Carcere italiano, una presenza che parla di altre assenze di Layla Perroni vaticannews.va, 3 giugno 2023 Il sovraffollamento e le condizioni di vita dei detenuti degli istituti penitenziari rappresentano un dramma sociale. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma: “Il carcere è una presenza che parla di altre assenze e quindi dobbiamo ragionarvi se vogliamo arrivare nel medio periodo a cambiare la fisionomia del carcere”. I numeri dei detenuti in Italia continuano lentamente, ma inesorabilmente, a crescere. Di fronte alla capienza di 51 mila persone, le carceri italiane ospitano all’incirca 56 mila persone. Il tasso di affollamento è pari al 110%, soprattutto in Puglia, Lombardia e Liguria. Resta, quindi, molto alto l’allarme per le condizioni psicofisiche di coloro che vivono nei centri di detenzione. Suicidi, autolesionismo, violenze fisiche e verbali, aggressioni, umiliazioni degradanti e torture rappresentano i traumatici eventi di cui i detenuti posso essere protagonisti. “Il primo punto è fare in modo che il carcere diventi il luogo dove rieducare coloro che hanno commesso reati di una certa entità, mentre laddove è solo un problema di tipo sociale, si intervenga con altre forme”, dichiara il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, circa le possibili soluzioni per questo dramma. “Persone, non cose” - La capienza delle carceri italiane è cresciuta dello 0,8%, mentre le presenze sono aumentate dello 3,8%. Lo dichiara il 19.mo Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’anno 2023, presentato dalla onlus Antigone, in lotta ogni giorno per i diritti dei detenuti. Di fronte all’assenza di una riflessione sulla tipologia delle presenze in carcere, Palma suggerisce di ripensare ad altre strutture penitenziarie sia di tipo contenitivo, sia di supporto sociale per coloro che hanno commesso reati molto lievi e che di conseguenza hanno avuto sentenze molto brevi. L’alta presenza di stranieri, di senza tetto, di donne - pari a circa il 40% dei detenuti - permette di comprendere quanto forte sia in carcere la presenza della povertà sociale. Come anche Papa Francesco ricordava durante la video preghiera per il mese di giugno, dedicata alle vittime di tortura e vessazione, coloro che subiscono questa pratica non vanno mai privati della loro umanità, mentre “è imprescindibile mettere la dignità della persona al di sopra di tutto”. Il garante Palma concorda con tale affermazione e sui detenuti aggiunge che “se le persone in qualche modo percepiscono che ciò che le norme stabiliscono, cioè l’educazione e il rispetto della loro dignità umana, sia pura teoria, ciò impedisce loro di avviare un percorso di revisione di ciò che hanno commesso”. Ridare significato al tempo della pena - Molte sono state negli anni le discussioni circa le condizioni di vita dei detenuti. Denunciare il degrado non deve far dimenticare che il carcere deve sempre rappresentare una speranza. “Quello che io invece trovo intollerabile - sottolinea ancora Palma - è il fatto che mentre si sconta una pena, il tempo venga trascorso come tempo vuoto, senza possibilità di fare qualcosa di significativo. Se la vita di una persona ha un giusto valore anche la durata della permanenza in carcere deve avere uno scopo. Se è ridato significato al tempo, anche lo stare in condizioni logistiche più brutte diventa meno pesante.” Un intervento preventivo sul territorio - Il 2022 è stato l’anno che ha registrato il più alto tasso di suicidi negli istituti penitenziari. Nei primi mesi del 2023 sono già 27 i casi di coloro che hanno scelto di togliersi la vita e il 60% di essi ha compiuto questo gesto nei primi sei mesi di detenzione. La onlus Antigone sottolinea che molti decessi siano avvenuti nelle case circondariali, istituti in cui sono detenuti principalmente gli imputati o gli indagati in attesa di giudizio e i condannati, in via definitiva, a pene non superiori ai cinque anni. Secondo Palma le case circondariali rappresentano “il punto di arrivo di ciò che non si è risolto nel territorio dove è richiesto un intervento sociale massiccio”. Conclude il garante: “Il carcere è una presenza che parla di altre assenze e quindi dobbiamo ragionare su queste ultime, se vogliamo arrivare nel medio periodo a cambiare la fisionomia del carcere stesso”. Mancanza di agenti in carcere? Dai dati emerge una “fuga dalle sezioni” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 giugno 2023 Secondo una ricerca di Rita Bernardini (Nessuno Tocchi Caino), una parte significativa del personale penitenziario è impiegato negli uffici e non nelle sezioni degli istituti di pena. Si parla giustamente della carenza di agenti penitenziari nelle carceri, ma da una analisi dei dati condotta da Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino” e dalle affermazioni del sindacalista Gennarino De Fazio della Uilpa-PolPen durante la trasmissione “Radio Carcere”, condotta da Riccardo Arena su Radio Radicale, emerge il sospetto che diversi agenti operano presso gli uffici amministrativi o nei provveditorati e non nelle sezioni delle carceri dove, appunto, c’è una esigenza di gran lunga maggiore così come prevede la pianta organica. Da ciò è scaturita una interrogazione parlamentare da parte di Roberto Giachetti di Italia Viva rivolta al ministro della Giustizia, Carlo Nordio. L’interrogazione del deputato Giachetti, come detto, si basa sul lavoro di ricerca condotto da Rita Bernardini, membro di “Nessuno Tocchi Caino”, che ha analizzato le “schede trasparenza” dei 189 istituti penitenziari. I risultati della ricerca evidenziano discrepanze significative tra la pianta organica prevista e gli agenti effettivamente assegnati alle carceri italiane, sollevando interrogativi sulle modalità di distribuzione del personale. Secondo i dati raccolti da Bernardini, a livello nazionale, la Pianta Organica prevede un totale di 37.181 agenti della polizia penitenziaria. Eppure, gli agenti assegnati agli istituti penitenziari sono solamente 31.085, evidenziando una carenza di oltre 6.000 unità. Un ulteriore aspetto rilevante emerso dalla ricerca riguarda la discrepanza tra il numero di agenti e detenuti all’interno dei diversi istituti penitenziari. Alcuni istituti presentano un eccesso di agenti rispetto al numero di detenuti, come nel caso della Casa di reclusione di Alba, che ha un agente ogni 0,37 detenuti, o della Casa di cura di Potenza, con un agente per ogni 0,60 detenuti. Al contrario, altri istituti mostrano un notevole squilibrio, come la Casa di reclusione di Fossano, dove ogni agente deve gestire tre detenuti, o la Casa circondariale di Pescara, con un rapporto di 3,33 detenuti per agente. Durante la trasmissione “Radio Carcere” Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa-PolPen, ha fornito ulteriori dettagli sulla situazione dell’organico penitenziario. De Fazio ha sottolineato che molti agenti assegnati a determinati istituti penitenziari in realtà prestano servizio presso il Provveditorato o il tribunale di Sorveglianza, o in altri uffici dell’amministrazione penitenziaria. Pertanto, non tutti gli agenti assegnati a un determinato istituto sono presenti effettivamente in sezione, a diretto contatto con i detenuti. L’interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti pone quindi diverse domande al ministro della Giustizia, al fine di comprendere le cause di tali discrepanze e le modalità di assegnazione del personale nelle carceri italiane. Roberto Giachetti chiede: a cosa è dovuta la differenza tra la pianta organica prevista e gli agenti effettivamente assegnati agli istituti penitenziari? Quali sono i criteri che hanno stabilito le diverse dotazioni di organico nei 189 istituti penitenziari e le assegnazioni per ogni istituto? Come si giustificano le diverse dotazioni di organico e di personale effettivamente assegnato tra l’istituto di Firenze-Sollicciano e quello di Prato? Quanti sono gli agenti, distinti per sede diversa, che lavorano presso sedi diverse dagli istituti penitenziari? Cosa intende fare il ministro per far applicare quanto previsto dal comma 3 del D.M 2-10-17, che prevede provvedimenti per il personale che eccede i limiti delle dotazioni organiche stabilite per ciascuna sede ed ufficio? L’interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti, basata sul lavoro di ricerca di Rita Bernardini di “Nessuno Tocchi Caino”, solleva questioni cruciali riguardo all’organico della polizia penitenziaria e alle modalità di assegnazione del personale all’interno delle carceri italiane. E sembrerebbe che ci sia una vera e propria “fuga dalle sezioni” da parte di un numero significativo di agenti. Ecco perché emerge una carenza di agenti penitenziari rispetto alla pianta organica prevista nelle carceri. Così a Via Arenula le toghe boicottano le riforme di Nordio di Valentina Stella Il Dubbio, 3 giugno 2023 Programma garantista frenato dai magistrati degli uffici tecnici. Pronti a “seppellire” la delega sul Csm. A via Arenula comanda il ministro Carlo Nordio o la sua corte di magistrati assegnati ai vari uffici? La domanda è lecita se si mettono insieme un po’ di elementi. Primo: fonti del ministero ci riferiscono che mentre il guardasigilli nei primi mesi successivi alla nomina interveniva in sedi anche istituzionali a prefigurare e illustrare le proprie imminenti riforme liberali della giustizia, all’ufficio legislativo del dicastero nessuno si stava preoccupando di prendere appunti e di trasformarle in atti normativi. Tanto è vero che il pacchetto di riforme garantiste - abuso d’ufficio, traffico di influenze, misure cautelari, limiti all’appello del pm, informazione di garanzia - che arriverà forse a metà giugno in Consiglio dei ministri, sconterà in parte, come filtra sempre dal ministero, il ritardo con cui è stato elaborato. Secondo: si ricorderà che, a presiedere per esempio la commissione per elaborare proposte di interventi per la riforma dell’ordinamento giudiziario, l’ex guardasigilli Marta Cartabia aveva nominato un professore e avvocato come Massimo Luciani. Ma la “eterodossia” dei consulenti “arruolati” a via Arenula si è oggettivamente rarefatta con l’insediamento di Nordio. E le conseguenze sulla speditezza del percorso riformatore sembrano evidenti. Tanto che, allo stato attuale, il solo effettivo caso di attuazione della legge Cartabia sull’ordinamento giudiziario rischia di essere, paradossalmente, l’adeguamento degli emolumenti per i consiglieri Csm, sempre che i togati di Palazzo dei Marescialli, di qui a qualche giorno, non seppelliscano la proposta del vicepresidente Fabio Pinelli, coerente appunto con il ddl delega approvato nella scorsa legislatura. In realtà ci poteva essere un altro caso di attuazione della riforma Cartabia, ma con uno spirito piuttosto infedele al mandato: in Parlamento, con la presentazione di un emendamento, poi ritirato forse a seguito delle polemiche venute fuori sulla stampa, al decreto Pa, che avrebbe portato al ministero altri dieci magistrati fuori ruolo, e previsto sì una futura riduzione del loro numero complessivo (dagli attuali 200, di cui 65 a via Arenula, a 180), ma solo a partire dal 2027. Terzo: come riferito ieri dal Foglio, la vice capo di Gabinetto della Giustizia, la magistrata fuori ruolo Giusi Bartolozzi, sarebbe la principale fautrice dell’emendamento che ha rinviato a fine dicembre il termine per emanare i decreti attuativi della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. La magistrata, si sostiene, avrebbe una forte influenza su Nordio, tanto da assumere un ruolo più politico che tecnico. E, secondo l’articolo firmato sul Foglio da Ermes Antonucci, l’obiettivo ultimo sarebbe quello di far decadere addirittura la riforma. Il che significherebbe fare un grosso favore all’Anm, visto che in un sol colpo salterebbero il fascicolo di valutazione dei magistrati così come il voto degli avvocati, nei Consigli giudiziari, sulle carriere dei giudici; e ancora, addio ai limiti alle porte girevoli tra politica e magistratura e alla riduzione dei magistrati fuori-ruolo. Tutte quelle questioni che portarono il sindacato delle toghe a scioperare lo scorso anno contro la riforma Cartabia. Su quel riassetto del Csm e dell’ordinamento giudiziario, entro giugno sarebbero dovuti essere approvati i decreti attuativi, ma tutto è slittato, come detto, di sei mesi, con la motivazione ufficiale che c’erano altre priorità da gestire al ministero. Su questo, sono arrivate conferme anche da una delle poche figure che a via Arenula certamente “militano” perché la legge delega si concretizzi, ossia il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto: è stato lui a segnalare come gli adempimenti del dicastero sul Pnrr fossero abbastanza gravosi da richiedere un po’ di ossigeno per la definizione di altri interventi. Eppure resta il forte sospetto, avvalorato da più di un’indiscrezione, che la dilatazione dei tempi sull’attuazione del testo Cartabia sia vissuta dai magistrati “reclutati” da Nordio come un’opportunità per poter arrivare, a fine anno, a un sostanziale “tradimento” della delega. Interpellata dal Dubbio, Bartolozzi ha preferito non commentare: “Sono al lavoro come sempre”, ha sottolineato. Mentre un’altra fonte di via Arenula smentisce l’indiscrezione del sabotaggio