In quel ragazzo che ha fatto del male alla professoressa io mi rivedo Ristretti Orizzonti, 4 giugno 2023 L’anima del progetto che mette in dialogo le scuole e il carcere mira a prevenire episodi come quello di Abbiategrasso, dove uno studente, armi in pugno, si è scagliato contro la professoressa che era lì per lui. Era lì per lui. Per prepararlo ad affrontare il futuro, per trasmettergli conoscenze che lo avrebbero aiutato a superare le insidie che la vita ti presenta quando il periodo della spensieratezza lascia spazio al mondo degli adulti. Era lì per lui, e sono sicuro che quella professoressa tornerà al suo posto per tutti gli altri suoi ragazzi, perché credo che, nonostante le difficoltà proprie della sua professione, non li abbandonerà. Io, invece, ero come lui, un ragazzino ribelle, violento, aggressivo, sprezzante delle regole e totalmente incosciente del fatto che tutte quelle persone che erano lì per me, come i professori, gli allenatori e i famigliari, cercavano in ogni modo di indirizzarmi verso lo studio, la cultura e la conoscenza. Oggi, anche se l’ho capito molto tardi, non riesco a fare a meno di pensare a tutti quei ragazzi in difficoltà, come il protagonista di questa drammatica vicenda, e li esorto, attraverso queste poche righe che voglio scrivere dal carcere, a chiedere aiuto e a parlare di tutto quello che provoca in loro quel malessere che sfogano poi con questi gesti di estrema violenza. Ero come loro “ieri”. Oggi sono un condannato all’ergastolo che, grazie allo studio, alla scuola e alla cultura, cerca di adoperarsi per il bene di quei ragazzi, offrendo loro la testimonianza di uno che si è perso i migliori anni della propria vita, passando da un carcere all’altro a causa di un’infinità di scelte sbagliate e atteggiamenti che, con il passare del tempo, mi hanno portato ad alzare il rischio e la posta in gioco, fino a farmi perdere la mia stessa vita, causando un dolore immenso e irreparabile a tantissime persone. E’ per questo che continuerò a seguire quel bellissimo progetto che la Redazione di Ristretti Orizzonti mi ha fatto conoscere, continuando ad invitare le istituzioni a rendere strutturale e obbligatoria per tutti gli studenti una partecipazione ad incontri con chi, nel corso della propria adolescenza, si è reso protagonista di comportamenti devianti. Tali incontri favoriscono un dialogo ed un confronto diretto, permettendo in questo modo ai ragazzi di conoscere e di “toccare con mano” le conseguenze reali che determinati atteggiamenti comportano e che in particolari situazioni possono renderli partecipi di atti irreparabili. Concludo questo scritto augurandomi che le istituzioni non si facciano prendere la mano, strumentalizzando un dramma e punendo severamente quel ragazzo, e spero che il ministro Valditara incontri anche lui, porgendo la mano a un adolescente che, come tanti altri, ha bisogno di aiuto. *Testo di un giovane ergastolano, redattore di Ristretti Orizzonti “Bisogna aver visto”. Visitare i carcerati è un atto politico di Andrea Pugiotto L’Unità, 4 giugno 2023 L’esortazione di Piero Calamandrei (1949) vale ancora oggi. Ho varcato la soglia di molti penitenziari: per congressi, iniziative, esami universitari. Ma non ero mai realmente entrato in un carcere, nelle sezioni, nelle celle. Un’esperienza che, da giurista, mi ha messo a dura prova. 1. Ciò che non si vede sembra non esistere. Quanto si riesce a nascondere, quindi, è come non fosse mai accaduto. Ecco perché “visitare i carcerati” è un atto politico, non solo un’opera di misericordia corporale. Lo sapeva bene Piero Calamandrei, che dedicò un intero fascicolo della rivista Il Ponte alla condizione carceraria, in sostegno all’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle carceri e sulla tortura. Era il 1949. La sua esortazione (“Bisogna aver visto”) vale ora come allora: solo visitandolo, il carcere smette di essere un mondo a parte per tornare ad essere parte del nostro mondo, sottoposto alle stesse garanzie costituzionali e internazionali. Il non guardare, invece, favorisce il buio della ragione e la scomparsa di ogni umana solidarietà: “siamo ciechi perché siamo morti, oppure, se preferisci che te lo dica diversamente, siamo morti perché siamo ciechi, il risultato è lo stesso” (José Saramago, Cecità). 2. In quanto fatto sociale, l’esecuzione penale non è monopolio degli operatori penitenziari, ma va condivisa. Premier, ministri, sottosegretari, parlamentari, consiglieri regionali, membri del CSM, possono visitare le carceri senza preavviso: a farlo, sono troppo pochi. I giudici costituzionali lo fanno da qualche anno, in attesa che a entrarvi sia finalmente la Costituzione. Dovrebbero farlo i magistrati di sorveglianza, tutti e non solo alcuni. Devono farlo, per statuto, il Garante nazionale e i garanti territoriali dei diritti dei detenuti. Dei 365 giorni all’anno, almeno metà sono trascorsi in carcere da Nessuno Tocchi Caino: autorizzato dal DAP, nel 2023 ha intrapreso un tour che ha già toccato 60 istituti di pena. Vi ho preso parte anch’io, ed era la prima volta. In passato, ho varcato la soglia di molti penitenziari: per congressi, iniziative, esami universitari. Ma non ero mai realmente entrato in un carcere, nelle sezioni, nelle celle, con il loro corteo di odori, rumori, colori, luci (artificiali, per lo più), voci e volti. A seguire, condivido qualche appunto sparso di questa istruttiva esperienza. 3. Nonostante la professionalità di agenti e operatori penitenziari (“facciamo i salti mortali”), il carcere è un percolato di sofferenze. È un istituto di pena da espiare: genitivo e infinito ne rivelano l’autentica natura. La detenzione, infatti, è una punizione corporale. Si abbatte su corpi costretti in spazi angusti, dove coabitano sovraffollamento e solitudine. Privati di sessualità, consumata in forma solitaria o promiscuamente nascosta. Usati come carta pergamena o campo di battaglia: il tatuaggio e l’autolesionismo sono i codici comunicativi della galera. Distesi in cella a fissare il soffitto o la tv. Trascinati, avanti e indietro, per il corridoio della sezione. Maniacalmente scolpiti nella domestica palestra penitenziaria. Malati in misura incompatibile con il carcere dove pure, inspiegabilmente, sono reclusi. Fino all’acuzie di corpi sopraffatti che si danno la morte (due, in pochi anni, nel carcere che ho visitato). Il dedalo di corridoi, scale, piani, e le matrioske di cancelli e blindati, ricordano le carceri d’invenzione che Giovanni Battista Piranesi incise come labirinti, in cui spazio e tempo sono dimensioni irrimediabilmente falsate: il primo si restringe, il secondo si dilata, entrambi oltremisura. Dentro o fuori, è comunque brutto a vedersi, il carcere: per questo è dislocato oltre l’orizzonte visivo dello spazio urbano. Così confinato, ci è più agevole proiettarvi dentro i lati oscuri che rifiutiamo in noi stessi. Attiviamo cioè processi psichici illusoriamente difensivi, dato che rimozione e proiezione sono sempre sintomi di un problema irrisolto. 4. Anagrammato, reo si ricompone in ero. Il gioco di parole rivela l’impossibilità di inchiodare per sempre il detenuto al reato commesso: ecco perché le pene devono tendere al suo recupero sociale. Ma se questo è il loro fi ne costituzionale, il carcere mi sembra il luogo meno adatto a realizzarlo: com’è possibile reinserire, escludendo? Servirebbe un’offerta trattamentale, che qui è invece carente e solo occasionale. Sulla necessaria relazione con il mondo di fuori prevale, per quanto possibile, l’assistenza dietro le sbarre (di prossimità, ricreativa, sanitaria, soprattutto psichiatrica). Mi aggiro per le sezioni: isolamento, giudicabili e appellanti, definitivi, protetti, AS1 e AS2 (alta e media sicurezza). Osservo. Poi ricordo: “Le pene possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono limitarsi, senza altri scopi, a contenere il condannato per il tempo necessario all’esecuzione della pena”. È la formulazione capovolta dell’art. 27, comma 3, Cost. provocatoriamente proposta da Alessandro Margara, che il carcere l’ha conosciuto bene (come giudice di sorveglianza, capo del DAP, garante dei detenuti). Ascolto i racconti dei reclusi. Comprendo quanto sia per loro essenziale “la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la libertà individuale”, come scrive la Consulta (sent. n. 186/2018). Ma è tra le poche cose che riscontro della giurisprudenza costituzionale sul finalismo penale. Da giurista, sono messo a dura prova. So bene che il fatto, per quanto ripetuto, non può farsi norma e scalzare la regola costituzionale, che ne è il parametro di giudizio. Eppure, qui dentro, la gerarchia delle fonti del diritto sembra un’ineffettiva costruzione artificiale. 5. Servirebbe uno sforzo di immaginazione. Non basta, infatti, cancellare la pena di morte, né superare la pena fi no alla morte (l’ergastolo, comune e ostativo). È il carcere che andrebbe abolito, perché laddove c’è strage di legalità c’è anche strage di vite umane (ottantacinque suicidi nel 2022, mai così tanti). Ma un dispositivo abolizionista implica tempi biblici ed esiti incerti, anche solo ad assumerlo come orizzonte la cui linea orienta, ma non è mai raggiungibile. Il carcere, però, si può svuotare il più possibile, riducendolo a extrema ratio. Come? Abbandonando ogni automatismo nel ricorso alla leva penale. Attuando una politica di radicale depenalizzazione. Recuperando gli strumenti di clemenza collettiva. Spodestando dal trono la detenzione, sostituendola con pene alternative (come ha iniziato a fare la riforma Cartabia). Ricalibrando le pene edittali, a cominciare dalla perpetuità dell’ergastolo. Riformando le leggi carcerogene in materia di immigrazione e di sostanze stupefacenti. Tutto ciò non è nell’agenda politica di nessuno. Men che meno del Governo, che si professa “garantista nel processo, giustizialista nell’esecuzione della pena”. Per la doxa dominante, poi, il carcere è sinonimo di giustizia, dunque più il carcere è duro più giustizia è fatta: il doppio binario penitenziario (con i suoi 4-bis e 41- bis) è il risultato di questa equazione. 6. In un contesto così compromesso, “visitare i carcerati” resta un essenziale presidio di legalità. Dal 2016, “monitorare per prevenire” è la funzione istituzionale del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Dopo un lavoro pluriennale eccellente, i tre membri del suo collegio operano - da marzo - in regime di prorogatio. Il 15 giugno presenteranno la loro ultima relazione al Parlamento: come le precedenti, sarà un prezioso “manuale di istruzioni per carcerieri, carcerati e cittadini o stranieri in provvisoria libertà” (Adriano Sofri). La nuova terna verrà indicata dal Consiglio dei ministri, previo parere delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato, e nominata con decreto dal Capo dello Stato. La scelta andrà fatta tra persone che “assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani” (art. 7, decreto legge n. 146 del 2013) È una concertazione in cui ciascuno ha voce in capitolo e tutti porteranno la responsabilità dell’esito finale. Sarà un passaggio da seguire con grande attenzione (e qualche apprensione). “Nelle prigioni si vive un dramma. Progressisti incantati dalle sirene giustizialiste”. di Angela Stella L’Unità, 4 giugno 2023 Intervista a Giovanni Fiandaca: “Nordio ha un vasto programma, ma l’opposizione può venire pure dalla sua stessa maggioranza. Le sentenze possono criticarle tutti: politici e comuni cittadini”. Il professor Giovanni Fiandaca, emerito di diritto penale all’Università di Palermo e già Garante dei diritti dei detenuti siciliani, sul piano delle riforme della giustizia non esprime molto ottimismo: tra correnti giustizialiste all’interno della stessa maggioranza e l’opposizione dei magistrati sarà difficile portare avanti le riforme previste. Sulla possibile alleanza Pd e Cinque Stelle ci dice: esito dannoso. Lo scorso 9 maggio la premier Giorgia Meloni avrebbe risposto “Così si aprono troppi ambiti” sollecitata sulla separazione delle carriere dal leader di Azione Carlo Calenda durante l’incontro organizzato proprio per discutere di riforme istituzionali. Secondo lei la riforma verrà sacrificata sull’altare del presidenzialismo? Sospetto che la premier tema che perseguire sul serio l’obiettivo riformistico della separazione delle carriere provochi un conflitto esplosivo con la magistratura, con effetti negativi difficilmente gestibili in vari sensi e direzioni. A suo parere l’opposizione più forte per Nordio è l’Anm? L’opposizione a Nordio può provenire, anche se non sempre esplicitamente, da diversi versanti, pure interni all’attuale maggioranza di Governo. Nordio ha illustrato un preciso cronoprogramma di riforme: abuso di ufficio, traffico di influenze, misure cautelari, limiti all’appello del pm, informazione di garanzia, mettendo in panchina, quindi come step immediatamente successivo, la riforma della prescrizione e quella della figura del pubblico ufficiale. Programma ambizioso? Vasto programma in effetti. C’è da tenere presente che non tutte le attuali forze politiche di Governo ne condividono la prevalente ispirazione garantista. Già sono emerse dal fronte giudiziario autorevoli prese di posizione che ad esempio obiettano che l’abolizione dell’abuso di ufficio indebolirebbe il contrasto alla corruzione o che la previsione di un collegio di tre giudici per autorizzare l’arresto creerebbe grosse disfunzioni specie negli uffici giudiziari medio-piccoli. È possibile che obiezioni di questo tipo facciano breccia nello stesso partito della Meloni, nel quale continuano verosimilmente a prevalere inclinazioni giustizialiste-punitiviste. In ogni caso, anche io ritengo che reati come l’abuso di ufficio e il traffico di influenze andrebbero riscritti. Qualche giorno fa il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, intervenendo al Festival dell’economia di Trento, ha detto: “Riforme: io spero che nella magistratura non troveremo delle resistenze come purtroppo è accaduto nel passato, forse anche per delle iniziative sbagliate o forse per delle iniziative imprudenti o eccessive, però va chiarito una cosa, che le leggi le fa il Parlamento. Non esiste da parte del magistrato né il diritto creativo, ovvero di interpretare le leggi come gli pare sostituendosi al legislatore, né il diritto di criticare il merito delle leggi, a meno che non si riconosca al politico il diritto di criticare le sentenze. E questo non andrebbe bene né in un senso, né in un altro’’. Che ne pensa? Confesso che queste affermazioni di Nordio mi lasciano perplesso. Condivido la sottolineatura che le leggi le fa il Parlamento e che ai magistrati non è concesso - per dir così - il libertinaggio interpretativo. Condivido meno le affermazioni restanti. È vero che non spetta al potere giudiziario stabilire il contenuto delle riforme, ma è altrettanto vero che la magistratura può e deve interloquire per segnalare l’impatto che a suo giudizio gli interventi riformistici possono provocare in termini di contrasto ai fatti criminosi o di funzionamento della macchina giudiziaria. Certo, l’ultima parola spetta al potere politico. Ciò premesso, non è neppure chiaro cosa Nordio intenda dire quando esclude che i politici abbiano il diritto di criticare le sentenze. La vigilanza critica sull’operato dei giudici, nel senso di vagliare la fondatezza argomentativa e il rigore probatorio dei loro provvedimenti, spetta - come ad esempio Leonardo Sciascia si preoccupava di sottolineare alcuni decenni fa - a tutti i rappresentanti dell’opinione pubblica di un Paese democratico, compresi i comuni cittadini. Ben altra cosa rispetto al libero diritto di critica costituzionalmente garantito sarebbe, ovviamente, una pregiudiziale e sistematica contestazione della funzione giurisdizionale o una preventiva e generalizzata disobbedienza a quanto le sentenze dispongono. Il procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, al centro di una polemica a distanza con Alessandro Barbano sulla sostenibilità delle misure di prevenzione, ha detto al Dubbio: “Non possiamo pensare di trasferire tutte le garanzie del processo penale nei procedimenti su sequestri e confische”. Concorda? Ho letto e apprezzato il saggio di Barbano, e commentandolo alcuni mesi fa sul Foglio, ne ho messo in evidenza pregi e limiti. In sintesi, rilevo che a mio giudizio, peccano per eccesso sia un attacco critico frontale