse stimolato a parlarne perché le pene sono più alte. L’unico obiettivo serio è quello di prevenire la commissione di tali reati e certamente intervenire inasprendo le reazioni a reati avvenuti, con l’aggravamento delle misure cautelari o l’aumento delle pene, non serve allo scopo sia perché non si può vincere una battaglia contro un arretramento culturale con gli strumenti del diritto penale, sia perché l’obiettivo primario di chi subisce violenze non è l’allontanamento temporaneo o la punizione (magari a distanza di vari anni) di chi le commette, ma la liberazione psicologica, emotiva e a volta anche economica dalla persona violenta. Occorre cambiare completamente l’approccio, curando con molta attenzione la comunicazione, favorendo un’evoluzione culturale e cercando da un lato di accogliere chi ha bisogno di aiuto senza dargli la sensazione che saranno sottoposti a giudizio - più o meno pubblico - i suoi comportamenti, le sue emozioni, la sua intimità, le sue libertà, e dall’altro far comprendere che usare violenza o limitare la libertà di una persona significa fare del male non solo a lei ma anche a chi pone in essere questi terribili comportamenti. “L’intelligenza artificiale è ormai una realtà. Ma la centralità del pensiero umano è fuori discussione” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 5 giugno 2023 Tommaso Greco è ordinario di Filosofia del diritto nell’Università di Pisa. L’ateneo toscano partecipa alla “Fondazione FAIR” (Future Artificial Intelligence Research). Il professor Greco sta seguendo con attenzione quanto sta accadendo nel diritto e nella professione forense con l’approdo dell’Intelligenza Artificiale. L’accademico è autore del saggio “La legge della fiducia. Alle radici del diritto” (Editori Laterza) e a settembre ritornerà in libreria con un altro volume dedicato alla giustizia intesa come “attenzione per l’altro e, soprattutto, per i deboli”. Professor Greco, l’Intelligenza Artificiale implica dei rischi per l’affermazione e la tutela dei diritti? Dobbiamo fare innanzi tutto una premessa: quella dell’IA è una realtà con la quale dovremo sempre più fare i conti e non avrebbe senso lasciarsi andare a considerazioni apocalittiche. Siamo di fronte, anzi, siamo già dentro, a una delle grandi trasformazioni nella storia dell’umanità e in questo senso i nostri comportamenti, la nostra stessa realtà, non potranno più essere gli stessi, come d’altra parte è avvenuto in ogni circostanza analoga della storia. La questione specifica dei diritti va letta dunque in questa cornice. Quali diritti possono essere a rischio? E i diritti di chi? Certamente ci saranno, e ci sono già, sfide da affrontare, come quella relativa ai diritti dei lavoratori e del loro controllo mediante algoritmi; oppure quella delle nuove forme di partecipazione e di decisione politica. Perché, ad esempio, rivolgersi al “popolo sovrano” quando una macchina può offrirci una soluzione “tecnica” ai problemi che dobbiamo risolvere? Si ripropone qui, in forme nuovissime, l’antica e sempre ricorrente questione della tecnocrazia come alternativa alla democrazia. Credo che in generale occorrerà affrontare questa sfida attrezzandoci innanzitutto dal punto di vista teorico e conoscitivo, mantenendo ovviamente fermi alcuni principi, come quello della dignità umana e della libertà delle persone. Chat Gpt potrebbe essere in grado di creare pareri e atti per gli avvocati. Delegare a un algoritmo rischia di svilire la professione forense? Anche qui credo che dovremo rassegnarci a trasformazioni epocali, che difficilmente potranno essere fermate. Si tratta però di capire i limiti di queste trasformazioni. Come tutto ciò che esiste, lo ricordava Simone Weil sulla scia di Spinoza, e lo ha ricordato di recente un grande giurista francese, Alain Supiot, parlando di “sovranità del limite”, anche la tecnologia più avanzata ha dei limiti, che in questo caso sono dati dal fatto che l’IA non può che operare sulla base dei dati e dei meccanismi che sono forniti e creati dagli umani. Qui, forse, entra in gioco il modo in cui concepiamo il diritto e la scienza giuridica. Se pensiamo che si tratti solo di tecniche più o meno “meccaniche”, allora la sostituzione da parte delle macchine, una cosa immaginata fin dal XVIII secolo, è ineluttabile. Quanto più, invece, saremo capaci di pensare il diritto e la funzione del giurista come qualcosa che ha a che fare con la riflessione, le valutazioni, la creazione, e persino la fantasia, tanto più ci sarà spazio per i giuristi teorici e pratici. Occorre però che ci si allontani da quella che un grande maestro come Paolo Grossi chiamava la “pigrizia del giurista”. Se si tratterà solo di mettere in fila le norme del codice, le macchine lo faranno sicuramente meglio degli uomini. L’IA va allenata in continuazione. Può la cosiddetta tecnologia intelligente contenere in sé la cultura giuridica, secoli di dibattiti, di studi e di confronti tra giuristi? L’Intelligenza Artificiale ha già dato prova di poter contenere molte più cose di quanto noi possiamo immaginare: da questo punto di vista è letteralmente “mostruosa” e forse può spaventare. Ma si tratta di “nozioni”, di “notizie”, di informazioni che vengono veicolate da una macchina e che possono ambire a entrare nel circuito della cultura, giuridica e non solo, soltanto se vengono incluse nel circuito della relazione tra persone, tra giuristi, tra cultori del diritto. L’IA, dunque, può fare da “grande magazzino” di dibattiti e studi, e può anche assemblarli in maniera “intelligente”, ma affinché tutto questo prenda vita c’è bisogno che siano gli uomini e le donne ad assumere questo patrimonio e trasformarlo in motivo e occasione di ulteriore confronto e sviluppo. Trasportare quei secoli di dibattiti, di confronti verso il futuro, questo è il compito che rimane all’uomo. La centralità dell’uomo, quindi, è imprescindibile tanto nella professione forense quanto nell’IA. In quest’ultima, comunque, occorre sempre il prezioso contributo umano per creare e allenare l’algoritmo? Certo, la centralità dell’uomo rimane eccome! Non bisogna dimenticarlo, non solo per ragioni, diciamo così, “romantiche” o umanistiche, ma anche e soprattutto per essere consapevoli dei meccanismi di potere che le nuove tecnologie creano e consolidano, dandogli per giunta una patente di assoluta ineluttabilità. Gli algoritmi sono creati e “allenati” dagli esseri umani, ci sono dentro tante decisioni prese a monte, ci sono gerarchie di valori che li determinano e li portano prima ad essere sviluppati in una certa direzione e poi a determinare certe scelte e non altre. Uno dei grandi temi di questa sfida è quello della trasparenza. Paradossalmente, una società resa assolutamente visibile, grazie all’IA, rischia di essere quella meno trasparente perché rimangono opachi, anche per la loro difficoltà tecnica, i percorsi attraverso i quali essa viene costruita. Qui entra in gioco anche il tema della responsabilità per le scelte che vengono compiute e per le loro conseguenze: un tema che forse dovremo ripensare in termini nuovi. Lei è un filosofo del diritto. Una intelligenza artificiale può sostituire millenni di pensiero filosofico e giuridico? È una contraddizione in termini voler sostituire l’intelligenza umana che conserva la sua primaria importanza? Forse, anzi certamente, non siamo in grado di immaginare tutto quel che l’intelligenza artificiale potrà fare in futuro. Ci aspettano mondi assolutamente inediti e l’IA sta già offrendo un nuovo scenario anche al pensiero filosofico. Una cosa però mi pare altrettanto certa: riusciremo a conservare uno spazio per ciò che è umano se saremo in grado di evitare gli automatismi e i ragionamenti binari. La logica dell’IA è dicotomica, digitale appunto, e in quanto tale non può dare spazio alle sfumature e alle particolarità, a meno che non siano anche queste assumibili all’interno dello schema. Il rischio, dunque, è di veder trascinato il nostro pensiero, filosofico, giuridico, politico, sociale, da questa logica: le nette contrapposizioni, “noi-loro”, “sì-no”, “dentro-fuori”, che pure fanno parte del nostro modo di ragionare, ad esempio attraverso regole, ci costringono a digitalizzare il nostro pensiero, sacrificando tutto ciò che invece sta in mezzo o che sfugge alle alternative predefinite. Ecco, tutto questo potremo invece valorizzarlo se saremo in grado di assumerci la responsabilità delle decisioni. Penso anche al modo in cui funzionano i nostri ordinamenti giuridici. A cosa si riferisce nello specifico? L’idea che la giustizia possa risultare da una meccanica applicazione di norme, e che quindi possa e debba sempre essere bendata, ci porta dritti all’IA e ai suoi automatismi. Ma se torniamo a una concezione della giustizia che guardi alla