della riforma e dichiara addirittura che Nordio “ha istituito una commissione di approfondimento composta da diverse professionalità che sta già lavorando con grandissimo impegno e con riunioni molto frequenti per elaborare un testo che sarà quello su cui verranno svolte ulteriori riflessioni e che costituirà la premessa per l’attuazione della legge delega”. Da chi è composta tale commissione? E quanti riunioni ha fatto fino ad ora? Sarebbe utile se il ministero smentisse le voci più “pessimistiche”. Tanto più che considerazioni opposte ci giungono da un’altra persona ben informata sui lavori al ministero della Giustizia: “Credo che quanto riportato dal Foglio non sia una speculazione. C’è il rischio che possa saltare tutto. A via Arenula sembra vi siano davvero dei frenatori. Se la loro manovra di sabotare la scrittura dei decreti attuativi riuscisse nello scopo, sarebbe davvero folle”. Il problema è sempre lo stesso, come pure denuncia da anni Gian Domenico Caiazza, leader dei penalisti italiani: se al ministero sono distaccati solo magistrati è facile che si innestino ragionamenti corporativi molto forti. Sarebbe forse il caso di cominciare a prendere in considerazione la proposta dell’ex presidente Anm Eugenio Albamonte: non cacciare i magistrati dal ministero ma aprire le porte agli avvocati. Quarto punto: sulla riforma della separazione delle carriere, filtra sempre dal ministero, “deve esserci la volontà politica. Non c’è alcuna difficoltà tecnica perché per scriverla ci vuole davvero poco, avendo già il testo base dell’Unione Camere penali. Ma la volontà politica in questo momento suggerisce che ci dobbiamo occupare di altro; allora fin quando non si raggiunge l’obiettivo del presidenzialismo sarà difficile vedere questa riforma sul tavolo”. Procedibilità a querela, ecco le 10 fake news sulla legge Cartabia di Gian Luigi Gatta* Il Dubbio, 3 giugno 2023 Sei mesi dopo l’entrata in vigore della riforma Cartabia, non sono ancora cessate le polemiche sull’estensione del regime di procedibilità a querela ad alcuni reati contro la persona e contro il patrimonio, come le lesioni lievi, la violenza privata e il furto. Toni ingiustificatamente allarmistici, anche da parte di addetti ai lavori, non contribuiscono a una corretta informazione. Mettiamo in fila, allora, alcune verità nascoste. Primo. Stiamo parlando di reati che, per quanto possano essere “odiosi” (gran parte dei reati lo sono), non sono gravi. Per legge- delega, infatti, l’estensione della procedibilità a querela ha riguardato solo reati puniti con pena edittale detentiva non superiore nel minimo a due anni; lo stesso limite di pena che consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Qualche esempio. Pena minima per la violenza privata (ad es., per chi impedisce ad altri di posteggiare l’auto in un parcheggio condominiale)? Quindici giorni di reclusione. Per le lesioni personali lievi? Sei mesi. Per il sequestro di persona semplice come quello di chi, sospettato di furto in un negozio, viene trattenuto per alcuni minuti in uno stanzino in attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine)? Sei mesi. Secondo. Di norma anche per quei reati la procedibilità d’ufficio resta ferma nelle ipotesi più gravi/ aggravate. Terzo. La procedibilità d’ufficio è fatta salva quando la vittima è incapace per età o per infermità e non è pertanto nelle condizioni di scegliere, liberamente, se presentare querela o meno. Quarto. La querela, specie quando è presentata personalmente non richiede particolari formalità, tanto è vero che la polizia giudiziaria si è già attrezzata modificando i propri verbali precompilati, facendo ora riferimento alla volontà di querelare, cioè di perseguire il reato. Quinto. Checché ne dicano a Venezia (è toccato leggere pure questo), la querela per furto può benissimo essere presentata anche da un turista straniero; se poi non dovesse partecipare al processo, una volta citato come testimone, non è vero che la mancata comparizione comporterebbe sempre la remissione tacita della querela, che è prevista solo in caso di mancata comparizione senza giustificato motivo: l’impossibilità di sostenere un viaggio molto lungo ben può integrarlo. Per non dire poi della possibilità di un esame testimoniale a distanza. Sesto. Nessun dato empirico viene portato per giustificare gli allarmi. Né è prova il fatto che il governo Meloni, che dispone di dati e informazioni del ministero dell’Interno e del ministero della Giustizia, non ha ravvisato la necessità e urgenza di intervenire a gennaio con un decreto- legge. È intervenuto sul tema della procedibilità sei mesi dopo l’entrata in vigore della riforma Cartabia con la legge 60/ 2023, pubblicata ieri. Una legge che integra la riforma Cartabia senza sconfessarla, anzi. Opportuni aggiustamenti, non possibili con lo strumento della legge delega Cartabia, prevedono ora la procedibilità d’ufficio in presenza delle aggravanti del metodo mafioso e della finalità di terrorismo, e danno al querelante 48 ore di tempo per presentare la querela, ai fini dell’arresto obbligatorio in flagranza. Si sono così risolti problemi che preesistevano alla riforma Cartabia. Settimo. Ripristinare il regime di procedibilità d’ufficio non assicurerebbe una maggior tutela delle vittime ed effettività del sistema. Quanti, dopo avere denunciato un furto, quando era procedibile d’ufficio, hanno poi avuto notizia di un seguito della loro denuncia? Non molti. Quante denunce per furto restano a carico di ignoti e archiviate? Moltissime. Non è meglio procedere solo quando vi è una manifestazione di volontà della persona offesa e smettere di procedere quando e se interviene un risarcimento del danno? O è meglio continuare ad affastellare verbali e fascicoli che polizia giudiziaria, pubblici ministeri e giudici non riescono a gestire e sono destinati in molti casi all’archiviazione, alla prescrizione o ad una declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto? Ottavo. Gli allarmismi drogano il dibattito pubblico, rischiano di innescare reazioni populistico- repressive simboliche e ineffettive e, soprattutto, mettono in ombra l’obiettivo Pnrr più importante per la giustizia penale: la riduzione del 25% dei tempi medi del processo entro il 2026. La riforma Cartabia è intervenuta sulla procedibilità a querela perché questa misura promette effetti di riduzione del carico giudiziario sia per la diminuzione delle notizie di reato (mancate querele), sia per la definizione anticipata dei procedimenti conseguente alla remissione della querela e/ o a condotte riparatorie. Il monitoraggio della Direzione Generale di Statistica del Ministero della Giustizia evidenzia nel 2022 una riduzione del disposition time, rispetto al 2019, del 20% in Cassazione, del 10% in appello e del 6% in primo grado. Segno tangibile che il lavoro di tutti gli attori coinvolti, in vista dell’entrata in vigore della riforma Cartabia (si pensi anche solo alla prospettiva della improcedibilità in appello e in cassazione) sta già dando ottimi risultati. E’ su questa via che bisogna proseguire: non su quella di disfattistiche polemiche, che fanno solo male al Paese. Nono. Per mettere una pietra tombale sulle polemiche servirebbero dati. Quante scarcerazioni per reati resi procedibili a querela ci sono state, dopo l’entrata in vigore della riforma? Quali erano prima della riforma e quali sono i tassi di archiviazione/ prescrizione/ condanna per i reati stessi? Quante sono, ad oggi, le definizioni del procedimento per remissione della querela o per estinzione del reato per condotte riparatorie? Che incidenza hanno sul disposition time? Se vogliamo elevare il tono e la qualità del dibattito, dobbiamo spostare il discorso su questi e analoghi dati. Altrimenti la giustizia penale rischia di diventare argomento da bar. Decimo. La legge delega Cartabia, compresa la parte sulla procedibilità a querela, è stata approvata dalla vasta e variegata maggioranza che sosteneva il governo Draghi. Mancava solo il voto di Fratelli d’Italia, allora all’opposizione. Ora, però, quel partito di maggioranza ha votato il “correttivo” Nordio (la legge 60 del 2023) che non sconfessa affatto le scelte del Governo Draghi. Il Ministro e deputato di Fratelli d’Italia così scriveva, il 27 gennaio, nella relazione del disegno della legge poi approvata: “Si ritiene di confermare (l’intervento realizzato con la riforma Cartabia, nda) in quanto, nell’ambito degli impegni assunti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, è opportuno favorire tali effetti deflativi”. È proprio opportuno, e necessario. *Ordinario di Diritto penale, Università degli Studi di Milano Vice presidente della Scuola Superiore della Magistratura In “Gazzetta” la legge su procedibilità d’ufficio e arresto in flagranza Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2023 Il provvedimento, che corregge la riforma Cartabia, entrerà in vigore il 16 giugno. Pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale” la legge che prevede la procedibilità d’ufficio per tutti i reati per i quali sia contestata l’aggravante del “metodo mafioso” o della finalità di terrorismo o di eversione. La norma si è resa necessaria per correggere alcune sviste della riforma Cartabia e sarà in vigore dal 16 giugno. Il testo inoltre modifica il Codice antimafia prevedendo la procedibilità d’ufficio anche per il reato di lesione personale, quando è commesso da persona sottoposta a una misura di prevenzione personale, fino ai tre anni successivi al termine della misura stessa; interviene sulla disciplina dell’arresto in flagranza per i delitti procedibili a querela; è infine modifica la disciplina del giudizio direttissimo e quella del giudizio direttissimo nel rito monocratico, per specificare che nel caso di arresto obbligatorio in flagranza per reati procedibili a querela, il giudice deve sospendere il processo nel caso in cui manchi la querela e la convalida dell’arresto intervenga prima del termine per la proposizione della stessa. Fioravanti editorialista, quando l’ergastolo è solo per le vittime di Stefano Cappellini La Repubblica, 3 giugno 2023 La differenza tra il diritto a rifarsi una vita e il dovere di non oltraggiare chi non ce l’ha più. All’inizio di questo secolo, ormai esaurita la carriera politica, l’ex numero due del Partito socialista italiano Claudio Martelli provò a fare il conduttore tv sui canali Mediaset. Non ricordo come si chiamasse il programma dove fu sua ospite Francesca Mambro, ex terrorista nera dei Nar, Nuclei armati rivoluzionari, condannata a svariati ergastoli insieme al marito Valerio Fioravanti per molti omicidi e anche per la strage alla stazione di Bologna dell’agosto 1980, 85 morti, né ha molta importanza. Per sciagurata scelta degli autori del programma, quella di Martelli a Mambro non fu una intervista classica. La scenografia contemplava un orologio e le domande erano a tempo, insomma Martelli chiedeva a Mambro di velocizzare le risposte per spettacolarizzare e dare ritmo. Ricordo come fosse stamattina che in quel momento un brivido mi attraversò la mente: pensa se in questo momento è davanti alla tv un figlio di Francesco Evangelista detto Serpico, il poliziotto che i Nar di Mambro ammazzarono a freddo davanti al liceo Giulio Cesare di Roma; pensa se sono davanti alla tv le vedove, le sorelle, i fratelli o i figli di Francesco Straullu e Ciriaco Di Roma, i poliziotti che i Nar trucidarono sotto il ponte della ferrovia Roma-Lido a Casal Bernocchi; pensa se è davanti alla tv la mamma o il papà di Alessandro Caravillani, il diciassettenne morto per un proiettile vagante durante un tentativo di rapina di Nar; pensa se sono davanti alla tv i parenti o gli amici delle vittime della strage di Bologna - e per la statistica dovevano essercene parecchi sintonizzati in quel momento. La responsabile di quelle morti era lì in tv, ospite d’onore, a spiegare la sua verità, e non come i brigatisti in La notte della Repubblica intervistati da Sergio Zavoli, uno dei programmi più belli (e sobri) della storia della tv, ma per fare un po’ di show. Forza Mambro, il tempo scorre, risponda, tempo scaduto, ora un po’ di pubblicità e poi di nuovo qui con Mambro. Mi vergognai per Martelli, che non aveva avuto la lucidità di capire a quale format stava prestando la sua intelligenza, mi vergognai per Mambro, che ovviamente a parole diceva cose molto civili sulla sua redenzione e sul rifiuto della violenza politica, ma evidentemente non era in grado di rendersi conto quale affronto fosse per tutti, non solo per quei parenti, vederla lì, con un conduttore che la incalzava sui tempi, gli stacchi, gli effetti sonori, lo spettacolo indecente di una assassina e stragista - categorie davanti alle quali non si può mai mettere la parola “ex” come davanti a terrorista - che si presta con civetteria appena dissimulata dalla contrizione a un’intervista mezzo seria mezzo giochi senza frontiere. Mi è tornato in mente questo episodio di incontinenza per via delle polemiche seguite alla pubblicazione l’altro ieri di un pezzo di Valerio Fioravanti sull’Unità da poco tornata in edicola. La cosa ha suscitato una certa indignazione, nonostante anche in questo caso il contenuto dell’articolo di Fioravanti fosse civilissimo (gli