all’intero sottosistema delle misure di prevenzione, sia una sua difesa incondizionata ai limiti del dogmatismo. Ci sono parti buone e alcune parti che necessiterebbero di essere rivedute in una prospettiva di costituzionalismo garantista. Bisognerebbe evitare comunque le guerre di religione tra fazioni contrapposte, ma temo che i tempi non siano ancora maturati per ragionare su questa divisiva materia con costruttiva pacatezza. Il quadro allarmante emerso dall’ultimo rapporto Antigone: nel 35% degli istituti celle sotto i 3 mq per persona, senza riscaldamento e acqua calda. Possibile che nessuno Governo abbia il coraggio di prendere in mano la situazione? Colpevoli di insufficiente attenzione e sensibilità per la drammatica situazione carceraria del nostro Paese sono tradizionalmente quasi tutti i partiti e tutti i governi che si sono succeduti nel corso degli anni, a prescindere dall’ispirazione politica di volta in volta predominante. Imputo alle forze cosiddette progressiste di essersi fatte troppo condizionare da preoccupazioni securitarie anche in chiave di consenso elettorale. Ma questo cedere a pulsioni giustizialiste ha comportato un grave tradimento del costituzionalismo penale. Spero che non sia ormai troppo tardi per auspicabili inversioni di tendenza. Secondo Lei il Partito Democratico si sta comportando da vero partito di opposizione? E ha bisogno davvero del Movimento Cinque Stelle per battere la destra? Rientro da tempo tra quanti pensano che l’abbraccio tra Pd e Cinque stelle possa essere esiziale anche perché escluderei che i pentastellati possano davvero essere inclusi in un fronte credibile di possibile sinistra. Sei solo un nome scritto su un pezzo di carta di Marco Fagiolo L’Osservatore Romano, 4 giugno 2023 “Il carcere”: davanti a un titolo del genere i più cambierebbero immediatamente pagina, passando a qualcos’altro di più “interessante”. D’altra parte, come dargli torto? I media, di solito, fanno vedere il carcere come il luogo dove vengono reclusi i boss, coloro che hanno commesso gravissimi reati, magari qualche politico, oppure il luogo dove, quando succedono delle rivolte, i poveri agenti - sempre sotto organico - finiscono in infermeria. Lo descrivono come il luogo dove ci sono dei tornelli, dove la gente entra e esce a suo piacimento. Dicono: le forze dell’ordine arrestano e i magistrati li buttano fuori! Semmai, è vero il contrario. Entrare è molto facile, anche da innocenti. Il caso di Michele Padovano insegna: finalmente assolto dopo solo 17 anni! Purtroppo la voce di chi il carcere lo vive da dentro difficilmente esce, altrettanto difficilmente viene ascoltata, perché il pregiudizio è tale che viene spesso ritenuta immeritevole di ogni considerazione. Dopo queste brevi premesse, non è certo facile scrivere un qualcosa riguardante il carcere visto da dentro. Questo è il mio trentatreesimo anno di detenzione, a partire da gennaio 1991. Da allora, praticamente non è cambiato nulla, a fronte delle tante cose dette e mai portate a termine. Gli istituti sono sempre quelli, rabberciati, mai restaurati seriamente, e delle tante auspicate nuove carceri non se n’è mai vista l’ombra. Di contro, fortunatamente, alcuni sono stati dismessi, come quello all’Asinara e Pianosa. Una delle cose sconcertanti è che ogni istituto si diversifica per regolamenti interni e per sorveglianza, nonostante insistano tutti nello stesso Paese, l’Italia. Così accade che i più fortunati approdino in un carcere dove tutto funziona a dovere e con una magistratura di sorveglianza propensa al reinserimento del detenuto. Altri, invece, si ritrovano in un carcere dove le condizioni di vivibilità sono penalizzanti e i magistrati di sorveglianza non concedono facilmente i benefici previsti dalla legge Gozzini. Farò un esempio molto semplice, ma significativo, per far capire in che modo la differenza di regolamenti impatta sulla nostra vita quotidiana. Al Nuovo Complesso di Rebibbia il riso integrale si può acquistare normalmente, insieme a tutti gli altri articoli presenti sulla lista della spesa. Invece, nella Casa di Reclusione no, nonostante gli istituti siano confinanti. Di conseguenza si è costretti a fare la fila in infermeria per andare a visita medica e farsi fare la ricetta per poter acquistare detto prodotto che è venduto nell’istituto limitrofo, oltretutto dalla stessa ditta appaltatrice. Ma le differenze importanti sono ovviamente altre. In alcuni istituti si è costretti a convivere con altre cinque, sei, o più persone nella stessa angusta cella. In altri si ha la “fortuna” di alloggiare in una cella singola. Esiste anche una diversità riguardo alla nazionalità dei detenuti. Ci sono istituti dove oltre il 70 per cento dei reclusi è rappresentato da stranieri, altri dove il loro numero è minimo. Questo si ripercuote sulla vita interna, rendendo ancora più difficile la convivenza soprattutto quando ci sono persone - italiane o straniere - che non hanno interesse a mantenere un buon comportamento per ottenere qualche beneficio di legge. Al di là delle differenze tra istituti, una delle nemiche principali di chi vive il carcere è la lenta e irragionevole burocrazia. A volte si aspettano anni per una risposta, che poi, magari, è negativa. Ciò determina stress e frustrazione inauditi, che sono spesso causa dei tanti, troppi suicidi, che si moltiplicano ogni anno che passa. Il carcere è un luogo di sofferenza. Questo non vale solo per chi è costretto a viverlo da condannato o, peggio, per chi è in attesa di giudizio. Anche per i familiari il carcere diventa un calvario, con le lunghe attese per ottenere un colloquio e le umilianti perquisizioni corporali a cui a volte vengono sottoposti. Purtroppo nessuno controlla i controllori e spesso l’umanità dei detenuti e dei loro familiari è considerata un’umanità di “serie b”. Gli orientamenti della politica rispetto a queste tematiche sono stati ondivaghi. A quanto pare, le tendenze più recenti sembrerebbero volte a depotenziare i benefici carcerari introdotti dalla legge Gozzini, che permise di mettere fine alle continue violente rivolte carcerarie dei primi anni 70. Se così fosse, si instaurerebbe un clima totalmente diverso dall’attuale. Personalmente auspico che ciò non accada e che piuttosto si rifletta sulle ragioni per le quali abbiamo una così grande popolazione carceraria. Che si curi la causa del male, non che si cerchi di annullarlo rinchiudendolo tra quattro mura. Il male non si estingue così, togliendo la speranza al detenuto. Attualmente il carcere è una discarica sociale, dove si cerca di confinare coloro che si pensa siano dannosi per la società stessa. Ma, a meno che non si decida di far morire tutti in carcere, cosa farà chi prima o poi uscirà? Se, invece di cercare di insegnargli qualcosa e di prepararlo a una vita diversa, è svilito, umiliato, disumanizzato, il detenuto può diventare ben più pericoloso di quando è entrato. Questo non è il sistema giusto per tutelare la società. Non si ottiene così più sicurezza. Anzi, se si andasse affermando questo tipo di politica penitenziaria, i reati gravi, invece di diminuire, aumenterebbero e diventerebbero più violenti, perché al fine di sfuggire ad un’eventuale cattura e di andare incontro a una pena senza più speranza, chi delinque non si farebbe scrupoli ad abbattere ogni ostacolo, eliminando ogni eventuale testimone. Ad oggi, il reinserimento del detenuto nel tessuto sociale non funziona e non avviene. I pochi che ci riescono devono ringraziare solo se stessi, per la volontà dimostrata, e qualche volontario che veramente ha creduto in loro. Per il resto sei soltanto un nome su un pezzo di carta insieme ad altri a formare dei faldoni che prendono polvere, dimenticati sui tavoli dei vari uffici competenti. Fermiamo il cavallo imbizzarrito chiamato “sistema penale” di Diego Mazzola L’Unità, 4 giugno 2023 Un poco alla volta, come quelle poche stelle che si vedono sbucare da un cielo nero in tempesta, si fa strada l’ipotesi abolizionista del sistema penale e con esso del modello retributivo/punitivo. Che sia la fine della vendetta di Stato intesa come Giustizia? Stiamo forse pensando di rottamare la legge “dell’occhio per occhio e dente per dente”, che risale a 1750 anni a. C. e che è conosciuta come Codice di Hammurabi? Le coscienze si aprono all’ipotesi della nonviolenza nella costruzione della società aperta, moderna e liberalmente intesa, se non fosse per l’incedere del populismo penale e non solo. E siccome pare proprio che ti credano solo se dici qualcosa di negativo, ecco il ritorno dell’idea di chiudersi alla solidarietà con il blocco dei porti e con la messa in atto di nuovi restringimenti. Intendiamo, cioè, negare ad altri popoli ciò che ci è garantito dalla nostra Costituzione. Aspettiamo, dunque, i tempi migliori, come quelli in cui ci farà di nuovo orrore il veder marcire in galera degli esseri umani o quello di trattenere in galera anche dei bambini innocenti e così via. Ma quando le cose potranno cambiare? Solo quando il Parlamento e la “politica” avranno conosciuto il pensiero di Nils Christie, di Louk Hulsman, di Thomas Mathiesen e soci. Essi auspicavano un rapporto molto più sano tra Stato e cittadino e una più morale attenzione delle Istituzioni. Ricordo che, durante una delle mie visite a San Vittore, un detenuto me ne indicò un secondo, che era appena stato ricarcerato e al quale “avevano lasciato” il posto nella stessa cella dalla quale era uscito solo due giorni prima. L’uomo in questione era sulla settantina, molto modestamente vestito, barba incolta, vecchia camicia col colletto sporco di sangue, insomma il ritratto più vero di un nullatenente. La persona in questione non aveva casa, lavoro, parenti. Il carcere era la sua famiglia, il luogo in cui vivere. Un doveroso ricordo va dato anche a Ruth Wilson Gilmore, “abolizionista” convinta, che nel 1998 insieme ad Angela Davis e uno sparuto gruppo di persone fondarono la “Critical Resistance”, un’organizzazione con sede negli Stati Uniti che si è posto in testa di smantellare quello che chiama il complesso carcerario-industriale. Oggi quelle attiviste riescono perfino a fermare, legalmente e in modo nonviolento, la costruzione di nuove carceri. Forse quando ci si troverà tra le mani un progetto transnazionale per l’affermazione di quel benedetto Diritto, soprattutto quello dei soggetti più emarginati, quando si sarà capito che bisogna prendersela con i motivi che inducono al fatto/reato più che con la persona, le cose potranno cambiare. Che cosa accadrà, allora, dei tanti magistrati e dei tanti avvocati, che oggi traggono la propria ragion d’essere dal casino in cui versano l’Ordinamento ed il sistema giustizia? Essi temono, forse, di perdere il lavoro? Il compianto professor Hulsman dall’Olanda ci disse, largamente motivando, che: “Se dunque si abolisse il sistema penale, la maggior parte di quelli che partecipano attualmente al suo funzionamento continuerebbero ad avere assicurata un’attività, con uno statuto morale più elevato. Fermiamo dunque il cavallo imbizzarrito… Nella mia mente, abolire il sistema penale significherebbe riconsegnare alla vita comunitaria, istituzioni e uomini”. Qual è il rischio: che si facciano meno processi? Intanto siamo ancora in attesa di una vera riforma del lavoro, che adempia senza esitazione al dettato costituzionale che ne ha sancito il Diritto e al ripristino delle Borse Lavoro. Parafrasando Hulsman si dirà che “È giunta l’ora di abolire il giochetto del crimine e della punizione e sostituirlo con un paradigma di restituzione e responsabilità. L’obiettivo non è solo la civilizzazione del trattamento di chi infrange le regole, ma anche quello di dare un significato più profondo e più proficuo al rapporto tra le Istituzioni e i cittadini”. Che fare, dunque, per fermare il “cavallo imbizzarrito”? E affermare la Riforma del Sistema Giustizia coerente sotto le bandiere della nonviolenza? Perché escludere a priori la via “rivoluzionaria” della ricerca - che fu di Gustav Radbruch e di Aldo Moro - “non di un diritto penale migliore ma di qualcosa di meglio del diritto penale”? Pena è ciò che si prova di fronte alla sofferenza di animali o persone, per l’appunto sofferenti, ma se è provocata a terzi è solo “tortura”. Perché confidare nella sofferenza e nella punizione - in qualche modo nella tortura legale - di coloro che hanno trasgredito alle regole, quando si può far leva sul concetto di “dignità personale” in un progetto di reinserimento consapevole nel tessuto sociale, magari mettendo finalmente a tacere la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi? Perché non dedicare molta più attenzione verso il mondo della cultura violenta, contrastandola con una più completa informazione sulle possibilità che hanno le legalizzazioni e la politica della riduzione del danno, per riconsegnare alla vita comunitaria istituzioni e uomini? Il termometro della civiltà giuridica di Tommaso Marvasi La Discussione, 4 giugno 2023 L’efferato omicidio confessato da Alessandro Impagnatiello ha tutti i requisiti necessari per misurare il livello di civiltà giuridica della nostra società. Impagnatiello ha confessato di avere ucciso la sua compagna, Giulia Tramontano, di lui incinta di sette mesi. Ha raccontato di avere in corso un’altra relazione con un’altra donna, che, invece, avrebbe interrotto la gravidanza dallo stesso Impagnatiello procurato. Le cronache narrano che le due sfortunate ragazze si erano incontrate e l’una aveva inutilmente messo in guardia l’altra. Si sa anche che il reo confesso avrebbe girato col cadavere in macchina per due giorni, volendo bruciarlo; finendo poi col nasconderlo in un interstizio di un fabbricato abbandonato. La madre di Impagnatiello, distrutta, ha chiesto scusa per avere messo al mondo quel figlio ed ha detto che lei stessa non lo perdonava per quello che aveva fatto. La televisione, i social ed ogni attuale mezzo di comunicazione hanno detto del mostro, in tutte le possibili declinazioni. L’unica che ha mantenuto il sangue freddo è la Gip di Milano, Angela Minerva, che ha escluso l’aggravante della premeditazione. Piccola cosa, certamente, di fronte all’agghiacciante omicidio, ma che ci porta al punto principale: il riconoscimento dei diritti di Impagnatiello. Perché il nostro ordinamento, la nostra Costituzione, il nostro Stato di diritto, non ci consente il “gettiamo la chiave” o il linciaggio. Perfino in un caso come questo in esame, l’imputato (perché anche se reo confesso, è solamente tale; non dobbiamo e non possiamo dirlo colpevole, fino a sentenza passata in giudicato) ha una serie di diritti irrinunciabili: che lo Stato deve garantire, addirittura a spese proprie (ad esempio se l’imputato non può pagarsi un avvocato). In primo luogo ha diritto ad un processo, ad un giusto processo. Quindi ad un avvocato difensore. Ad un avvocato vero, che evidenzi nel processo tutte le possibili contraddizioni, che eccepisca eventuali vizi procedurali o abusi nei confronti dell’imputato; che richieda le verifiche sulla sanità mentale dello stesso; che si assicuri che giudici e giurati si basino sugli atti processuali e non siano influenzati dall’opinione pubblica. Ad un avvocato che non venga scambiato con l’imputato e che, anzi, venga maggiormente rispettato quanto più fortemente ed efficacemente svolga il suo ufficio di difensore. Tutti diritti, si dirà, che lo stesso Impagnatiello ha negato alla vittima. Il punto è che una persona - per quelle incredibili articolazioni dell’animo umano che dai più antichi libri del Vecchio Testamento e dalla tragedia greca in poi vengono descritte, ma che non hanno una razionale spiegazione - può essere un carnefice, può essere spietato è inumano; lo Stato giammai. Lo Stato deve essere sempre garante dei diritti, anche verso l’ultimo ed il più abietto dei suoi cittadini. Così anche una volta che Impagnatiello fosse condannato, avrà diritto ad un trattamento umano in carcere. Anche lui - per quanto molti lo negano in generale - avrà diritto all’applicazione dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Due righe chiare, inequivocabili: come la grande civiltà dei nostri Padri Costituenti insegnava, il fine ultimo della punizione deve essere quello di recuperare alla società chi ha sbagliato (non parlo di deviato, perché qui entrerebbe in gioco la sanità mentale, le conseguenze connesse alla punibilità del soggetto che ne è afflitto, il diritto