sostanza dei rapporti da regolare, e quindi capace di vedere gli esseri umani in carne e ossa, allora avremo sempre bisogno di decisioni assunte da uomini e donne, e di un pensiero che fondi e alimenti quelle decisioni. Il che significa anche che avremo bisogno di un percorso di formazione che sia capace di trasmettere le conoscenze che vengono dalla nostra lunga storia. Se i corsi di giurisprudenza si trasformeranno in percorsi puramente tecnici, che guardano al solo obiettivo di una applicazione del diritto resa quanto più possibile efficiente dall’uso dell’IA, come in certi casi pare di poter intuire, allora vuol dire che saremo noi stessi a consegnare all’IA i nostri destini. Parma. Ilaria Cucchi: “Le carceri minorili aumentano le disuguaglianze” di Gloria Sanzogni Gazzetta di Parma, 5 giugno 2023 Da quel 22 ottobre 2009, giorno in cui fu ucciso suo fratello Stefano Cucchi, la senatrice, scrittrice e attivista Ilaria Cucchi si batte per i diritti di chi non ha voce. Per ringraziarla dei suoi sforzi le è stato conferito, all’Auditorium del Palazzo del Governatore, il premio Tommasini per il suo attivismo per i diritti civili e umani. La cerimonia - aperta al pubblico e organizzata dalla Fondazione Mario Tommasini con il patrocinio del Comune di Parma e sostenuta dalla Cooperativa Sirio - è stata aperta dalle parole di Marcella Saccani, vicepresidente della Fondazione, che ha ricordato la figura di Mario Tommasini: “Quest’anno l’assegnazione del premio è l’occasione per parlare della realtà carceraria e delle condizioni opprimenti e angoscianti in cui vivono i detenuti in molte carceri italiane, una problematica che già Mario Tommasini aveva portato alla luce”. “Sono molto emozionata di ricevere questo premio che porta il nome di Mario Tommasini, una persona che, ben prima di me, ha portato avanti una serie di battaglie di civiltà che sono diventate per me un punto di riferimento - chiosa Ilaria Cucchi -. Anche io sono convinta come lui che il carcere minorile sia un’istituzione che incentivi le disuguaglianze continuando ad accogliere ragazzi già “sfortunati”. In tutta Italia ci sono solamente 300 ragazzi in carcere: invece che dare loro la possibilità di costruirsi un futuro migliore si sottolinea ancora di più la loro diversità e, cosa peggiore, si ricorda loro che sono gli ultimi fra gli ultimi. Siccome so bene cosa vuol dire far parte degli ultimi, sono onorata di annunciare che devolverò questo premio in denaro all’organizzazione Emergency”. Torino. I detenuti stampano magliette: “Per noi lavorare significa riscatto” torinoggi.it, 5 giugno 2023 Una maglietta, poi un’altra. E ancora una polo, una felpa. Sono circa 300, a volte 400 i capi di abbigliamento che il laboratorio di serigrafia del carcere di Torino riesce a stampare ogni giorno. A prestare lavoro quei detenuti che escono dalla cella e, tra una mansione e l’altra, costruiscono oggi importanti pezzi di futuro. Tra loro c’è Abdelkader, da due settimane in formazione per imparare a fare questo lavoro. “Sto imparando un mestiere, prima non avevo mai fatto questo tipo di lavoro”. “Lavorare per me significa imparare qualcosa, essere utile. Sono preoccupato per quando uscirò: qui lavoro, ma un domani? Per noi lavorare significa riscatto” afferma mentre stampa magliette. A coordinare l’attività lavorativa è Gian Luca Boggia, presidente cooperativa sociale Extraliberi: “La cooperativa è attiva dal 2007: nel padiglione arcobaleno (quello dedicato alla custodia attenuata) abbiamo un laboratorio di stampa serigrafica e digitale, personalizziamo capi di abbigliamento per clienti privati”. Ma perché una cooperativa dovrebbe prestare lavoro all’interno di un carcere? “Perché la Costituzione di questo Paese ci ricorda che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e il lavoro è uno strumento per costruire un percorso differente rispetto a quello che li ha portati in carcere”. E l’impegno della cooperativa non si ferma alle attività svolte in carcere: nei laboratori “fuori” infatti lavorano oggi ex detenuti che, dopo aver imparato un mestiere dietro le sbarre, sono riusciti a ricrearsi una vita fuori. “Questo Paese - racconta Boggia - ha un problema legato alla recidiva, alla percentuale di persone che ricadono nel reato: spesso il carcere diventa un sistema di porte girevoli. I numeri ci dicono che chi lavora o svolge attività all’interno del carcere è più difficile che ricada. Difficilmente chi lavora ritorna a commettere errori”. E in queste ore di lavoro all’interno della casa circondariale Lorusso e Cutugno, anche i lavoratori delle cooperative imparano qualcosa dai detenuti: “Ci insegnano che le persone che sono qui non sempre sono ‘brutti, sporchi e cattivi’. Questo è un luogo comune. Come nelle cantine, che sebbene siano considerate buie, si trovano oggetti di valore. Anche qui troviamo valori positivi, voglia di lavorare e di riscatto”. Foggia. Nel carcere i detenuti coltivano e allevano Italia Oggi, 5 giugno 2023 Nel carcere di Foggia via al progetto “Natura libera”. Fino a un anno fa i terreni all’interno della Casa circondariale di Foggia e nella zona demaniale esterna erano inutilizzati e in stato di abbandono. Oggi queste aree che circondano l’istituto sono rallegrate dai colori degli ortaggi stagionali che stanno crescendo. Una porzione dell’appezzamento, racconta gNews, quotidiano online del ministero della Giustizia, è stata popolata con un centinaio di galline ovaiole, che presto raddoppieranno, e a breve entreranno a far parte di questo paesaggio rinnovato anche due serre, una destinata alle colture invernali e l’altra a ospitare un vivaio semenzaio. Oltre a valorizzare risorse del luogo e a creare lavoro per i detenuti, il tenimento agricolo “Natura libera”, inaugurato nei giorni scorsi nell’istituto penitenziario dal Capo del Dap Giovanni Russo alla presenza del provveditore per la Puglia e la Basilicata Giuseppe Martone e del direttore generale del personale Massimo Parisi, nasce con un obiettivo in più. “Abbiamo voluto”, spiega Giulia Magliulo, direttore dell’istituto e ideatrice del progetto, “riferirci a un modello di ‘trattamento avanzato’ che consenta alla persona detenuta di non limitarsi a espletare i tipici lavori penitenziari, ma di sperimentarsi in mestieri antichi che si vanno perdendo”. Un ruolo importante nella definizione del progetto e nell’individuazione di percorsi formativi è stato assunto dall’Istituto Alberghiero San Giovanni Rotondo Manfredonia, con cui è stato siglato un Patto di comunità che consente di offrire opportunità formative anche ad altre istituzioni del territorio per raggiungere fini comuni. In questa fase, ancora iniziale, nel tenimento sono occupati 5 detenuti ammessi al lavoro per 6 ore al giorno. Ortaggi e uova possono, per ora, essere acquistati dai dipendenti della casa circondariale, ma sono allo studio ampliamenti del progetto per l’avvio di un laboratorio di trasformazione e commercializzazione delle produzioni. Torino. “LiberAzioni”, il cinema oltre sbarre di Pietro Caccavo La Voce e il Tempo, 5 giugno 2023 La sera del 29 maggio, al cinema Massimo di Torino, con l’anteprima del formidabile documentario “Attica” di Tracy Curry e Stanley Nelson (candidato agli Oscar 2022), si sono ufficialmente aperte le iscrizioni per partecipare alla quarta edizione del concorso cinematografico nazionale “LiberAzioni - le arti dentro e fuori”, primo passo di avvicinamento al festival LiberAzioni curato dall’Associazione Museo nazionale del Cinema (Amnc) che si svolgerà in autunno. “Il progetto LiberAzioni” ha detto Valentina Noya, vice presidente dell’Amnc e direttrice del festival ‘LiberAzioni’ “è nato con l’intento di stimolare e promuovere la creatività attorno al tema del carcere e della pena; in particolare realizzare, attraverso laboratori a beneficio delle detenute e dei detenuti del carcere di Torino, eventi culturali, opportunità di incontro, conoscenza e scambio tra chi in carcere vive e il territorio che il carcere ospita. il progetto si svolge a Torino, ma ha un respiro nazionale quanto di catalizzatore della comunità locale. Due concorsi, di cinema e scrittura, quest’ultimo esclusivamente destinato a detenuti delle carceri d’Italia grazie alla prestigiosa collaborazione con il premio ‘Carlo Castelli’, avranno la propria restituzione tra fine settembre e la prima metà di ottobre 2023. Dopo la lunga interruzione dovuta alla pandemia, siamo orgogliosi di poter tornare a creare un dialogo tra la popolazione detenuta e la società civile”. “Negli anni ho visto alcuni progetti all’interno del carcere consolidare la propria presenza e offrire alle persone detenute laboratori di grande valore” sottolinea Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino “il lavoro dell’associazione Museo