abusi nella prigione di Guantánamo). C’è anche chi ha difeso la scelta del giornale, invocando il diritto di ogni cittadino alla rieducazione, come previsto dalla Costituzione. Da moltissimi anni, come è noto, Mambro e Fioravanti lavorano con l’associazione Nessuno tocchi Caino, che si batte per lo Stato di diritto e contro la pena di morte. D’altra parte, i più si sono lamentati che sul giornale fondato da Antonio Gramsci abbia potuto scrivere Fioravanti. Non sono convinto che Gramsci si risentirebbe per Fioravanti più di quanto potrebbe risentirsi per essere finito a fare il testimonial di Piero Sansonetti nella campagna pubblicitaria che ha preceduto il ritorno del quotidiano in edicola. Il cuore della faccenda non mi pare Gramsci né il vilipendio, o presunto tale, del logo dell’Unità, già abbastanza stropicciato prima della riesumazione. La questione mi sembra più generale e non riguardante solo i custodi della memoria dell’Unità che fu. Umberto Eco scrisse un articolo contro la pena di morte perfetto per spiegare la differenza tra spazio pubblico e spazio privato nelle questioni di giustizia. Se io fossi il padre di una bambina uccisa, spiegò Eco, il suo assassino vorrei farlo a pezzettini con le mie mani, torturarlo, fargli fare la fine più atroce. Dunque è giusta la pena di morte? No, rispondeva Eco, perché lo Stato non può e non deve ragionare come la vittima ed è giusto che, nonostante la comprensibile pulsione di un padre alla vendetta, la sua risposta sia diversa da quella di chi ha subito personalmente il crimine. Anche nel caso di Mambro e Fioravanti, e non solo nel loro ovviamente, c’è una rilevante differenza tra spazio pubblico e privato, anche se in un senso diverso da quello citato da Eco. Se è vero che il fine della pena è per la nostra Carta la restituzione di un cittadino alla comunità, è vero anche che il cittadino reinserito dovrebbe comprendere che scrivere su un giornale o comparire in tv non sono parte di quel diritto. Intendiamoci, non significa che debba essere vietato, solo che non c’è nessuna lesione costituzionale se si chiede a degli assassini di compiere la loro riabilitazione senza farne uno sfoggio pubblico che rischia di oltraggiare chi, a differenza loro, non ha possibilità di sconti di pena: i parenti delle vittime. Per giunta, ma questa è un’opinione personale, Mambro e Fioravanti hanno sempre dato della loro storia criminale una versione molto apologetica, e non parlo dei proclami di innocenza su Bologna ma anche dei reati per i quali hanno ammesso la colpevolezza: si sono sempre dipinti come giovani ingenui rivoluzionari che combattevano contro tutto e tutti, idealisti senza macchia. Ricostruzioni risibili. Un altro sconto di pena, a volerla dire tutta. Ma non solo, perché l’edulcorazione dei propri delitti è un prerequisito fondamentale per arrogarsi il diritto di riprendere la parola in pubblico: aiuta a travestire la colpa e a rivestirla da parabola di redenzione. Per la giustizia italiana e per lo Stato di diritto Mambro e Fioravanti hanno diritto di rifarsi una vita, di lavorare, avere una famiglia, andare in vacanza, militare nelle migliori associazioni. È giusto così, anche se decine di persone che aspiravano a fare altrettanto non possono più farlo per colpa loro. Ma Beccaria non si rivolterà nella tomba, non più di Gramsci, se non compariranno articoli di Fioravanti o interviste a Mambro sulla stampa nazionale. Essendo entrambi liberi cittadini pur avendo ammazzato molto, Beccaria è già contento così. Sì, Caino è entrato all’Unità di Sergio D’Elia L’Unità, 3 giugno 2023 Caro Piero, sono sempre più convinto che abbiamo fatto bene a seguirti anche sull’Unità. Perché su Fioravanti hai scritto, che meglio non si poteva, cosa vuol dire il nostro “Nessuno tocchi Caino”. Il tuo discorso su Valerio, “il Caino, l’uomo, il sapiente” marchiato dai “militanti del bene” col “fine pena mai”, è un saggio del pensiero - tu diresti - socialista, cristiano, liberale e - aggiungerei io - nonviolento del Diritto e della Giustizia. Il tuo discorso su Valerio è un inchino grandioso al principio cristiano “non giudicare” da cui solo può originare il fine a cui dobbiamo tendere del disarmo unilaterale della violenza propria del diritto e della giustizia penali. La giustizia che brandisce una spada, in nome di un popolo in animo di lanciare pietre, nella prospettiva penitenziaria della privazione non solo della libertà ma di tutto: della salute, della dignità, della vita. Ecco, tutto ciò, in un momento, sarebbe dissuaso dalla semplice domanda: chi giudica chi? Questa straordinaria istanza della sospensione del giudizio, mai pensata, poco sentita e per nulla praticata dai primi agli ultimi sedicenti seguaci di Cristo, vive oggi - grazie a te - su un giornale fondato, guarda caso, proprio da un carcerato. Non poteva che essere così. E ai patiti della pena, ai cultori delle manette, delle sbarre e dei chiavistelli suggerirei un breve momento di “rieducazione”, la pratica di un giorno in quella straordinaria opera di misericordia corporale che è “visitare i camerati”. Opera che continuiamo a incarnare nel nostro “viaggio della speranza” che da gennaio ha fatto tappa già in sessanta istituti di pena. A proposito, caro Piero, lancio qui una proposta. A settembre, nell’anniversario della morte di Mariateresa Di Lascia, la fondatrice di Nessuno tocchi Caino, facciamo insieme una visita a Turi ed entriamo nella cella dove è stato carcerato Antonio Gramsci, il fondatore de l’Unità. Nell’andare a Turi, magari, facciamo tappa a Nola, dove è nato Giordano Bruno, per onorare l’eretico e l’eresia di un pensiero letteralmente “religioso”, cioè volto all’armonia, al dialogo, all’unione di cose e storie diverse. Perché così funziona l’universo, su questo si regge il mondo: sulla legge e l’ordine, sull’amore e la nonviolenza. Questo vale anche per noi, credo, nel nostro piccolo mondo associativo, politico, editoriale. Scusami, se nel parlare di te e del tuo amico Valerio parlerò un po’ anche di me. Forse, sarà più accettabile, essendo la mia storia di matrice “politicamente corretta” in quanto opposta a quella di Valerio. Anche se in realtà è la stessa storia, perché il destino tragico della violenza che uccide con il prossimo anche se stessi e la maledizione senza scampo dei mezzi che prefigurano e pregiudicano i fini, sono gli stessi. Allora, mi ricordo che quando, mezzo secolo fa, la mia prima vita fu bruscamente interrotta dall’arresto ed è iniziato il mio ininterrotto - per una dozzina d’anni - peregrinare nelle patrie galere, all’ingresso di una di esse molto speciale c’era una scritta: “qui entra l’uomo, il reato resta fuori”. Anni dopo, un grande capo del Dap, Nicolò Amato, concepì una visione diversa del carcere che definì il “carcere della speranza”. Grazie a lui uscii dal “carcere duro” e l’anno dopo entrai nel Partito Radicale. Con un permesso premio andai al Congresso per consegnare al partito della nonviolenza la mia prima vita violenta. Marco Pannella l’accolse, tutta, la mia vita, non la fece a pezzi come un quarto di bue sul bancone di macelleria: da una parte quella buona, nonviolenta, dall’altra quella cattiva, violenta. “Violenti e nonviolenti sono fratelli”, diceva Marco. Nemici sono i rassegnati, gli indifferenti. La differenza, aggiungeva, è che i violenti sono rivoluzionari per odio, i nonviolenti lo sono per amore. È qui, nel nome, nella visione e nel metodo di Pannella, che la mia vita si intreccia con quella di Valerio (e di Francesca). Per contrappasso Marco affidò a me la missione contro la pena di morte nel mondo, l’omicidio politico, l’errore capitale dello Stato che nel nome di Abele diventa esso stesso Caino. Per amore della semplice verità che l’uomo della pena può essere diverso da quello del delitto, Marco accolse anche Valerio Fioravanti di cui pensava e ripeteva spesso: “Se avessi dei figli non esiterei un attimo ad affidargliene la cura e l’educazione”. Così, quando Francesca e Valerio sono usciti da Rebibbia, ad attenderli c’erano i senza potere, gli inermi, i radicali nonviolenti, pannelliani di Nessuno tocchi Caino. Convinti della loro diversità dai tempi del delitto e anche della loro estraneità al più orribile dei delitti. Credenti nella supremazia dei valori costituzionali e universali della persona sui sentimenti popolari di vendetta. Osservanti il diritto-dovere di accoglienza degli ultimi tra gli ultimi: i carcerati. E qui che la storia di Nessuno tocchi Caino si intreccia con quella de l’Unità. A Nessuno tocchi Caino può iscriversi chiunque, su l’Unità può scrivere chiunque, anche Valerio Fioravanti. Sono luoghi dove entra l’uomo e il reato resta fuori, dove è possibile essere sé stessi, cioè identificarsi col diverso, difendere l’opposto. Le battaglie per Fioravanti di Rossanda, Pintor e Parlato di Tiziana Maiolo L’Unità, 3 giugno 2023 Censura e intolleranza: dagli anni 70 a oggi non è cambiato niente. Denunciammo la vergogna del processo 7 aprile (contro l’Autonomia operaia) come la farsa delle indagini sulla strage di Bologna. Quanti insulti ci siamo presi! Spero mi scuseranno i miei amici Francesca Mambro e Valerio Fioravanti se non riesco più a seguire i mille processi sulla strage di Bologna che attraversano e riempiono, loro malgrado, la vita della loro famiglia, passato e presente. Sì, ho scritto “amici”. Ma avrei potuto usare il termine di “compagni”, essendo noi parte di una stessa comunità, quella dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino”, di cui sono stata uno dei fondatori e sono tuttora dirigente. Per l’abolizione della pena di morte nel mondo, il nostro punto di partenza. Che tradotto in italiano vuol dire tante cose, abolizione dell’ergastolo e anche del carcere. E dell’intolleranza. Quella di sinistra e di destra, ma ho conosciuto di più la prima. E, se non riesco più a seguire i processi che, dopo oltre quarant’anni paiono più il trastullarsi di pochi con il gioco dei “mandanti” che non una vera, ancorché ormai inutile, verità processuale, il motivo è proprio nella mia distanza dal mondo dell’intolleranza. Quella che ha colpito Piero Sansonetti per la pubblicazione di un articolo. Non ho nessuna affezione particolare per la storia dell’Unità. Ricordo ancora, era il 28 aprile del 1971, quando uscì in edicola il primo numero del Manifesto, il quotidiano “cugino” pubblicò un corsivo offensivo dal titolo “Ma chi li paga?”. La mia storia, più vicina a quella della sinistra detta “extraparlamentare”, non è quella di Piero Sansonetti. Nel presente, siamo più vicini di quanto non sembri. Soprattutto su alcuni presupposti che hanno visto rinascere l’Unità, il garantismo e la tolleranza, prima di tutto. Non potrei scrivere su questo quotidiano, se le porte non fossero aperte anche per Valerio Fioravanti, così come per Sergio D’Elia, con la sua storia opposta e speculare del terrorismo di sinistra. Non potrei, se in questo collettivo non fossimo tutti insieme pronti a difendere i diritti dell’avvocato Giancarlo Pittelli, processato per concorso mafioso, così come quelli di Matteo Renzi per Open a Firenze e nella stessa città per Berlusconi e Dell’Utri indagati come mandanti di bombe. Il Manifesto di Rossanda Pintor e Parlato ha condotto una vera campagna di stampa in favore dei diritti di Mambro e Fioravanti. Con la stessa passione con cui ci siamo impegnati contro il processo “7 aprile” che aveva coinvolto non solo i “compagni che sbagliano”, ma anche quelli che forse sbagliavano sul piano politico, dal nostro punto di vista, ma non su quello penale. Ma per quello, nessuno dell’Unità o del Pci si è mai permesso di insultarci. È successo invece proprio per la strage di Bologna. Perché lì c’è molto di più di una ferita aperta. Lì è nato, all’ombra della federazione del Partito Comunista che di sera si riuniva con alcuni pubblici ministeri, un vero partito. Il partito dell’intolleranza, quello che ogni 2 agosto, nel ricordo tragico di quegli 85 morti e di quei 200 feriti del 1980, si esibisce nei fischi agli esponenti del governo, tranne quando siano considerati “amici”. Mi domando con quale diritto quei pochi ritengano di interpretare i desiderata politici degli 85 morti. Si sono costruite carriere, su quei morti. E anche su quei fischi. Giovani cronisti del Manifesto, tra loro c’erano molti emiliani (come me, che sono nata a Parma) e bolognesi, erano andati subito sul luogo della strage, non solo a fare il loro mestiere di giornalisti, ma a lavorare a mani nude insieme ai tanti volontari che si erano stretti nella loro comunità. Più di adesso, ovviamente, perché lì non c’era nulla di naturale, in quella calamità. Pure, quando il 19 luglio del 1990, a dieci anni dalla strage, una corte d’assise d’appello aveva assolto Francesca Mambro e Valerio Fioravanti e il Manifesto diretto da Valentino Parlato aveva titolato “Lo scandalo di una sentenza giusta”, da Bologna erano partiti gli insulti. Intanto l’Unità diretta da Massimo D’Alema aveva pubblicato una prima pagina bianca in segno di protesta. E poi, noi del Manifesto ci siamo beccati i simpatici attributi di fascisti e “oggettivamente” mandanti di stragi da parte della federazione bolognese del Pci. Pubblicammo le loro amichevoli osservazioni e poco ci mancò, visto i loro rapporti