alla salute, garantito anche ai colpevoli). Parlando di carcere il discorso, oggettivamente si complica. Perché qui lo Stato - e questa rubrica l’ha annotato più volte - non riesce a garantire quel trattamento umanitario voluto dalla Costituzione e la detenzione diventa un inferno che porta al numero spropositato di suicidi che si registrano tra i carcerati. Una situazione che lo Stato ben conosce e che tace. Più volte denunciata, in relazione al carcere preventivo, indicato come forma mascherata di tortura per indurre il presunto innocente a confessioni. È di questi giorni la pubblicazione del XIX rapporto sul sistema carcerario italiano dell’Associazione Antigone, “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, che ha tra i suoi fini la critica alla cultura dell’emergenza come forma di governo, anche in ambito penale, ed il contrasto al così detto populismo penale. Il quadro che si trae da tale rapporto (è on line, leggetelo) è angosciante e pone l’Italia agli ultimi posti della classifica della vergogna. Il sovraffollamento è di 5.425 detenuti oltre la capienza: con l’avvertenza che quella risultante sulla carta va ridotta di 3.646 posti non disponibili: quindi oltre novemila carcerati in più del massimo sopportabile. Rispetto al resto d’Europa, solo Cipro e Romania fanno peggio. Negli istituti penitenziari i suicidi sono un problema a testimonianza di condizioni inumane. Nel 2022 sono stati 23 volte superiori rispetto ai suicidi in libertà e, nota il rapporto “delle 85 persone suicidatesi, 5 erano donne”. A parte il noto fenomeno delle condanne dell’Italia per “ingiusta detenzione” (nel 2022 lo Stato ha pagato, 27.378.085 euro a tale titolo) il Rapporto Antigone registra la presentazione, sempre nel 2022, di ben 7.643 richieste di risarcimento per trattamento inumano o degradante durante la detenzione. Un quadro, insomma, più vergognoso che desolante. Una situazione che deve cambiare perfino per Impagnatiello “il lurido” (definizione che leggo nelle cronache di sabato): perché se non cambia e se non riconosciamo persino Impagnatiello come soggetto di diritti, non potremo mai rivendicare a testa alta di essere parte di un Paese civile. Bracciali elettronici e processi rapidi: il governo prepara la nuova stretta sul femminicidio di Francesco Boezi Il Giornale, 4 giugno 2023 Le misure concordate dai ministri Roccella, Piantedosi e Nordio. Allo studio modifiche su distanza minima, sex offender e stalker. La normativa sui femminicidi e sulle violenze subite dalle donne sarà irrobustita. Il governo e le Camere sono pronte. I casi di cronaca, compreso l’omicidio di Giulia Tramontano, possono aver fornito qualche consapevolezza in più al legislatore. Ma il provvedimento era già previsto da tempo. C’è un clima di concordia assoluta tra il ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Roccella, che ha annunciato che la stretta è prevista per il prossimo Cdm (o al limite per quello dopo), il ministro della Giustizia Carlo Nordio e quello dell’Interno Matteo Piantedosi. In più, c’è una discussione incardinata in commissione Giustizia alla Camera. Le misure ventilate riguardano le regole per l’applicazione dei braccialetti elettronici e la rapidità dei processi, che per queste fattispecie dovrebbero procedere con più efficienza. “La tragedia di Giulia Tramontano e del suo bambino dimostra che alla pur valida legislazione vigente serve un’ulteriore stretta. Sembra non esserci fine all’orrore, sempre più frequenti gli episodi di violenza contro le donne quindi necessario educare per prevenire ma anche avere strumenti adeguati a reprimere chi si macchia di colpe imperdonabili”, ha dichiarato al Giornale Carolina Varchi, Fdi, capogruppo in commissione Giustizia. “Bene la Roccella”, ha concluso la meloniana. “Sì mi risulta che il Ministro Nordio e Roccella stiano lavorando ad una ulteriore stretta. In Commissione Giustizia c’è massima attenzione su questo. In particolare si dovranno rafforzare soprattutto le misure preventive” ha fatto presente Ciro Maschio, presidente dell’organo interessato. Le ha fatto eco la deputata Fdi Augusta Montaruli: “I dati sui reati da codice rosso dicono che è necessario un ulteriore sforzo del legislatore. Bene lo studio da parte del governo per un’ulteriore stretta che dimostra come lo Stato non possa rimanere impassibile di fronte ai continui tragici fatti di cronaca”. E Erica Mazzetti, deputata di Forza Italia, aggiunge: “La violenza sulle donne è uno dei temi da sempre seguiti con attenzione e concretezza da Forza Italia. L’approccio emerso dal Cdm è quello corretto: massimo rigore e massima severità. Il governo di centrodestra concretizzerà un altro intervento che il Paese ci chiede”. Matilde Siracusano, sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento e deputata di Forza Italia, ha rimarcato come la prevenzione debba attecchire in più ambiti: “In Parlamento siamo pronti a intervenire per modificare le norme esistenti e per renderle più efficaci. Ma non può essere solo una questione di leggi o di pene. La prevenzione deve essere prima di tutto culturale e sociale”. E ancora: “Le donne non sono un oggetto nella disponibilità esclusiva dei propri aguzzini. Le vittime di violenza devono avere la forza di ribellarsi, e per poterlo fare devono avere e percepire attorno una rete di protezione solida e riconoscibile”. I dettagli del provvedimento verranno chiariti con il concerto di tutti i Dicasteri interessati. Di sicuro l’esecutivo metterà in campo norme sulla distanza minima che deve intercorrere tra uno o una stalker e chi ha subito violenza o danni. Di rimando, verrà anche integrata la fattispecie dei cosiddetti sex offender, ossia chi si macchia di crimini sessuali, mentre in relazione ai braccialetti elettronici ci si aspetta soprattutto decisionismo sulle procedure. Il Pd intanto ha provato a montare una polemica su un mancato intervento tempestivo. Lo stesso Pd che ha governato il Paese per decenni, facendo parte di quasi tutte le maggioranze. Cronaca nera, c’è modo e modo di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 4 giugno 2023 C’è un limite oltre il quale non si può andare (per pudore, per decenza, per uno scampolo residuo di umanità). Se così non fosse, vedremmo, leggeremmo e ascolteremmo di peggio, credetemi. Propongo un esame di coscienza, iniziando da me stesso. La vicenda di Giulia, incinta al settimo mese, uccisa dal fidanzato a Senago. Quanto leggiamo per informarci, per capire, per evitare che queste cose accadano ancora? E quando scatta la morbosità? La copertura dei peggiori delitti italiani, da anni, è estenuante: Cogne, Erba, Garlasco, Perugia, Avetrana, la tragedia di Yara Gambirasio. Sia chiaro: i media hanno il diritto di raccontare, spiegare e commentare. Ma c’è modo e modo. Il modo in cui la nostra Giusi Fasano segue, da anni, queste vicende, è raro: c’è sempre compassione, in ciò che scrive, e nessun compiacimento. Lo stesso spirito muoveva Dino Buzzati, che ha trasformato la cronaca nera in una forma d’arte. Non è stato l’unico. Da Sofocle a Dostoevskij, da Truman Capote a Emmanuel Carrère: il crimine orrendo ha prodotto grande letteratura. Esatto: letteratura, un tentativo di scandagliare il pozzo nero nell’animo umano. Non cronaca morbosa, non gusto di indulgere in particolari macabri. Se la risposta di qualche collega fosse “Questo vuole il pubblico, questo dobbiamo dare!”, risponderei: non è vero. Anche nei media più cinici, quelli per cui conta soltanto il risultato (ascolti, clic, lettori), esiste una consapevolezza: c’è un limite oltre il quale non si può andare (per pudore, per decenza, per uno scampolo residuo di umanità). Se così non fosse, vedremmo, leggeremmo e ascolteremmo di peggio, credetemi. E chi guarda, chi legge, chi ascolta? Be’, deve fare i conti con la sua sensibilità e la sua coscienza. Certi articoli non li leggo, certe interviste non le ascolto, certa televisione non la guardo e la sconsiglio. Una decina d’anni fa, la sorella della vittima - una ragazza uccisa dal fidanzato, incapace di accettare la fine della relazione - mi chiese consiglio: devo partecipare a un programma tv che parla della vicenda? Risposta immediata e facile: no, alla larga! P.S. So che quanto ho scritto mi guadagnerà un “Ok, boomer” dai lettori più giovani, e commenti infastiditi dai meno giovani. Ma credo sia giusto provare a ragionare ed esprimere un giudizio, anche sfavorevole. Chi vi assolve sempre vuole imbrogliarvi, non l’avete capito? Il “mostro” non si lascia sotto i flash di Tiziana Maiolo L’Unità, 4 giugno 2023 No, la gogna non si fa. Non c’è bisogno di ricordare Enzo Tortora, perché il paragone sarebbe offensivo nei confronti di chi è diventato suo malgrado il simbolo dell’ingiustizia italiana. Ma quello che è stato inflitto l’altra sera a Alessandro Impagnatiello, assassino e reo confesso, ricorda troppo l’arresto di Massimo Bossetti, che si è sempre dichiarato innocente, e che fu braccato come un animaletto impaurito ed esibito come trofeo di caccia dalle forze dell’ordine. I carabinieri l’hanno rifatto, e non va bene. Dieci lunghi minuti è rimasto Alessandro fermo nella sua auto bloccata davanti al garage dalle forze dell’ordine, assediato dai giornalisti che gli urlavano “vuoi dire qualcosa?”, bersagliato dai flash e dalle telecamere. Indegna passerella. Potevano far sgomberare e non l’hanno fatto. L’hanno lasciato lì, mezzo incappucciato con le mani sul volante, preda di ogni indecente curiosità. Volete che vi diciamo bravi perché avete risolto il caso? Era vostro dovere. E il Caino che avevate tra le mani lo dovevate rispettare. Il pezzo più difficile da scrivere. Perché quel barman fi ghetto che lavora da Armani, che viene chiamato “lurido” dai colleghi e poi ammazza la compagna e il bambino, è quello che noi donne vorremmo strozzare con le nostre mani. Una vera pena di morte da applicare direttamente e subito. Poi però c’è il mondo con le sue regole, e la giustizia che deve applicarle. Parrebbe sfortunato (ma non lo è) Alessandro l’assassino, a ritrovarsi dentro un mondo ostile fatto tutto di donne. Sembra la nemesi, pronta a colpire uno che le donne non le ama, che forse le teme, ma che non gli piacciono davvero. Il fatto che lui paia voler lasciare sempre una traccia di sé nel loro corpo è lì a dimostrarlo. Ne incontra una a vent’anni circa e lei è subito incinta. Sta con Giulia e lei porta avanti una gravidanza fi no a oltre il settimo mese, prima che lui tolga la vita a tutti e due, a lei e al bambino. La tradisce con un’altra, ed ecco ancora una gravidanza, che lei decide di interrompere. Tre donne e le loro scelte. E lui pare solo uno che si esibisce ma non decide. “Un mostro”, lo definisce la madre, che non riesce neanche a tenere in vita quel cordone ombelicale che tutto capisce e perdona. E poi gli cascano addosso tre magistrati, tutte donne, le due pm, procuratore aggiunto Letizia Mannella e Alessia Menegazzo, e poi la gip Angela Minerva. E tutte fanno giustizia, con immediate differenze di giudizio e la prefigurazione di uno scontro processuale, che si giocherà tutto sulla premeditazione del delitto. È possibile che tutte queste donne, prima di tutto la sorella e la mamma di Giulia, la ragazza assassinata con il suo bambino (ora più che mai “suo” e di nessun altro), e poi l’”altra” che ha saputo essere solidale con la rivale d’amore, e poi queste tre magistrate e anche la madre del “mostro”, siano le più titolate all’odio, almeno in un angolino dei propri sentimenti. Pure non sono loro ad andare sopra le righe, a uscire dalle regole della società civile. Anche quando nella conferenza stampa la pm Alessia Menegazzo sottolinea con forza la (controversa) questione della premeditazione, e Letizia Mannella si rivolge alle donne invitandole a non accettare mai l’ultimo appuntamento, quello del “chiarimento”. E poi anche nell’ordinanza della gip Angela Minerva, la quale accetta la spiegazione di Alessandro e della sua condizione di stress per una situazione -la doppia vita sentimentale e la disistima dei colleghi che ne erano a conoscenza- e non ne fa oggetto di giudizio moralistico, ma si attiene freddamente alla norma e alla giurisprudenza. Tutto questo mostra il clima di rispetto. Il rispetto delle regole e il rispetto della persona. Ancora una volta ci troviamo al cospetto di un Caino. Di un trentenne destinato a passare dai locali alla moda della Milano più scintillante a una possibile condanna all’ergastolo. In mezzo ci saranno i processi, naturalmente. Per ora c’è una piena ammissione dell’omicidio, che prelude in genere a una condanna. Che non significa soltanto la cella e il carcere, ma la vita, i prossimi venticinque-ventisei anni. Questo va rispettato. Tutte queste donne lo hanno fatto. Ma non possiamo apprezzare il trattamento da preda che gli hanno riservato i carabinieri con la gogna mediatica dell’altra sera. Questo non si fa. “Un rischio abolire i controlli sul Pnrr, ne approfittano corrotti e mafiosi” di Donatella Stasio Il Secolo XIX, 4 giugno 2023 Il procuratore antimafia Giovanni Melillo: “Su fondi Ue e sull’abuso di ufficio servono strumenti non paralizzanti ma efficaci. Se si indeboliscono le verifiche preventive si drammatizza l’impatto successivo della giustizia penale”. Il governo cancella i controlli della Corte dei Conti e vuole eliminare l’abuso d’ufficio? Non è credibile pretendere un passo indietro dei controlli esterni senza, al tempo stesso, rafforzare le linee di controllo interno. Il Pnrr impone rapidità dei processi decisionali? Il dovere di impiegare efficacemente le risorse viaggia con quello di farlo bene, evitando che i soldi si disperdano nei mille rivoli degli abusi e della corruzione o finiscano nelle mani della mafia. L’attualità irrompe con forza nel grande studio del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, al secondo piano dell’edificio seicentesco di via Giulia, a Roma, che papa Innocenzo X, dopo aver verificato le condizioni disumane delle carceri di Tor di Nona, fece costruire per ospitare le “Carceri nuove”. Lì, l’umanità sarebbe stata al centro del sistema penitenziario. Lì, da poco più di un anno, ha traslocato Giovanni Melillo dalla Procura di Napoli, e al centro della sua nuova funzione c’è una parola chiave fondamentale, che poi è una postura, se non un dovere istituzionale: la cooperazione, il coordinamento, la leale collaborazione. Anzitutto tra uffici giudiziari ma anche con altre istituzioni. “Oggi più che mai - dice - c’è bisogno di una forte coesione istituzionale e politica per affrontare le nuove sfide del terrorismo e della criminalità organizzata”. Ed è questa la chiave - collaborazione e non contrapposizione - con cui Melillo invita a leggere anche i “famigerati” controlli - penali, di organi di garanzia o di autorità indipendenti - che il governo vive invece come “lacci e lacciuoli”. Signor procuratore, “lacci e lacciuoli” è l’espressione usata per definire il controllo concomitante della Corte dei Conti sul Pnrr, infatti cancellato. La vicenda tradisce una sorta di insofferenza a qualunque intervento esterno che intralci l’azione di governo. Lei che idea si è fatto? “La stessa che ho recentemente espresso dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera, a proposito dei disegni di legge volti a cancellare o modificare le norme in materia di abuso d’ufficio. In generale, considero legittima ogni discussione sull’opportunità di definire meglio i rapporti tra la sfera decisionale politico- amministrativa e le relative forme di sindacato giurisdizionale o comunque indipendente. Tuttavia, personalmente tendo a considerare la rivendicazione di un primato dei poteri discrezionali propri della pubblica amministrazione tanto più credibile se alla richiesta di arretramento dei controlli esterni si accompagna un deciso rafforzamento delle linee di controllo interne alla pubblica amministrazione. Ma non mi pare che di ciò ci sia traccia significativa nella storia, soprattutto recente, della regolazione di quelle funzioni pubbliche. E anche questo, forse, concorre ad alimentare una spirale polemica senza fine, ma anche un’idea di efficienza dell’azione amministrativa nutrita di sospetti verso doverose funzioni di controllo”. Così, però, si sta muovendo il governo, anche sull’abuso d’ufficio: ora si parla di una riforma generale dei reati contro la pubblica amministrazione ma non una parola sui controlli interni. Può funzionare? “È