Italia prima in Europa per detenuti anziani e reclusioni lunghe di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 giugno 2023 Il rapporto annuale Space del consiglio d’Europa: nel nostro paese i maggiori problemi di sovraffollamento e la percentuale più alta di over65 in cella. La durata media della detenzione in Europa è di 11 mesi, ma in Italia è di 18 mesi. Non solo. Nei paesi con oltre un milione di abitanti, le più alte percentuali di detenuti over65enni si trovano sempre nel nostro Paese. Parliamo del rapporto Space, ovvero le Statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria pubblicate martedì scorso. La fine delle misure di blocco per affrontare la pandemia da Covid-19 ha prodotto un effetto di rimbalzo nei tassi di detenzione in molti paesi europei tra gennaio 2021 e gennaio 2022: il tasso mediano di detenzione è aumentato del 2,3% nei paesi che superano il milione di abitanti. Le amministrazioni penitenziarie di Bulgaria (-8%), Estonia (-6,3%) e Germania (-5,5%) sono state le uniche tre a registrare una diminuzione significativa dei tassi di detenzione. Ma l’Italia? Il rapporto Space è chiaro: nella tabella 9, vengono riportati i paesi che hanno segnalato una densità carceraria superiore a 100 detenuti per 100 posti. Sette paesi, evidenziati in rosso, mostrano un grave sovraffollamento con tassi superiori a 105 detenuti per 100 spazi. Le restanti amministrazioni, rappresentate in verde, non hanno segnalato sovraffollamento, sebbene alcune siano al limite. Tra quelli con il sovraffollamento più gravi c’è l’Italia. Sempre dal rapporto del Consiglio d’Europa, emerge che l’età media dei detenuti negli istituti penitenziari europei al 31 gennaio 2022 è di 38 anni. Nei paesi con oltre un milione di abitanti, l’età media della popolazione carceraria varia dai 31 ai 44 anni. Le età medie più basse si osservano in Bulgaria (31 anni), Danimarca (34) e Francia (34,5), mentre le più alte si trovano in Georgia (44), Italia (42), Portogallo (41), Estonia (40) e Spagna (40). Circa il 16,5% dei detenuti ha un’età di 50 anni o più, e il 3% ha un’età di 65 anni o più. Nei paesi con oltre un milione di abitanti, i più alti percentuali di detenuti di 50 anni o più si trovano in Italia (28%), nella Comunità Autonoma di Spagna (25%), Portogallo (24%) e Norvegia (24%). Nel frattempo, le percentuali più elevate di detenuti di 65 anni o più si trovano in Italia, e le fa da compagnia la Macedonia del Nord, la Serbia e la Bulgaria. Ma il rapporto Space chiarisce anche un altro aspetto interessante. La percentuale di detenuti di 50 anni o più è correlata alla struttura generale della popolazione carceraria, mentre quella dei detenuti di 65 anni o più è legata alla presenza di specifici tipi di criminali. Questa ipotesi è supportata dal fatto che Italia, Portogallo e Spagna sono tra i paesi con la più alta percentuale di detenuti di 50 anni o più e sono anche tra quelli con l’età media più alta della popolazione carceraria. Inoltre, questi paesi sono tra quelli che presentano lunghezze medie di detenzione elevate. La durata media della detenzione in Europa è di 11 mesi, ma in Italia è di 18 mesi; in Spagna è di 20,5 mesi; e in Portogallo è di quasi 31 mesi, che è infatti la durata massima della detenzione riscontrata in Europa. Sempre il rapporto sottolinea che in Italia, una parte significativa dei detenuti di 65 anni o più, sono appartenenti alla criminalità organizzata condannati all’ergastolo, e si potrebbe ipotizzare che in Serbia vi sia un numero relativamente elevato di detenuti condannati per crimini di guerra. Un esempio notevole del profilo specifico dei detenuti di 65 anni o più rispetto alla struttura generale dell’età della popolazione è la Bulgaria, che ha l’età media più giovane tra i detenuti, ma dove il 5,6% di essi ha un’età di 65 anni o più. Il rapporto sottolinea anche la diversità della pena dell’ergastolo tra i Paesi del Consiglio Europeo. In Svizzera, un detenuto condannato all’ergastolo è idoneo per la libertà condizionale dopo 10 o 15 anni, a seconda delle circostanze. Disposizioni simili esistono in Danimarca (12 anni), Germania (15 anni), Svezia (10 anni, ma la condanna può essere convertita in una pena fissa dopo 10 anni), Italia (21 o 26 anni), Francia (18-22 anni), Spagna (25 o 35 anni) e Belgio (15, 19 o 23 anni). Da notare che l’Italia rientra tra i Paesi dove l’ergastolo è più duro. Sempre nel rapporto emerge il problema dei tempi della giustizia che si riflette sulla popolazione carceraria. Dei 54.372 detenuti censiti a fine gennaio 2022, si calcola che il 30% non stia scontando una pena definitiva e resti in cella in attesa di giudizio di terzo grado. Questo fa sì che il soggiorno nelle case circondariali sia tra i più lunghi. In media vi si resta 18 mesi, prima di sapere se si otterrà la scarcerazione o il prolungamento per decisione d’aula di tribunale. Nel rapporto Space, al livello generale dei Paesi del Consiglio d’Europa, viene rilevato il problema del sovraffollamento. Nell’anno precedente, da gennaio 2020 a gennaio 2021, il numero complessivo di detenuti in Europa era diminuito grazie alla riduzione della criminalità di strada nel contesto delle restrizioni alla circolazione durante la pandemia, al rallentamento dei sistemi giudiziari e all’attuazione di programmi di rilascio in alcuni paesi. Secondo