simbiotici con alcuni pm, che non ci facessero processare come “mandanti”. Magari insieme a Licio Gelli e l’intero gruppo di deceduti di recente condannati. Ridicolmente, secondo il mio parere. E chissà se al Manifesto la pensano ancora così. Lo spero. Anche perché, se tutti nel frattempo, non solo Mambro e Fioravanti, ma tutti noi, siamo cambiati, non possiamo esserlo che in meglio. E aprire le porte a questo cambiamento. L’altro ricordo che mi vincola, pur se non vorrei, a tutta questa vicenda della strage e anche al partito dell’intolleranza, risale al 2015. Allora collaboravo a un rimpianto quotidiano che si chiamava li Garantista ed era diretto da Piero Sansonetti. Avevo scritto un articolo che pareva seguire il filo di continuità rispetto alla campagna del Manifesto. Pur da distanza politica. Ma era accaduto che, dopo 26 anni (26!) di carcere Francesca Mambro e Valerio Fioravanti avevano ottenuto la libertà condizionale. Provvedimento legittimo e doveroso, avevano trascorso la giovinezza in carcere, avevano pagato per quel che avevano fatto e anche per quello, la strage, su cui si sono sempre dichiarati estranei. Indovinate? Era insorto Paolo Bolognesi, il successore di Torquato Secci al vertice dell’Associazione bolognese che io chiamo partito degli intolleranti. Era diventato deputato proprio per quei meriti e aveva subito presentato un’interrogazione al governo, che era stata rintuzzata nella risposta dal sottosegretario Cosimo Ferri. Ora la storia si ripete, addirittura per un articolo sull’Unità. Mambro e Fioravanti, e tanti altri, sono cambiati. Voi no. Peccato. L’avvocato può videochiamare il recluso se il carcere è troppo lontano di Dario Ferrara Italia Oggi, 3 giugno 2023 Legali in call coi detenuti. L’avvocato può videochiamare il cliente recluso se il carcere è troppo lontano per poterlo incontrare di persona con regolarità. E ciò benché, passata l’emergenza Covid, non vi siano più “ostacoli per i colloqui in presenza”. La motivazione del giudice che nega i colloqui su tale rilievo non rispetta le esigenze del detenuto né considera la circostanza che il recluso si trova in stato di custodia cautelare in una casa circondariale che si trova a circa 600 chilometri dal distretto cui appartiene il difensore. Così la Cassazione nella sentenza 23557/23, pubblicata il 30 maggio dalla prima sezione penale. È accolto il ricorso proposto dal difensore nell’interesse dell’imputato dopo che il gip ha detto no ai colloqui telefonici richiesti con il detenuto che si trova ristretto nel carcere di Voghera: il penalista è iscritto all’Ordine forense di Roma e per raggiungere l’assistito deve sobbarcarsi un viaggio in auto di circa cinque ore e mezza. Trova ingresso la censura secondo cui il provvedimento adottato dal giudice per le indagini preliminari non contiene una motivazione in grado di legittimare i limiti posti al diritto di difesa del recluso, finendo per assimilare il rapporto fra il detenuto e il legale ad altre e diverse posizioni. Nessun dubbio, anzitutto, che siano impugnabili con il ricorso straordinario per cassazione i provvedimenti sui colloqui dei detenuti in custodia cautelare: possono infatti rendere più afflittiva la misura. È vero: si riferisce anche al difensore la disciplina ex articolo 39 del Dpr 230/00 quando pone un tetto numerico settimanale alla corrispondenza telefonica dei detenuti e ne affida la valutazione al direttore del carcere il tutto senza distinzione fra i reclusi con condanna definitiva e quelli ancora sottoposti a processo. Ma pesa l’articolo 18 Op secondo cui conferire con il difensore è un diritto di detenuti e internati fin dall’inizio della misura o della pena. E la motivazione con cui il gip nega la possibilità di contatti a distanza non è pertinente laddove non tiene conto della distanza fra il carcere e lo studio dell’avvocato, al di là della cessata pandemia. Parola al rinvio. Nelle celle della Campania la costituzione è morta di Samuele Ciambriello* L’Unità, 3 giugno 2023 Ci sono 1.236 tossicodipendenti su 6.790 detenuti, 400 affetti da disturbi psichici. A Poggioreale i reclusi sono oltre duemila. Gli psichiatri? Solo due. Il carcere è la risposta semplice ai bisogni complessi della società. È un grande agglomerato di problematiche e necessità; è visto come un luogo lontano da noi, da tenere a distanza, che deve contenere i pericoli e tenere sicura la comunità: “gettare la chiave”. Ma il carcere è una “discarica sociale”, è abitato prima di tutto da persone. Ed è proprio guardando alla persona che emergono dati allarmanti: sono 1.236 i tossicodipendenti presenti negli Istituti penitenziari della Regione Campania su 6.790 detenuti. Il quadro nazionale invece presenta 56.674 detenuti, con il 30 per cento avente dipendenze da sostanze stupefacenti. Il sovraffollamento, inoltre, peggiora le condizioni igieniche già precarie all’interno dei penitenziari. Dietro questi numeri ci sono tante storie di chi non dovrebbe entrare in carcere: violazioni minime che portano in cella, detenzioni estenuanti e leggi confuse sulla droga. I reclusi tossicodipendenti, che costituiscono una fetta importante dell’intera popolazione detenuta, hanno un problema in più rispetto agli altri e questo dovrebbe suggerire un ricorso più ampio alle misure alternative, ai lavori socialmente utili, nonché a tutte quelle strategie capaci di spezzare la dipendenza dalle sostanze stupefacenti. Un altro dramma che si vive nel carcere è la malattia psichiatrica: in Campania sono oltre 400 i sofferenti con disturbi psichici. Solo una piccola parte di queste persone segue una terapia farmacologia, mentre l’altra ha ricevuto una doppia diagnosi, cioè la coesistenza in un singolo individuo sia del disturbo dovuto al consumo di sostanze psicoattive sia del disturbo psichiatrico, né bastano i reparti di articolazione psichiatrica con un numero che varia dai 18 ai 20 detenuti - ma su scala provinciale - a dare risposte esaustive. Certo, queste articolazioni hanno almeno personale specializzato: psichiatri, tecnici della riabilitazione e altre figure professionali adatte, ma nel resto del carcere non ci sono queste figure, e in molti casi manca addirittura la figura dello psichiatra. La questione emergente resta la sproporzione tra la popolazione carceraria e il personale sanitario. Ma non solo, i dettati della costituzione, ravvedimento, rieducazione, reinserimento, trattamento umano diventano fantasmi. In Campania, sia nel carcere di Sant’Angelo dei Lombardi che nel carcere di Benevento, non c’è uno psichiatra nonostante sia presente un’articolazione per la salute mentale in entrambi gli istituti. Nel carcere di Poggioreale, ci sono 2104 detenuti, l’equivalente di tutti i detenuti dell’intera regione Calabria che però sono divisi in 11 istituti. E per tutti i detenuti a Poggioreale ci sono appena 2 psichiatri. Eppure, la delibera regionale in materia di salute mentale, prevede uno psichiatra ogni 500 reclusi. La politica tutta, nazionale e regionale, deve assumersi le proprie responsabilità ponendo l’attenzione al tema carcere per risolvere problemi che non riguardano solo chi vive la detenzione, ma la società intera. Ricordo spesso che la parola carcere è l’anagramma di cercare: cercare per ricostruire, per ritrovarsi, per seguire una strada che è tracciata anche dalla Costituzione, per trovare se stessi, rispettando i diritti delle persone. Purtroppo, per la politica che pensa al consenso piuttosto che al senso della sua missione, realizzare progetti di inclusione e di reinserimento sociale, il carcere è una risposta semplice a bisogni complessi, in primis la sicurezza. *Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Friuli Venezia Giulia. Relazione annuale del Garante: “Carceri e CPR sono sovraffollati” ilfriuli.it, 3 giugno 2023 Una cabina di regia per coordinare le politiche sui minori. Una maggiore attenzione al diritto di mobilità delle persone disabili. Ma anche e soprattutto interventi concreti per ridurre il cronico sovraffollamento delle strutture carcerarie, prestando poi attenzione alla “contraddizione giuridica” del Cpr di Gradisca. Sono alcune delle proposte contenute nella relazione annuale presentata nei giorni scorsi all’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale dal Garante dei diritti della persona, Paolo Pittaro, e relative ai suoi tre ambiti di competenza che sono la funzione di garanzia per bambini e adolescenti, per le persone a rischio di discriminazione e per le persone private della libertà personale. Nell’esposizione orale al presidente Mauro Bordin e agli altri membri dell’Up, Pittaro si è soffermato in particolare su quest’ultima funzione, affrontando anche il tema del Cpr di Gradisca al centro delle cronache recenti: “Lì c’è un problema di fondo - ha osservato il Garante - in quanto si parla di detenzione amministrativa per gli ospiti, ma se si tratta di detenzione questa non può essere amministrativa, anche se viene validata da un giudice di pace”. “La struttura è retta da un ente privato - ha aggiunto Pittaro - e quando sorge qualche problema bisogna per forza chiamare i Carabinieri. Molti ospiti sono violenti, danneggiano le cose, e nessuno di loro vuole tornare in patria. Tra l’altro i rimpatri sono difficili, perché c’è bisogno di specifici protocolli con i vari Stati, e il costo del rimpatrio è enorme per lo Stato, in termini finanziari e di impiego di personale”. Quanto alle case circondariali, il Garante invita a prendere maggiore consapevolezza della grave situazione di sovraffollamento, che vede il Fvg costantemente tra le prime regioni in Italia in questa classifica. C’è poi il problema della carenza di direttori (“Solo due strutture dispongono di una persona di ruolo”), di personale educativo e di personale penitenziario, mentre qualcosa si sta muovendo sul fronte dell’edilizia. A fronte di queste criticità si chiede alla Regione di “investire in figure professionali e progetti strutturati quali agenzie di rete, operatori del territorio, psicologi penitenziari” come avvenuto in altri territori. E si propone la ripresa dei corsi professionali che erano stati interrotti durante la pandemia. Sollevata anche la questione dell’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito, in quanto in tutta la regione non vi è un istituto a custodia attenuata per detenute madri. Dopo aver ribadito “le criticità riferite all’effettività dell’azione del Garante”, in virtù delle carenze di organico che “attualmente, a fronte dei pensionamenti succedutesi nel tempo, vedono solo 3 persone a supporto esclusivo dell’organismo”, la relazione sviluppa una serie di proposte anche negli altri settori di competenza. Premettendo che nel campo della tutela di bambini e adolescenti “le competenze sono in capo a molteplici soggetti, con un alto rischio di sovrapposizioni o di conflitti, e dunque di perdita di efficacia”, Pittaro auspica una serie di misure tra le quali una maggiore dotazione di risorse umane e finanziarie per i Servizi sociali e sanitari, investimenti nell’area della prevenzione e della promozione, il rafforzamento dell’esperienza dei “gruppi di parola” che servono a migliorare le condizioni dei figli coinvolti nello scioglimento dell’unità familiare, interventi di sensibilizzazione e formazione sul versante dell’affido familiare. Suggerimenti arrivano anche in relazione alla gestione dei minori stranieri non accompagnati, in particolare sul fronte dell’incremento del numero di tutori volontari, oggi ancora troppo pochi sul territorio. Concretamente, il Garante propone di intervenire sul fronte dei permessi di lavoro e del rimborso delle spese sostenute per l’esercizio della funzione tutoria, sulla scorta delle previsioni di legge nazionali. Quanto alla sua funzione anti-discriminazione, il Garante si concentra quest’anno sulla tutela delle persone con disabilità, per quanto riguarda da una parte accessibilità e diritto di mobilità, dall’altra l’incremento dei servizi scolastici di sostegno, in grado di garantire l’effettiva partecipazione e inclusione degli alunni. Lo scudetto che a Napoli manca è la protezione dei suoi figli di Nello Trocchia Il Domani, 3 giugno 2023 L’anno era il 1990, il mese era maggio, il 19 per l’esattezza. Le cronache dell’epoca riportano la notizia di un agguato di camorra nel quale restano uccisi un venditore ambulante e suo figlio, Nunzio Pandolfi, di 19 mesi. Un bambino ammazzato nella città in festa per lo scudetto riconquistato, da qualche settimana Diego Armando Maradona aveva regalato il secondo ai napoletani dopo tre anni. Don Franco Rapullino, parroco della chiesa di Santa Maria della Pace, disse nella sua omelia: “Fujtevenne da Napoli, ogni misura è stata colmata”. Si rifiutò di celebrare l’eucarestia. Ai fedeli aveva parlato della camorra come di “un mostro che si è impossessato del quartiere, abbandonato dallo Stato, ma anche dei nostri cervelli, impedendoci di pensare”. Furono giorni di dibattiti, gli scrittori si confrontarono su quelle parole di fuoco e rabbia. Sono passati 33 anni, il Napoli è tornato meritatamente campione d’Italia, ma la città continua a piangere i suoi figli feriti o morti innocenti, per mano di camorristi, di killer in erba, di “teneri assassini” come li chiama il sociologo Isaia Sales nel