possibile tentare di raggiungere un maggiore equilibrio del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, ma mi piacerebbe che questa discussione riguardasse anche le lacune normative che ostacolano le indagini, come quelle rivelatesi nella disordinata stagione del massiccio ricorso ai finanziamenti edilizi e pandemici”. Restiamo ai controlli sul Pnrr, alcuni cruciali. Ha senso chiederne un allentamento, in generale, per poter spendere quei fondi? “Per quanto comprenda tutta la serietà della preoccupazione di non rallentare l’impiego di quelle enormi risorse finanziarie, faccio fatica ad accettare una radicale contrapposizione fra la rapidità dei processi decisionali della pubblica amministrazione e la stessa idea di controlli efficaci, poiché i controlli sono parte essenziale dei processi di spesa pubblica. Il Paese ha certo il dovere di impiegare al più presto quelle risorse, ma anche di farlo bene, evitando che esse si disperdano nei mille rivoli degli abusi e della corruzione ovvero finiscano nelle mani della criminalità mafiosa. Se si riflettesse sul fatto che il 70% delle opere pubbliche incompiute si trova nelle regioni meridionali - evidente riflesso, da un lato, di una storica, maggiore debolezza in quelle aree del Paese delle funzioni pubbliche e, dall’altro, della maggiore gravità dei relativi fenomeni criminali - forse si attenuerebbe la contrapposizione polemica fra la necessità di spendere presto e il dovere di farlo anche bene. Diverrebbe magari possibile anche ragionare intorno a un’idea condivisa di controlli non paralizzanti ma sempre rigorosi ed efficienti. E lo dico da magistrato preoccupato anche dal rischio che all’indebolimento dei controlli preventivi segua la drammatizzazione dell’impatto di quelli affidati al giudice penale, con tutto il carico di contrapposizione polemica fra istituzioni della Repubblica che puntualmente ne seguirebbe”. Mi faccia un esempio di controlli interni non paralizzanti... “Molte tensioni potrebbero essere allentate applicando il principio che chiunque riceve denaro pubblico debba dare conto di come lo impiega e che l’uso di tale denaro sia tracciabile, agevolando i controlli successivi. Ma anche nei limitati campi nei quali oggi è sancito l’obbligo di usare conti correnti dedicati, appunto per consentire il monitoraggio dei relativi flussi finanziari, come, ad esempio è previsto sin dal 2014 per le imprese che partecipano alle grandi opere, quel sistema di controllo funziona poco e male. Eppure si tratta di regole imposte dall’Unione europea, che consentirebbero efficaci controlli, senza frenare l’azione della pubblica amministrazione e delle imprese e anzi contribuendo a garantirne correttezza e trasparenza. La stagione del Pnrr imporrebbe di estendere e dare efficienza a questo tipo di controlli. Le proposte tecniche per farlo non mancano”. Il suo ragionamento, come del resto l’impostazione dell’Europa, vede nel controllo una forma di collaborazione necessaria all’efficacia del risultato, mentre nel nostro caso sono vissuti in chiave di contrapposizione. È una visione distorta, che non riesce a cogliere il senso della collaborazione istituzionale, le pare? “In generale, mi sembra prevalere un tratto comune nella legislazione degli ultimi anni: una sorta di rassegnata tendenza a sacrificare i controlli sull’altare della necessità di sostenere l’economia, dimenticando che l’indebolimento dei controlli, innanzitutto quelli spettanti alla stessa pubblica amministrazione, riduce l’efficacia stessa delle riforme e delle manovre finanziarie, acuisce le disuguaglianze sociali, sacrifica la trasparenza del mercato, agevola l’espansione affaristica delle mafie e, infine, indebolisce l’autorevolezza della pubblica amministrazione e la fiducia dei cittadini nello Stato”. Quanto sono funzionali, questi controlli, anche alla lotta alla criminalità mafiosa? “La relazione diretta fra l’efficacia dei controlli interni alla pubblica amministrazione e la capacità del nostro sistema di contrastare la criminalità mafiosa può essere osservata anche attraverso la lente offerta dal ricorso allo scioglimento delle amministrazioni locali sottoposte a condizionamenti mafiosi. Un fenomeno certo agevolato dalla debolezza delle funzioni di controllo, che consente di fotografare un altro elemento: il crimine mafioso è largamente proiettato verso il condizionamento corruttivo della pubblica amministrazione e il controllo di sempre più estese aree del tessuto produttivo. Le stesse leadership criminali si selezionano sulla base delle attitudini a governare i processi decisionali e le tecnologie essenziali alla gestione delle reti d’impresa che ruotano attorno ai cartelli e che attraversano quasi tutti i settori economici, dal commercio degli idrocarburi a quello dei metalli, dagli appalti pubblici alla gestione del ciclo dei rifiuti, dal lavoro interinale alla logistica e alla distribuzione commerciale. L’intera architettura del sistema delle frodi fiscali e delle false fatturazioni ormai ruota intorno a circuiti societari largamente controllati da camorra, ‘ndrangheta e Cosa Nostra, integrandosi strutture e strategie criminali che immaginiamo separate e lontane. Le imprese mafiose attraggono nella loro sfera d’influenza imprese che mafiose non sono, ma che praticano lo stesso linguaggio della frode fiscale e della corruzione. L’identità di linguaggi moltiplica la capacità di espansione affaristica delle mafie nell’Italia centro-settentrionale come nel resto dell’Europa. Visto che parla di “identità di linguaggio”, non posso non chiederle che impressione le abbia fatto sentir definire “pizzo di Stato” le tasse che i commercianti devono pagare... “Ci mancherebbe che un magistrato si pronunciasse anche sulle forme della comunicazione politica! Ma anche da cittadino mi imporrei di non guardare ai dati polemici, preferendo confidare nella preservazione e nel consolidamento di un quadro di forte coesione istituzionale e politica sul pur accidentato terreno del contrasto delle mafie e del terrorismo. Diversamente, ogni indagine e ogni processo, come ogni impegno della società civile, rischierebbero di rivelarsi vani. Di quella coesione oggi più che mai vi è grande bisogno, anche per affrontare le nuove sfide del terrorismo e della criminalità organizzata, come quelle inevitabilmente conseguenti alla destabilizzazione di vaste aree dell’Europa e del Mediterraneo e all’ingresso in scena di strategie e tecnologie capaci di sfuggire ad ogni controllo”. A proposito di coesione istituzionale, le bombe del 1993 a Roma, Firenze e Milano reclamano ancora verità e giustizia, perché dietro quegli attentati non c’era solo la mafia, come peraltro intuirono subito gli inquirenti, che si misero a disposizione della Commissione antimafia, all’epoca guidata da Forza Italia con una maggioranza di centrodestra, per un accertamento storico-politico. Lei ha ricordato che “quell’ideale passaggio di testimone non si realizzò mai” e che lo sviluppo dell’indagine su un altro piano fu lasciato cadere “silenziosamente”. Oggi ci sono le condizioni per raccogliere quel testimone e per una leale collaborazione istituzionale? “Nel mio intervento a Firenze ho indicato le ragioni che, a mio parere, impongono di riconoscere che la campagna stragista del 1993 non possa ricondursi soltanto alle strategie criminali tipiche di un’organizzazione mafiosa, sia pure raffinata come Cosa Nostra, inserendosi invece in un più ampio contesto di destabilizzazione politica e istituzionale. Lo riconobbero immediatamente importanti figure politiche del tempo, come Carlo Azeglio Ciampi e Bettino Craxi, indicando in modi diversi, ma ugualmente chiari, la strada della responsabilità delle istituzioni politiche nel comprendere e contrastare quei terribili rischi per la nostra democrazia. Strada e responsabilità chiare anche a quei magistrati, come Gabriele Chelazzi e Piero Vigna, consapevoli della necessità che alle indagini della magistratura si affiancassero le ricostruzioni storiche e politiche nelle quali la magistratura non può avventurarsi. Oggi la situazione è notevolmente diversa e più complessa rispetto al 2002, ma resta intatta l’esigenza di non affidare soltanto alle indagini e ai processi la ricerca della verità. Ciò, tuttavia, esige, ora come allora, una corretta e reciprocamente rispettosa collaborazione fra magistratura e istituzioni politiche, necessaria per evitare interferenze e sovrapposizioni reciproche. Un problema molto serio, la cui soluzione dipende dalla condivisione di un comune dovere di collaborazione istituzionale, essenziale perché indagini e attività con finalità diverse in campi così delicati e controversi possano costantemente raccordarsi”. Lei ha già conosciuto o incontrato la nuova presidente della Commissione antimafia, Chiara Colosimo? “Abbiamo avuto un primo e assai positivo contatto. Posso dire che avrà certamente tutta la collaborazione istituzionale possibile da parte del mio Ufficio e delle Procure distrettuali, ma anche che ha sin da ora tutta la mia personale, doverosa fiducia”. Peraltro, questa Commissione è nata tra le polemiche, sollevate anche dai parenti delle vittime delle stragi: cinque membri sono imputati e indagati per corruzione e concussione e la presidente è nel mirino per le sue frequentazioni di ex terroristi neri nell’ambito di progetti sulla risocializzazione dei detenuti. “Non ho alcun interesse per le contrapposizioni polemiche e nessuna ragione per commentarle. La Presidente Colosimo è stata eletta dal Parlamento e, ripeto, avrà tutta la nostra collaborazione, certo che anche la Commissione da lei guidata offrirà cooperazione e sostegno al difficile lavoro della magistratura. Potrei aggiungere che, anche da Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, ho sempre tratto molti elementi di riflessione dal dialogo con persone - come Sergio D’Elia, presidente di “Nessuno tocchi Caino” - che, pur se in passato condannate per reati di terrorismo, sono impegnate nell’associazionismo civile che opera per l’umanizzazione del sistema penitenziario e l’effettività della funzione di rieducazione della pena”. Torniamo al coordinamento: la collaborazione istituzionale è una regola aurea ma, storicamente, anche la più bistrattata. “Talvolta, le Procure sono venute a conoscenza di iniziative delle Commissioni parlamentari antimafia in ritardo e in modo incompleto, la qual cosa certo non ha aiutato a costruire saldi vincoli di reciproca fiducia e a governare meglio le esigenze di segretezza delle rispettive indagini. Questo rischio naturalmente riguarda anche i rapporti tra uffici giudiziari, ma quando entrano in campo le inchieste parlamentari i problemi diventano più delicati e complessi. Nella sua dimensione esclusivamente giudiziaria, il coordinamento delle indagini è sostenuto dalle funzioni di garanzia della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Il rapporto con la Commissione parlamentare antimafia esige invece di poter confidare che l’esercizio delle prerogative sovrane del Parlamento sia sostenuto da una costante attenzione ad evitare inutili tensioni con la giurisdizione”. Nella precedente legislatura come ha funzionato il coordinamento? “Quel che posso dire è che la cooperazione fra istituzioni diverse dipende, al di là delle volontà e degli sforzi individuali, dal clima che si crea attorno al lavoro di una istituzione parlamentare storicamente così importante. La gravità dei fenomeni mafiosi imporrebbe che prevalessero sempre doveri e responsabilità comuni, al di là delle divisioni politiche”. Sicilia. I due detenuti morti per sciopero della fame ad Augusta, comunicazioni tardive e nessun allarme di Salvo Palazzolo La Repubblica, 4 giugno 2023 Un detenuto gelese si proclamava innocente, un russo condannato all’ergastolo chiedeva di tornare nel suo paese. I pm di Siracusa stanno ricostruendo cosa è avvenuto in carcere e quali notizie non sono state fornite in tempo ai vertici del Dap. A Trapani, un giovane tenta di impiccarsi, salvato dagli agenti penitenziari. “È necessaria una completa informazione su queste situazioni”, ha detto nei giorni scorsi il garante per i detenuti Mauro Palma dopo la notizia della morte di due uomini che avevano fatto un lungo sciopero della fame. Una protesta durata 46 e 59 giorni, ma nessuno se n’era accorto fuori le mura del carcere di Augusta. Perché le notizie che arrivavano dalla struttura penitenziaria erano parecchio frammentarie. Ecco cosa ha scoperto Repubblica. Davide Liborio Zarba, 42 anni, detenuto per violenza privata nel carcere di Augusta, fine pena aprile 2029, aveva iniziato lo sciopero della fame il 20 agosto dell’anno scorso, perché si proclamava innocente. Ma la sua protesta venne annotata nel sistema informatico dei cosiddetti eventi critici solo due giorni dopo. E non sappiamo per quanto andò avanti, non sappiamo quali conseguenze fisiche e psicologiche ebbe sul detenuto. Nel registro degli eventi critici del Dap, il dipartimento delle carceri, non c’è alcuna annotazione. Il 27 febbraio, Davide Liborio Zarba tornò a protestare, iniziando un nuovo sciopero della fame. Ma la notizia venne registrata solo il primo marzo. E poi, giorno dopo giorno, venne segnato solo il peso del detenuto. Senza alcun allarme particolare. Il 24 aprile, Zarba venne trasferito in ospedale. Due giorni dopo, morì. Victor Pereshchako, 52 anni, protestava invece perché chiedeva di scontare l’ergastolo nel suo paese, la Russia. La prima segnalazione del suo sciopero della fame è dell’8 marzo 2023, all’epoca il detenuto si trovava nel carcere di Catanzaro. Anche in questo caso, non sappiamo come andò avanti la protesta. Per certo, il 25 marzo, Pereshchako viene trasferito ad Augusta. Il giorno dopo, la direzione del carcere annota l’inizio di un altro sciopero della fame. Che prosegue fino al 27 aprile, quando poi viene deciso un trasferimento in ospedale. Il 9 maggio, avviene il decesso. Un’altra morte senza che sia scattata una comunicazione particolare, un alert tale da mobilitare il provveditorato regionale o il magistrato di sorveglianza, o il garante dei detenuti. C’è anzi il sospetto che alcune comunicazioni importanti, come quelle sul peso dei detenuti, siano state annotate nel registro degli eventi critici solo dopo il decesso. Sulla gestione dei due eventi c’è adesso un’inchiesta della procura di Siracusa diretta da Sabrina Gambino: i magistrati stanno ricostruendo con precisione cosa sia avvenuto nel carcere di Augusta e quali comunicazioni siano state fatte al Dap. “È necessaria una completa informazione su queste situazioni”, ha ribadito il garante per i detenuti Mauro Palma: “Un’informazione che deve fluire dagli istituti penitenziari all’amministrazione regionale e centrale, affinché le situazioni problematiche possano essere affrontate con assoluta attenzione”. Un richiamo che ha già avuto un effetto, il capo del Dap ha disposto che scatti un alert particolare per gli scioperi della fame che proseguono per un certo numero di giorni. “Le due proteste di Augusta non erano state invece segnalate al Garante”, ha denunciato Daniela De Robert, che fa parte del collegio del Garante dei diritti dei detenuti. Un silenzio istituzionale. Il primo febbraio, il senatore del Pd Antonio Nicita aveva presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia sulle gravi carenze che soffocano le carceri di Augusta, Noto e Siracusa. “La risposta del sottosegretario, fu del tutto insoddisfacente”, ha detto Nicita. Insomma, non è possibile che i riflettori si siano accesi solo per il caso Cospito. Ogni giorno, in tutta Italia, ci sono diversi detenuti che fanno lo sciopero della fame. “Casi che teniamo sotto controllo - fanno sapere dall’Ufficio del Garante. Ma per i due detenuti deceduti abbiamo saputo che avevano iniziato la protesta e poi del ricovero e della morte. In mezzo c’è il vuoto. E, invece, è fondamentale intervenire in questi casi”. Lo sciopero della fame è un modo per sollevare l’attenzione, molto spesso per questioni che sono risolvibili, altre per motivazioni più complesse. Come è avvenuto per i due detenuti morti. “Ma una maggiore condivisione della loro situazione e l’attivazione delle istituzioni che possono interfacciarsi con i reclusi avrebbe segnato la differenza - ribadiscono all’Ufficio del Garante - a volte anche una visita o il colloquio con uno psicologo possono essere importanti”. Un modo per far sentire la vicinanza