Nazionale del Cinema attraverso il progetto ‘LiberAzioni’ è un generatore di creatività dentro il carcere e uno strumento di conoscenza fuori dal carcere. Il diritto alla cultura è in grado di riconfigurare il percorso detentivo: con corsi e percorsi formativi di scrittura, arte, cinema e teatro cambia la prospettiva che passa da un tempo vuoto a un tempo di qualità”. Il bando di concorso cinema ha un montepremi di 5500 euro e rimane aperto fino al 31 agosto; il festival si terrà in diverse sedi di Torino, nel prossimo ottobre, in particolare nel quartiere delle Vallette che ospita la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno”. La partecipazione al concorso cinematografico è gratuita. Sono ammessi al concorso i cortometraggi di finzione, documentari e film d’animazione realizzati da autrici e autori italiani o residenti sul territorio nazionale, senza limiti d’età che riflettano sui temi della reclusione, della pena, della libertà e la relazione dentro/fuori così come sui diritti umani, sociali e civili. Sono in particolare ammessi i film realizzati in data non antecedente al primo gennaio 2020 e la cui durata non sia superiore ai 30 minuti. Le opere superiori ai 30 minuti potranno essere eventualmente selezionate per la sezione fuori concorso. Un festival dinamico e necessario, dunque, che si svolge a Torino ed ha un respiro tanto nazionale quanto di catalizzatore della comunità locale: sono due le sezioni del concorso, una di cinema (aperta a tutti), l’altra di scrittura, a cui può partecipare la popolazione detenuta delle carceri italiane, quest’anno in collaborazione con il prestigioso premio “Carlo Castelli” per il miglior racconto dagli Istituti penali minorili. Il bando completo del concorso cinematografico è reperibile alla pagina www.amnc.it/bando-cinema-liberazioni-2023/ Se il perdono è fuori moda di Marco Belpoliti La Repubblica, 5 giugno 2023 Un filosofo, Jacques Derrida, ha scritto che il perdono appartiene all’ordine dell’imperscrittibile, ovvero a quelle realtà che nel linguaggio giuridico non sono soggetti alla prescrizione. Si tratta di qualcosa di paradossale, come ha ribadito Renato Rizzi, medico, oncologo e psicologo, in un libro dedicato a questo tema (“Itinerari del perdono”, Unicopli). Si può perdonare solo dove c’è qualcosa di imperdonabile: da qui il pensiero del parroco nel ricordare Giulia Tramontano. Qualcosa che appartiene a una sorta di ordine superiore, dal momento che per essere tale deve essere assoluto. Quasi una assurdità su cui anche altri filosofi come Jankélévitch si sono interrogati in particolare dinanzi a quell’evento storico che è stata la Shoah. Per il filosofo francese questo avvenimento è inespiabile, irrevocabile, incancellabile. Come accade davanti all’uccisione di qualcuno che ci è caro, qualcuno che amiamo e che la violenza irrefrenabile ha cancellato dalla vita. Quel crimine orrendo e incommensurabile che è accaduto durante la Seconda guerra mondiale, per cui nessun perdono risulta possibile, è anche un caso che mostra come il perdono non possa iscriversi in nessuna legge morale universale. Il perdono sta fuori da ogni logica giuridica, da ogni misura, perché appartiene all’incommensurabile. Come ribadisce Rizzi all’inizio di quel libro, questo atto riguarda il concetto stesso di gratuità. Nell’etimo falso, eppure vero, della parola “perdono” c’è la parola “dono”, tanto che la gratuità è la scaturigine del perdono, anche là dove vive l’idea opposta dell’occhio per occhio, dente per dente. Non è necessario essere credenti per sapere che il perdono vive fuori dalla legge medesima, oltre qualsiasi norma giuridica: supera ogni giudizio di colpevolezza. Il colpevole, ci ricordano i giuristi, ha compiuto qualcosa senza averne diritto, come spegnere una o più vite, e la richiesta di giustizia è per questo consona alla condanna. E tuttavia esiste qualcosa che è al di là di tutto questo, come Manzoni ci ha mostrato nel confronto tra Fra’ Cristoforo e l’Innominato, o come si vede nel gesto con cui Transibulo dopo aver posto fine il regime dei Trenta Tiranni ad Atene nel 403. Tornato vincitore nella città, per far cessare la guerra civile, egli decretò l’amnistia per tutti coloro che si erano resi colpevoli di atti di sangue. Per quanto poi questo gesto non abbia portato alla risoluzione dei problemi - il ritorno alla democrazia non significò in Atene la sospensione definitiva delle condanne a morte - tuttavia legò il perdono alla espressione mè mnesikakein: “non mi ricordo del male subito”, ragione per cui “non mi vendico”. L’oblio del male divenne forse per la prima volta la risposta di pace a una comunità profondamente divisa. Oggi il tema della vendetta, per quanto esclusa da qualsiasi legge civile, suona come un tema di stretta attualità. Come spiegano gli studiosi della Grecia classica il gesto di Trasibulo non ricorse a contenuti politici ma religiosi, imponendo il giuramento del perdono davanti agli dèi. Forse non è un caso che sia stato proprio l’arcivescovo Desmond Tutu in Sudafrica alla fine dell’apartheid a lavorare per l’istituzione del “Tribunale del perdono” e con la “Commissione per la verità e la riconciliazione”. Rizzi si domanda nell’introduzione al volume se il perdono sia un valore religioso. La risposta non è semplice. Nell’Antico testamento il perdono spetta solo a Dio, mentre il Nuovo contempla la possibilità del perdono come fatto umano. Il Buddismo usa invece un’altra chiave per accedere a quello che noi chiamiamo perdono: la compassione. Un tema anche questo che mobilita qualcosa di profondamente umano: il sentimento di pietà che comporta la partecipazione alle sofferenze degli altri. Certo nel cristianesimo risuona la voce di Gesù: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” nel passo del Vangelo di Luca. Molte domande si affastellano nella mente di chi deve affrontare questi temi: il perdono è un fatto che appartiene alla natura o è invece qualcosa portato dalla cultura? Di certo nella nostra società attuale si sente poco parlare del perdono, non è un tema che frequenta le aule dei tribunali o i libri di storia. Dominano quasi incontrastati a livello sociale risentimento e rancore, due sentimenti che occupano il campo sia negli individui singoli come nelle collettività più o meno ampie. Non dimentichiamo che neppure uno spirito illuminato, oltre che illuminista, come Primo Levi voleva sentir parlare di perdono rispetto ai Lager nazisti e fascisti della Seconda guerra mondiale. Ma chi ha letto e riletto I sommersi e i salvati sa con quanta angoscia e con quanto rovello lo scrittore torinese si sia interrogato su tutti coloro che sono stati coinvolti a vario titolo in quel delitto incomparabile che è stata la Shoah. Derrida in Perdonare (Cortina) sostiene che il perdono deve essere incondizionato, e perciò silenzioso, invisibile, discreto. Qualcosa di quasi impossibile. Eppure tra noi ci sono state persone che sono state capaci di questo e una volta per tutte hanno detto: “Ho perdonato”. Qualcosa che è al di là di qualsiasi naturale disposizione degli esseri umani, e tuttavia se anche solo uno l’ha fatto, vuol dire che è possibile. La cooperazione come argine delle disuguaglianze e abilitatore di giustizia sociale di Andrea Morniroli* e Marisa Parmigiani** vita.it, 5 giugno 2023 Come valorizzare il ruolo della cooperazione nella lotta contro le disuguaglianze? Dal Forum Disuguaglianze e Diversità e Fondazione Unipolis proposte concrete frutto di un percorso partecipativo, ora da sperimentare per migliorare la capacità del mondo cooperativo di essere protagonista nella promozione di coesione sociale Nel maggio 2021 al Social summit dell’Unione europea i capi di Stato e di Governo hanno adottato la Dichiarazione di Porto che riconosce come fondamentale il tema della coesione sociale: pari opportunità a tutti senza lasciare indietro nessuno, posti di lavoro anche migliorando la qualità del lavoro esistente, difesa di salari equi per combattere l’esclusione sociale e la povertà. La cooperazione rappresenta un attore importante nel contribuire a favorire un nuovo concetto di sviluppo in linea con la visione della Dichiarazione. Ed è per questo che il Forum Disuguaglianze e Diversità e la Fondazione Unipolis hanno lavorato a un percorso di confronto e riflessione all’interno della cooperazione e presso i suoi principali stakeholder, per definire un posizionamento che possa riconoscere al modello cooperativo, per la sua natura intrinsecamente inclusiva, ma anche alle imprese cooperative, un ruolo di argine delle disuguaglianze e abilitatore di giustizia sociale. I risultati emersi sono confluiti nel documento “Per un’economia più giusta. La cooperazione come argine delle disuguaglianze e abilitatore di giustizia sociale” che