titolo di un recente libro (pubblicato da Marotta e Cafiero), dove spiega che il problema dell’occidente sono le periferie e Napoli alla cintura che circonda la città, aggiunge centro storico e hinterland. La bimba e l’aggravante L’ultimo episodio è accaduto a Sant’Anastasia, pochi chilometri dalla metropoli. Due ragazzi, uno di 19 e l’altro di 17 anni, sono arrivati presso una gelateria e hanno cominciato a sparare all’impazzata, sono rimasti feriti una coppia e la loro piccola di dieci anni. Si abbassa l’età dei carnefici che premono il grilletto per conquistare il controllo di una strada, rispondere a un’occhiataccia, punire una banda rivale. A entrambi i giovani vengono contestati gli stessi reati: porto e detenzione di armi, una pistola e una mitraglietta, tentato omicidio aggravato dalla premeditazione e dal metodo mafioso. Le immagini dei sistemi di videosorveglianza li hanno ritratti mentre fanno più volte il giro della piazza in sella a uno scooter, armi in pugno, prima di sparare una decina di colpi. Si danno di gomito, si caricano a vicenda, la bambina stava mangiando un gelato. La scarpa macchiata - Ora la piccola è fuori pericolo, dovrebbe farcela, invece è morto a marzo Francesco Pio Maimone, raggiunto da un colpo di pistola mentre era all’esterno di uno chalet di Mergellina, sul lungomare. L’ha ucciso un coetaneo, un omonimo, Francesco Pio Valda. Era irritato perché qualcuno gli aveva sporcato le scarpe, simbolo di potere e appartenenza. Il dolore corale - C’è un video che spopola su tiktok e racconta meglio di ogni altra cosa il dolore collettivo, corale, di una famiglia e di una comunità che piange l’assenza. Francesco Merola, figlio di Mario, uno degli artisti più amati dal popolo di Napoli, canta: “Circa ‘o permesso a Gesù, si stanotte quando viene, te fa sta n’ora ‘e cchiù (chiedi il permesso a Gesù se questa notte quando verrai, ti farà restare un’ora in più, ndr)”. Sul muro di un palazzo popolare viene scoperto un murale, i familiari di Francesco Pio Maimone ritrovano lì il suo volto. Un amico impugna una torcia da stadio, si legge una scritta sotto il viso gioioso del ragazzo scomparso: “Ci mancherà sempre qualcosa, l’importante è che a mancare non sia il sorriso”. È il pianto collettivo di una Napoli che saluta per sempre un altro figlio suo. Una città che accoglie turisti, riempie i vicoli, miscela modernità e tradizione e poi sprofonda nell’incubo della violenza che all’improvviso rovina i giorni e distrugge famiglie. “In alcuni quartieri ci sono ragazzini che non parlano italiano. La realtà di Napoli è cambiata quando è diventata narco-città, il controllo del traffico di droga ti fa diventare qualcuno. Oggi i ragazzi devono scegliere tra fare il barista a 500 euro o fare la sentinella al doppio o al triplo del compenso. Quando in una città le opportunità illegali sono più interessanti di quelle legali vuol dire che il contratto sociale si è spezzato”, dice Sales. Il determinismo sociale - Rispetto a 30 anni fa, sparano giovanissimi che sono figli di disperazione e assenze, danno sostanza al determinismo sociale che traccia una strada a questi ragazzi quando sono già in culla. Il carnefice che ha sparato uccidendo Francesco Pio è un predestinato e non è il solo, ricorda altre biografie di giovanissimi killer, con genitori assenti per carcere o morte violenta, esperienza pregressa in comunità, dove era entrato due anni prima dell’omicidio per spaccio di stupefacenti. I documenti che Domani ha consultato raccontano di un padre violento con la madre, sottoposta ad abusi e angherie, prima di essere ammazzato in un agguato di camorra. Francesco Pio Valda, in realtà, i genitori li aveva già persi prima, quando erano stati privati della potestà, con il bambino finito prima ai nonni, poi arrestati, e dopo tra le braccia di una zia. Al ragazzo è rimasto come riferimento una sorella ventenne e già madre, i mesi in comunità non gli consentono di uscire e liberarsi della sua formazione intrisa di illegalità, un’appartenenza a logiche criminali. Fa uso di stupefacenti, viene ritrovato con il cellulare e scappa due volte dalla comunità, pochi mesi dopo la libertà si presenta davanti allo chalet per sparare a casaccio. Voleva punire il responsabile di quella macchia che gli aveva insozzato una scarpa. Ha ucciso un innocente. Le ferite di Arturo - Nel dicembre 2017, a Napoli, nella centralissima via Foria, viene assalito e accoltellato Arturo Puoti, 17 anni. Volevano rubargli un cellulare, lo circondano in quattro e lo colpiscono ripetutamente con le lame. Si salva per miracolo, grazie alla celerità dell’intervento e alla bravura dei medici. La madre, la professoressa Maria Luisa Iavarone, da allora ha creato un’associazione, si chiama Artur, dal dolore all’impegno. “Dietro un ragazzino deviante c’è sempre un adulto irresponsabile; se un minore delinque, se un minore smette di essere precocemente bambino, è senz’altro per colpa nostra, degli adulti che dovevano guidarlo, aiutarlo ed educarlo”, scrive nel suo libro Il coraggio delle cicatrici (Utet). Parla di eclissi di genitorialità, “i minori così annaspano ciecamente in un mondo senza adulti significativi, carenza che produce un’assenza totale del principio di autorità e che alimenta un onnipotente senso di impunità”, aggiunge. In quella storia di lame, ferite e rinascita c’è una costante: il determinismo sociale. Tre degli assalitori vengono condannati in via definitiva, uno era così piccolo da essere sotto la soglia della punibilità penale. Uno dei componenti della gang criminale si chiamava Antonio, sui social ricordava il papà con questa scritta: “Mio padre mi disse attento a dove metti i piedi e io gli risposi, attento tu… che io seguo i tuoi passi”. Il padre, Antonio lo ha perso nel 2003. Si era impiccato nel carcere di Poggioreale dopo essere stato arrestato per aver rapinato e ucciso uno studente di 22 anni, Claudio Taglialatela. Antonio ha seguito proprio i passi del padre, i passi che Napoli fatica a cancellare. Non basta lo scudetto. Napoli. Il “Mare fuori” per davvero: due giovani detenuti in tirocinio alla Stazione Zoologica Anton Dohrn di Paolo De Luca La Repubblica, 3 giugno 2023 L’iniziativa, che durerà un anno, grazie al progetto “Seconda Chance”. Quando il “Mare fuori” c’è davvero. Letteralmente. Grazie al progetto “Seconda Chance”, due detenuti, F. e N., hanno iniziato un tirocinio alla Stazione Zoologica Anton Dohrn a Napoli. “Il nostro Chris Bowler - si legge in una nota - è stato felicissimo nell’aprire le porte della nostra istituzione per offrire una seconda possibilità a due persone meritevoli”. Uno degli stage avviene nella celebre sede del “Turtle Point” di Portici. Riguarda il supporto alle attività di mantenimento e cura delle tartarughe marine ospedalizzate nel centro, oltre alla manutenzione ordinaria degli impianti di controllo, della qualità dell’acqua delle vasche, del benessere degli animali, di preparazione e somministrazione della razione alimentare. Il tutto supervisionato da Andrea Affuso, coordinatore del sito: “Il nostro obiettivo - spiega - è quello di offrire ad una persona in difficoltà, la possibilità di fare una esperienza di condivisione di valori positivi”. È proprio qui che F. ha iniziato la sua attività: “Ho trovato un clima disteso e familiare, il lavoro non mi pesa affatto e, ogni mattina, non vedo l’ora di tornare a riprendere le attività, cercando di dare sempre il mio massimo: mi sento parte di un gruppo”. L’altro stage si tiene nella sede principale della Stazione, in Villa Comunale a Napoli: riguarda l’utilizzo delle principali apparecchiature informatiche, sotto la guida di Luigi Migliaccio, per la gestione di una sala conferenze in occasione di eventi reali e simulati. M. lavora qui, con apparecchiature hardware di ultima generazione. “Il ‘Mare fuori’ - afferma - ha bagnato me: trovare un’occupazione e reinserirsi nel mondo del lavoro è come raggiungere il K2. Ma grazie a ‘Seconda Chance’, alla Stazione Dohrn e all’istituto circondariale di Secondigliano, che mi ha aperto le porte del carcere, ho la possibilità di lavorare per un anno in questo ufficio, dove ho trovato persone affabili, senza pregiudizi e preconcetti. Ringrazio tutti per questa opportunità che mi è stata data. “Seconda Chance”, fondata e presieduta dalla giornalista Flavia Filippi, promuove e fa conoscere alle imprese la legge Smuraglia (193/2000) che offre agevolazioni a chi assuma, anche part time o a tempo determinato, detenuti in art. 21, cioè ammessi al lavoro esterno. “Siamo partiti dalla stazione Dohrn per dare nuovi orizzonti a due detenuti, che diventeranno presto tre, e puntiamo a coinvolgere nel nostro progetto un numero crescente di imprenditori napoletani. Li invitiamo a venire a Poggioreale e a Secondigliano con Maurizio Nicita di ‘Seconda Chance Campania’, per valutare insieme a lui la possibilità di offrire contratti di lavoro, anche brevi, a detenuti meritevoli, a fine pena e spesso anche con competenze. Informazioni al sito www.secondachance.net. Reggio Emilia. “Carcere e tossicodipendenza: una doppia pena?” di Anastasiya Lisnichuk reggionline.com, 3 giugno 2023 In tribunale a Reggio Emilia una partecipata conferenza. I rappresentanti dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” e della Camera Penale locale hanno espresso la loro preoccupazione per le condizioni di disagio nelle carceri, Ai margini della conferenza “Carcere e tossicodipendenza: una doppia pena?” che si è tenuta nei giorni scorsi al Tribunale di Reggio, i rappresentanti dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” e della Camera Penale locale hanno espresso la loro preoccupazione per le condizioni di disagio nelle carceri. Una grande problematica in particolare è quella legata al trattamento sanitario sul piano della salute mentale dei detenuti. Così Sergio d’Elia, segretario dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”: “Io credo e mi rivolgo al capo dell’amministrazione penitenziaria che la cosiddetta tsm (articolazioni di tutela di salute mentale) non è tollerabile che ancora permanga in quelle condizioni. Sono troppi, la metà sono fuori da questa regione e quindi fuori dal trattamento sanitario della regione. chiedo almeno di far tornare alle regioni di provenienza quei detenuti, sicché il carico di dolore, di sofferenza e di cura a loro destinato sia distribuito equamente in tutte le regioni”. Così Cecilia Soliani, della Camera Penale di Reggio Emilia: “Il carcere di Reggio è probabilmente l’istituto in cui si cerca di fare il possibile, ma non è sufficiente. E’ un carcere che ha una popolazione estremamente eterogenea e variegata. Questo dato di fatto non permette di fare una personalizzazione di quello che è un percorso rieducativo e trattamentale e questo ovviamente a discapito dei detenuti. Per cui l’auspicio per noi come Camera Penale di Reggio è quello di potere davvero instaurare un dialogo e aprire un tavolo di lavoro con chi dell’universo carcere si occupa per cercare di migliorare una situazione che deve essere migliorata”. Bari. Onorificenza ad Anna Rita Sette: una vita dedicata ai detenuti borderline24.com, 3 giugno 2023 Per il lavoro svolto in qualità di assistente sociale alla Rems. La dottoressa Anna Rita Sette ieri a Bari ha ricevuto l’onorificenza come Cavaliere della Repubblica per il lavoro svolto in qualità di assistente sociale alla Rems, la Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza di Spinazzola. “Il conferimento di questo importante riconoscimento per l’onore al merito del lavoro a una persona che ha dedicato passione e intelligenza a un settore così fragile della nostra collettività - ha detto il dottor Mauro Palma, Garante Nazionale dei detenuti - ha un duplice impatto per la persona e per l’istituzione, per la Rems spesso guardata con sospetto. Questo riconoscimento ci dice che si può, che si può far in modo che tutti siano messi in grado di reinserirsi armoniosamente nella società”. “Siamo orgogliosi di questo importante riconoscimento per il lavoro svolto dalla dottoressa Sette - dice il dottor Piero Rossi, Garante per i diritti dei detenuti della Regione Puglia - è un riconoscimento al suo impegno, alla sua dedizione ed è un segno tangibile di attenzione alla Rems, a quello che ha rappresentato e rappresenta oggi per tanti pazienti psichiatrici autori di reato che hanno una possibilità concreta di riabilitazione”. “Alla dottoressa Sette vanno i nostri complimenti, va il nostro grazie perché conosciamo la sua abnegazione - dice Tiziana Dimatteo, Direttrice Generale ASL Bt - conosciamo la sua competenza, la capacità di risoluzione, la sua passione a servizio della intera comunità. Quello che ha contribuito a realizzare non è solo a vantaggio degli ospiti della Rems ma anche dei cittadini, della comunità. Attraverso diverse azioni di coinvolgimento diretto il nostro territorio ha avuto modo di conoscere da vicino questa bella e importante realtà di cura”. Treviso. Il Vescovo nel carcere di Santa Bona per il progetto “Oltre le Sbarre” giornalenordest.it, 3 giugno 2023 Mons. Michele Tomasi, Vescovo di Treviso si è recato nella Casa Circondariale di Santa Bona per partecipare alla consegna degli attestati spendibili professionalmente che alcuni detenuti hanno