il professor Marcelo Aebi, responsabile del gruppo di ricerca Space dell’Università di Losanna, “negli ultimi 12 anni il tasso medio di detenzione in Europa è diminuito lentamente ma costantemente. Tale calo si è intensificato nel corso del 2020 come conseguenza delle misure di blocco per il Covid-19. Pertanto, l’aumento nel 2022 riflette un ritorno alla relativa normalità nella vita sociale e nel funzionamento dei sistemi di giustizia penale europei. Nonostante questo aumento, il tasso di detenzione europeo nel 2022 è ancora inferiore a quello osservato all’inizio del 2020, prima della pandemia. Ma l’Italia, come emerge dal rapporto, persiste il grave sovraffollamento. Proprio martedì una donna di 52 anni, detenuta al carcere Lorusso e Cotugno di Torino, si è suicidata, all’interno della sua cella, utilizzando un cappio artigianale fatto con i propri indumenti, legato alle inferriate del bagno. Finita l’emergenza covid, non sono state più rinnovate le misure deflattive, tra l’altro non di grande respiro. Ricordiamo il recente appello delle “ragazze di Torino”, sottoscritto da 114 detenute del carcere Le Vallette chiede che venga presa in esame la proposta Giachetti sulla liberazione anticipata speciale. L’aspetto caratterizzante di questa misura si sostanzia in un temporaneo sconto di pena pari a 75 giorni per ogni singolo semestre di pena espiata, in luogo dei 45 giorni previsti dalla liberazione anticipata disciplinata dall’art. 54 della legge sull’ordinamento penitenziario. Non si tratta di un regalo. Va a favore dei detenuti che danno prova di aver partecipato all’opera di rieducazione. Tale misura ha avuto un carattere temporaneo. Infatti ha avuto applicazione per due anni dall’entrata in vigore del decreto, ovvero nel biennio intercorso tra il 24 dicembre 2013 e il 23 dicembre 2015. Riproporla oggi, anche alla luce del rapporto del Consiglio d’Europa, ha senso. Una misura che risponde a due finalità. Una deflattiva, perché indubbiamente il sovraffollamento ha cominciato nuovamente a galoppare. L’altra è risarcitoria, una sorta di ristoro per i detenuti. Una minima misura di giustizia dopo quello che hanno sofferto durante i terribili e devastano anni di pandemia. Riforma della giustizia. Sulle intercettazioni un “bavaglio” citato a sproposito di Guido Stampanoni Bassi* Avvenire, 30 giugno 2023 Sta facendo molto discutere il disegno di legge in tema di giustizia appena approvato dal Governo. In estrema sintesi, le principali novità consistono nell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, nell’introduzione di limiti alla pubblicazione delle intercettazioni, nella esclusione (per alcuni reati) dell’appello del Pubblico Ministero su sentenze di assoluzione e nel rafforzamento dei diritti della difesa nella fase cautelare. Sebbene si sia in presenza di un intervento più snello di quello che ci si sarebbe potuti attendere alla luce delle linee programmatiche illustrate dal ministro lo scorso dicembre - nelle quali si era parlato anche di separazione delle carriere e di modifiche ai presupposti di ammissibilità delle intercettazioni - le polemiche non sono mancate e si sono concentrate sulla abrogazione dell’abuso d’ufficio e sulla stretta alla pubblicazione delle intercettazioni. Quanto al primo aspetto, la storia dell’abuso d’ufficio è quella di un reato in cerca d’autore. Un’ipotesi più studiata dalla dottrina di quanto non sia stata applicata dai giudici, se si pensa che nel 2021, su oltre 5.400 procedimenti, le archiviazioni sono state oltre 4.600 e le condanne solo 18. Al di là dell’impietoso dato numerico, c’è da dire che la norma è stata però recentemente modificata - restringendo l’area del penalmente rilevante - e che le iscrizioni risultano in calo già da anni (e potrebbero ulteriormente calare alla luce delle recenti modifiche all’iscrizione delle notizie di reato). La conseguenza pratica della abrogazione sarà, da un lato, la probabile contestazione di reati diversi (anche più gravi) in grado di prendere lo spazio prima occupato dall’abuso d’ufficio e, dall’altro, la revoca delle condanne definitive. Se a ciò si aggiunge che raramente tale reato viene contestato da solo, sarebbe stato forse più opportuno, in luogo di una sua abrogazione “secca”, propendere per una sua modifica. Quanto alle intercettazioni, nel ddl si prevede il divieto di pubblicazione delle stesse se non riprodotte dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzate nel corso del dibattimento, accompagnato dalle ulteriori previsioni di non rilasciare copia di intercettazioni non pubblicabili (se la richiesta non proviene dalle parti o dai loro difensori) e di non indicare nei provvedimenti cautelari i dati personali dei soggetti terzi, salvo che ciò sia indispensabile. Queste le modifiche che hanno fatto gridare allo scandalo gran parte della stampa, che non ha tardato a parlare di “bavaglio”. Chiunque frequenti le aule di giustizia sa bene come, nonostante vi siano già norme che vietano la pubblicazione di determinati atti, le stesse vengano sistematicamente violate anche a causa di un impianto sanzionatorio che non ha alcuna efficacia deterrente. Emblematico è il fatto - che dovrebbe bastare, da solo, a ridimensionare le critiche di questi giorni - che il medesimo trattamento (legge bavaglio, vendetta, lesione al diritto di