al detenuto. Invece, Davide Liborio Zarba e Victor Pereshchako sono morti da soli nelle loro celle. E il disagio all’interno delle carceri prosegue. A Trapani, la polizia penitenziaria ha sventato il suicidio di un detenuto. “Nonostante la pesante carenza di personale - dice Gioacchino Veneziano, segretario della UilPa polizia penitenziaria - da due anni manca anche il direttore”. Sicilia. Il garante Santi Consolo: “Era stato chiesto un ricovero, ma a Barcellona non c’era posto” di Francesco Patanè La Repubblica, 4 giugno 2023 L’ex capo del Dap stigmatizza l’assenza di comunicazioni. “Già dopo quindici giorni tutti vanno informati se un detenuto rifiuta di alimentarsi, a cominciare dal provveditore della Sicilia”. “Il diritto alla salute dei detenuti nelle carceri siciliane è molto limitato. Le patologie psichiatriche e i disturbi psicologici non vengono curati come la costituzione impone”. Ad un mese dal suo insediamento il garante siciliano per la tutela dei diritti dei detenuti Santi Consolo ha già messo in fila le priorità del suo mandato. A cominciare da Augusta. Cosa ha trovato in quel carcere? “Augusta da sempre è uno dei più difficili istituti di pena in Sicilia. In passato molte criticità sono state smussate dalla gestione illuminata dei direttori. Ma non sempre basta. Le due morti sono conseguenza anche di questi limiti. Uno sciopero della fame è una protesta pacifica. È chiaro che non è stata ascoltata”. C’è il sospetto che le comunicazioni all’esterno siano state fatte in ritardo. Che idea s’è fatto? “Lo sciopero della fame durava da lungo tempo. Ci sono punti su cui è doveroso che la magistratura indaghi e che non si possono rivelare. Posso dire che si tratta di due situazioni molto diverse: il detenuto russo arrivava dalla Calabria e voleva scontare la sua pena in patria, quello italiano era lì invece da molto tempo e la sua situazione era molto più grave”. Dal punto di vista clinico? “Era da tanto che l’italiano rifiutava il cibo, per lui i medici avevano chiesto il trasferimento nel centro di salute mentale di Barcellona Pozzo di Gotto, ma non c’erano posti disponibili. Il diritto alla salute e alla vita dei detenuti passa anche da questi aspetti: in Sicilia servono nuove strutture dove i detenuti possano essere assistiti da personale qualificato in patologie psichiatriche e disturbi psicologici”. Rimane l’evidenza che solo dopo la loro morte si è saputo il dramma che hanno vissuto... “Poco prima di morire per uno dei due è stato disposto il ricovero al pronto soccorso. Gli hanno dato un codice verde ed è tornato in carcere. La questione è rimasta silente. In teoria già dopo 15 giorni tutti vanno informati se un detenuto rifiuta di alimentarsi, a cominciare dal provveditore della Sicilia”. Come si esce da questa situazione? “Intanto cominciamo a nominare i garanti comunali per i diritti dei detenuti, uno per ogni città o paese che ospita un istituto di pena. Ad oggi ce ne sono solo due, a Palermo e Siracusa”. Dopo Augusta ha visitato anche l’istituto penale per minorenni di Palermo. “Al Malaspina la situazione più grave è la commistione nella stessa struttura di ragazzi minorenni dai 14 ai 18 anni con quelli che il legislatore chiama “i giovani adulti”, ovvero i maggiorenni sotto i 25 anni che continuano a scontare la pena negli istituti per minorenni. Lo prevede la riforma ed è profondamente sbagliata. Senza contare che viola la convenzione Onu del 1990 che vieta la condivisione del carcere fra minorenni e maggiorenni”. Milano. Il carcere è la “prima casa”, detenuto deve pagare l’Imu varesenews.it, 4 giugno 2023 Il contribuente ha la residenza nel penitenziario di Bollate, per questo motivo il Comune ha dovuto applicare l’aliquota sulla seconda casa. Il sindaco: “Questa legge è blindata, non avevamo altre soluzioni”. “Dura lex sed lex” recita una massima latina medievale. La legge è dura, ma è sempre la legge, quindi non può essere derogata, nemmeno quando di mezzo ci sono ragioni di umanità. Ne sa qualcosa il sindaco di Monvalle, Franco Oregioni, che ha chiesto il pagamento dell’Imu a un suo concittadino detenuto nel carcere di Bollate (Milano) dove sta scontando una pena definitiva. “Avendo questa persona la residenza anagrafica nel penitenziario, quella è considerata la sua abitazione principale - spiega Oregioni -. Quindi per altri due immobili che ha in comproprietà con i famigliari abbiamo dovuto applicare l’aliquota prevista per la seconda casa”. Il sindaco di Monvalle si è messo una mano sul cuore, cercando tra le pieghe del testo legislativo una “soluzione” per il contribuente detenuto e non avendola trovata ha consultato anche i regolamenti Imu di Varese e Milano. “Prima di procedere ad un’applicazione draconiana della legge, abbiamo approfondito il tema e valutate tutte le ipotesi - continua il primo cittadino- . Quindi non c’è stata alcuna disparità di trattamento. Purtroppo questa legge è blindata perché il passaggio da un’aliquota all’altra è previsto solo in due casi: per gli anziani che trasferiscono la residenza e per i disabili”. Oregioni sa che questa è una situazione limite in cui ogni particolare puo’ assumere, suo malgrado, i contorni di una discriminazione. E forse è anche per questo motivo che sottolinea il trattamento riservato alla casa dove risiedono i figli e la moglie del contribuente: “In quel caso invece abbiamo applicato tutte le detrazioni previste per l’abitazione principale, 200 euro più 50 euro per ogni figlio, e così l’imposta è andata a zero”. Al detenuto non sono state notificate cartelle esattoriali, ma solo una lettera interlocutoria in cui l’amministrazione comunale contesta il mancato pagamento di una quota relativa all’anno 2012 spiegando le ragioni dell’applicazione dell’aliquota più gravosa prevista per la seconda abitazione. “Mi auguro - conclude il sindaco - che questa anomalia tutta italiana venga risolta dal legislatore, magari prendendo in considerazione oltre ai detenuti anche altri casi, come quelli dei lungodegenti”. Brindisi. La danza aiuta i detenuti, i laboratori in carcere: “L’arte favorisce il riscatto” di Riccardo Celli ledicoladelsud.it, 4 giugno 2023 Quando si immagina il carcere ed i suoi detenuti si immaginano persone dure e scontrose, il cui unico interesse è delinquere. Eppure da qualche anno a questa parte, a Brindisi, parlando di detenuti si parla anche di abili danzatori, che cercano attraverso l’arte il riscatto, prima personale e poi sociale. Questo grazie a Vito Alfarano, coreografo e direttore artistico di “AlphaZTL”, compagnia d’arte dinamica che dal 2015 opera anche nel carcere di Brindisi. “Da ormai otto anni - racconta Alfarano - organizziamo un laboratorio di danza all’interno della casa circondariale di Brindisi. Questo in quanto reputiamo l’arte propedeutica al riscatto personale e sociale dell’individuo, in quanto insegna a stare bene con gli altri e con se stessi, non vergognandosi delle proprie emozioni che inevitabilmente danzare scaturisce”. Non un semplice laboratorio artistico quindi, ma una vera e propria occasione per il detenuto di esprimere i propri sentimenti e di sentirsi importante. “Una volta un detenuto mi disse - ci rivela emozionato - che tutti all’interno del carcere appaiono duri e forti, ma che la notte anche il più “temuto” piange. Tra quelle mura ci si sente soli. Per questo ogni detenuto che fa parte del progetto dà tutto se stesso durante le prove: è uno dei pochi momenti della giornata in cui sente il calore di qualcuno”. Vito, insieme ai suoi collaboratori, insegna a ballare a chi nella vita ha sbagliato, anche a chi è ormai anziano o mai immaginava di poter danzare. Ciò che i detenuti insegnano a Vito però è molto di più. “Mentirei se dicessi che sono io a dare e loro a ricevere. Il più delle volte è il contrario. Grazie ai loro sguardi e alle loro parole, ho scoperto che l’amore e il bene che può dare un detenuto difficilmente lo può dare chi è libero. Loro pensano - conclude - che sia io a farli diventare persone migliori, ma è assolutamente il contrario”. A novembre i detenuti che hanno preso parte a questo progetto si esibiranno durante la “Brindisi performing arts”, in quello che sarà uno spettacolo dall’inevitabile sapore di libertà. Alfarano ci tiene a precisa che tra le mura del carcere, gli allievi per lui sono tutti uguali. “Non chiedo mai - spiega - cosa hanno fatto, quali sono i reati per i quali sono detenuti. Non voglio conoscere la loro storia criminale ma solo quella umana. Quali sono le loro emozioni e come la danza può aiutarli a trovare un equilibrio psicofisico”. Giustizia, in un libro il lungo cammino delle magistrate di Maria Concetta Tringali Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2023 Si intitola “Magistrate, finalmente” l’ultimo libro di Eliana Di Caro edito da Il Mulino. Il volume della giornalista del Sole 24 Ore, autrice meno di due anni fa di “Le madri della Costituzione”, ha il pregio di risultare - ancora una volta - un luogo dove trattenere memoria. In circa 170 pagine Di Caro fissa le vite di quelle che furono le prime giudici del nostro Paese. Siamo nel 1963 e a vincere un concorso che non era mai stato aperto se non agli uomini sono Graziana Calcagno, Emilia Capelli, Raffaella d’Antonio, Giulia De Marco, Letizia De Martino, Annunziata Izzo, Ada Lepore, Gabriella Luccioli. Il volume dedica tutta la prima parte a una premessa che si dipana come attraversando lo spazio e il tempo, e traccia il lungo cammino delle magistrate d’Italia. L’idea, per la stessa ammissione dell’autrice, viene proprio dagli studi sull’Assemblea Costituente, dove il nodo dell’accesso delle donne alla carriera giudiziaria appare irrisolvibile. Fra le righe si intravedono l’ignoranza e il pregiudizio, il grumo di preconcetti e stereotipi contro cui devono scontrarsi le protagoniste dell’elaborazione della nostra Carta Costituzionale. A cominciare da Lina Merlin. A lei, rimasta nella memoria per la legge che ha messo al bando le case chiuse e lo sfruttamento della prostituzione, dobbiamo l’art. 3 della Costituzione nella formulazione che vieta le discriminazioni a partire proprio dalle distinzioni di sesso. La senatrice socialista, come le esponenti comuniste. Teresa Mattei e Maria Maddalena Rossi spingono perché si metta nero su bianco che “le donne hanno diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della Magistratura”. Vi si oppongono gli argomenti feroci di chi resiste. Al tavolo, posizioni che paiono inconciliabili. Si guardi alle parole dell’avvocato Bruno Villabruna, dell’Unione democratica nazionale, per avere un’idea precisa. Secondo colui che poi diventerà segretario del Partito liberale, il giorno in cui si affidasse l’amministrazione della giustizia a un corpo giudiziario misto si porterebbe nel “sacro tempio” “un elemento in più di confusione, di dissonanza, di contrasto”, si creerebbe, addirittura, una giustizia “bilingue” in grado di parlare linguaggi diversi. “Se tutto questo possa giovare al prestigio, alla serietà della giustizia, alla certezza nell’applicazione della legge, lo lascio giudicare a voi”, conclude. Questa è la considerazione di cui godono le donne nell’immediato dopoguerra, anche ai più alti livelli dello Stato. Il libro racconta l’Italia: quella degli uomini certamente, segnata dall’arroganza di chi sa che tutto gli è concesso e non intende cedere di un passo il privilegio che nasce semplicemente dall’essere maschio. Ma racconta allo stesso modo quella delle donne e delle battaglie che percorrono come corrente elettrica il nostro mondo, per incendiarlo e farlo brillare. A metà degli anni Sessanta e soprattutto dopo gli anni Settanta, nulla sarà più come prima. Il cambiamento avviene con una gradualità che è lentezza. Arrivano lo Statuto dei lavoratori, la riforma del diritto di famiglia che pone le basi per la parità tra i coniugi, la legge sull’aborto e quella sul divorzio. Ma resta molto ancora da fare. Il delitto d’onore sarà cancellato solo nel 1981, lo stupro riconoscerà nella donna la vittima solo nel 1996. E per i ruoli apicali, per le posizioni di prestigio e di potere, non è ancora finita. Nel 1987 però le vincitrici di quel concorso in magistratura - precluso fino al 1963 - saranno per la prima volta ben più numerose dei colleghi uomini. È il sorpasso che spariglia, il segno della distanza che anno dopo anno si andrà accorciando. La seconda parte del volume è dedicata tutta a loro, alle magistrate e alle loro vite. Le disegna com’erano: assolute protagoniste di una lotta che fu di poche, ma che in realtà apparteneva a ognuna di noi. Ritratti come camei, fotografie in bianco e nero destinate a colorare l’esistenza di tutte, per tutti gli anni a venire. Graziana e le altre si muovono tra le pagine e ci accorgiamo che sono scorci di una storia d’Italia troppo poco conosciuta. A loro dobbiamo molto. Se oggi - ci chiamiamo Laura, Adriana o Monica, o con qualsiasi altro nome - entriamo a palazzo di giustizia e sediamo su quegli scranni da protagoniste, è merito dell’impegno e della lucidità di quelle donne. Sappiamo, tuttavia, di dovere - ancora - dimostrare un po’ di più. “Tutte le cose che ho perso”, in un libro la raccolta dei racconti delle donne detenute Il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2023 Pubblichiamo un estratto del libro “Tutte le cose che ho perso. Storie di donne dietro le sbarre”, di Katya Maugeri edito da Villaggio Maori Edizioni. “Il peggior rumore che si possa sentire in carcere è quello delle chiavi. Di ottone, pesanti, che tutte le mattine alle cinque e mezza e la sera alle otto senti girare per tre volte: l’ho sentito per troppo tempo. Resta l’eco in fondo al cuore e la tua testa sembra non voler più accettare nessun suono che solo possa assomigliarli. Dopo tanti anni trascorsi a sentire quei rumori, a respirare odori marci, vivo la mia casa ai domiciliari, con un pappagallo al quale dedicare ogni attenzione. Sarò diventata matta, chissà! Lo dovrebbero raccontare tutti che tra quelle mura il tempo smette di esistere: tornano solo gli sbagli - la notte - a prenderti a schiaffi. E che dolore! Lo stesso che ho procurato alle persone che ho amato. Una sorta di legge del contrappasso. Mia madre non si è mai presa cura di me, mai. Era impegnata con i suoi traffici illegali, così all’età di cinque anni vengo trasferita in un istituto. Dai cinque ai tredici anni, fino a quando mia nonna decide di portarmi con sé. Molto meglio la galera. Peggio, molto peggio di qualunque altra reclusione, vivere con mia nonna intendo. Non ricordo molto di quegli anni, solo la sua rigidità e le attenzioni ‘eccessivamente’ affettuose di mio zio. Poi la morte di mia madre. A quel punto, in preda a un dolore lacerante, anche se in realtà io ho sempre vissuto senza di lei, tento il suicidio. Sopravvivo. In quel periodo inizia la mia dipendenza alla cocaina. L’ho iniziata troppo presto, avevo tredici anni: spacciavo la sera e il giorno studiavo e mi “facevo”. Ero brillante, nessuno avrebbe mai potuto attaccarmi. Mi sentivo invincibile, perfetta, con una vita davanti. Volevo però liberarmi dall’ombra di mio zio, dalla cattiveria di mia nonna: il matrimonio sembrava - ai tempi - l’unica via di liberazione. E invece libera, io così bella e con mille sogni da realizzare, non ci sono stata mai. Sono stata libera di scegliere, quello sì. Ma ho scelto la mia fine da subito. Una vita da tossica. La cocaina è nella testa, sta là e chi te la toglie più? Quell’adrenalina effimera che credi di poter gestire e invece è solo lei: una dama perfida che si insinua nei tuoi pensieri fino ad annientare tutto il resto. Diventa la priorità e tutto il resto è solo un contorno offuscato dai confini non definiti. Dove iniziavo io e dove finiva lei? Era in me come un amante che vuole sempre di più, insaziabile lei di me e io di lei. Un rapporto esclusivo che non potevo condividere con nessuno. Ero sola, con addosso troppe sconfitte per aver solo tredici anni: eppure lei - la sostanza - c’era tutte le volte che il mio corpo e la mia mente ne avevano bisogno. Lei non mi tradiva, lei mi faceva stare bene, mi soddisfaceva, cancellava seppure momentaneamente i brutti ricordi e le mie insicurezze, mi regalava attimi di eternità. La cocaina non mi aveva mai deluso: tanto compravo e tanto avevo. Non ero mai lucida. Non ero lucida nemmeno a casa quando mio figlio giocava, studiava. Io mi rinchiudevo in camera da letto e mi concedevo a ‘lei’. La