conquistato al termine di due corsi di formazione. Si è concluso così, venerdì 1 giugno, il primo atto del progetto Oltre le sbarre, che ha realizzato un corso di alfabetizzazione digitale di 30 ore (iniziato il 30 marzo e che si concluderà l’11 maggio) e uno di saldatura di 28 ore (iniziato il 15 aprile e che si concluderà all’inizio di giugno) per i detenuti. Si tratta di un’iniziativa realizzata dalla Fondazione Opera Monte Grappa con la collaborazione di Caritas di Treviso, Vicariato di Asolo, Fondazione Erasmo Pilla Onlus e Alternativa Ambiente cooperativa sociale con il fondamentale sostegno economico sostegno della BCC Pordenonese e Monsile, che ne ha riconosciuto il grande valore nel segno dell’attenzione che l’Istituto presta alle necessità della comunità. I corsi hanno coinvolto inizialmente 14 persone selezionate dagli educatori della Casa Circondariale e si sono svolti nel polo occupazionale di Alternativa Ambiente che l’ha attrezzato per l’occasione. La Scuola Professionale di Fonte della Fondazione Opera Monte Grappa ha messo a disposizione docenti, computer e saldatrici per lo svolgimento dei corsi. Storia della protesta che ha rotto l’isolamento di 30mila detenuti di Paolo Persichetti L’Unità, 3 giugno 2023 Nella notte tra sabato 16 e domenica 17 giugno 1973 scoppia la rivolta nel carcere di Rebibbia, un istituto di pena inaugurato appena un anno prima. Centinaia di detenuti prendono il controllo fino all’alba dei “bracci” e della “rotonda” centrale. I rivoltosi staccato mobilio e suppellettili dalle loro celle per innalzare barricate davanti ai cancelli d’ingresso dei reparti. Alle prime luci del giorno la protesta si placa, i reclusi rientrano nelle celle ma dopo alcune ore di apparente calma all’inizio del pomeriggio della domenica riprendono la protesta. Un gruppo di detenuti del G8 dopo l’aria rifiuta di entrare nelle celle e raggiunge il tetto del carcere. Sono una cinquantina a riaccendere la rivolta che si estende agli altri raggi e viene subito ripresa nel resto delle carceri italiane: Cagliari, Marassi, san Gimignano e poi nelle settimane successive a macchia d’olio negli istituti di pena del Sud come nel Nord. Dopo circa un ventennio di “pace carceraria”, seguito alle rivolte dell’immediato dopoguerra, nel corso del biennio 68-69 era ripresa la mobilitazione nelle prigioni, prima alle Nuove di Torino, poi il Marassi di Genova e San Vittore a Milano. Non è un caso se a mobilitarsi per prime sono le carceri giudiziarie del triangolo industriale, rivolte che ricalcano quanto avveniva nelle fabbriche e nei quartieri di quelle città. Le mutazioni sociologiche avvenute all’interno della popolazione detenuta con un incremento notevole dei condannati per reati contro il patrimonio, la diffusione della nuova cultura della “stecca para” che rompeva le rigide gerarchie nel mondo della malavita, dando vita a batterie di rapinatori che suddividevano in modo equo il bottino, accompagnava una nuova autopercezione egualitaria e solidale del mondo della illegalità. Tutto ciò era favorito dal fervore critico e rivoluzionario penetrato all’interno degli istituti di pena con i primi militanti politici dei gruppi della nuova sinistra incarcerati. Una nuova coscienza critica si era diffusa tra i detenuti non più governabile con il paternalismo e la repressione dei decenni precedenti. Le istituzioni totali venivano viste come simbolo estremo dell’ordine capitalistico e luogo di sovversione dello stesso. Le lotte dentro le mura di cinta si pensavano come parte della più generale battaglia contro il capitalismo condotta all’esterno. Paradossalmente sarà proprio la dura repressione con i trasferimenti punitivi dei rivoltosi che favorirà l’allargamento a macchia d’olio delle proteste e delle rivendicazioni in tutte le carceri dove questi arrivavano. La creazione di Commissioni interne crea embrioni di democrazia dentro le mura di cinta e trasforma i detenuti in nuovi soggetti politici che pensano, scrivono, elaborano piattaforme, si incontrano con parlamentari della Sinistra in visita nelle carceri. Il primo regolamento della futura riforma del 1975 fu scritto dalla commissione carceri dei detenuti di Poggio Reale. Molti istituti innovativi, come la socialità, vennero pensati dalla commissione di Poggio Reale. Prima in carcere si parlava di “ricreazione”, come all’asilo. Venne istituzionalizzata la rappresentanza dei detenuti, poi recepita nel regolamento carcerario. Un ruolo decisivo verrà svolto dalla “Commissione carceri nazionale” messa in piedi da Lotta continua e dalla rubrica dell’omonimo giornale, “I dannati della terra”, che agiranno da catalizzatore della stagione di lotte fino alla fuoriuscita di una parte dei suoi militanti - molti dei quali erano stati tra i protagonisti delle Commissioni interne - che darà vita alla esperienza dei Nuclei armati proletari. Articolo di Aladino Ginori, apparso sull’Unità del 24 giugno 1973 C’è un dato che ha dell’incredibile. Il più alto numero di suicidi in carcere, avviene durante l’ultimo mese di detenzione. Anche a questo porta il più micidiale dei meccanismi di isolamento umano che la nostra società possa offrire. Quando il detenuto e prossimo alla libertà - come dicono gli esperti - quando avverte che dovrà tornare a fare i conti con una realtà esterna che lo ha già respinto una o più volte, l’angoscia diventa incontenibile ed i più deboli cedono fino a giungere all’atto irreparabile. Chi esce dal carcere, invece, più che confrontarsi con la comunità reale, mette in moto reazioni imprevedibili di fronte alla realtà immaginata durante la detenzione; una realtà che vede densa di minacce, verso la quale si pone in un conflitto aperto. Questo, il più delle volte, il risultato d’un periodo di pura e sterile “punizione” nel quale si accumulano, in un ambiente disumano, le esasperazioni, e l’individuo si abbrutisce nelle ore, nei giorni e negli anni vuoti e sempre uguali nella loro miseria. La cosiddetta rivolta delle carceri ha le sue radici in moltissimi fattori. Lo hanno riaffermato in questi giorni i detenuti che hanno dato luogo a proteste clamorose a Roma (Rebibbia, il carcere definito “modello”), a Torino, a Cagliari, a Palermo, a Siracusa, a Milano, a Firenze, a Frosinone, a Spoleto. Migliaia dl uomini e donne (sono circa trentamila i carcerati in Italia) hanno posto un cumulo di rivendicazioni: dalla carcerazione preventiva, da un trattamento più umano nelle carceri, al diritto al lavoro e allo studio. Una protesta che, come quella altrettanto vasta del 1969, e stata bloccata con la repressione più dura, con i trasferimenti in massa, con la cella d’isolamento, con le punizioni sorde e cariche dl rancori, anche personali. A Roma e a Firenze si è anche sparato e si è fatto ricorso ai candelotti lacrimogeni. Tuttavia la tensione resta. E, cosa ancora più grave, restano tutti i problemi. Qualcuno osservava che la protesta dei detenuti non poteva cadere in un momento peggiore: crisi di governo e Camere bloccate non permetterebbero, infatti, di affrontare la vasta gamma dl richieste avanzate dai detenuti. Ma di riforma dei codici e di nuova regolamentazione sul carcere preventivo si parla almeno da venticinque anni in Italia. Ci sono quindi precise responsabilità politiche se, fino ad oggi, non si e mosso un dito. Se, per ovviare al pesante inconveniente dei detenuti in attesa di giudizio (sono il 56 per cento) e per sgomberare le aule dei tribunali da migliaia di fascicoli si è preferito ricorrere per ben venticinque volte alla amnistia, dal dopoguerra ad oggi. […] Delle quasi trecento prigioni esistenti oggi in Italia, infatti, 177 sono state costruite per altra destinazione. Solo una ventina sono state edificate dopo il 1955 ed altre sedi dopo il 1930. Tutte le altre sono ex conventi o ex fortezze e, fra queste, basti citare il Mastio di Volterra, (una fortezza medicea del 1334). Il carcere di Trento, (risale all’epoca napoleonica), quello dl Trani (un vecchio castello), quello dl Procida (ex fortezza borbonica), quello in uso a Rimini fino al 1969 (una rocca malatestiana). E ancora: il San Vittore dl Milano ha cento anni di vita. Le “Nuove” di Torino risalgono al 1857, il Poggioreale di Napoli è del 1912. Dentro queste “fabbriche dell’isolamento” avviene di tutto. […] Fra tutte, comunque, la realtà più scandalosa del nostro sistema carcerario resta quella del lavoro. Il terzo dei detenuti che trova occupazione in carcere (per tutti dovrebbe essere, un diritto) è sottoposto alle leggi del più brutale sfruttamento, sia che lavori alle dirette dipendenze dell’amministrazione carceraria sia che lavori per ditte di appalto. E la cosa più incredibile sta nel fatto che è proprio lo Stato a rendersi protagonista o complice di questo sfruttamento: pagando salari vergognosi (in media 800 lire al giorno, ma decurtate le spese di “soggiorno” ne restano poco più della metà) o pretendendo tangenti del 110 per cento dalle ditte che appaltano i lavori e che “usano” i carcerati in una misura che rasenta davvero il codice penale. È questo, quindi, per linee sommarie il retroterra della protesta che e divampata nelle carceri in questi ultimi giorni. Una situazione terribile, dove è comprensibile anche che si possa arrivare a forme di lotta disperate quanto inefficaci e perfino controproducenti. L’Italia destina all’amministrazione della Giustizia il 41 per cento delle sue spese pubbliche. Nel 1973 alle carceri sono stati destinati circa 90 miliardi. Sono cifre tra le più basse d’Europa che non sfiorano nemmeno lontanamente la sostanza del problema. Ma non solo di cifre si tratta, ovviamente. Il nodo di fondo da sciogliere è di carattere politico. II sistema carcerario fa parte del più vasto apparato della Giustizia che - come più volte e stato sottolineato dalle forze politiche democratiche - ha bisogno dl profonde riforme. Bisogna andare alla riforma dei codici, alla riforma della regolamentazione sulla carcerazione preventiva. Bisogna, quindi, entrare nelle terribili “fabbriche dell’isolamento” e guardarne per modificarli i regolamenti arcaici. I detenuti chiedono dl lavorare e studiare. Lottano per ottenere diritti ormai acquisiti da decenni in quasi tutti i paesi del mondo. Da noi non più e possibile attendere oltre. Se il delitto diventa uno spettacolo pulp di Massimiliano Panarari La Stampa, 3 giugno 2023 Uno dei classici della macchina dell’informazione spettacolarizzata è il “delitto dell’estate”. L’omicidio di Senago sembra averlo anticipato; così, in queste ore, si susseguono notizie, ricostruzioni e isterismi pseudoinfomativi sulla tragedia di Giulia Tramontano. Una “perla” in questo senso (deteriore) l’ha offerta ieri il macabro e “insuperabile” riferimento da Italian horror story - contenuto in un servizio de La vita in diretta su Rai 1 - fra le mani di Alessandro Impagnatiello che, come in un fotoromanzo (o in una soap), si “muovevano sinuosamente” preparando i cocktail, e hanno tolto la vita alla ragazza incinta. Lo citiamo come ultima tappa del (disumano) chiacchiericcio da intrattenimento dilagato senza sosta all’interno della programmazione televisiva con riferimento a quelle che il giornalismo Usa - che le ha trasformate in ghiotte occasioni di audience negli anni Ottanta - chiama “storie di interesse umano”. Dove l’interesse è puramente morboso, e il mix di modalità di funzionamento della logica mediale e concorrenza sul mercato dei mezzi di comunicazione porta a un’incessante escalation grandguignolesca. Mentre la pietas - e pure il lavoro di inquirenti e investigatori - richiederebbe discrezione e toni bassi. Ma pietà l’è morta sotto il tritasassi dell’ecosistema mediale ibrido, dove l’inverecondo commento “manesco” di cui sopra è stato istantaneamente stigmatizzato sui social e, nondimeno, la logica di una competizione senza quartiere tra media mainstream e nuove piattaforme ha fatto saltare ogni freno inibitorio all’infotainment che racconta fatti di cronaca nera spingendo vieppiù l’acceleratore sulla spettacolarizzazione pulp e l’ostentazione oscena dei basic istincts. “Piatto ricco mi ci ficco”, dunque, e non importa quanto viscerale sia il dolore che contiene, giocando per giunta sulla rivendicazione del “servizio” reso a un’opinione pubblica che ha il “diritto” di sapere tutto su quanto avvenuto. Pornografia, giustappunto, e l’antitesi della nozione di servizio pubblico di cui abbiamo bisogno. Un fenomeno che viene da lontano oramai, e si intreccia con l’idea - anch’essa databile al decennio degli Ottanta - della “tv verità” che ripropone un evento senza filtri protettivi, né (ecco il compiaciuto e pericoloso equivoco) censure. E dato che le curve degli ascolti non prevedono dubbi o esitazioni, e si fondano sul meccanismo della “crescita (potenzialmente) illimitata” fino all’overdose, ecco che si può facilmente profetizzare che, in materia, al peggio non c’è (e non ci sarà...) mai fine. Lo stiamo appunto toccando con mano - anche perché, come hanno ampiamente dimostrato gli studi comunicativi, il ruolo di gestori delle paure e delle insicurezze collettive detenuto dai media si accentua ancor più nelle fasi storiche di maggiore ansia sociale. Durante le quali la spettacolarizzazione del dolore svolge, al medesimo tempo, una funzione rituale e di rafforzamento