informazione ecc…) sia stato all’epoca riservato sia alla legge Orlando, sia al più recente intervento dell’ex ministro Cartabia sulla direttiva in tema di presunzione di innocenza. Al di là di qualche conferenza stampa in meno e di qualche inchiesta cui non vengono più dati titoli roboanti e suggestivi, si può davvero sostenere che la stampa sia stata imbavagliata e che si sia assistito a una lesione del diritto dei cittadini a essere informati? Tra i tanti, due esempi - molto diversi tra loro - rendono bene l’idea: nell’inchiesta Prisma (caso Juventus) abbiamo assistito alla pubblicazione di qualunque tipo di intercettazione, anche quelle prive di rilevanza penale e con soggetti non indagati; nella recentissima vicenda dell’omicidio di Giulia Tramontano - nella quale si è tenuta una conferenza stampa e non vi era un tema di intercettazioni - i giornali hanno pubblicato chat e atti di indagine e hanno raccontato, minuto per minuto, ciò che veniva detto dall’indagato in sede di interrogatorio (il tutto accompagnato da dettagli inutili e macabri che poco hanno a che vedere con il diritto all’informazione). Sacrosante le critiche nel merito - e, infatti, non pare condivisibile la chiusura del ministro sulle critiche della Anm - ma sul rischio bavaglio si rischia l’effetto “al lupo, al lupo”. È prevedibile che poco o nulla cambierà dopo quest’ulteriore intervento. Per averne conferma basterà attendere la prossima inchiesta. *Direttore della rivista “Giurisprudenza Penale” Giustizia, Bongiorno difende le intercettazioni: “Irrinunciabili, guai a cancellarle” di Liana Milella La Repubblica, 30 giugno 2023 La presidente leghista della commissione Giustizia del Senato chiude l’inchiesta sulle intercettazioni. Nessuna stretta, ma approfondimenti sul Trojan e sulla cosiddetta “pesca a strascico”, nonché sui diritti degli avvocati. “Per me le intercettazioni sono irrinunciabili, quindi guai a cancellarle”. È con questa garanzia che Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia del Senato, nonché responsabile Giustizia per la Lega, annuncia di aver chiuso la sua inchiesta sugli ascolti. Adesso, dopo 46 audizioni in sei mesi, parte il lavoro più complesso, quello della relazione finale. Lei non sarà da sola a scriverla, perché ha nominato altri due relatori, “vista la complessità del lavoro e degli approfondimenti necessari”. E cioè Pierantonio Zanettin di Forza Italia e il meloniano Gianni Berrino. La premessa di Bongiorno lascia ben sperare su un lavoro che non si concluda con l’annuncio di una stretta sulle intercettazioni. Bongiorno dichiara che “la relazione terrà conto non solo di tutta l’attività svolta, ma anche dei contributi dell’opposizione”. E qui la presidente, nonché notissimo avvocato, assicura che le intercettazioni “sono irrinunciabili” e quindi “guai a cancellarle”, ma aggiunge che lei “non sta dalla parte di chi dice che non si deve fare niente, perché invece bisogna intervenire sulle nuove tecnologie, sul dark web, sui nuovi sistemi di telefonia criptata che non sono ancora regolamentati in Italia”. Proprio per questo bisognerà studiare le norme che invece già esistono in Francia e in Germania su questa materia. Ma non basta, perché Bongiorno intende affrontare anche la questione più delicata, quella del Trojan, il captatore informatico che viene inoculato nei cellulari ed è in grado di registrare non solo le telefonate, ma di captare anche tutto quello che accade intorno, effettuando delle video registrazioni. Uno strumento inviso soprattutto alla destra della politica, tant’è che lo stesso Zanettin più volte è intervenuto sulle sue possibili degenerazioni. Bongiorno parla anche della cosiddetta “pesca a strascico”, quando da un cellulare sotto controllo si passa a un altro, nonché del “diritto di difesa delle conversazioni tra assistito e avvocato”. L’attuale presidente della commissione del resto è molto esperta della materia perché fu proprio lei, da presidente della commissione Giustizia della Camera, negli anni del governo Berlusconi, a “salvare” gli ascolti dalle intenzioni dell’ex premier che ne voleva restringerne in maniera netta la portata. Bongiorno si oppose, e le intercettazioni furono salve. Adesso si ripropone una questione politicamente simile, visto che proprio il Guardasigilli Carlo Nordio è un “nemico” degli ascolti e soprattutto di quelli che vengono raccontati dai giornali. Nell’ultimo disegno di legge - che ancora deve arrivare in Parlamento per problemi di copertura - Nordio ha scritto due righe che di fatto vietano ai giornalisti la possibilità di riferire testualmente il contenuto delle intercettazioni, non se ne potrà scrivere a meno che non siano espressamente citate negli atti dei giudici oppure siano state discusse in dibattimento. Una linea estremista che rischia di azzoppare la cronaca giudiziaria. Sicuramente anche di questo si dovrà discutere in commissione al Senato in vista del della relazione conclusiva dell’inchiesta sulle intercettazioni, in cui ci sono state anche due visite in presenza alle sale server e ascolto della procura di Milano e della procura di Roma. Molti i magistrati sentiti nonché molti esponenti delle forze dell’ordine. La materia ovviamente è complessa, risuonano le calde raccomandazioni del procuratore antimafia e antiterrorismo Gianni Melillo, che ancora in due