presenta proposte concrete per accrescere questo carattere. Crediamo si debba intervenire su vari fronti, uno dei quali è certamente la governance. Partendo dalla natura multistakeholder della forma cooperativa, le proposte che avanziamo vanno nella direzione di rafforzare l’accessibilità in ingresso dei soci, la loro partecipazione attiva - curando i processi di democrazia deliberativa basati su un confronto informato - e la presenza equilibrata, non solo simbolica, delle donne nei consigli di amministrazione, nella gestione del personale, nelle assemblee sostenendone il protagonismo. Nel documento trova spazio anche la promozione dei giovani, coerente con la natura intergenerazionale delle cooperative, da realizzare attraverso azioni e processi per il loro empowerment e lo sviluppo delle e dei giovani in organico, e avviando una sperimentazione di rappresentanza istituzionale degli interessi delle generazioni future, con una figura appositamente identificata attraverso il rapporto con mondo ambientalista e associazioni giovanili. Un altro punto nodale è il ruolo sociale del sistema cooperativo, a partire dal suo radicamento territoriale. La cooperazione supporta e aiuta lo sviluppo territoriale in termini di crescita occupazionale, sviluppo di filiera, infrastrutturazione economico-imprenditoriale e sociale, e promuove la creazione di un capitale sociale di conoscenza e lo sviluppo di valori culturali e di fiducia condivisi, presupposti indispensabili per la crescita di “sistemi territoriali” orientati al cambiamento e all’inclusione. Questa funzione importantissima potrebbe essere valorizzata ad esempio introducendo incentivi e riconoscimenti alla valenza sociale della cooperazione per il territorio anche dal punto di vista economico. La cooperazione infine svolge un ruolo educativo importante di cambiamento di comportamenti e processi culturali. Un impatto da potenziare promuovendo, da parte della pubblica amministrazione con il supporto di risorse pubbliche abilitanti, la nascita di startup cooperative, e dall’altra l’adozione di una nuova prospettiva di genere, che sia in grado di inquadrare la sfera dei comportamenti individuali alla luce delle rappresentazioni collettive che li ispirano per pervenire al superamento di un ordine basato sul dominio maschile, non dimenticando le interconnessioni tra questo e altri regimi di disuguaglianza, favorendo l’empowerment femminile valorizzando l’idea di “cura” in ottica di genere, ovvero non riferendola alla “natura” come propensione femminile ma collocandola nella responsabilità collettiva sia nelle famiglie che nel pubblico. Il documento è stato il frutto di un percorso partecipativo che ha coinvolto oltre 80 persone: diversi cooperatori si sono confrontati con il mondo accademico e i loro principali stakeholder e ora avranno l’onere di sperimentare le proposte ivi contenute per migliorare la capacità di essere protagonisti della lotta alle disuguaglianze. *Forum Disuguaglianze e Diversità **Fondazione Unipolis Licenziamento per giusta vita di Francesca Coin La Stampa, 5 giugno 2023 Le dimissioni di massa sono la cartina di tornasole del divario tra bisogni e sistema produttivo. L’indisponibilità al lavoro è una risposta inattesa e disorganizzata al collasso climatico e sociale. La politica nazionale e, per molti versi, internazionale, ha abdicato da anni alle grandi sfide del presente. Troppo a lungo, l’unico scopo del nostro modello produttivo è stato tagliare il costo del lavoro e aumentare i profitti. In questo contesto, poco spazio è stato dedicato a temi importanti, come la necessità di tutelare ed estendere i diritti del lavoro e di ripensare le finalità della struttura produttiva in un’epoca segnata dal cambiamento climatico, dall’automazione e dall’intelligenza artificiale, dal crescente bisogno di cura da parte della popolazione. Circa un secolo fa, l’economista britannico John Maynard Keynes ha tenuto a Madrid un importante discorso poi pubblicato con il titolo Prospettive economiche per i nostri nipoti, che preconizzava come, nel nostro tempo, la crescita della capacità produttiva avrebbe consentito di risolvere il problema della scarsità e di marginalizzare il ruolo del lavoro nella nostra vita. Cento anni dopo, la capacità produttiva è aumentata talmente tanto che l’umanità ha bisogno di fare un salto da gigante se vuole ridurre la pressione sull’ambiente e il consumo di risorse, senza trovarsi in una condizione di siccità, scarsità idrica e carenza alimentare, ha scritto l’ultimo rapporto del Club di Roma. In un contesto diseguale come quello in cui viviamo, le grandi potenzialità della nostra epoca si sono trasformate in problemi. Le sfide del presente sono diventate così grandi che la politica, incapace di rispondere, si volta dall’altra parte. Oggi non c’è un’unica soluzione in grado di rispondere alle crisi multiple in cui viviamo. In questo contesto, le poche risposte vengono dal mondo del lavoro e dal movimento ambientalista. Per circa due anni, il Collettivo di Fabbrica Gkn, il gruppo di lavoratori della fabbrica di semiassi di Campi Bisenzio, ha saputo trasformare l’annuncio di licenziamento da parte del fondo di investimento britannico Melrose in un laboratorio di discussione teorica e politica sulla necessità di convertire la produzione e di immaginare una fabbrica socialmente integrata a basso impatto ambientale, in grado di proteggere l’occupazione e i diritti acquisiti nel tempo, e nella quale gli operai siano coinvolti nel processo decisionale. Nonostante mille avversità e l’incuria da parte delle istituzioni, questo tipo di discussione ha aperto una breccia nell’immaginario collettivo, mostrando come il futuro debba muovere nella direzione di una produzione sostenibile che abbia come suo primo scopo la riproduzione e la cura dell’ambiente e della popolazione. In assenza di una conversazione di questo tipo, è inutile sorprendersi se le persone si disaffezionano al lavoro. Un sistema in grado di rispondere solo alle esigenze di profitto non può raccogliere entusiasmo. In questo contesto, le Grandi dimissioni sono la cartina di tornasole dello scollamento tra i bisogni della società e le finalità del sistema produttivo. In assenza di una prospettiva di trasformazione, questa disaffezione promette di continuare anche se il numero di dimissioni dovesse ridursi, come epitome dell’indisponibilità a un modello produttivo incapace di offrire un futuro diverso rispetto al collasso climatico e alla guerra sociale. Negli ultimi due anni, le Grandi dimissioni sono state una risposta inattesa e disorganizzata a questa situazione. Insieme a un numero crescente di proteste e scioperi, manifestazioni e assemblee cittadine, l’indisponibilità al lavoro è riuscita a generare tra la classe imprenditoriale la paura di non poter continuare a produrre a causa dell’assenza di personale. Dagli Stati Uniti alla Cina, passando per la Francia, le piazze l’hanno detto con forza: “Non c’è solo il lavoro nella vita”, “Vogliamo lavorare meno e vivere di più”. Negli anni Settanta, la fine del lavoro salariato era un costrutto teorico: l’ipotesi di chi sosteneva che, con la crescita dell’automazione, si sarebbero lentamente venute a creare le condizioni per una società libera dal lavoro. Oggi liberare la vita dal lavoro è un’urgenza esistenziale. Lo ha detto Jean-Luc Melenchon lo scorso 21 gennaio 2023, nel corso di una grande manifestazione contro l’aumento dell’età pensionistica. Non stiamo solo difendendo il diritto a una pausa nella vita, stiamo dicendo che il tempo della vita, il tempo che conta, non è solo quello che si ritiene utile perché produce. Vivere, amare, prendervi cura della vostra famiglia, leggere poesie, dipingere, cantare o non fare nulla: il tempo libero è il tempo in cui abbiamo l’opportunità di essere pienamente umani. È di questo che stiamo parlando. Il problema, dunque, non è la carenza di lavoratori. È che la vita non è una merce. La ricchezza non è il denaro. Perciò le persone rifiutano di lavorare: per vivere. I ricchi ci rubano il tempo per vivere, hanno detto le piazze francesi. In modo capillare e diffuso, parole come queste attraversano le piazze e fanno capolino nelle nostre conversazioni quotidiane, dando voce all’urgenza di riprendersi il tempo per vivere, per riposare e per rigenerare il pianeta. Ne troviamo traccia nella produzione culturale indipendente, si pensi a pezzi come Snoopy, del gruppo napoletano Addolorata, o a “Io non lavoro più”, del comico Frank Gramuglia. Storicamente, trasformazioni culturali come queste hanno scandito l’emergere di lotte capaci di fermare la produzione per ottenere nuovi diritti. Il mondo è pronto, per un sistema produttivo basato su modelli altri rispetto all’esaurimento delle nostre