del loro potere. Proprio quando, invece, si dovrebbe fare tesoro della massima di Ludwig Wittgenstein: “Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Vittorino Andreoli: “La morte è diventata banale e l’amore è una forma di consumo” di Flavia Amabile La Stampa, 3 giugno 2023 Lo psichiatra sull’omicidio di Giulia Tramontano: “La società deve insegnare ad affrontare le emozioni. Bisogna ripartire dall’educazione: si preferisce riempirci di poliziotti invece che investire nella scuola”. Si ama con la stessa superficialità con cui si acquista un oggetto su Amazon. Si osserva il cadavere della fidanzata (e pure del futuro figlio) appena uccisa con lo stesso fastidio di chi ha un problema al rubinetto e cerca su Google il tutorial per ripararlo. È una generazione sempre meno evoluta, sempre più vicina alle specie animali quella che si sta affacciando alla vita matura, secondo Vittorino Andreoli, 83 anni, psichiatra, lucido indagatore della mente umana. Giulia Tramontano, 27 anni, al settimo mese di gravidanza, uccisa in modo feroce e spietato. Ci aiuta a capire che cosa sta accadendo, se c’è qualcosa di diverso rispetto ad altri femminicidi? “Questo crimine ha caratteristiche esteriori di cronaca particolari però, se prendiamo in esame le motivazioni, all’origine c’è qualcosa di comune, di diffuso nel comportamento giovanile”. Vale a dire? “La morte ha perduto ogni dimensione del mistero, della sacralità, del punto interrogativo. È diventata banale e qui lo si vede non solo perché c’è una donna che viene uccisa ma anche perché il giovane ha affermato che a questo punto è meglio che muoia anche lui. Oppure perché la seconda donna ha affermato che correva anche lei il rischio di essere ammazzata. La morte è diventata un mezzo per sbarazzarsi di un ostacolo. Poiché questa ragazza gli creava dei problemi il fidanzato l’ha uccisa”. Un meccanismo da videogiochi... Esatto. I videogiochi spesso si fondano sulla quantità di eliminazioni di immagini umane. Però ci sono anche degli altri elementi da prendere in considerazione. Il tempo, per esempio. Come in un videogioco, la vita viene percepita come una serie di momenti distanziati l’uno dall’altro. Non si va oltre quello che interessa oggi o il fine settimana o, al massimo, le vacanze. Non c’è il futuro, c’è un empirismo esistenziale che è totalmente amorale. Il giovane, infatti, non percepisce l’etica la differenza tra un modo di vivere correttamente e un altro che non è accettabile, quindi non ha avuto la sensazione di aver fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare. Non prova alcun senso di colpa, ha solo eliminato un problema. Sono elementi purtroppo diffusi e comuni”. Sta disegnando il ritratto di una generazione che vive senza futuro, senza sentimenti, senza credere a nulla, nemmeno all’amore... “Si è persa completamente la percezione dell’amore. L’amore che noi definiamo come una relazione che aiuta a vivere è un’acquisizione nell’evoluzione delle specie, fa sentire il bisogno dell’altro ed è una prerogativa del genere umano. Tutto questo non c’è più, è scomparsa la cosa più straordinaria, la relazione d’amore in cui uno vuole fare tutto per l’altro, che prova piacere nel generare piacere nell’altro. Adesso, invece, è un’esperienza che non ha la dimensione del tempo ma quella del consumo. È un rito che si brucia in modo estremamente rapido, basta che si dica “mi sono fatto quella”. È un rito che prevede che la donna sia di proprietà dell’uomo. Purtroppo, nemmeno nelle nuove generazioni si è riusciti a superare questa distorsione che non ha nulla a che vedere con l’amore... “Non è avvenuto perché la donna è evoluta in questi 20-30 anni, ha fatto passi straordinari dal punto di vista affettivo, del ruolo sociale e del pensiero. L’uomo, invece, non è andato avanti. Avevo un’amica meravigliosa, Ida Magli. Mi diceva: “Vittorino, se il movimento femminista resta staccato dall’uomo non si riuscirà mai a raggiungere la parità anche dei sentimenti”. Oggi abbiamo da una parte le donne che possono dire: adesso è finita. Dall’altra ci sono questi omuncoli che non sanno stare senza le donne e non sanno affrontare le difficoltà dei rapporti”. Da che cosa dipende questa incapacità? “Viviamo in una società che, attraverso gli strumenti digitali, ha sviluppato le facoltà intellettive di capire, di informarsi, ma non ha fatto alcun passo avanti nella capacità di gestire gli affetti. Questo giovane cerca su Google come ammazzare, non si pone il problema del senso di colpa”. Pensa che gli basti un tutorial... “E gli manca completamente la relazione dell’amore. Lo considera un consumo”. Un acquisto sbagliato su Amazon... “O una bambola di gomma che ha un meccanismo che non funziona più e la vuole sostituire con un’altra. Stiamo regredendo allo stato istintuale, a quelle che sono le pulsioni come nelle specie animali. Stiamo lottando per costruire robot sempre più sofisticati in realtà stiamo diventando noi stessi dei robot perdendo poco alla volta le caratteristiche psichiche che ci differenziano dalle altre specie. Ciò che chiamiamo civiltà lo diamo per acquisito ma possiamo perderlo nel corso di poche generazioni. Stiamo sprofondando, siamo la società del Titanic”. Che cosa si può fare per impedirlo? “Bisogna fare presto e cambiare completamente i principi dell’educazione. Bisogna insegnare ad affrontare le emozioni a spiegare che non siamo un “io” ma siamo un “noi”, la parte di una relazione, perché abbiamo sempre bisogno dell’altro. Purtroppo, invece, se c’è un settore che non funziona è l’educazione, si preferisce riempirci di poliziotti invece che investire nella scuola”. Uomini, vi spiego che cos’è la paura di Elena Stancanelli La Stampa, 3 giugno 2023 Le donne hanno torto quanto gli uomini, sono cattive quanto gli uomini, violente, rabbiose, noiose tanto quanto gli uomini, ma non fanno paura. La paura è un’altra cosa. Sono cresciuta pensando che gli uomini avessero paura delle donne, perché questo loro dicevano. Serviva a spiegare tutto: l’apatia, l’impotenza, il tradimento, le fughe. Gli uomini avevano paura e quindi lasciavano le mogli per fidanzarsi con adolescenti, o smettevano di rispondere al telefono, o si imbottivano di pillole blu per fare sesso. A me in particolare è stato detto decine e decine di volte: tu fai paura agli uomini. Per quello che dico e per il modo in cui lo dico, per le scelte che ho fatto, persino per come sono fisicamente. Tu fai paura agli uomini, mi dicevano, e intendevano, immagino, un misto di indipendenza, libertà, disinvoltura, tutto quello che io potevo fare e mia madre non aveva potuto fare. Che era finalmente a disposizione e dunque io me lo prendevo. Cosa avrei dovuto fare? Mi arrabbiavo, certo, mi ribellavo a quell’idea demenziale ma una parte di me, che conservava il ricordo di certe donne rassegnate, ogni tanto, piano piano, cedeva e provava a fare “meno paura”. Ma non sapevo bene come e quindi mettevo in atto strategie demenziali e spesso non solo inefficaci ma ottime per produrre l’effetto contrario. Perché l’irrazionalità è un’altra delle questioni, in generale delle donne. Mi comportavo in un modo così bizzarro da convalidare il loro timore, facevo, insomma, ancora più paura. Noi che siamo nate negli anni Sessanta siamo cresciute così. E un po’ ci faceva rabbia e un po’ ci faceva ridere. Ma adesso mi chiedo: ma gli uomini, lo sanno cosa significa davvero avere paura di qualcuno per il solo fatto che non appartiene al tuo stesso sesso? Chissà perché non me lo sono chiesto per tanti anni. Forse perché mi sembrava normale accelerare il passo tornando a casa da sola la sera, o tremare se in uno scompartimento di treno vuoto un maschio mi si sedeva accanto. Lo sanno i maschi cosa vuol dire quando giri l’angolo, la sera, e per un lungo tratto di strada sei solo tu con quel tizio che, forse, ti sta seguendo? Cosa vuol dire tastare in borsa lo spray al peperoncino perché senti dei passi alle tue spalle? La sensazione di quando con incoscienza e allegria entri in un parco dopo il tramonto per una passeggiata, perché è bello passeggiare nei parchi dopo il tramonto, e dopo un po’ inizi a pensare che l’uscita è lontanissima e c’è un gruppo di maschi che forse si sta dirigendo verso di te? Lo sanno cosa vuol dire quando chiedi aiuto e a volte è pure peggio, e quell’uomo a cui ti sei rivolta, magari un poliziotto, inizia a fare cose strane? Noi donne lo sappiamo. Tutte. Fin da quando siamo bambine. E mi pesa molto dividere il mondo in due con tanta semplicità, ma a qualsiasi donna è successo milioni di volte di avere paura. Una paura vera. La paura di essere stuprata, picchiata, ammazzata. Da un tizio qualsiasi per strada, strafatto di cocaina o di rabbia, o peggio ancora da una persona conosciuta. Le donne, e mi pesa tantissimo doverlo scrivere, hanno diritto di dire che hanno paura degli uomini. Gli uomini non hanno diritto di dire che hanno paura delle donne. Mai, in nessuna circostanza. Né quando vengono lasciati, né quando non riescono ad avere un’erezione, né quando le donne urlano loro in faccia. Le donne hanno torto quanto gli uomini, sono cattive quanto gli uomini, violente, rabbiose, noiose tanto quanto gli uomini, ma non fanno paura. La paura è un’altra cosa. La paura è quando pensi che se fai un gesto sbagliato sei morta. Tutto il resto è ansia, debolezza, lagna, scuse, ma soprattutto difficoltà a fare i conti col proprio tempo. Migranti. Dialogo Zuppi-De Gregorio: “Le mille ragioni dei profughi” di Domenico Agasso La Stampa, 3 giugno 2023 Il presidente Cei: “Respingere i profughi non è patriottico, servono qui, non a casa loro”. Parola del cardinale Matteo Zuppi: “Quella tra migrante economico e profugo di guerra è una distinzione difficile. I conflitti durano anni o decenni, le conseguenze sulle persone durano tutta la vita”. E poi, “noi abbiamo gran bisogno di manodopera, per esempio nell’agricoltura, dove lo scandalo è il caporalato, che nega diritti essenziali”. Parola di Concita De Gregorio: “Siamo un Paese multietnico eppure l’italianità è qualcosa che sta ancora tra la milza e il fegato dell’opinione pubblica”. Al Festival internazionale dell’Economia - tema: “Ripensare la globalizzazione” - in corso a Torino fino a domani, il presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) e arcivescovo di Bologna dialoga con la giornalista, scrittrice, editorialista de La Stampa e direttrice di The Hollywood Reporter Roma. L’argomento è “Il diritto di migrare”. Nel mondo globalizzato crescono i divari tra le diverse aree, si moltiplicano le zone di conflitto, esplode la crisi ecologica: emergenze che portano sempre più persone a fuggire dai propri paesi. L’Europa “ha alle spalle una lunghissima tradizione di accoglienza - ricorda il porporato - e anche oggi è tempo di scelte coraggiose e lungimiranti”. Oltre alla richiesta di “buon senso”, il messaggio che lancia Zuppi è: “Liberi di partire e liberi di restare”. Quando il capo dei vescovi e la nota conduttrice tv entrano nella gremitissima “Aula Camera Italiana” del Museo del Risorgimento, vengono accolti da un caloroso e prolungato applauso. La scrittrice racconta una vicenda personale: “Una mia zia faceva la sarta a Novara. Emigrò con la sua famiglia negli Stati Uniti. Due generazioni dopo, mia zia è ancora viva, i suoi figli e nipoti sono nati negli Usa. Io sono andata a trovarli. “Zia perché siete andati via? Non c’era dittatura, né la guerra”. Mi ha risposto: “Perché pensavamo di dare un futuro migliore ai nostri figli”. Mia zia è stata la prima sarta di Calvin Klein: se fosse stata respinta, la moda avrebbe subito una perdita. Questa storia ci interroga sul confine sottile, sulla distinzione complicata tra migranti economici e chi fugge per necessità”. Secondo il leader della Cei, oggi sarebbe stata respinta, e “respingere migranti che potrebbero dare un grande contributo al nostro Paese è poco patriottico”. L’economia ha “un enorme interesse a utilizzare l’immigrazione in senso positivo”. De Gregorio riflette sulla “responsabilità politica: le leggi. “Siamo ancora fermi alla Bossi-Fini, nessun governo è stato in grado di formulare una proposta diversa da quella… che cosa succederà nei prossimi mesi con questa classe politica deputata a legiferare?”. Zuppi esorta a “superare un modo rozzo di affrontare la questione. Serve ritrovare una visione formata da accoglienza, buon senso e memoria di quando noi italiani siamo stati emigranti”. Anche perché altrimenti, come dicono “i demografi, con la denatalità in atto c’è il rischio che il Paese si estingua”. Quanto alla difficoltà di ottenere la cittadinanza, osserva con amarezza: “Se giocano bene a pallone gliela diamo subito”. De Gregorio lo sollecita sull’efficacia del concetto politico di “aiutarli a casa loro”, e il Cardinale scandisce: “Tanto vengono lo stesso. E poi di fatto non li aiuteremmo. Bisogna aiutarli a partire e aiutarli a restare, questo è all’altezza di una tradizione anche cristiana che abbiamo il diritto e il dovere di applicare”. La giornalista evidenzia che però per accogliere “vanno posti dei criteri: non possono essere i porti chiusi ma neanche “arrivi chi vuole”. Potrebbe funzionare - senza arrivare a situazioni come l’accordo con la Libia - il concetto “fino alla capacità di assorbimento del nostro Paese”? Allo stesso tempo libertà di transito”. Zuppi afferma che “certamente occorre ragionare con la cornice europea. E se i meccanismi di accoglienza funzionano, danno sicurezza a tutti. Quando non funzionano o non ci sono, è un problema grosso”. E narra di “una donna ucraina arrivata a Bologna. Lavorava in ambito teatrale. Aveva un bambino di 8 anni. A un certo punto è andata in Inghilterra. Perché? Perché a Bologna dopo mesi non aveva ancora il permesso di soggiorno, mentre è partita per l’Inghilterra con il permesso di soggiorno fatto online”. De Gregorio rileva che una delle strategie più forti del centrodestra è “alimentare la sensazione di pericolo da chi arriva. Il tema della sicurezza fa moltissima presa, più della questione economica. Perché?”