audizioni di fronte alla commissione parlamentare Antimafia di Chiara Colosimo, ha ribadito come il nostro sistema intercettativo sia incredibilmente indietro, dal punto di vista tecnologico, rispetto ai sistemi di comunicazione della criminalità. Dall’intervento di Bongiorno in commissione si può dedurre che la presidente ha ben chiaro la necessità di affrontare anche questo aspetto. Politicamente significativo l’esplicito accenno alle opposizioni e “al loro contributo”, che fa prevedere una relazione non schiacciata sulle tesi della maggioranza, ma omnicomprensiva delle opinioni di tutti. “Quei blitz servono a emettere sentenze fuori dal processo” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 giugno 2023 Intervista a Gianpaolo Catanzariti, Osservatorio carcere dell’Ucpi, dopo l’operazione della Dda in Calabria: “Conta solo lo stupore iniziale, e offrire la solita narrazione di regione irredimibile e magari infetta per il resto d’Italia”. Il blitz della Dda di Catanzaro di due giorni fa solleva diverse questioni, dal piano giuridico a quello dell’informazione. Ne parliamo con Gianpaolo Catanzariti, avvocato e co-responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane. Ilario Ammendolia ha scritto: “Quasi ogni maxi operazione non è altro che un cocktail preparato da sapienti barman. Alla fine bisogna stupire con gli effetti speciali: la colonna aviotrasportata, le sirene ululanti nella notte i militari in divisa, la conferenza stampa stile Sud America”. Non le chiedo di esprimersi sulla vicenda in sé, ma ritiene questa descrizione appropriata in generale? Credo che Ammendolia abbia descritto bene un quadro oramai usuale e davvero stantio per la Calabria. I maxi blitz offerti all’attenzione mediatica, non solo nazionale, impressionano per i numeri. Forze di polizia impegnate, arrestati, elenchi a 3 o 4 cifre di indagati. Se poi nella pesca a strascico finiscono esponenti della politica, aumenta la giustezza dell’operazione, che rimane tale anche se dopo anni si partorisce un topolino. Conta lo stupore iniziale, la diffusione per giorni o mesi di spezzoni di informative in grado di sollecitare i pruriti collettivi e offrire la solita narrazione di regione irredimibile e magari infetta per il resto d’Italia. Il giusto mix per l’emissione di una sentenza sbrigativa e senza appelli: quella della rete, superficiale ed arrabbiata. Alla fine il processo e la verifica nel contraddittorio delle parti potranno interessare, al massimo, gli avvocati e i loro assistiti. Figuriamoci la sentenza, specie se di assoluzione. Si può parlare in Calabria anche di stampa molto allineata con le procure a cui danno voce in maniera esclusiva e acritica? Viene meno il loro ruolo di guardiani del potere, compreso quello della magistratura? La Calabria rappresenta la punta estrema e più arretrata, anche su questo versante. I media spesso sono megafoni delle iniziative giudiziarie e delle tesi dei pm. Hanno abdicato alla loro funzione in una democrazia moderna. Favorire, attraverso una corretta informazione, il controllo pubblico sull’operato di ogni potere, svelandone, come diceva Sciascia, il volto osceno. E quei pochi sulla piazza che coltivano il dubbio, sono additati come espressione di interessi opachi. Eppure senza il dissenso pubblico e isolato di qualche opinionista, non avremmo mai avuto il “caso Tortora”. Il Pd calabrese in una nota scrive: “Ci auguriamo che i soggetti coinvolti possano dimostrare la loro innocenza”. Qualcosa stona? Ipocrita affermazione, che non riguarda solo il Pd, che spesso si accompagna alla “fiducia nella magistratura”. La nostra Costituzione, almeno fino a quando non verrà cancellato l’art. 27, e i valori di civiltà dell’occidente ci dicono, in maniera inequivoca, che l’indagato e l’imputato non devono dimostrare alcunché. È il pm che deve offrire al giudice le prove granitiche delle sue accuse, vincendo, appunto, la presunzione costituzionale della non colpevolezza. È il segno di come una classe dirigente si sia trasformata negli anni in classe dominante. Questa visibilità a ridosso della scelta del Csm sul nuovo procuratore di Napoli, potrebbe avvantaggiare il procuratore di Catanzaro? Non saprei dire se gli effetti speciali di una inchiesta possano condizionare le scelte di un organo di rilevanza costituzionale come il Csm nel conferimento di incarichi direttivi. Di norma si dovrebbe guardare alle conferme finali delle indagini di un pm. Da cittadino mi sentirei più tutelato se si premiasse un pm il cui operato ha offerto risicatissimi margini di errore. Non è solo un problema di credibilità della toga prescelta. È il fondamento della convivenza civile e della sicurezza di una comunità. Sempre il Procuratore di Catanzaro ha esordito in conferenza stampa: “Abbiamo arrestato 41 presunti innocenti”. Catarsi o sfottò nei confronti della legge sulla presunzione di innocenza voluta dalla Cartabia? È difficile accettare un principio di civiltà. Gli arrestati sono “persone” la cui dignità non può essere cancellata da nessun provvedimento giudiziario quale che sia la condotta criminosa loro contestata. Nemmeno una condanna passata in giudicato può calpestarla. Purtroppo il rispetto della presunzione di non colpevolezza - e non di innocenza - è qualcosa che va praticata e non certo predicata. A proposito di Cartabia, la sua