dipendenza è una bestia feroce che si appropria del pensiero, della volontà, dell’autostima, del voler fare. Senza, mi sentivo nulla, priva di ogni forza. E, in primis, non riuscivo a fare la mamma: trascuravo i miei ruoli principali. Evitavo di accompagnare mio figlio a scuola, ai campi sportivi, volevo solo stare in camera mia. Un giorno però distrattamente la porta restò aperta e mio figlio vide tutto. La sua mamma si drogava. Invece di giocare con lui, di andare al parco con la bici, sua madre tirava cocaina. La mia condanna è iniziata in quel preciso istante. Sotto l’effetto della sostanza mi sembrava di essere abitata da un avatar, ero una spettatrice di una vita che non sentivo mia: la mia laurea, i miei sogni, le mie potenzialità diventate polvere. Una polvere bianca che mi stava uccidendo. Anche se adesso vivo in casa, la mia anima sembra rinchiusa ancora lì in quella cella. Non chiudo nulla a chiave, nemmeno la porta di casa. Non metto mai chiavi vicine per evitarne il contatto, quindi il rumore. Non sopporto le porte chiuse, puoi anche uscire da quelle celle ma è un ‘fuori’ che ti fa sentire ancora sbagliata, in difetto, fuori luogo. Fuori dai canoni stabiliti. “Il carcere è un universo parallelo, una realtà intrisa di pensieri disordinati, confusi, dove la stessa identità personale rischia di perdersi. Ho incontrato donne che, pur mantenendo legami con i propri figli all’esterno, hanno difficoltà a esercitare il ruolo di madre, hanno paura di essere dimenticate, di essere considerate come ‘coloro che hanno abbandonato il figlio’; spesso hanno difficoltà anche a mantenere un rapporto normale con lui, sia visivo sia epistolare. Anche perché gli incontri e le telefonate vengono ostacolati dalla rabbia, dal rancore. Un figlio che vede una madre drogarsi è travolto da uno smarrimento che lo conduce ovunque, ma certamente non tra le sue braccia. È una condanna dalla quale non potrò mai liberarmi”. “La mafia non deve fermarvi”. Rosaria Costa e il suo appello ai giovani di Lucio Luca La Repubblica, 4 giugno 2023 La vedova di Vito Schifani, l’agente di scorta morto nella strage di Capaci, racconta la sua storia e le sue speranze in un libro edito da Rizzoli. Vito Schifani e Rosaria Costa erano due “ragazzini” nel 1992. Lui, poliziotto delle scorte, appassionato di atletica leggera, aveva 27 anni. Lei, che di anni ne aveva appena 22, si divideva tra il bambino piccolo Antonino Emanuele e l’ansia di aspettare a casa un marito che faceva un lavoro pericoloso. Estremamente pericoloso da quando, soprattutto, era stato assegnato alla salvaguardia di un giudice importante come Giovanni Falcone. Si erano sposati soltanto un anno prima, “era tutto perfetto” scrive in un libro che è un viaggio nel passato ma con una speranza riposta sui giovani. Quelli a cui dice La mafia non deve fermarvi, il titolo del volume appena uscito per Rizzoli con il sottotitolo Una vita dedicata alla lotta per la legalità attraverso il racconto della vedova Schifani. Il 23 maggio del 1992 l’ultima telefonata tra Vito e Rosaria: “Siamo al Bar Ciro’s, aspettiamo la chiamata”. Vito, Antonio, Rocco, andarono poi in aeroporto per scortare Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo. La bomba sulla strada del ritorno, l’inferno, l’attacco feroce della mafia allo Stato. I funerali con quella donna straziata dal dolore che sale sul pulpito e con voce rotta dal dolore pronuncia parole che sono rimaste nella storia: “Io vi perdono, ma voi dovete mettervi in ginocchio”. Ora Rosaria non vive più in Sicilia, si è trasferita a Sanremo dove ha scelto di vivere insieme al figlio perché non voleva essere solo “la moglie del poliziotto ucciso”. Ma non ha dimenticato, certo, sarebbe stato impossibile. E questi trent’anni li ha raccontati, giorno dopo giorno, in un diario “che ho iniziato a scrivere per non perdere i miei ricordi”. “Mentre il sole si alzava imponente sul giorno - racconta nel libro - una mattina, davanti allo specchio passai il rasoio tra i capelli, già indebolito dalle cure. Più osservavo la mia immagine riflessa e più vedevo in lei una nemica pronta a colpire la mia femminilità con le sue critiche, le sue insicurezze. Cercai allora di non soffermarmi sulla mia figura, oramai diventata avversa, e iniziai a guardarmi nel profondo oltre la mia anima”. Rosaria ricorda gli istanti prima di salire sul pulpito e diventare uno dei simboli della riscossa della sua terra: “Mi rivolsi a Dio e gli dissi: Padre celeste, ti prego, aiutami in questo momento. Non mangiavo da due giorni, bevevo solamente acqua”. Guardò le persone che erano in chiesa: “Ero sicura che anche gli uomini della mafia fossero seduti lì, a godersi lo spettacolo tra persone insospettabili... E io mi sentivo sempre più prigioniera del dolore, dell’ingiustizia”. Voleva combattere Rosaria, voleva restare in Sicilia a lottare, reclamare il proprio diritto ad avere giustizia, e per questo si era avvicinata a Paolo Borsellino legandosi a lui, ma la strage di via D’Amelio rinnovò presto lo stesso dolore. Gli anni successivi, segnati dall’arresto di Totò Riina, la videro sempre in prima fila in quella che, da allora e ancora oggi, lei interpreta come una missione di testimonianza. Oggi però è una donna nuova, testimone diretta di un’epoca drammatica, consapevole di dover continuare a tenere alta la bandiera della legalità. Lavoro addio, se non nobilita: i giovani scoprono le “dimissioni di coscienza” di Elena Comelli Corriere della Sera, 4 giugno 2023 La crisi post-Covid di Generazione Z e Millennials. Si licenziano per coscienza e per il clima. Lo studio su lavoratori inglesi e americani: uno su tre ha lasciato per conflitti etici. Il lavoro nobilita, ma solo se è coerente con i nostri valori. In caso contrario, meglio licenziarsi. Così, dopo il fenomeno delle “grandi dimissioni” e delle “dimissioni silenziose”, innescate dalla pandemia, il 2023 è stato definito l’anno delle “dimissioni di coscienza” (conscious quitting) o addirittura delle dimissioni a favore del clima (climate quitting). I protagonisti di questa nuova ondata sono soprattutto i giovani nati a cavallo del nuovo secolo, dalla Generazione Z in poi, ma il fenomeno tocca anche i lavoratori più navigati. Il primo a esaminare la questione a fondo è stato Paul Polman, ex amministratore delegato di Unilever, in uno studio intitolato “From quiet quitting to conscious quitting”. “Stiamo vivendo un momento senza precedenti nella storia umana, un momento di “permacrisi”, in cui pandemie, guerre, emergenza climatica, turbolenze economiche e divisioni sociali minacciano, a vari livelli, la nostra stabilità e il nostro futuro. I lavoratori più giovani sono molto preoccupati per il mondo che erediteranno. Non dovrebbe sorprendere il fatto che molti vogliano dedicare il proprio tempo e il proprio talento alle aziende che si stanno impegnando per essere parte della soluzione. O che siano disposti a licenziarsi quando le loro aziende li deludono”, commenta Polman, che ha base a Londra ma è cresciuto in Olanda ed è di casa ai piani alti delle multinazionali europee. Lo studio condotto dal suo team intervistando 4.000 lavoratori americani e britannici rivela l’entità delle “dimissioni di coscienza”: un dipendente su due si dice pronto a lasciare il posto di lavoro se i valori dell’azienda non sono in linea con i propri (45% in Uk, 51% negli Usa). Una dichiarazione d’intenti che non è solo teorica, visto che un terzo degli intervistati si è già dimesso in passato a causa di un conflitto di valori (35% sia in Uk che in Usa). I giovani sono ancora più inclini a tagliare i ponti: oltre quattro su dieci della Generazione Z e dei Millennials dichiarano di aver già abbandonato un incarico per motivi etici (44% in Uk, 48% negli Usa). Le dimissioni “di coscienza” sono diffuse anche fra i lavoratori del Vecchio Continente: secondo un sondaggio Odoxa per Oracle, un lavoratore europeo su quattro afferma che potrebbe dimettersi dal proprio incarico per entrare in un’azienda più in linea con i propri valori. Una percentuale che potrebbe anche essere riduttiva rispetto alla realtà: secondo uno studio pubblicato quest’anno dalla Banca europea per gli investimenti, il 62% degli europei considera importante che il proprio datore di lavoro dia priorità allo sviluppo sostenibile. E i nuovi entranti nel mercato del lavoro, la Generazione Z, sono particolarmente sensibili a questo argomento. Sempre secondo la Bei, il 76% degli europei tra i 20 ei 29 anni afferma che lo sviluppo sostenibile è un fattore importante, addirittura decisivo (24%) nella scelta del datore di lavoro. La volontà di dare un senso alla propria attività lavorativa si rivela dunque come uno dei fattori trainanti che alimentano l’ondata di dimissioni volontarie, l’aumento del turnover e le difficoltà di reclutamento caratteristiche del periodo post-crisi sanitaria. Un trend confermato anche dalla proliferazione di piattaforme come jobsforgood.io, dogoodjobs.co.nz, 80000hours.org (riferito al numero di ore spese al lavoro in una vita media), che aiutano a trovare degli impieghi con un impatto positivo, sociale e ambientale. Per non parlare delle società di cacciatori di teste specializzate in questo tipo di professioni. E se ne occupano anche i filosofi: sul forum del Centre for Effective Altruism di Oxford, ad esempio, la scelta di un lavoro che abbia un impatto positivo sulla società e sul Pianeta è indicata come la più importante da operare nella vita. Paura del futuro - Fra le motivazioni più comuni alla base delle preoccupazioni etiche nella scelta del lavoro c’è l’acuirsi della crisi ambientale e climatica. Dal sondaggio della Bei risulta che il 67% degli europei ha paura del futuro. La crisi sanitaria sembra aver svolto un ruolo catalizzatore, dando alle persone il tempo di riflettere sul posto occupato dal lavoro nella loro vita, sulla loro utilità sociale e sulle questioni ambientali e climatiche. Non a caso, le “dimissioni climatiche” sono più diffuse fra i giovani, la fascia di popolazione più preoccupata dalla crisi climatica e ambientale e che beneficia di maggiore mobilità nel mercato del lavoro. Le “dimissioni di coscienza” sono anche associate alla sofferenza psicologica causata da questo tipo di conflitti interiori, che possono influire sulla salute fisica e mentale dei dipendenti. Per chi si trova di fronte a conflitti etici o a un sentimento di inutilità, le dimissioni possono quindi essere un modo per sfuggire al burn-out, i cui numeri stanno esplodendo. Giuseppe De Rita: “La crisi è sociale, non economica. Italiani spaventati perché senza obiettivi” di Francesco Rigatelli La Stampa, 4 giugno 2023 Il sociologo: “Si va avanti per inerzia, c’è timore del futuro e non si fanno figli la gente non vuole l’autoritarismo, se Meloni ci provasse per lei finirebbe male”. Giuseppe De Rita è uno dei maggiori sociologi italiani. Nel 1964 è stato tra i fondatori del Censis, di cui è diventato consigliere delegato nel 1974 e del quale è presidente dal 2007. È stato inoltre presidente del Cnel dal 1989 al 2000 L’economia europea non è precipitata in recessione, come si temeva, ma l’inflazione sta penalizzando i più deboli. È così? “Sì e lo è sempre stato, perché l’aumento dei prezzi colpisce chi consuma una quota maggiore del proprio reddito per acquistare beni di prima necessità, come alimentari, energia e trasporti. Questi ultimi sono tra i più colpiti dall’inflazione, ma con un po’ di pazienza tutto si redistribuirà”. Nel mentre crescono le diseguaglianze? “Sì, ma è anche vero che uno sviluppo come quello che viviamo, per quanto timido, risulta sempre squilibrato. Lievitano i prezzi e pure le esportazioni. La verità è che nonostante la pandemia, la guerra e la disoccupazione la crisi non c’è stata e non c’è, non a caso l’occupazione è ai massimi storici”. E i sei milioni di poveri in costante aumento? “Quelli che vanno alla Caritas sono molti di meno. È difficile contare i poveri in Italia, ma davvero in pochi rinunciano alle feste, alle vacanze, a bar e ristoranti”. Sembra Berlusconi quando diceva che i ristoranti sono pieni… Come si concilia questo aspetto con la crescita delle diseguaglianze? “In un Paese in pieno sviluppo i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri. È un mito buonista pensare che la crescita non porti diseguaglianze”. Ma una volta la società era più coesa o no? “La società ha sempre tenuto e ancora tiene. È nelle sue fibre sottili che ci sono problemi, nei femminicidi, nella violenza giovanile: dove non conta il denaro, ma l’esclusione e la disumanità”. La crisi è più sociale che economica? “In questa fase sì. Nell’ultimo rapporto Censis si fotografa una crisi dei rapporti elementari, da moglie a marito, da amante ad amante, da amico ad amico. Si è persa la carica di andare avanti e di crescere, e l’adrenalina di ciascuno di noi finisce nel rancore. Questo sentimento colpisce chi ci sta vicino, non si sfoga in piazza dicendo “morte a Meloni”“. L’Italia cresce anche se gli italiani non ci credono? “Sì, da una decina d’anni sono cresciute le grandi filiere, il made in Italy, l’alimentare, la meccanica, il turismo, le piccole imprese che sono la spina dorsale del Paese”. Manca un senso d’impresa collettivo? “Manca un traguardo. La società va avanti per inerzia, si barcamena senza un’idea di cosa sarà. Per questo c’è paura del futuro. Peccato perché quando l’Italia ha avuto un traguardo ce l’ha sempre fatta. Ora ci si accontenta che la barca vada”. Il governo non lo mostra un traguardo? “Potrei dire che ce l’ha per se stesso, vuole affermarsi e consolidarsi. Ma è un tema suo, non del Paese”. Alla premier Meloni manca un’idea di futuro? “Probabilmente l’idea che aveva di un futuro nazionalista e sovranista ha dovuto fare i conti con l’Europa, l’Ucraina, la Cina, ed è rimasto solo il suo traguardo personale”. Il Pnrr è un traguardo? “Sì, ma non basta a far sognare l’Italia. Non si può dire al mio barista che il digitale o l’ecologia siano il futuro. Serve un piano tangibile e va spiegato. Se la gente lo capisce bene, se lo capiscono solo quattro tecnocrati a Bruxelles non funziona. Il Pnrr è una grande opportunità, ma va calato nel Paese”. Esiste un rischio autoritarismo? “No, e la Corte dei conti che ha tanti difetti non è un motivo sufficiente. E poi nel Paese non c’è alcuna richiesta di autoritarismo. Meloni magari lo vuole, ma non la gente. Per cui nel caso ci provasse finirebbe male per lei”. Si riferisce alla riforma presidenziale? “Il referendum di Renzi insegna. Se si toccasse la figura del Presidente Mattarella le persone si spaventerebbero”. Perché da un lato e dall’altro si parla tanto di temi etici senza affrontarli? “Vengono sfruttati politicamente, mentre bisognerebbe ammettere che sono i problemi di tutti e che c’è poco di ideologico. In Italia viviamo di dibattito. Non siamo più la società dello spettacolo, ma degli eventi. Dal talk show alla parata del 2 giugno”. Tornando all’economia, nessun rischio di autunno caldo? “Ne abbiamo avuti tanti, ma ora la crisi economica non c’è e nemmeno i rivoluzionari”. Intanto i giovani protestano in tenda contro il caro affitti… “La loro protesta non sfocerà in nulla di rivoluzionario. Da un lato si prevedono nuovi studentati e dall’altro il mondo cambia, calano le iscrizioni universitarie e si studia online”. Neanche sulle pensioni i giovani faranno la rivoluzione? “No, perché si comprano il motorino con la pensione del nonno. L’Italia si impasta”. E chi ha il nonno povero? “Finora non si è lamentato più di tanto, evidentemente si arrangia”. Resta il problema della denatalità. “Un’altra crisi delle fibre sottili. È un tema di lungo periodo: non si fanno figli per tante ragioni, ma non per motivi strutturali o socioeconomici”. Non è colpa del precariato? “No, né dell’assenza degli asili nido”. Siamo tutti più egoisti allora? “E narcisisti. Oggi conta solo quel che facciamo noi, non i figli. Io ho otto figli, nati e cresciuti in un’Italia molto più povera, ma che scommetteva sul futuro. Oggi invece, come dicevo, manca un traguardo. Gli asili nido possono essere utili, ma va ricreata un’idea di futuro che superi l’egoismo”. La Thc è la nuova dipendenza tra i più giovani. Il dottore: “Lo usano per superare traumi e fobie” di Elena Stancanelli La Stampa, 4 giugno 2023 La dipendenza dell’adolescente è diversa da quella dell’adulto. Bisogna lavorare sul disagio prima che si trasformi in disturbo. “Su mille ragazzi, 350 fumano abitualmente cannabis, ma più dell’80% lo fa per un senso di necessità, come fosse una cura, perché sono fortemente traumatizzati (spesso per separazioni violente tra i loro genitori) soffrono di disturbi di ansia, fobia sociale. Il pusher è il loro medico. Quando incontrano me, mi trattano allo stesso modo: anche io sono un pusher, sono un pusher di terapia. Mi farà stare altrettanto bene, si chiedono”. Psichiatra e psicoterapeuta, il dottor Sergio de Filippis dirige Villa Von Siebenthal, a Genzano, vicino Roma. Fondata nel 1959 da un neuropsichiatra di origine tedesca, Wolfgang von Siebenthal, accoglie soprattutto adolescenti, e soprattutto adolescenti con problemi di tossicodipendenza. Con lui c’è Susanna Pacifici, neuropsichiatra infantile. Qui arrivano ragazzi dall’ospedale Bambin Gesù o dal Policlinico nelle fasi acute della crisi, quelle che i medici chiamano acuzie. La psichiatria cerca le cause lontano dall’episodio psicotico, confronta, tratta il disagio psichico, soprattutto quello degli adolescenti, come la punta esterna di un dolore profondo, che ha radici affondate in molte cose. “Tantissimi di questi ragazzi hanno questioni pre-morbose, traumi non risolti. Spesso sono stati adottati, bullizzati sia a livello fisico sia a livello psicologico. Noi ci accorgiamo dell’adolescente soltanto quando l’adolescente compie qualche cavolata. Ma cos’è successo prima?”