energie fisiche e mentali e delle risorse della Terra. Come ripete il Collettivo di Fabbrica Gkn, il cielo e l’unico limite. Tutto il resto è possibile. Insieme. Pnrr, mancano i migranti di Fabrizio Goria La Stampa, 5 giugno 2023 Per la transizione energetica servono occupati, secondo Banca d’Italia ci sono 120 mila posti che non saranno creati per carenza di personale. Palazzo Koch: “Flussi di lavoratori insufficienti”. Senza i migranti sarà difficile completare il Pnrr. Il Recovery dovrebbe creare, a regime, 120mila occupati nella transizione energetica. Ovvero nel 2025, l’anno di massima spesa del Fondo. Il problema, come evidenzia la Banca d’Italia nella sua relazione annuale, è che nell’ultimo triennio l’invecchiamento della popolazione ha causato una perdita di 500mila persone dal mercato del lavoro. I flussi migratori netti, sottolinea Bankitalia, “non sono stati sufficienti a compensare tale decremento”. Mentre non aumenta l’occupazione stabilizzata e regolarizzata delle giovani generazioni, il Paese rischia di trovarsi nelle sabbie mobili, tra lungaggini burocratiche e salari meno competitivi. La transizione ecologica ed energetica può generare valore. Non solo a livello produttivo, ma anche sul piano occupazionale. Il problema, secondo Banca d’Italia, è che il Paese è indietro. E ha un significativo bisogno di immigrazione per fronteggiare le sfide che ha di fronte. Da un lato, aumenta la domanda di unità lavorative nel segmento delle costruzioni e in quello dei servizi, che chiedono sempre più competenze qualificate in ambito green. Dall’altro, sottolinea Palazzo Koch, è sempre più complicato trovare addetti su base domestica. Questo perché servono più specificità. “La quota di occupati nella produzione di beni e servizi ambientali espressamente volti a una riduzione delle emissioni è ancora bassa: nei quattro principali Paesi dell’area dell’euro era inferiore al 2% nel 2020 e solo in lieve aumento rispetto al 2014”, spiegano gli economisti di Via Nazionale. Il problema è che non si trovano, come sottolineato più volte da Via Nazionale. Il ruolo del Recovery non è minoritario. Secondo l’ultimo rapporto della Banca d’Italia, “gli investimenti pubblici forniranno un impulso potenzialmente rilevante alla transizione ecologica”. Nello specifico, “il Pnrr, da realizzare nel periodo 2021-26, destina a questo scopo il 37,5% delle risorse complessive”. Si stima, sottolinea Palazzo Koch, “che il Piano attiverebbe nel 2025, l’anno di massima spesa, circa 120.000 posizioni lavorative a tempo pieno limitatamente ai progetti con finalità verdi”. Di queste, circa 51mila sarebbero “riconducibili a misure per cui è esplicitamente indicato nel Piano un obiettivo di abbattimento delle emissioni climalteranti”. Il problema è che non ci sono lavoratori abbastanza formati per far fronte a questa domanda. Che improvvisa non è, visto che si discute del Recovery da un biennio. A livello generale, gli investimenti del Pnrr possono produrre una domanda aggiuntiva di 375mila occupati, il 79% del quale è previsto nel settore privato. A spingere sarà l’edilizia, dove secondo le stime di Banca d’Italia ci si attende una domanda di 95.600 lavoratori a regime. Più o meno un decimo in più rispetto al livello pre-Covid. Segue il segmento “Ricerca & sviluppo” con 16.600 nuovi occupati attesi entro il 2024. E poi i 12.700 stimati al 2025 per il comparto elettrotecnico. A fine 2022 le stime del Tesoro vedevano circa 150mila assunzioni l’anno nell’ambito del Recovery. Il risultato è molto lontano dalle previsioni, come rimarcato dagli analisti di Goldman Sachs. I quali, in una conferenza con gli investitori istituzionali di poche settimane fa, hanno sottolineato le inefficienze del Pnrr a partire dai gap occupazionali rispetto alla domanda. Per far fronte a questo divario, come ha rimarcato il governatore Ignazio Visco, bisogna “saper gestire i flussi migratori”. Nei prossimi anni ci sarà “una significativa spinta” dovuta alle migrazioni. Ed è per questo, secondo Visco, che è “necessario essere preparati”. Vale a dire, attendersi un ingresso organico e monitorato dei migranti. Un fenomeno necessario per la completa messa a terra del Pnrr. Droghe. Ivan, 14 anni, il più piccolo ospite di San Patrignano. “Oggi l’emergenza sono i ragazzi più giovani” di Stefano Landi Corriere della Sera, 5 giugno 2023 Viaggio nella comunità di recupero dove aprirà il terzo centro per under 18. A 45 anni dalla fondazione non c’è più solo la droga: alimentazione, bullismo, prostituzione. Così sono cambiate le dipendenze. Le storie e le testimonianze. San Patrignano (Rimini) Era il 1994. Qui dentro si stringevano 1.800 persone. La morte di Vincenzo Muccioli un anno dopo. Chiunque conosceva almeno una persona che si era bucata via la vita. Eroina, ovunque. La serie di Netflix ha riacceso i riflettori su San Patrignano, ha tramandato quel disastro sociale a giovani che non erano manco nati quando la nuvola tossica era la cartolina di una generazione travolta dalle sue fragilità. Questa è un’altra storia. Perché oggi sta succedendo qualcosa di molto diverso. Forse più sottile e per questo altrettanto difficile da gestire. Adolescenze diverse, uscite a pezzi da due anni di clausura pandemica. In 45 anni di storia, San Patrignano è diventato uno specchio delle curve buie della società. Oggi ti affacci e scopri facce pulite. Giovani. “Abbiamo appena finito i lavori per ospitare un terzo centro minori”, dice Antonio Boschini. Che qui entrò a pezzi sotto i colpi dell’eroina, per poi diventare responsabile terapeutico della comunità. A San Patrignano cresce la domanda di minorenni. Il loro è un percorso diverso. Arrivano paracadutati dall’alto. Non l’hanno scelto, anzi gli fa pure schifo, come a tutti i ragazzini quando parli di regole. Una sera quando “Sanpa”, intesa come la serie di Netflix, fu proiettata qui nel teatro interno, molti di loro la scambiarono per l’ennesima serie tv. Non hanno un settore in cui impegnarsi, ma possono andare a scuola la mattina, mescolandosi con il mondo esterno. Possono scrivere, sentire e vedere i genitori prima degli altri, anche se il rapporto con le famiglie non sempre è un affare. Il tentativo di fagli vivere in modo sano l’adolescenza. Che per molti significa un giro al centro commerciale o un panino da McDonald’s cetriolo compreso. Ivan sembra un bambino. Ha 14 anni, è il più piccolo di tutti qui dentro. Ormai ha imparato a misurare i secondi del fumo di ogni sigaretta. A Sanpa le avevano bandite. Poi nel 2006 hanno deciso di reinserirle dosate la mattina: 5 a testa e pedalare. Parla a testa bassa, ma non c’è vergogna, solo il bisogno di scimmiottare le pose larghe dei rapper di oggi. Ivan si è fatto solo qualche canna per gioco. La droga è un dettaglio. La sua è una carrellata di piccoli reati fatti per dimostrare qualcosa a qualcuno. È cresciuto a Bressanone in uno slalom tra assistenti sociali e forze dell’ordine: “Ho iniziato a stare in giro 6 anni fa quando hanno arrestato mio padre. La mia vita era andata: volevo quello che avevano altri e siccome i miei non me lo davano me lo prendevo”. “Fa curriculum la rapina, la misura cautelare. Sono cose che racconti - spiega Armando Compagnone, coordinatore degli educatori al centro minori -. Il modello degli adolescenti di oggi diventa il trapper che ostenta: per molti di loro farsi di droga è da sfigati, il figo è lo spacciatore che ci fa i soldi. Vogliono tutto subito: la felpa, le scarpe, l’apparenza, il dio denaro. Prima ragazzi così li prendevi alla quarta quinta sbandata, ora soprattutto in alcune regioni si riesce a intervenire prima”. Luigi, 16 anni, l’hanno acchiappato per il collo dopo che era finito a scommettere 20 mila euro. Blackjack, videopoker, Superenalotto. Ludopatia. I soldi da perdere se li procurava rubando. “Rapina a mano armata, furti in abitazioni. L’azzardo era un’ebbrezza. Qui ho scoperto di non essere l’unico, di non essere solo. Lavoro per superare la mia impulsività”. Quarant’anni dopo, c’è un enorme differenza con i giovani che arrivano in comunità. Oggi la droga è sovrapposta a molto altro. “Disturbi dell’alimentazione, bullismo, traumi di vario genere - continua Boschini. Il problema una volta era evidente. Oggi molti negano che esista: c’è l’illusione che la cocaina, che dilaga nella società, si possa gestire. Le sostanze colpiscono dove non ci sono alternative”. Sono soprattutto le ragazze qui ad aver perso la sfida con le droghe. Michelle sta sfiorando i 18 anni. È qui da due: l’ha deciso con suo padre, che anni fa era stato salvato dall’eroina. “A 13 anni mi prostituivo per trovare i soldi per comprarmi il crack. Ho vissuto mesi di spaesamento, ora lavorare in cucina mi insegna l’autocontrollo. Ho imparato la cura di me stessa, iniziato