riforma del processo penale non tocca i processi di criminalità organizzata. Si tratta di un grave vulnus? Come al solito prevale la logica dell’eccezione che è, per definizione, irrazionalità. E non è solo un deficit della riforma Cartabia. La storia del nostro Paese è infarcita di sbarramenti feroci nel nome della lotta alla mafia. A prescindere. Appunto, in nome di una certa antimafia, in Calabria si sta rafforzando una torsione dei diritti degli indagati e degli imputati? Non solo in Calabria anche se la Calabria è da anni un laboratorio giudiziario che poi esporta i suoi esperimenti, facendo risalire al Nord la linea della palma. Le torsioni pericolose di un sistema votato alla belligeranza si espandono sempre più verso settori che nulla hanno a che fare con la criminalità mafiosa. Questa espansione ha svegliato dal torpore anche l’avvocatura oltre che la dottrina. Fino a quando la disciplina emergenziale riguardava poche centinaia di mafiosi e terroristi, erano in pochi a dubitare sulla correttezza della risposta repressiva. Adesso che il doppio binario processuale ha trasformato il processo in un binario unico speciale, il dubbio sulla utilità e soprattutto sulla tenuta costituzionale del sistema emerge in tutta la sua imponenza. Quando le armi di distruzione di massa interessano vaste aree del Paese il numero delle vittime collaterali non può passare inosservato. “La politica è sorda, voglio andare in carcere per rivendicare il diritto all’eutanasia” di Federica Cravero La Repubblica, 30 giugno 2023 Il presidente dell’associazione Exit-Italia, Emilio Coveri, è stato condannato a 3 anni e 4 mesi per la morte in Svizzera di una donna siciliana. “Diciamo alla gente di cercare informazioni su Google, abbiamo 4.800 iscritti, dovrebbero mettermi al rogo”. “Ho la coscienza pulita, come è pulita è l’associazione. Ma inizio a pensare che a far del bene ci si rimette sempre…”, dice rammaricato il torinese Emilio Coveri, presidente dell’associazione Exit-Italia, che ieri è stato condannato a tre anni e quattro mesi di reclusione per istigazione al suicidio dalla corte d’assise d’appello di Catania per la morte di Alessandra Giordano, catanese che non era malata terminale, ma che soffriva di depressione e sindrome di Eagle, andata volontariamente a morire in una clinica in Svizzera. “Io le sentenze le voglio rispettare ma in carcere non mi ci mandano, c’è la sospensione. Eppure io vorrei andarci, per dare un segnale. D’altra parte questo è un processo politico: come si può condannare una persona per aver aiutato una donna a suicidarsi, una donna che neanche ho mai incontrato, a cui ho dato solo delle informazioni che chiunque può trovare andando su Google”. E un pensiero che sta maturando in queste ore è proprio quello di spostare l’associazione nel Paese elvetico, dove l’eutanasia è legale, per fare esattamente quello che fa ora ma senza rischiare conseguenze penali. “Ne stiamo ragionando, non è per sfuggire alla giustizia ma solo per continuare ad aiutare le persone che ci chiedono un sostegno: riceviamo 90 chiamate la settimana”. In fondo non se l’aspettava Coveri, assistito dall’avvocata Arianna Corcelli, che andasse così. “In primo grado era stata riconosciuta la mia estraneità nella vicenda: se dovessero imputarmi per tutti i 4800 iscritti che ha la nostra associazione dovrebbero mettermi al rogo”, insiste. “Ma la realtà è che ci si deve aspettare di tutto. Questo è un tema in cui la politica non vuole entrare, è sorda - attacca - Abbiamo presentato proposte di legge, scritto lettere a Sergio Mattarella, ma nessuno ha mai risposto, le hanno messe in un cassetto. E le persone che mi stanno vicine e che in questi anni mi hanno sempre spronato ad andare avanti ieri mi hanno detto ‘Ma chi te lo fa fare, hai 72 anni…’. E io davvero sono amareggiato”. Il prossimo passo sarà il ricorso in cassazione, per dimostrare che il tipo di contatto avuto con la donna catanese non può essere considerato un incentivo a togliersi la vita. “Noi aiutiamo solo le persone a fare il testamento biologico, che è legale in Italia. Per il resto sono loro che decidono cosa fare della loro vita e della loro morte”. Toscana. Carceri e disagio psichico, l’allarme dal Garante dei detenuti: 4 suicidi nel 2022 gonews.it, 30 giugno 2023 Il Garante parla di 110 tentati suicidi lo scorso anno, oltre 900 gli atti di autolesionismo. Il presidente del Consiglio regionale Mazzeo: “Il grado di civiltà di un Paese si misura anche dalla situazione che vivono i detenuti”. “Il rischio di stare in carcere: quando il disagio psichico è insopportabile” è il titolo dell’interessante convegno che si è svolto all’Auditorium Spadolini di palazzo del Pegaso, nella giornata di ieri, mercoledì 28 giugno. L’evento si è aperto con il video saluto del presidente dell’Assemblea legislativa Antonio Mazzeo. È poi intervenuto il Garante regionale dei diritti dei detenuti Giuseppe Fanfani. A seguire gli interventi di Luca Maggiora, presidente della Camera penale di Firenze e referente dell’Osservatorio del Carcere dell’Unione camere penali; Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze; Gabriele Terranova, referente dell’Osservatorio Carcere Unione camere penali, Leonardo Zagli, referente dell’Osservatorio Carceri della Camera penale di Firenze, Franco Scarpa referente salute mentale per