. L’adozione, mi spiega, è un percorso complicato che deve essere seguito, accompagnato da un percorso di psicoterapia. E si porta dietro due traumi: quello dell’abbandono subito dal figlio da parte della madre biologica, e quello della madre affidataria, che spesso è una donna che non è riuscita ad avere figli e ha subito il dolore di quello che percepisce come una sua impotenza. “Vediamo genitori che dicono “non lo voglio più, perché non era come me l’hanno descritto”. Vediamo ragazzi abbandonati ai servizi, o qui. Li restituiscono, capisce? O coppie che dopo l’adozione si separano. Cosa succede a quel figlio in quel momento? Per non dire dell’epigenetica. Bisognerebbe sapere come stava la madre, se durante la gravidanza la madre faceva uso di alcool o altre sostanze, dovrebbe esserci una sorta di database per potersi occupare nel modo giusto di quel bambino e molto spesso questo è impossibile. Attualmente abbiamo una ragazza ricoverata che viene dall’India. Perché potesse essere adottata le hanno dovuto cambiare la data di nascita: hanno dichiarato 16 anni ma potrebbe averne almeno diciotto. È arrivata qui in Italia, adottata da due persone benestanti e si è trovata spaesata. Ha vissuto tantissimi traumi, è grande, ricorda tutto, a volte ha dei flashback che la sconvolgono. È qui da noi in attesa di una sistemazione comunitaria perché a casa non riesce a stare. I genitori adottivi non riescono a gestirla e il percorso dovrà proseguire in una struttura”. Nessuno dei ragazzi è presente oggi, sono in vacanza in Puglia tutti insieme, seguiti da una trasmissione televisiva che si intitola “Fame d’amore”, una docu-serie condotta da Francesca Fialdini. Molti di questi ragazzi sono arrivati qui per una dipendenza, e quindi parliamo a lungo di sostanze e del loro effetto sui ragazzi. “La dipendenza dell’adolescente è diversa da quella dell’adulto. Non si tratta quasi mai di cocaina eroina o alcool. I ragazzi sono dipendenti da Thc”. Mi prende un colpo. Ma come, dico io, quindi esiste una dipendenza anche dalla marijuana o dall’hashish? “Adesso sì. Fino a qualche tempo fa la cannabis conteneva una percentuale di Thc molto bassa, tra il 3 al 5% e dunque non dava dipendenza. Adesso la più leggera è arrivata al 17%. Ma l’erba californiana o quella che viene da Amsterdam - tra queste la cosiddetta Gorilla o la Bruce Banner - può arrivare al 31%. E questo ovviamente cambia tutto”. Ma com’è possibile, chiedo, cosa è successo, come ci sono riusciti? “Sono trattate chimicamente o geneticamente modificate. Sa che cosa produce una percentuale simile di Thc nel cervello di un adolescente?”. Non ne ho idea, ovviamente, ma comincio a pensare che non sia niente di buono. “La canna non ha lo stigma sociale dell’eroina, anche se fumi parecchio, se inizi a fumare la mattina e vai avanti tutto il giorno, non ti senti un tossico. I genitori per evitare conflitti o semplicemente perché non ne capiscono il pericolo, permettono ai figli di fumare in casa. Ma cosa significa farsi le canne? Se io e lei ci facciamo una canna domenica per rilassarci e chiacchierare, non succede niente, ma un ragazzino che fuma, e fuma sempre di più, e soprattutto fuma in casa da solo, si trasforma in un ritirato sociale. Oltre al fatto che, come dicevo, il cervello di un ragazzino è diverso da quello di un adulto”. Spoiler: qui arriva la parte più tosta per i genitori che stanno leggendo questo articolo. Ma anche per i ragazzini, a patto che ce ne sia qualcuno. E se non ci fosse, potrebbe essere una buona idea che quei genitori che si terrorizzassero facessero leggere le righe che seguono a quei figli che da soli non lo leggerebbero. Mi rendo conto che ci sono metodi più eleganti del terrore per convincere qualcuno a non fare qualcosa che può fargli molto male. Ma il terrore, purtroppo, è molto efficace. Dunque: “Il genitore adulto si rende conto del problema quando il ragazzo comincia a spaccare tutto, quando comincia a tagliarsi, a bruciarsi, a parlare con entità strane… ma questi comportamento derivano dall’eccesso di dopamina. La dopamina arriva al cervello attraverso due proteine: la parvoalbumina e la colecistochinina. Che vengono prodotte dall’intestino ma provocano gli stimoli al livello della corteccia cerebrale. La prima va a stimolare le cosiddette onde gamma che favoriscono il passaggio graduale della dopamina. Questi stimoli vengono controllati dalla seconda, la colecistochina, che contiene il ricettore del Thc. Quindi se io fumo tanto Thc, e chiudo quel ricettore, non posso più controllare il passaggio di dopamina e la dopamina corre, creando quei disturbi dell’umore”. Ma le canne servono per rilassarsi, com’è possibile che producano questa eccitazione, chiedo io. “Sono geneticamente modificate. La Gorilla per esempio contiene sia la sativa (60%) che è eccitante, sia l’indica (40%) che è rilassante (la Bruce Banner 50 e 50) oltre a una lieve componente di Cbd. Ma il punto è la corteccia prefrontale. E questo è il vero guaio. La corteccia prefrontale si stabilizza tra i 26 e i 27 anni. Il sistema mesolimbico, che è il sistema del piacere, pieno di dopamina manda stimoli continui alla corteccia prefrontale, una corteccia prefrontale non perfettamente formata. E quindi si creano delle microlesioni, come delle ferite, che somigliano a dei piccoli ictus. Cosa che non avviene nel cervello di un adulto”. Ma queste ferite poi si rimarginano chiedo in preda al panico. “Sì, se il ragazzo smette in tempo di assumere Thc. Lo stesso guaio lo combinano le amfetamine e la cocaina, il cui rischio principale è però l’infarto. Noi abbiamo visto ragazze morte per un ictus esteso da picco ipertensivo da cocaina, dovuto a un’occlusione dell’arteria cerebrale media. E ne stiamo vedendo tante”. C’è una differenza di genere nell’uso delle sostanze? “I maschi iniziano prima, col Thc e l’alcool, e tendono ad avere un poliuso, le ragazze hanno tendenzialmente un monouso. Ma frequentando persone più adulte spesso arrivano alla cocaina prima dei loro coetanei. Il problema delle ragazze è che corrono più rischi rispetto, per esempio, all’ecstasy. Il ciclo produce nel corpo di una ragazza un’alterazione dell’ormone antidiuretico, quindi sudano tanto, si disidratano e rischiano uno shock che può essere letale. Ma basta un cracker, un po’ di acqua in discoteca per salvare loro la vita. Nei paesi sviluppati del Nord Europa, i gestori delle discoteche offrono ai ragazzi crackers e succhi di frutta gratis. È un modo per non chiudere gli occhi davanti al problema e limitare il danno”. I ragazzi dunque, a giudicare dalla casistica a disposizione del dottor de Filippis e dei ricoveri a Villa Von Siebenthal non amano molto la cocaina, preferiscono le anfetamine o l’Md, ma soprattutto il Thc. Al quale si avvicinano non per piacere ma come fosse una cura. Che differenza c’è tra l’azione di un farmaco, per esempio le benzodiazepine nel cervello - come quelle contenute nello Xanax - e altre sostanze come la cocaina? “La cocaina ha un’azione iper-stimolante e va ad agire sui ricettori dopaminergici, alternando anche i canali del calcio, lo Xanax agisce sui Gaba (i recettori del Gaba rispondono al legame dell’acido y-amminobutirrico, uno dei più importanti neurotrasmettitori inibitori nel sistema nervoso centrale dei vertebrati) che controllano l’ansia. L’effetto dello Xanax somiglia a quello del Cbd, calmante, o all’alcol. L’olio Cbd per esempio è un’ottima alternativa al Thc per chi ha problemi di ansia o insonnia, è protettivo, antiossidante, rilassa e non provoca nessun danno cerebrale. Anche gli oppioidi agiscono sui Gaba (tramite i recettori oppiodi mu, o Mor) e infatti sta di nuovo aumentando l’uso dell’eroina, non con il buco, ma fumata. Ma soprattutto aumenta l’uso dell’ossicodone in compresse, il depalgos per esempio. Che è un analgesico non troppo difficile da trovare. I medici li prescrivono per i dolori cronici, anche se gli oppioidi dovrebbe essere usati solo per dolori oncologici. Questi farmaci piacciono moltissimo ai ragazzi che li usano per ritrovare pace dopo essersi fatti qualsiasi cosa nei fine settimana. Cominciano anche da noi a esserci tante morti per Fentanyl, uno dei farmaci oppioidi più potenti in assoluto, che riescono anche ad estrarre dal cerotto”. Come si esce dalla dipendenza, chiedo. “Noi qui adesso abbiamo un ragazzo di 14 anni che ha fatto a 12 anni il primo coma etilico e aveva una forte dipendenza da Thc. Adesso è completamente pulito ed è uno dei miei testimoni nelle scuole. Riesce ad avere appeal perché parla della sua storia. Bisogna agire presto, attorno ai 12-13 anni, quando più o meno iniziano l’uso di queste sostanze. È cruciale che, insieme ai farmaci, si metta subito in atto una terapia di ascolto. Bisogna lavorare sul disagio prima che si trasformi in disturbo. Bisogna ascoltare, cambiare l’ottica dell’intervento. Non serve un intervento poliziesco e in cronico, prevenzione. Quando lavori con i ragazzi di 12 anni non puoi dire loro “quella sostanza fa male” ma andare a vedere se ci sono dei contesti in cui la sostanza trova un terreno fertile. Così cambia l’ottica dell’intervento. Bisogna intervenire sui ragazzi tenendo lo sguardo all’altezza del ragazzo, non dell’adulto. Andare nelle scuole a parlare, portare la salute mentale nella classi destigmatizzandola. Lo stigma della salute mentale se lo porta l’adulto, e non l’adolescente, che vuole solo essere ascoltato e seguito, ha paura. Ma ascoltare vuol dire non solo condividere ma anche non condividere un suo pensiero. Quanti adulti al ristorante danno loro il tablet ai bambini per farli giocare e stare buoni? Ma in quel modo nel bambino il sistema mesolimbico, strettamente implicato nella percezione del piacere, si attiva e comincia a vedere quanto è piacevole il tablet e quindi comincia a richiederlo sempre di più. Siamo noi, spesso, a consegnare l’addict. Le cose di cui i ragazzi si fidano di più sono l’attenzione, e l’esempio. È questo il nostro compito”. È iniziata la nuova corsa mondiale al riarmo, ma saranno in pochi a guadagnarci di Luca Attanasio Il Domani, 4 giugno 2023 La teoria del graduale depotenziamento delle tensioni, nata negli anni Sessanta, secondo alcuni ha aiutato a mettere fine alla Guerra Fredda. Oggi, soprattutto dopo l’invasione dell’Ucraina, appare superata e si assiste a un’impennata della spesa militare in occidente e a livello globale. Resta da capire però se spostare tutte queste risorse sulla Difesa sia davvero la strada che ci protegge o se, come dicono i pacifisti, porti solo al guadagno per pochi e all’aumento delle tensioni internazionali. Negli anni Sessanta lo psicologo statunitense Charles Egerton Osgood, in un periodo di grande corsa agli armamenti che le due superpotenze americana e sovietica stavano conducendo, propose nel suo “An alternative to war and surrender” una teoria di graduale depotenziamento delle tensioni che andava sotto l’acronimo Grit (Graduated reciprocation in tension reduction). L’idea, applicabile in ogni caso di conflitto, partiva dall’assunto che nessuna delle due parti intendesse realmente attaccare e fare male all’altra, il problema era che entrambe percepivano l’opposto. Alla base dello sguardo perennemente in cagnesco tra le due, quindi, secondo Osgood, c’era un falso problema e politiche conciliatorie sarebbero state per lui utili a ridurre sospetti e tensioni. Secondo lo storico Alan R. Collins queste strategie Grit, tuttora utilizzate in ambiti di conflict resolution, avrebbero sostenuto, un trentennio più tardi, la scelta di Gorbachev di compiere lo storico passo che mise fine alla guerra fredda. Altri sostengono, invece, che a far desistere Mosca, era stato il clamoroso aumento di arsenali militari voluto da Reagan negli anni precedenti. Volendo analizzare i fatti, però, tre anni dopo il crollo della cortina di ferro, proprio dall’allora presidente americano George H.W. Bush giunse un chiaro segnale di distensione: “Possiamo raccogliere - dichiarò nel 1992 - un autentico dividendo della pace quest’anno e poi l’anno successivo, sotto forma di una riduzione permanente dei bilanci della difesa”. Detto, fatto, gli Stati Uniti passarono dal 6 per cento del Pil per spese militari nel 1989 a circa il 3 per cento in dieci anni. Da quel momento in poi, le spese per la difesa nel mondo, andarono declinando passando da 847 miliardi di dollari del 1992 ai 756 del 2000 (fonte Sipri, Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, ndr). La nuova corsa agli armamenti - Poi è arrivato l’11 settembre, i conflitti in Afghanistan e Iraq e si è aperta una nuova stagione di corsa agli armamenti, al passo con il nuovo millennio. Ora, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, i rumors di guerra tra Usa e Cina per Taiwan e i venti nucleari che spirano dall’Iran, la situazione sembra sfuggita di mano e blocchi di nazioni così come paesi singoli, si stanno attrezzando come mai prima in questo secolo. Dal 2001 in poi, si è assistito a un aumento graduale delle spese militari nel mondo con un’impennata dal 2015 che ha condotto nel 2022 a una crescita di spesa per la difesa a livello mondiale di quasi il 4 per cento in termini reali e a superare i due miliardi di dollari. Come riporta l’Economist, nel frattempo, i prezzi delle azioni delle aziende del settore hanno registrato un andamento migliore rispetto al mercato azionario complessivo mentre l’obiettivo che la Nato aveva dato a ogni paese membro di arrivare al 2 percento del Pil da destinare alla difesa, si sta rapidamente trasformando in a floor, not a ceiling, un punto di partenza non di arrivo. Il numero di paesi Nato che hanno già raggiunto l’obiettivo del 2 per cento è passato da tre nel 2014 a sette l’anno scorso e ci si aspetta che il tema sarà uno dei punti più caldi nel corso del vertice che si terrà in Lituania a luglio. La Polonia punta a raggiungere il 4 per cento entro il 2023 e a raddoppiare le dimensioni del suo esercito, la Francia, per bocca del suo ministro della Difesa Lecornu, vuole un aumento di investimento nei sistemi di difesa cibernetici, spaziali e sottomarini mentre Macron parla senza mezzi termini di un passaggio del suo paese a un’”economia di guerra”. La Germania ha già dichiarato di voler superare il tetto del 2 percento, il Giappone prevede di aumentare a 51,4 miliardi di dollari le spese militari, facendo registrare una crescita del 26,3 percento rispetto al 2022. Fa eccezione il Canada che, come dichiarato dal premier Justin Trudeau, non ha intenzione di “raggiungere mai” l’obiettivo del 2 percento. Il resto del mondo, ovviamente, non sta a guardare. Negli ultimi dieci anni le spese militari dell’India sono cresciute di circa il 50 per cento esattamente come nel suo vicino e storico nemico Pakistan. Il budget della difesa cinese è aumentato di circa il 75 per cento nell’ultimo decennio. I paesi del Golfo aumentano le spese così come vari stati africani, primo fra tutti l’Algeria che proprio qualche mese fa ha siglato un accordo monstre di circa 12 miliardi di dollari