. Perché “siamo più vecchi” - dice con amarezza Zuppi. La stagione ci vede molto più indeboliti, con meno spinta e passione verso il futuro, sia in termini individuali che come collettività, e così i problemi sono amplificati”. Migranti. L’Ue non mantiene la promessa: porte aperte solo allo 0,1% dei profughi afghani di Giuliano Battiston Il Manifesto, 3 giugno 2023 Il rapporto dell’International Rescue Committee: “Sconcertante negligenza”. Nell’agosto 2021 l’Europa prometteva di non lasciare nessuno indietro, ma di 273mila rifugiati afghani ne sono stati reinsediati solo 271. Ricordate le promesse fatte agli afghani nell’agosto 2021, quando venivano giù le istituzioni della Repubblica e i Talebani conquistavano Kabul e l’intero Paese? Gli impegni solenni a “non dimenticare l’Afghanistan” e a non lasciare indietro nessuno, soprattutto tra quanti avevano collaborato con la Nato o con il regime appena rovesciato? Beh, erano promesse vuote. Così sostiene un rapporto reso pubblico tre giorni fa dall’organizzazione International Rescue Committee: Two years on: Afghans still lack pathways to safety in the EU. A quasi due anni da allora, le politiche dell’Unione europea per il reinsediamento e l’apertura di vie d’accesso sicure all’Europa sono segnate da “una sconcertante negligenza”. Perché se è vero che tra il 2021 e il 2022 in Europa sono stati ammessi 41.500 afghani a rischio, si tratta di un numero “ampiamente insufficiente” rispetto alle possibilità dell’Ue e al numero di afghani a rischio. Si tratta inoltre di numeri equivoci. Qualche governo ha pensato bene di fare il gioco delle tre carte, contando gli afghani fatti arrivare con le evacuazioni dei drammatici giorni di agosto 2021 “come parte delle loro quote globali di reinsediamento”. Il reinsediamento - il ricollocamento dei rifugiati afghani dai Paesi di primo asilo, in genere quelli confinanti l’Afghanistan, in altri Paesi di accoglienza - non funziona affatto. Secondo l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, nel gennaio 2023 erano 1,6 milioni gli afghani arrivati nei Paesi confinanti dall’agosto 2021. Oggi, si precisa nel rapporto, “rappresentano la terza più ampia popolazione di rifugiati al mondo e i bisogni di reinsediamento dei rifugiati afghani nella regione sono cresciuti rapidamente, quasi triplicando in un anno: da 96mila nel 2022 a più di 273mila nel 2023”. Secondo l’Onu dunque sono 273mila i rifugiati afghani da reinsediare. Ma nel 2022 sono stati reinsediati nell’Unione europea soltanto 271 afghani: lo 0,1 per cento del totale. È vero che alcuni Paesi hanno accolto anche attraverso altri meccanismi (l’Italia, per esempio, 600 persone finora con i corridoi umanitari), ma a mancare è una strategia organica, comune, un approccio “sostenibile e di lungo termine”. L’International Rescue Committe sollecita dunque i Paesi membri dell’Unione europea a darsi come obiettivo minimo il reinsediamento di almeno 42.500 rifugiati afghani nel corso dei prossimi cinque anni (sono 5mila quelli ricollocati in Ue dal 2010). E a sostituire “la sconcertante negligenza” con un “rinnovato impegno politico” che rimuova gli ostacoli burocratici e materiali che impediscono l’accesso a canali migratori sicuri. Dalla negligenza delle istituzioni europee e dalle politiche dei Talebani che scoraggiano l’emigrazione deriva infatti la necessità per afghani e afghane di affidarsi ai pedroni delle rotte migratorie: secondo il Missing Migrants Project dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nel 2021 gli afghani morti nel tentativo di lasciare il Paese sarebbero stati 472. Una cifra record: uscire dall’Afghanistan “è più letale che mai”. L’appello dell’International Rescue Committee rischia di rimanere senza risposta. L’Afghanistan in due anni è molto cambiato. L’Unione europea rimane simile ad allora. Proprio nell’agosto 2021, quando i distretti afghani cadevano con effetto domino nelle mani dei Talebani, i ministri degli Interni di Austria, Grecia, Danimarca, Germania, Paesi Bassi e Belgio contestavano l’allora governo di Kabul per la richiesta di sospendere provvisoriamente i rimpatri degli afghani dall’Europa all’Afghanistan. Per ora, i rimpatri sono ancora sospesi. Ma non è detto duri a lungo. I social diventano armi contro il regime: la rivoluzione tech delle donne iraniane di Fabiana Magrì La Stampa, 3 giugno 2023 Secondo un rapporto di Amnesty International dall’inizio dell’anno, dopo processi farsa, sono quasi triplicate le esecuzioni di detenuti in carcere. L’obiettivo più ampio, il rovesciamento del regime, è ancora di là da venire. Ma anche se il movimento delle proteste in Iran non ha ancora vinto la sua guerra, chi si abbevera al bicchiere mezzo pieno segnala e applaude i video sui social media che mostrano molte donne in pubblico camminare sicure di sé per le strade di Teheran a capo scoperto. Non tutte. Alcune portano il velo sulle spalle o a mo’ di sciarpa, pronte a tirarlo su, perché non si sa mai. Ma, almeno nella quotidianità, qualcosa è cambiato. In un tweet con video di una ragazza a passeggio tra altre donne velate, lei lunghi capelli scuri, pantaloni neri e top senza maniche che lascia scoperte spalle e braccia, l’attivista Masih Alinejad scrive che “il leader supremo della Repubblica islamica ha tentato di costringere le donne iraniane alla sottomissione e costringerle a coprirsi i capelli e obbedire alle leggi obbligatorie sull’hijab o affrontare punizioni brutali. Le donne iraniane hanno risposto non solo lasciando i capelli al vento, ma anche vestendosi come vogliono”. C’è poi un fenomeno di onda più lunga, emerso recentemente sui social, che nasce nel privato delle famiglie religiose, le cui giovani figlie femmine respingono le regole islamiche a casa. E si mostrano “prima” (con il velo) e “dopo” (senza). Ma anche prima e dopo la rivoluzione in nome di Mahsa Amini. I video sui social mostrano anche come le proteste, tra l’ottavo e il nono mese, vanno avanti, anche se non con l’intensità dell’inizio. Ma almeno una volta alla settimana, a Zahedan e in altre città della provincia del Sistan e Balucistan dove la repressione da parte dei pasdaran e dei basiji è stata più violenta, gli iraniani scendono in strada a scandire slogan come “da Zahedan a Teheran, sacrificherò la mia vita per l’Iran”. O sporadicamente, come qualche sera fa, quando i manifestanti sono scesi in piazza, in piena notte, ad Abdanan, nella provincia di Ilam. L’ha riportato Radio Free Europe/Radio Liberty, canale di notizie indipendente, spiegando che la gente ha reagito alla morte di Bamshad Soleiman-Khani, studente di 21 anni arrestato durante precedenti proteste in città. La versione ufficiale sulla causa della morte parla di suicidio farmacologico. Perché in ogni caso, il bicchiere resta ancora mezzo vuoto. L’agenzia di stampa Mizan, due settimane fa, ha reso noto che tre giovani uomini arrestati mesi fa nell’ambito delle manifestazioni sono stati impiccati a Isfahan. Accusati di coinvolgimento nell’uccisione di tre agenti di sicurezza a Isfahan nel novembre del 2022, sono stati condannati a morte. Con loro è salito a sette il bilancio dei manifestanti impiccati da dicembre. Se la notizia dei tre ragazzi uccisi ha innescato altre proteste, i gruppi per i diritti umani temono che ulteriori condannati subiranno esecuzioni, nonostante il Dipartimento di Stato Usa abbia esortato l’Iran ad astenersene. E sei eminenti iraniani, giuristi e avvocati, hanno inviato una lettera al segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres esprimendo grave preoccupazione. Una preoccupazione che, denuncia Amnesty International, riguarda le sorti di tutti i prigionieri nelle carceri iraniane. “Dall’inizio del 2023 le autorità iraniane hanno messo a morte, sempre a seguito di processi iniqui, almeno 173 prigionieri per reati di droga, quasi il triplo rispetto al numero del 2022.” Le autorità iraniane, secondo il rapporto pubblicato da Amnesty, hanno messo a morte prigionieri per altri atti che, in base al diritto internazionale, non dovrebbero mai comportare la pena capitale. La Ong denuncia ancora che nei primi cinque mesi del 2023, diversi uomini sono stati impiccati in relazione alle proteste, ma uno per “adulterio” dopo che aveva avuto una relazione sessuale consensuale con una donna sposata e altri due per attività sui social media. Sudan a tutta guerra: stop ai negoziati. E orrore nell’orfanotrofio di Marco Boccitto Il Manifesto, 3 giugno 2023 60 bambini sarebbero morti per gli stenti dall’inizio del conflitto nell’istituto di Khartoum isolato dai combattimenti. Tregue sistematicamente violate, a Gedda i mediatori Usa e sauditi fermano il tavolo. Le agenzie Onu paralizzate, mentre aumentano gli abusi su vecchi e nuovi profughi. Scaduta l’ennesima tregua non rispettata e interrotti i colloqui in corso tra le parti in Arabia saudita, nessuna pietà sembra manifestarsi per i civili intrappolati nel conflitto sudanese. A Khartoum, Omdurman, Bahri e in altre zone del paese, in particolare nel Darfur occidentale, con aumento esponenziale dei bisogni per le popolazioni colpite e le denunce di abusi d’ogni sorta sui più fragili, la guerra tra esercito e paramilitari ieri è potuta continuare così come era cominciata lo scorso 15 aprile. Con la differenza che un mese e mezzo dopo i morti civili (censiti) sono quasi un migliaio (190 bambini) e oltre un milione e mezzo di persone si sono messe in movimento verso zone più sicure dentro e fuori il paese, creando enorme emergenza nell’emergenza. Neanche la storia raccapricciante dell’orfanotrofio al-Mayqoma di Khartoum, documentata dall’Associated Press, ha suscitato reazioni all’altezza. Da sei settimane sulla linea dei furiosi scontri in corso nella capitale, lo storico istituto di carità musulmano che accoglie orfani da zero a 13 anni è stato teatro dell’orrore, la morte di almeno 60 dei 340 bambini che ospitava prima della guerra. 27 solo nell’ultimo fine settimana. Spostarli lontano dalle finestre per proteggerli da schegge e proiettili vaganti - hanno raccontato sconfortati alcuni operatori all’Ap - non è servito: sono stati uccisi dalla fame e dalle febbri, ovvero dalla guerra che ha completamente isolato la struttura e impedito la consegna degli aiuti umanitari. Solo giovedì un camion dell’Unicef si è materializzato di fronte al cancello. L’Unicef non è l’unica agenzia dell’Onu a lamentare la paralisi di tutte le attività umanitarie, a lanciare appelli e denunce, nella fattispecie per i “13,6 milioni di bambini che hanno urgente bisogno di assistenza in Sudan”. All’Unhcr, l’agenzia per i rifugiati che aveva già in carico decine di migliaia di persone in fuga da altri conflitti e della metà non conosce più la sorte, si dicono “turbati dalle notizie di violazioni dei diritti umani contro i rifugiati, come furti, minacce e violenze fisiche e sessuali”. Vecchi e nuovi profughi abbandonati, proprio quando avrebbero più bisogno di protezione. Il World Food Programme denuncia invece il saccheggio dei suoi depositi a El Obeid. Che “mette a rischio l’assistenza alimentare per 4,4 milioni di persone colpite dal conflitto”. È l’ultimo di una lunga serie di episodi in cui le riserve immagazzinate in diverse aree del paese per fronteggiare crisi pre-esistenti sono diventate bottino di guerrra. L’allarme che ne deriva è che prossimamente l’insicurezza alimentare acuta potrebbe riguardare oltre 19 milioni di sudanesi, il 40% della popolazione. Da Gedda, proprio per la totale inadempienza degli accordi sottoscritti dalle delegazioni inviate dal leader dell’esercito e della giunta militare, generale Abdel Fattah al Burhan, e da quello delle Forze di supporto rapido (Rsf) Mohamed Hamdan Dagalo detto “Hemeti”, i mediatori statunitensi e sauditi hanno interrotto i colloqui, respingendo vari tentativi di riaprirli. Aver cannoneggiato per ore giorni fa il mercato di Moyo, nella zona sud della capitale, non ha offerto grandi credenziali. Almeno 30 i morti e oltre 100 i feriti. Gente che non è riuscita o non ha potuto permettersi di lasciare la città e si aggirava tra i banchi semivuoti, nella vana speranza che la tregua stavolta reggesse. La Casa bianca, che fin qui si è esposta perché questo accadesse, ora annuncia sanzioni per quattro aziende che in passato gli accordi con gli Stati uniti hanno contribuito a rendere floride: due controllate da Hemeti con forti interessi minerari e due attivissime nel settore delle armi, legate alle Forze armate. Troppo poco e troppo tardi.