a volermi bene”. Ginevra invece sarebbe rimasta nella sua Albania dove viveva con mamma, sorella e con i nonni. “Mio padre era venuto in Italia, aveva problemi con la legge. Quando ci siamo trasferiti qui la situazione è precipitata. A casa era un incubo: alcol, violenze, mamma con gli occhi viola. Una sera sono scappata per fuggire dai suoi pugni. Ho iniziato rubare per le canne, la ketamina, la cocaina”. Iniziano le visite dei carabinieri, degli assistenti sociali. Nell’agosto del 2021, San Patrignano. “Ho superato questo cancello che erano le 11,25, pensavo di entrare in carcere. La convivenza con altre ragazze, per me cresciuta unica donna in mezzo a compagnie di maschi, mi terrorizzava”. Oggi tira di boxe, gioca a pallavolo, sta per iniziare un corso da parrucchiera. “Il confronto con altre persone che hanno visto in faccia la sofferenza ti cambia, la rabbia diventa motore positivo”. Il tempo oggi è strano. C’è sole, poi diluvia. Intorno tutta la luce possibile, i vigneti che ormai producono 500 mila bottiglie l’anno. Anche questo è uno specchio dell’adolescenza. Picchi, poi tonfi rumorosi. Il nuovo modulo abitativo è pronto ad ospitare una ventina di ragazzi in più. C’è il biliardo, la palestra per gonfiare i pettorali, la lavanderia autogestita dai ragazzi. Un esperimento sociale. La pizza del mercoledì, il pingpong. Tutt’intorno quel grande vuoto dentro che non lo butti giù manco se prendi la rincorsa. Che è un po’ come l’inversione a U che sta cercando di costruirsi Davide, adesso che dentro ha soffiato sulle 18 candeline. Riavvolge il nastro: “Una ragazza più grande di me, persi la testa. Iniziai a frequentare giri più grandi”. Il rapporto tossico fa saltare la bussola. È pensare che Davide con la palla in mano aveva scalato le giovanili fino ad arrivare a giocare il basket quello vero. In provincia, poi la tappa rovinosa a Milano. Un posto dove se già barcolli a quell’età non ti aiuta. “La ketamina ha azzerato tutto: non mangiavo più, non esistevo”. La denuncia della madre. Un uragano di lacrime. Ma i pezzetti del puzzle stanno provando a tornare a posto. “Mio padre ogni giorno mi viene a prendere per portarmi a scuola. All’inizio soffocavo. Poi abbiamo trovato le parole. Così da pulito non lo ero mai stato. La felicità non è più così lontana da qui”. Azar Nafisi: “A Teheran e a Kiev la stessa battaglia. I diritti umani sono universali e vinceranno” di Francesca Paci La Stampa, 5 giugno 2023 L’autrice di “Leggere Lolita a Teheran”: “La rivolta contro il regime continua, usa la fantasia contro la brutalità. Ora però tocca all’Occidente fare la sua parte, bisogna mettere sotto pressione le finanze dei Pasdaran e le tivù”. Le notizie che arrivano dall’Iran sono contraddittorie, si muore sulla forca e si balla per le strade. Azar Nafisi sente, in cuor suo, che questa è la volta buona. Deve esserlo. Proprio ieri l’Alto rappresentante dell’Ue Josep Borrel ha affidato a Twitter l’auspicio che dopo la liberazione di tre europei con doppia cittadinanza detenuti a Teheran il regime possa “rilasciare tutti i suoi cittadini” ma la grande scrittrice di cui Adelphi ha da poco tradotto in Italia “Quell’altro mondo” non crede nella presunta razionalità della teocrazia sciita. Semmai ci abbia creduto, racconta in questa intervista a La Stampa alla vigilia, non è più tempo: oggi l’iniziativa è delle ragazze, delle piazze, del popolo. Donna, vita, libertà. Come vede la rivoluzione iraniana oggi che la repressione incalza, il boia lavora senza tregua e le proteste di piazza appaiono più sporadiche, meno partecipate? “L’Iran si sta preparando un cambio di scena. Le manifestazioni sono una delle tante forme della protesta ed era prevedibile che non fossero sostenibili a oltranza. Negli ultimi mesi però, sono accadute un paio di cose significative. La prima è che, nonostante la repressione, gli iraniani non sono tornati tra le mura domestiche: ho ricevuto un video di due giorni fa che mostra tante persone ballare e cantare davanti a un negozio di Teheran chiuso perché ammetteva clienti senza l’hijab. Succede spesso, si comincia a ballare e a cantare in modo estemporaneo, è la metafora di come rivoluzione prenda strade diverse, creative, si allarghi a nuovi segmenti della società, i lavoratori, le minoranze, le vecchie generazioni alla ricerca di un ruolo a sostegno dei giovani. La seconda riguarda le crepe all’interno del regime, quasi ogni giorno si sente una voce critica nei confronti della Guida suprema Ali Khamenei. Ci vuole tempo, dobbiamo guardare al lungo periodo. Non sarà domani ma arriverà il giorno in cui il malcontento sociale dilagante avrà la meglio sul regime” In queste ore Khamenei rilancia il sospetto che “think tank occidentali” spingano la rivolta per rovesciare il governo. Ci risiamo... Ride. “La sola lingua che conoscono gli ayatollah è quella della minaccia, della violenza. Minacciano, ma non hanno la soluzione alla crisi che è esplosa nel Paese”. Gli attivisti spiegano che la rivoluzione è cambiata. Dicono che le donne non hanno più paura di andare in giro senza velo. Che informazioni ha lei? “A quanto mi raccontano è così. Da un lato le iraniane e gli iraniani sono frustrati, arrabbiati, oltraggiati. Dall’altro però, respirano la speranza di un cambiamento importante in corso, la società si è mossa, le donne lottano in questi mesi come lottavano nei giorni successivi alla rivoluzione del 1979, quando, già consapevoli, contestavano Khomeini urlando che la libertà non era ne occidentale né orientale. Il malcontento è rimasto sottotraccia per decenni. Ai miei tempi mettevo un po’ di rossetto e lasciavo uscire qualche ciocca di capelli dall’hijab per dire che non ero proprietà del regime, e come me facevano in molte. Ma la cosa restava lì. Ora siamo oltre, rifiutare il velo in pubblico è atto politico collettivo, è la libertà di scegliere”. La Repubblica islamica è sulla difensiva e picchia duro. Eppure all’esterno pare aver rafforzato la sua posizione, aggiungendo all’alleanza con la Russia una nuova amicizia con la Cina e la riappacificazione con l’Arabia Saudita. È così? “È un fatto che il regime sta tessendo la sua tela geopolitica nella regione. Ma più stringe patti e più cresce l’odio degli iraniani per il denaro investito in cause lontane, la Siria, lo Yemen, la guerra di Putin contro l’Ucraina. La palla è ora nella metà campo delle società democratiche: scenderanno a compromessi con l’Iran o lo incalzeranno sulle violazioni dei diritti? Sarebbe un errore credere che la politica estera di Teheran possa frenare l’onda popolare”. Come sono cambiate le donne iraniane da quando ha lasciato l’Iran? “Le donne delle nuove generazioni sono intrepide, stanno concretizzando il nostro sogno di passeggiare per le strade di Teheran senza velo. Per questo il regime ha paura: se si trattasse di combattere un’organizzazione politica sarebbe facile arrestarne i leader e chiuderla lì, ma qui si tratta di contrastare milioni di donne e di uomini che dicono no con una lingua universale e non ideologica. La nuova rivoluzione iraniana prova al mondo che i diritti umani non sono appannaggio delle democrazie ma sono universali. Il popolo iraniano da una parte e quello ucraino dall’altra difendono in questi mesi in modi diversi il diritto di qualsiasi popolo a rivendicare la libertà”. Come sono cambiati gli uomini in Iran, quelli che oggi vengono impiccati perché lottano insieme alle compagne? “Dimentichiamo troppo spesso gli iraniani, quelli che, contrariamente a quanto vorrebbe la teocrazia, affiancano le donne anziché pretendere di dominarle. Ricordo una campagna di qualche anno fa in cui le donne si svelavano e gli uomini si velavano. Non stiamo assistendo a una rivoluzione di genere, è la vita. Le donne sono iconiche, ma non ci sarebbe questo movimento senza l’altra metà della popolazione. E cantano, e ballano”. L’opinione pubblica internazionale è incostante. Cosa potrebbe fare concretamente l’Europa per sostenere la sfida del popolo iraniano in modo che non esca dai radar? “Ci sono tante strade, una è certamente quella di mettere sotto pressione finanziaria la struttura del regime, a partire dalle Guardie della Rivoluzione per arrivare alle tv governative. C’è poi il supporto mediatico. Mia madre mi diceva sempre: “Racconta al mondo cosa ci succede, il regime vuole che gli iraniani si sentano isolati”. Non dovreste distrarvi perché più democrazia in Iran significa più democrazia anche per voi, la destabilizzazione regionale promossa dall’Iran riguarda tutti, e non solo la regione. E mi dispiace ammettere che non è più opportuno cercare l’accordo sul nucleare, quel tempo è finito”. A gennaio La Stampa ha raccolto quasi 400 mila firme per chiedere la fine delle esecuzioni in Iran e la liberazione degli