con Mosca per l’acquisto di armamenti che la porterà a un aumento atteso di spese allocate alla difesa del 130 per cento. Nei decenni successivi alla guerra fredda, per citare un dato molto significativo riportato dall’Economist, il mondo ha “liberato” circa 4 trilioni di dollari all’anno di spese militari che sono finiti alle infrastrutture, i servizi pubblici o utilizzati per ridurre il debito o le tasse. Ora? La questione dell’aumento delle spese militari pone, tra tante, due domande fondamentali: se si spende da una parte in quale altra si risparmia? E, è più sicuro un mondo iperarmato? “Il vantaggio economico - spiega Francesco Vignarca, coordinatore delle Campagne Rete Pace Disarmo - è per pochi, alcuni settori industriali e pezzi di politica traggono profitti enormi ma se vediamo i dati sia assoluti che relativi, l’investimento in armi non è per niente vantaggioso e va a scapito di altri. Ci sono molti più posti di lavoro e ritorno economico in settori come l’energia pulita, l’istruzione, la cura sanitaria. Come spiega The Job Opportunity Cost of War (Heidi Garrett Peltier), un milione di dollari di spesa militare crea meno posti di lavoro rispetto alla stessa spesa in altri nove settori. La spesa per l’istruzione elementare e secondaria è quella che crea più posti di lavoro, con 19,2 per un milione di dollari. Sostenere che le spese militari avvantaggino l’economia è un falso senza alcun dubbio. L’aumento delle spese militari, inoltre, rende più insicuro il mondo perché prepara gli stati a rispondere in maniera armata a qualsiasi tipo di diseguaglianza o insicurezza. Dai dati in nostro possesso l’aumento di spesa può trasformare una situazione di tensione in una di conflitto aperto con più facilità”. Al confine tra Tunisia e Algeria, con i migranti che sognano di sbarcare in Italia di Leonardo Martinelli La Repubblica, 4 giugno 2023 Centinaia di subashariani passano la frontiera ogni giorno per raggiungere Kasserine, una delle città tunisine più povere, nella speranza di poter raggiungere da lì il porto di Sfax e imbarcarsi per Lampedusa. Stringe le scarpe fra le mani, per non consumarle troppo. “Le devo risparmiare”, dice Russell, 22 anni. Viene dal Camerun e cammina, ciabatte di gomma ai piedi, sui binari di un treno che non corre più da decenni. Quella ferrovia, ormai piena di spazzatura, è la discarica di tutti: attraversa Kasserine, città all’estremo Ovest della Tunisia, la prima arrivando dall’Algeria, al di là di aride e misteriose montagne. Russell marcia con forza e orgoglio: “Mancano appena 200 km per arrivare a Sfax”. Da lì Lampedusa sarà solo a una notte in barca, “anche se io non so nuotare”. Più in là c’è Issa, 17 anni, della Sierra Leone. Ha percorso più di 5mila km negli ultimi quattro mesi. “Sono arrivato con i passeur fino al confine meridionale dell’Algeria. Poi ho continuato a piedi o certe volte sono riuscito a prendere un pullman. Ho anche lavorato per due mesi come muratore”. Al pari degli altri, parla del suo sogno d’Europa come di un “progetto”, finanziato dalla famiglia (l’equivalente di 1200 euro per Issa, che è un tecnico specialista di antenne tv e “io voglio solo lavorare”). Sono centinaia quotidianamente a scendere su queste strade, spesso in gruppi di diversi Paesi, amici per qualche giorno o forse per una vita. Issa ci ha messo due giorni per arrivare da Tebessa, l’ultima città algerina. “Appena passato il confine, un gruppo di ragazzi tunisini mi ha aggredito. Mi hanno rubato i soldi che mi restavano e il cellulare. Non ho più niente”. In tanti vagano attraverso il bosco di pini sopra Haidra, a cavallo della frontiera. In questo maggio inspiegabilmente gelido e piovoso, nove migranti sono stati ritrovati morti, sfiniti dalla fame e dalla stanchezza. Viaggio a Kasserine, al confine tra Tunisia e Algeria dove passa la rotta dei migranti verso l’Italia Loro, comunque, i giovani dell’Africa subsahariana, restano forti e solidali. E marciano verso il mare: è l’ultimo rush finale. Sulla strada che scivola via da Kasserine, una delle città più povere della Tunisia, a Sbeitla, località dalle splendide rovine degli antichi romani, ai distributori di benzina ufficiali gli inservienti vendono monete antiche dei tempi di Vespasiano, sicuramente false, ai turisti italiani e francesi. Mentre madri tunisine e le loro bambine raccolgono sui carretti trainati da asini i fichi d’India, un modo per sopravvivere, facendosi largo tra i sacchetti di plastica impigliati nelle spine. Intanto i giovani neri continuano a camminare, fra i capretti sgozzati, esposti dai ristoranti, e le taniche colorate di benzina in vendita, che brilla sotto il sole, portata illegalmente dall’Algeria (unica attività economica che funzioni a Kasserine è il contrabbando dal Paese vicino, di tanti prodotti, meno cari perché sovvenzionati dallo Stato algerino, o dell’hashish, in arrivo dal Rif marocchino). Marciano, mentre i mezzi militari si dirigono verso le montagne a stanare gli ultimi guerriglieri jihadisti che vi si nascondono (all’esercito tunisino non importa niente dei migranti). Loro camminano, inesorabili. È anche a causa di questa nuova rotta dei migranti che gli arrivi a Lampedusa dalla Tunisia sono esplosi dall’inizio dell’anno. “Partire in mare dalla Libia è diventato più pericoloso, per il decreto italiano sulle navi Ong - spiega Romdhane Ben Amor, dell’associazione Ftdes -. E passare via terra il confine tra Libia e Tunisia, supercontrollato, è ormai troppo difficile. Così i migranti in arrivo dal Sudan e dal Corno d’Africa, transitano in Libia, passano in Algeria e risalgono la frontiera con la Tunisia fino all’altezza di Kasserine. Lì arrivano pure i migranti dall’Africa occidentale, dopo aver attraversato tutta l’Algeria. Alla frontiera i controlli sono quasi inesistenti: gli algerini li lasciano passare”. È sera a Kasserine. E Patrick, 35 anni, del Camerun, non sa più cosa fare. È rimasto scioccato dalla miseria della città. “In Algeria stanno meglio, io lì ho anche lavorato. Forse è meglio se ci ritorno”. Ma Mohamed Taher Khadraoui lo sconsiglia: “Ti hanno fatto passare, ma non ti permetteranno di ritornare”. Moahmed, 52 anni, è ingegnere ma anche uno dei principali rappresentanti della società civile di Kasserine. Con la sua associazione (Amal, in arabo “speranza”), vuole creare centri di assistenza per questi migranti. Si scaglia contro il suo presidente, Kais Saied: “Non osa dire nulla agli algerini, che lasciano passare i migranti, perché quel Paese ci dà il gas naturale a prezzo scontato. Nonostante questo, la polizia tunisina ogni tanto fa qualche retata: portano al commissariato di Kasserine i subsahariani. Vogliono farsi belli con l’Italia e l’Europa, che chiedono la stretta sugli africani. Ma pochi giorni dopo li libereranno. In Algeria di certo non potranno rimandarli. Si fa politica sulla pelle di questi ragazzi, che camminando sulle strade, senza assistenza, verso il loro destino”. Ecco, una macchina della polizia sta arrivando. Patrick fugge via fra gli olivi. La mattina aveva incrociato Chiheb, un giovane di Kasserine. Ha 25 anni, è un pizzaiolo disoccupato. “Guardo a questi migranti con compassione. Certe volte gli do dell’acqua o dei biscotti”. Poi Chiheb si era rintanato tutto il giorno al Lumberjack, con la musica a palla e i video a ruota sulla tv, le finestre chiuse e l’arredamento di legno: ti potresti immaginare in un pub del Montana. Con due amici sta aspettando il via libera di un passeur per andare a Sfax e salpare per l’Italia. “C’è maltempo nelle ultime settimane, non è ancora possibile”. “Siamo come loro, i subsahariani che camminano”, in un certo senso, però, privilegiati, con le famiglie che pagheranno un passaggio su un’imbarcazione di legno e non il barchino metallico low cost e pericolosissimo degli altri. “Ma alla fine saremo tutti migranti”. Pochi giorni dopo, i giovani subsahariani in transito a Kasserine sono arrivati a Sfax, scalcinata capitale economica della Tunisia. In tanti gravitano al mercato di Bab Jebli, una delle porte della Medina. Alcuni di notte dormono nel parco accanto. Non esistono centri di accoglienza in città. “Sono quasi due anni che il grosso del flusso migratorio proviene dall’Algeria. Ed è un continuo ricambio rispetto a quelli che partono per l’Italia”, osserva Alix Loic Oyono. È originario del Camerun, ma è un ingegnere. Ha 29 anni e da sette vive a Sfax. Ha creato una sua azienda, come altri subsahariani. Dimostra con la sua storia che perfino nella Tunisia della crisi si può fare qualcosa. Alix porta aiuti alimentari ai migranti in difficoltà. “Ci sono sempre più sudanesi”, osserva. Gamar, 21 anni, è fuggito dal Darfur due mesi fa, a causa degli scontri violenti nel suo Paese. “Nel passato avevo già vissuto in Libia, ma ora voglio andare in Italia”. Ci ha già provato una volta con un barchino: è sopravvissuto, ma la guardia costiera tunisina lo ha riportato a riva. “Sto lavorando per racimolare i soldi e tentarci ancora”. Fa il muratore ed è pronto a fare qualsiasi cosa in Italia. “In Sudan ho dovuto abbandonare la scuola da piccolo. Mi piacerebbe anche ricominciare a studiare”. Francia. Parigi, caccia ai clochard: le autorità li trasferiscono a forza lontano dal centro di Danilo Ceccarelli La Stampa, 4 giugno 2023 L’obiettivo è liberare le strade in vista delle Olimpiadi nell’estate 2024. “Qui c’è l’uscita, l’entrata è più giù!”. Anche questo sabato, Hamid si sgola per far scorrere la fila che si è formata davanti al centro dove si distribuiscono pasti caldi a chi ne ha più bisogno. Un piccolo prefabbricato situato nel quartiere de La Villette, a Nord di Parigi. A due passi dal périphérique, l’anello autostradale che abbraccia la città, centinaia di persone in difficoltà attendono pazientemente il loro turno per entrare. Clochard, migranti e gente di tutte le età si ritrovano in una delle zone più difficili della città per mangiare. “Possono venire tutti, non chiediamo documenti o informazioni a nessuno”, spiega Perrine, volontaria per L’Un Est L’Autre (L’Uno è l’Altro, ndr), una delle tre associazioni che durante la settimana si occupano della distribuzione nello spazio di proprietà del comune. All’interno, una sorta di mensa, affollatissima e rumorosa. “Vengono tra le 600 e le 700 persone ogni volta”, dice la ragazza. Qui sono in molti ad aver sentito parlare del progetto del governo, che in vista delle Olimpiadi di Parigi del prossimo anno vuole sgomberare l’Île-de-France dai senzatetto mandandoli in provincia. A metà marzo è stato chiesto alle prefetture di tutta la Francia di creare nuovi centri di “accoglienza temporanea regionali”, dove trasferire i senzatetto della regione parigina, in gran parte migranti, prima di ricollocarli nel “tipo di struttura che corrisponde alla loro situazione”. Del resto, lo stesso presidente Emmanuel Macron all’inizio del suo primo mandato aveva fissato l’obiettivo “Zero Sdf” (Senza domicilio fisso, ndr) nelle strade del Paese. L’iniziativa ha sollevato un polverone. Le opposizioni di sinistra e diverse associazioni l’hanno giudicata disumana, denunciando un’operazione di facciata per rendere Parigi più attraente agli occhi di tutto il mondo una volta che si accenderanno i riflettori delle Olimpiadi. Il ministro delle Politiche abitative, Olivier Klein, garantisce che l’obiettivo è quello di smaltire il sovraffollamento nei centri della capitale e che la concomitanza con i Giochi è solo un caso. “La situazione è tesa: sulle 200mila persone accolte ogni sera ce ne sono 100mila nell’Île-de-France”, ha detto il ministro a Rmc, garantendo che ogni trasferimento avverrà su base volontaria. Molti dei posti a disposizione nella capitale si trovano all’interno di hotel, che vogliono liberare le loro stanze in vista dei 10 milioni di visitatori previsti per Parigi 2024. La versione dell’esecutivo non sembra convincere nemmeno i diretti interessati. “Li vogliono cacciare lontano per nascondere la miseria!”, tuona Hervé. Lui la strada la conosce bene perché ci ha vissuto per sette mesi una ventina di anni fa dopo essersi separato dalla moglie. Oggi si è rifatto una vita e fa il volontario quando non lavora come netturbino. “Vogliono mostrare una Parigi senza problemi, ma non ci riusciranno perché non possono certo obbligare la gente ad andarsene”, spiega il 60enne in un momento di pausa, mentre Hamid accanto a lui continua ad urlare e a scherzare con la gente in fila. Tra di loro anche una donna anziana, che non vuole dire il suo nome. “Sono arrivata una quarantina anni fa dalla Jugoslavia, devo venire a mangiare qui perché non riesco ad avere la pensione”, racconta lasciando trapelare tutta la sua frustrazione, prima di commentare quanto sentito sul trasferimento dei clochard: “Quello che vogliono fare è terribile, rischiamo di far scoppiare il caos!”. Ma l’argomento per qualcuno rappresenta l’ultimo dei problemi. Salah Edinne, ad esempio, di questa storia non ne sa nulla e non sembra preoccuparsene più di tanto. “I miei diritti sono stati calpestati”, afferma il 23enne marocchino, anche lui senza fissa dimora. “Studiavo e in parallelo lavoravo al McDonald’s per mantenermi, ma non mi è stato rinnovato il permesso di soggiorno e ho dovuto mollare tutto”. Nel 2022, poi, ha anche avuto un figlio, che adesso non vede per dei “malintesi” con la compagna. Il suo sogno è lavorare come contabile, ma senza documenti è impossibile. “Questa situazione mi ha fatto cadere in depressione, non so quanto potrò tenere ancora”, dice mentre si alza le maniche per mostrare due vistose cicatrici sui polsi, segnali evidenti di un tentativo di suicidio. Intanto, Hamid saluta gli ultimi ospiti del centro che se ne vanno, dandogli appuntamento alla prossima distribuzione. Messico. Paramilitari e criminali, mai tanta violenza contro il Chiapas di Andrea Cegna Il Manifesto, 4 giugno 2023 Nel mirino c’è il controllo del territorio dello stato della rivoluzione zapatista. E il governo (locale e nazionale) resta a guardare. La violenza in Chiapas porta lo stato della rivolta zapatista ai livelli preoccupanti del nord del Messico. Pochi giorni fa il collettivo di appoggio all’Ezln, Llegó la Hora, ha denunciato che “il compagno zapatista Jorge López Santiz è in bilico tra la vita e la morte a causa di un attacco paramilitare dell’Organización Regional de Cafeticultores de Ocosingo (Orcao)”, la stessa organizzazione che da tempo attacca le comunità zapatiste. Il Chiapas è sull’orlo di una guerra civile: paramilitari e assassini al soldo di vari gruppi criminali, che si contendono i territori per i propri profitti, e i gruppi di autodifesa, con la complicità attiva o passiva del governo statale di Rutilio Escandón Cadenas e del governo federale di Andrés Manuel López Obrador. Oltre alla denuncia è stata lanciata una giornata di mobilitazione mondiale per l’8 giugno. Due giorni dopo la denuncia, venerdì 2 giugno, nel municipio di Chenalhó, vicino ad Acteal, il gruppo civile criminale armato dei los ratones ha sparato contro gli oltre 150 sfollati della comunità di Santa Marta, ospitati in una bottega nel municipio zapatista di Polho, uccidendo almeno sette persone (tre sono gravi in ospedale). È il risultato delle politiche contro l’Ezln: prima sono state costruite formazioni paramilitari, mai smantellate; ora queste, ancora armate, sono da mercenarie al servizio dell’interesse di turno come denunciano diversi centri per i diritti umani. Per Llego la Hora “programmi governativi come “Sembrado Vida” (che si caratterizza per avere praticamente lo stesso budget del ministero federale dell’agricoltura) stanno incoraggiando lo scontro tra comunità storicamente espropriate delle loro terre e dei loro diritti, giacché vengono usati come meccanismi di controllo politico e come merce di scambio affinché le organizzazioni come la Orcao possano ottenere l’accesso ai presunti benefici che questi programmi forniscono”. Solo contro le comunità zapatiste, negli ultimi quattro anni, sono poco meno di 20 gli episodi di aggressione registrati. Ma in tutto il Chiapas sono decine al giorno gli attacchi violenti che si contano, si denunciano e si registrano. Una situazione anomala per lo stato che fino al 2019 è stato alieno alla crescente violenza sistemica nel paese. Lo scontro contro gli zapatisti è uno degli elementi che raccontano di una quotidiana guerra per il controllo del territorio. A farne le spese sono le persone comuni, come nel resto del paese.