Istituti penitenziari. Nel suo video saluto Antonio Mazzeo presidente del Consiglio regionale ha sottolineato come il tema affrontato sia di “grande attualità. Le istituzioni non fanno ancora tutto quello che è necessario per affrontare questa delicata problematica. Dai fatti di cronaca emerge le difficoltà di affrontare in modo compiuto le problematiche connesse alla situazione psichiatrica nelle nostre carceri. Il grado di civiltà di un Paese si misura anche dalla situazione che vivono i detenuti negli istituti penitenziari, perché è fondamentale offrire a chi deve scontare una pena occasioni di reinserimento sociale e lavorativo”, ha affermato. “Sono felice di vivere in Toscana - ha aggiunto il presidente Mazzeo -, il primo Stato che ha abolito la pena di morte, e anche oggi è importante affrontare la tematica del carcere dal punto di vista scientifico, con i vostri contributi qualificati che offrono sollecitazioni e interrogativi alla politica. È importante che la legislazione a livello nazionale prenda atto delle vostre proposte per andare verso un reale miglioramento della situazione dei detenuti in Italia”. Il Garante regionale dei diritti dei detenuti Giuseppe Fanfani ha lanciato un grido d’allarme sulla situazione del disagio psichico in carcere. Negli istituti penitenziari toscani nel corso dell’anno 2022 sono stati registrati 4 suicidi, tutti a Sollicciano. Nello stesso arco temporale si sono registrati 110 tentati suicidi, dato in leggero calo rispetto allo scorso anno, ma con punte di 28 presso il Nuovo Complesso penitenziario di Firenze Sollicciano, 29 presso la Casa circondariale di Pisa e 19 presso la Casa circondariale di Livorno. Di grande allarme anche gli atti di autolesionismo: 912 nelle strutture toscane, con punte di 380 presso Firenze Sollicciano, 163 presso la Casa circondariale di Pisa e 139 presso la Casa circondariale di Prato. Poi il Garante ha proseguito ricordando che, grazie all’impegno dei suoi uffici con l’Università di Firenze, è in corso uno studio sulla situazione della psichiatria all’interno del carcere. Nei dati nazionali occorre evidenziare che fra i detenuti ci sono circa il 10 per cento di malati psichiatrici, addirittura il 60 per cento viene curato con psicofarmaci. Un sistema che presenta delle pecche sempre maggiori: sia nelle dimensioni ridotte degli spazi nel carcere sia nel numero e qualità del personale di sorveglianza. Ci sono categorie di detenuti diverse: da quelli appartenenti a categorie pericolose come le organizzazioni mafiose a persone più deboli che devono essere tutelate dallo stato. È sbagliata la distruzione sistematica della speranza del detenuto per il reinserimento nella società e nel lavoro, mentre bisogna ricostruire un sistema sociale e operare sul reinserimento nel lavoro che consentano di rendere più tollerabile la permanenza negli istituti penitenziari. Nel corso del convegno sono stati affrontati i temi di scottante attuali dai suicidi nelle carceri all’obbligo deontologico degli avvocati di segnalare i casi più critici, dai suicidi delle guardie penitenziarie ai problemi creati dalla pandemia con la riduzione dei contatti con il mondo esterno. Il problema del disagio psichico che dovrebbe essere affrontato fuori dal carcere, ma resta una lunga lista attesa per accedere a misure alternative. L’articolo 32 comma 2 della Costituzione chiede il rispetto della persona umana e il suo diritto alla salute che deve essere bilanciato in modo equilibrato con la richiesta di una pena detentiva. Calabria. Poca sanità e molti suicidi: il dramma delle galere calabresi di Vincenzo Brunelli icalabresi.it, 30 giugno 2023 Sulla carta le carceri regionali non sono troppe (12) né affollate (3mila detenuti in totale). Ma i problemi strutturali sono tanti e gravi. E alcuni si sono cronicizzati. Le denunce di Luca Muglia, il garante regionale dei detenuti. Questo infatti è solo il dato principale del dossier 2023 (il settimo, per la precisione) del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Questo dossier è parte integrante della relazione al Parlamento. Il report nella parte relativa alla Calabria ha ad oggetto i primi cinque mesi di attività dell’ufficio calabrese, ricoperto dall’avvocato cosentino Luca Muglia a partire dal 25 ottobre scorso. Carceri calabresi: il quadro generale - Sulla carta, non ci sarebbero motivi d’allarme, almeno non troppi: gli istituti penitenziari calabresi sono 12, inclusi l’Istituto penale minorile di Catanzaro e le due Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) e i detenuti non superano le 3mila unità. Tuttavia, l’ufficio regionale del Garante ha riscontrato alcune criticità evidenti da analizzare, affrontare e, si spera, risolvere. Nell’ordine il dossier segnala: “Le eccessive lacune della sanità in ambito penitenziario, le condizioni strutturali di alcuni Istituti, datati nel tempo e privi di manutenzione, l’inadeguatezza di molte camere detentive (alcune prive di doccia), la mancanza di offerte scolastiche o formative adeguate, l’assenza di progetti di inclusione stabili, la carenza di organici e di personale della Polizia penitenziaria e dei Funzionari giuridico-pedagogici, la scarsa presenza di mediatori linguistico-culturali”. Le difficoltà per il Garante regionale sono da ricondurre a molteplici fattori. Alcuni sono interni