attivisti. Cosa può fare oggi l’Italia? “La campagna promossa da La Stampa è stata utilissima per fare sentire l’Italia vicino agli iraniani. I media possono ancora avere un effetto sull’opinione pubblica e possono mettere sotto pressione la politica, anche in Europa, con specifiche domande. Penso per esempio all’ipotesi di inserire i pasdaran nella lista delle organizzazioni terroriste”. Cosa si aspetta dal regime iraniano adesso? “Proveranno ad aumentare la repressione perché hanno il terrore delle riforme, sanno che se dessero un’unghia gli iraniani vorrebbero di più. Al punto in cui siamo le riforme sono impossibili”. Chi pensa potrebbe guidare un’ipotetica transizione? “La transizione sarà difficile, nessuno la sottostima. Ma ci sono persone dentro e fuori l’Iran che stanno riflettendo su questo tema. Bisogna evitare l’estremismo opposto a quello del regime, che pure è un rischio. Quando penso al mio Paese penso al Sudafrica della riconciliazione post apartheid. Non abbiamo ancora un Mandela ma ci sono persone interessanti”. Un potenziale intervento americano è auspicabile o potrebbe essere controproducente per la rivoluzione? “C’è differenza tra interferenza e sostegno. Gli Stati Uniti dovrebbe pensarci. Gli iraniani chiedono loro di schierarsi con la società democratica ma non a bordo dei jet. Alcuni a Washington credono, paternalisticamente, che non tutti i popoli siano pronti per la democrazia. Basta guardare a come sono stati abbandonati gli afghani. Ecco, vorremmo che l’America e il mondo ci sostenessero credendo che noi iraniani meritano di essere liberi”. Che errore sostenere il regime di Tunisi di Patrick Zaki* La Repubblica, 5 giugno 2023 Nel 2011 la Primavera araba è partita dalla Tunisia, prima scintilla della rivoluzione. Io ero al secondo anno di università e ricordo che, subito dopo Natale, prima della sessione di esami, i miei coinquilini sono rientrati in fretta a casa dicendo di accendere subito la tv, perché la politica della regione stava cambiando. Emozionati, con gli occhi fissi allo schermo, proiettavamo ciò che stava accadendo laggiù sul nostro Paese, rendendoci conto che è un falso mito che i leader della regione araba cambino solo quando muoiono. La rivoluzione tunisina è stata di ispirazione a tutti i giovani della regione e in tema di rivoluzioni e di primavera araba il nostro riferimento resta sempre la Tunisia. Dopo i fatti tunisini l’idea della rivoluzione ha spaventato altri Paesi arabi, in particolare a seguito di decenni di dittature stabili, oltre al fatto che alcuni sono tuttora soggetti a un sistema monarchico, il che può farci capire quanto il pensiero di una rivoluzione sia remoto per questa regione. Ciò che è accaduto in Tunisia è importante perché là sono riusciti a interrompere il ciclo dei regimi immutabili, dimostrando che la possibilità di cambiare esiste, se vogliamo un vero cambiamento che sia di ispirazione e trasferisca ad altri Paesi la fiamma della rivolta. Non si tratta solo della rivoluzione, ma anche di quanto accaduto in seguito. Dopo la rivoluzione la società tunisina aveva registrato molti progressi in ogni campo e credo che la Tunisia sia il Paese della regione in cui la rivoluzione ha ottenuto il massimo successo, anche se il cambiamento in senso progressista e democratico è stato temporaneo. Io personalmente ricordo benissimo il video dell’uomo che esultava in strada per la fuga del dittatore al potere, Ben Ali. All’epoca la Tunisia era vista come un faro di speranza per il progresso e le libertà ad ogni livello per la generazione araba post-rivoluzionaria. Le aspirazioni della rivoluzione tunisina sono svanite lasciando dietro di sé un paesaggio politico contrassegnato dal governo di un solo uomo e da instabilità. Si tratta di una enorme battuta di arresto non solo per la Tunisia, ma ovunque per la gioventù araba che aveva sperato nel cambiamento democratico e in una società più inclusiva. Purtroppo l’avvento di Kais Saied ha infranto quei sogni. Un tempo la Tunisia era considerata un faro di speranza, ma oggi il presidente dà dei criminali violenti agli abitanti dell’Africa sub sahariana, con l’implicito intento di cambiare la composizione demografica del Paese. Questa svolta è un cupo promemoria di quanto la Tunisia abbia deviato dal percorso originale dopo la rivoluzione del 2011. Nel 2019, il popolo tunisino ha eletto presidente Kais Saied sulla base della sua promessa di lotta alla corruzione e lui e il primo ministro Hichem Mechichi hanno compiuto i primi passi verso questo obiettivo. Tuttavia, i tunisini rimangono frustrati per la mancanza di trasparenza e il costo elevato che la corruzione impone all’economia del loro Paese. Per avere una visione più chiara della situazione, è necessaria un’analisi del panorama della corruzione tunisina. All’annuncio della vittoria elettorale di Kais Saied, mi è stata chiara la regressione in atto in Tunisia in termini di democrazia, trasparenza e sviluppo. Per tutta la campagna elettorale Saied ha espresso opinioni discutibili, che vanno dal sostegno alla pena di morte alla difesa del diritto ereditario rispetto al diritto civile. Era inoltre preoccupante la sua posizione discriminatoria nei confronti della comunità Lgbtq+. Questa analisi ha rivelato i potenziali ostacoli allo sviluppo che attendevano la Tunisia sotto la presidenza di Saied. Erano tutti segnali che la Tunisia si trovava sull’orlo di una nuova fase dittatoriale e conservatrice dopo tutti i passi fatti nel tentativo di democratizzare lo stato. Non c’è voluto molto prima che Kais mostrasse il suo vero volto e i suoi piani per cancellare qualunque ipotesi di democrazia. Dopo soli 8 mesi di governo Kais Saied ha aperto una crisi politica con una mossa audace, destituendo cioè il primo ministro Hichem Mechichi, sospendendo le attività parlamentari e assumendo nuovi poteri giudiziari. Centralizzando tutti e tre i poteri statali, Saied ha effettivamente assunto il pieno controllo del governo, portando gli osservatori sia nazionali che internazionali ad accusarlo di autogolpe. Questa mossa senza precedenti ha scatenato polemiche e alimentato preoccupazioni sul futuro della democrazia tunisina. A partire dalle ultime elezioni presidenziali è evidente in Tunisia una preoccupante deriva verso la dittatura. La situazione è peggiorata nel febbraio 2023 con la più grande ondata di arresti da anni a queste parte, che ha coinvolto personalità di spicco della politica e degli affari. Kais Saied ha persino arrestato un membro dell’Unione Generale dei Lavoratori Tunisini, sindacato che conta oltre un milione di iscritti, e ha dato il via a una dura repressione contro gli oppositori del suo governo. Ne è esempio l’arresto del direttore di Radio Mosaïque, nota emittente radiofonica indipendente che ha osato criticare il presidente. Questo, a mio avviso, a dimostrazione della preoccupante tendenza alla soppressione del dissenso e alla limitazione della libertà di espressione in Tunisia. Nel discorso registrato del 24 febbraio 2022, il presidente Saied ha accusato le organizzazioni della società civile di essere al servizio degli interessi di potenze straniere e di intromettersi negli affari politici della Tunisia. Ha poi annunciato l’intenzione di vietare ogni genere di finanziamento straniero a favore di tali gruppi. Questa mossa rientra nell’analisi e nella strategia del presidente Saied per tutelare la sovranità della Tunisia mantenendola indipendente da influenze esterne. Un discorso che fa capire quale sia l’approccio di Saied nei confronti dei diritti umani e della libertà di opinione. L’analisi di questo discorso riflette l’approccio di Saied ai diritti umani e alla libertà di opinione nella regione araba. La proposta di Saied di presentare l’opposizione, qualunque essa sia, come un complotto finanziato dall’Occidente è specchio della strategia dello spaventapasseri comune nell’area Mena. Tuttavia, si tratta di una percezione irrealistica e lontana dalla verità. Più che tentare di distruggere le terre arabe, i Paesi occidentali puntano alla stabilità nella regione, anche se i regimi non sono democratici e violano i diritti umani, per proteggere i propri interessi e alleviare il peso dell’immigrazione da quei Paesi. In Tunisia, si discute di una eventuale norma di legge potenzialmente in grado di ostacolare la creazione di organizzazioni civili e istituzioni per i diritti umani. La bozza di questa legge è trapelata dopo i recenti tentativi del presidente Saied di indebolire la società civile tunisina, che includono l’arresto di politici dell’opposizione e limitazioni nei confronti dei membri della società e delle loro attività. Dopo aver riflettuto, ho compreso l’importanza di raccogliere informazioni da operatori della società civile tunisina appartenenti a diverse istituzioni al fine di ottenere un’analisi approfondita dello stato attuale e delle difficoltà in cui versa la società civile tunisina. Mohamed Mostafa, direttore di una organizzazione della società civile tunisina ha dichiarato a Repubblica: “Certo, è in corso un attacco alla società tunisina iniziato quando il presidente tunisino ha mosso accuse di tradimento e collusione contro tutti gli operatori della società civile”. Mostafa ha proseguito confermando che il partito politico che appoggia il presidente tunisino sostiene questa idea e che ha addirittura pubblicato un rapporto sulle violazioni compiute dalle istituzioni della società civile tunisine. L’attacco alla società civile in Tunisia, come confermato da Asrar Ben Jouira della Fondazione Tunisina per l’Intersezionalità Femminista, si basa principalmente sul sospetto nei confronti dei finanziamenti dall’estero. Kais Saied e i suoi sostenitori ritengono che questi fondi siano mirati a cambiare l’identità della comunità arabo-islamica attraverso attività di patrocinio di lotte come quella per la parità nel diritto ereditario e le campagne per la tutela dei diritti Lgbtq+. Inoltre tali organizzazioni sono reputate responsabili dell’ingresso di africani subsahariani in Tunisia, con l’intento di alterare la composizione demografica della società. L’attacco si estende alle organizzazioni che si oppongono all’autorità statale in casi giudiziari legati alla cospirazione contro la sicurezza dello Stato, e i sostenitori del presidente lo esortano a sciogliere associazioni e organizzazioni e a interromperne i finanziamenti. Secondo Asrar Ben Jouira, il presidente Saied ha fatto riferimento alla questione in vari discorsi e dichiarazioni. Secondo il ricercatore tunisino Gilan Jelassi, in Tunisia la società civile è sotto attacco a partire dalla dichiarazione dello scioglimento del Parlamento nel mese di luglio. Mostafa e Asrar confermano che da lì è partita una campagna più ampia contro la società civile e i suoi operatori in tutto il Paese. Ma questi attacchi non sono passati inosservati alle autorità. Gilan Jelassi ha avuto difficoltà a rinnovare il passaporto con conseguente limitazione della sua libertà di movimento. Anche Asrar ha subìto persecuzioni ed è stata accusata di vari reati, come offesa a pubblico ufficiale e impedimento alla libera circolazione, accuse che comportano pesanti multe e la potenziale condanna fino a dieci anni di carcere. Le accuse derivano dall’aver organizzato una dimostrazione di protesta contro il referendum sulla costituzione tenutosi il 18 luglio 2022. Questa analisi evidenzia una preoccupante tendenza a osteggiare la società civile e a sopprimere le voci che invocano il cambiamento. A detta di Asrar e colleghi la situazione in Tunisia si è fatta negli ultimi tempi sempre più pericolosa. Le banche del Paese impongono restrizioni alle transazioni che concernono le organizzazioni della società civile. Di conseguenza Asrar e la sua fondazione hanno deciso di spostare la sede in un luogo più sicuro, preoccupati delle possibili violazioni delle libertà civili. Hanno la sensazione che la comunità internazionale taccia su questa situazione il che è di incoraggiamento ai responsabili del colpo di stato. Alissa Pavia, Associate Director presso l’Atlantic Council di Washington, afferma che l’Italia sta facendo finta di non vedere il regresso democratico in Tunisia. Le costanti pressioni italiane sul Fmi per la concessione di un nuovo prestito alla Tunisia hanno destato perplessità data la situazione politica attuale del Paese e la crescente retorica anti immigrazione promossa dal presidente Saied negli ultimi mesi. Asrar ha spiegato che la priorità italiana al momento attuale è la protezione delle frontiere dal flusso di immigrati, soprattutto quelli provenienti dall’Africa subsahariana, e si riflette nel sostegno a dittatori come Kais Saied, che propagano idee fasciste e razziste con il pretesto di contrastare l’alterazione della composizione demografica tunisina. In realtà, tali azioni mirano a compiacere i Paesi europei, le cui politiche sono ora contrarie all’immigrazione. Inoltre, l’Italia ha ignorato il problema delle persecuzioni nei confronti dei politici e del loro coinvolgimento in cospirazioni fittizie. Come evidenzia Asrar, l’Italia si è rivelata un fermo alleato del dittatore tunisino, a dispetto di tutti i suoi crimini politici e della soppressione della democrazia. A mio avviso l’Europa si è dimostrata complice della situazione in corso in Tunisia, ignorando le numerose violazioni commesse dal presidente Kais Saied sia a livello istituzionale che legislativo. Le azioni del presidente costituiscono un chiaro tentativo di minare i pilastri della democrazia nel Paese. Ancor più preoccupante è che i Paesi europei siano pronti a offrire sostegno economico a Saied, senza riconoscere o affrontare i problemi in questione. Nei prossimi giorni, assisteremo a una preoccupante tendenza da parte europea ad avallare i programmi antidemocratici di Saied, senza invocare il ripristino della democrazia e della libertà di parola, due componenti cruciali della rivoluzione tunisina. *Traduzione di Emilia Benghi In carcere per un fiore. A Hong Kong è vietato ricordare Tiananmen di Antonello Guerrera La Repubblica, 5 giugno 2023 Nell’anniversario della strage del 1989 arrestati dirigenti e attivisti dell’opposizione. Alexandra Wong, anzi Nonna Wong come affettuosamente ribattezzata, porta un mazzo di garofani, rose e gigli nei pressi di Victoria Park, dove per decenni a Hong Kong si sono tenute le manifestazioni in ricordo del massacro di centinaia di studenti e attivisti democratici a piazza Tiananmen a Pechino, il 4 giugno 1989. Vietato. La polizia locale, in allerta da giorni, si porta via la 67enne Wong, già arrestata nel 2019 per aver sventolato una bandiera britannica contro le nuove leggi liberticide di Pechino e poi scomparsa per oltre un anno tra carceri cinesi, deportazioni e “corsi di rieducazione”. Oltre a Nonna Wong, gli agenti di Hong Kong hanno fermato almeno altre 12 persone per “sedizione” e “pericolo pubblico”, secondo la Bbc: Chan Po Ying, veterana attivista per la democrazia a capo della Lega dei socialdemocratici, anche lei per due fiori. Mak Yin Ting, ex capo della Hong Kong Journalists Association. Poi un uomo con in mano una copia di “35th of May”, una rappresentazione teatrale sulla strage di Tiananmen. Una donna vestita di giallo, colore oramai proibito perché quello della “rivoluzione degli ombrelli” del 2014. Un anziano con una candela al Led, come quelle delle manifestazioni pro libertà e anti Pechino. Un vecchio senza nome, anonimo come il “tank man”, il leggendario uomo con le buste della spesa contro i carri armati del regime cinese 34 anni fa, di cui non si è saputo mai più nulla. Eppure la Cina aveva promesso a Londra di rispettare il teorema “un Paese, due sistemi”, ovvero la democrazia e la libertà di Hong Kong, almeno fino al 2047, dopo il passaggio dell’ex colonia britannica a Pechino nel 1997. Menzogne. Tre anni fa la Cina ha imposto su Hong Kong una nuova legge “sulla sicurezza nazionale” che soffoca ogni dissenso contro il partito comunista e il regime cinese, tanto che Londra ha iniziato a rilasciare visti facili per coloro che vogliono riparare nel Regno Unito. L’anno scorso è stata rimossa dall’università di Hong Kong la statua “Pillar of Shame” in ricordo delle centinaia, o forse migliaia di vittime del 4 giugno 1989. Oggi, invece, 6mila poliziotti hanno perquisito preventivamente cittadini e giornalisti in tutti i punti nevralgici della città. Le librerie sono state ripulite da ogni libro su Tiananmen. “Il regime vuole che dimentichiamo”, ha detto alla Reuters un residente, Chris To, 51 anni, arrivato a Victoria Park in t-shirt nera, “ma non possiamo dimenticare... è la Cina che vuole cancellare la Storia. Dobbiamo usare i nostri corpi e parole per far sapere cosa sta succedendo qui”. Chow Hang-tung, attivista del movimento The Alliance, ha annunciato su Facebook uno sciopero della fame di 34 ore. Brandelli di resistenza. Poche stelle in un cielo sempre più tenebroso sopra Hong Kong, da quando nel 2020 è iniziata la stretta liberticida. Molti giovani e attivisti sono fuggiti, partiti e sindacati sono stati sciolti. Mentre a Tiananmen oggi è stato un giorno come gli altri. Il massacro del 1989 e la democrazia di Hong Kong si ricordano altrove: oltre trenta città in Europa, Nordamerica e Australia. E poi ovviamente Taipei, a Taiwan, che ora teme di subire lo stesso destino. Oggi in centinaia si sono riuniti nella “Piazza della Libertà” della capitale. Il vicepresidente William Lai ha detto: “Democrazia contro autoritarismo: ecco la differenza tra Taiwan e la Cina”. Chissà per quanto.