all’Amministrazione penitenziaria, altri derivano dalla mancata o insufficiente cooperazione degli Enti locali. I detenuti, a loro volta lamentano problematiche riguardanti questioni processuali o necessità legate ai colloqui coi familiari, ai trasferimenti, al lavoro o alle cure mediche. Invece, quanto alle Rems, “le esperienze di Santa Sofia d’Epiro e di Girifalco appaiono valide. La prima, pur con limiti strutturali, ha consolidato buone prassi terapeutiche. La seconda, aperta nel 2022, è una struttura di assoluta eccellenza”. L’appello del Garante - L’11 novembre scorso, quindi a pochi giorni dal suo insediamento, il Garante calabrese dei detenuti ha firmato e condiviso l’appello sottoscritto da numerose personalità. Argomento: l’elevato numero di suicidi registrati nelle carceri il 2022. L’appello ha obiettivi precisi. “Ricorrere al carcere come extrema ratio, garantire spazi e contesti umani che rispettino la dignità e i diritti, moltiplicare le pene alternative, garantire al cittadino detenuto la possibilità di un reale percorso di inclusione”. Tra i contenuti individuati dal Garante regionale nei primi mesi di lavoro, figurano: • difficoltà dell’esecuzione penale, la nuova disciplina delle pene sostitutive e delle misure alternative; • giustizia riparativa; • formazione professionale e l’inclusione sociale; • tutela nei procedimenti di limitazione della responsabilità genitoriale; • condizione delle donne detenute; • esigenze dei giovani dell’Istituto penale minorile. Si legge ancora nel dossier: “A tali fini sono state coinvolte tutte le amministrazioni interessate, da quella giudiziaria a quella penitenziaria, dagli organi amministrativi a quelli politici. Il Garante ha promosso, inoltre, un dialogo costante con il Dipartimento regionale di tutela della salute, l’Osservatorio sulla sanità penitenziaria e l’ufficio scolastico regionale volto alla risoluzione di problematiche specifiche. Ha attivato una importante interlocuzione con la Conferenza episcopale calabra, i Poli universitari penitenziari e l’associazione Antigone. Ottimo il rapporto di fattiva collaborazione instaurato con i garanti territoriali di Reggio Calabria, Crotone e Catanzaro”. Il Garante regionale, infine, ha promosso una campagna di sensibilizzazione finalizzata al superamento dei pregiudizi culturali e delle etichette sociali che colpiscono i detenuti. Il tutto condito da uno slogan efficace: “Per un linguaggio non ostile dentro e fuori il carcere”. Uno sguardo ai migranti - Il dossier termina con un passaggio sui Centri di accoglienza: “Il Garante regionale, su delega del Garante nazionale (in base alla normativa approvata nel 2020), ha effettuato pure una visita al Centro governativo di accoglienza di Sant’Anna, Isola Capo Rizzuto. La delegazione era composta anche da Elena Adamoli e Alessandro Albano (ufficio del Garante nazionale) e da Nicola Cocco (esperto del Garante nazionale). La visita aveva come focus originario la situazione dei minori stranieri non accompagnati (Msna) che fanno ingresso nel Centro e l’utilizzo della struttura quale hotspot. Gli elementi di osservazione acquisiti relativamente alle condizioni materiali dei luoghi ispezionati hanno imposto, tuttavia, una responsabilità di analisi complessiva a tutela della dignità e dei diritti fondamentali di tutti gli ospiti della struttura. L’esperienza congiunta è stata estremamente positiva, il rapporto è in corso di elaborazione”. Sardegna. Socialismo Diritti Riforme: “Aumentano i giovanissimi dietro le sbarre” sardegnareporter.it, 30 giugno 2023 Un detenuto di 19 anni con gravi problemi psichici ogni 2 giorni finisce in isolamento perché aggressivo. “Un ragazzo di 19 anni, M. N., algerino, entrato nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta nello scorso mese di aprile, sta destando particolare preoccupazione per l’aggressività che manifesta nei confronti delle persone con cui entra in contatto e, in particolare, con gli Agenti della Polizia Penitenziaria. Dall’aspetto minuto e spaurito, nonostante sia sottoposto a terapia farmacologica, in cella manifesta irrequietezza e atti violenti, viene quindi collocato in isolamento per dieci giorni. Successivamente l’iter si ripete. Un via vai che non giova a lui e tiene in costante apprensione il personale della sicurezza e quello sanitario. Un caso che fa riflettere sulla necessità di individuare un’alternativa alla semplice custodia”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” facendo osservare che “in queste condizioni la presenza in una cella detentiva non corrisponde alla finalità del carcere e crea seri problemi a chi ha il compito di garantire la sicurezza e il trattamento”. “È evidente - sottolinea - che la giovane età e i disturbi della sfera psichiatrica, rendono la vita di questo ragazzo particolarmente complicata. Si pongono diverse problematiche anche riguardo la possibilità reale di una terapia farmacologica davvero efficace laddove risulta difficilissimo inquadrare il disturbo in un ambiente non adeguato ai bisogni di una persona con fragilità evidenti. Sarebbe quindi necessario un intervento del Giudice per fare in modo che questo ragazzo, peraltro in attesa di giudizio, possa essere trasferito in una struttura e/o in una comunità terapeutica dove possa essere gestito con i farmaci e con un supporto psicologico ed educativo mirato”. Condizioni negative da migliorare - “La permanenza dietro le sbarre, in una cella d’isolamento, rischia di accentuare nel giovane; osserva l’esponente di Sdr Odv; la frustrazione e i sentimenti di rivalsa e aggressività. Il cumulo di rapporti disciplinari, inevitabili in seguito ad azioni aggressive, manesche e/o verbali, produrrà un allungamento del percorso detentivo con conseguenze ancora più negative per lui e per chi lavora nel carcere. Ecco perché la soluzione migliore non può essere semplicemente il trasferimento in un altro Istituto Penitenziario; ma individuare una struttura alternativa in cui possa trovare una risposta meno afflittiva ma più efficace in modo da rendere il periodo di perdita della libertà utile”. “La Casa Circondariale di Cagliari-Uta; conclude Caligaris; appare sempre di più il luogo ideale per accogliere (e nascondere) le persone con gravi problematiche socio-economiche, caratteriali e psichiche. Ai detenuti psichiatrici e in doppia diagnosi, agli anziani ultraottantenni, si stanno aggiungendo giovanissimi che hanno appena compiuto 18 anni. Un altro obbrobrio di cui occorre farsi carico nel rispetto dell’ordinamento penitenziario”. Torino. Detenuta si uccide, sarebbe uscita tra meno di due mesi di Carmine Di Niro L’Unità, 30 giugno 2023 Si è tolta la vita mercoledì sera a Torino, all’interno del carcere delle Vallette: è la prima donna quest’anno. A denunciare l’ennesimo suicidio, il 32esimo dall’inizio del 2023, è il Garante nazionale dei diritti dei detenuti. Graziana O., una 52enne arrivata alla fine di una detenzione di quattro anni e 10 mesi, sarebbe uscita dal carcere tra poco meno di due mesi (il 21 agosto) alla fine di una pena che stava scontando dal Ferragosto del 2019, con l’accusa di aver tentato di strangolare il compagno. Un suicidio che sconvolge per il contesto in cui è maturato: il percorso della vittima, spiega il Garante, presentava tutti i segni della positività, considerata la mancanza di sanzioni disciplinari, la concessione di quasi un anno di liberazione anticipata, la collocazione nella sezione ‘a trattamento intensificato’. Il corpo della 52enne è stato trovato poco dopo le 19 di mercoledì: la detenuta si è uccisa realizzando un cappio artigianale, fatto con i propri indumenti, nel padiglione femminile della Casa Circondariale di Torino alle Vallette. Il cadavere, spiegano dal sindacato di polizia penitenziaria Osapp, è stato rinvenuto nel bagno. L’avvocato della donna, Mattia Fió, spiega all’edizione torinese di Repubblica che la sua assistita “aveva ottenuto per il buon comportamento un anno di liberazione anticipata. Nell’ultimo periodo la sua situazione di fragilità era conosciuta ed era per questo supportata anche a livello farmacologico. Aveva esternato le sue paure di uscire dal carcere e approcciare una nuova vita fuori sia a me che alle due figlie. Durante il processo era emersa la storia difficile, di violenze e minacce reciproche con il compagno, e per questo aveva ottenuto tutte le attenuanti possibili”. “Il suicidio di chi è prossimo all’uscita in libertà, magari dopo aver scontato una lunga pena, non è ragionevolmente riconducibile a elementi, come il degrado delle strutture o la densità della popolazione detenuta, che si sono sperimentati lungo tutto il corso della detenzione - spiega il Garante - Una riflessione analoga vale per chi si suicida a poche ore, a pochi giorni dall’ingresso in carcere, 15 nel 2022, sul totale degli 85 suicidi, di cui 10 nelle prime 24 ore: oltre alla drammaticità del vissuto che ha determinato la detenzione, non è tanto l’impatto con le condizioni del carcere a poter determinare quel gesto, quanto la percezione della persona di essere caduta in un buco nero senza vie d’uscita. Per questo e più ancora che per tutte le altre situazioni, la morte di chi è vicino a tornare in libertà interroga e coinvolge implacabilmente tutta la società civile: le reti di sostegno sociale come l’intera comunità, assenti rispetto al dovere civico di reintegrare chi ha terminato di scontare una pena”. Sull’ennesimo suicidio in carcere è intervenuta la senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi: “Ogni volta che una persona in regime di detenzione arriva a togliersi la vita significa che lo Stato ha fallito. L’ennesimo suicidio conferma un dramma che coinvolge sia i detenuti che gli agenti di custodia. Bisogna fare di tutto per garantire i diritti di chi è rinchiuso in una cella. In primis, ridurre il sovraffollamento e assicurare sempre un costante supporto psicologico, indispensabile per i più fragili. Le carceri devono essere luoghi rieducativi, non certo la tomba delle persone e la privazione della libertà dovrebbe essere l’estrema ratio per i reati più gravi. Come diceva Voltaire ‘la civiltà di una nazione si misura osservando le condizioni delle proprie carceri’ e le nostre sono messe davvero male”. Torino. Tra un mese ne sarebbe uscita ma non sopportava il peso del cambiamento di Sarah Martinenghi La Repubblica, 30 giugno 2023 Sarebbe dovuta uscire dal carcere Lo Russo e Cotugno di Torino ai primi di agosto Graziana Orlarey, 52 anni, che si trovava reclusa nel padiglione femminile dopo aver tentato di strangolare il compagno nel 2019. Era in uno stato d’ansia e paura per il cambiamento che avrebbe dovuto presto affrontare. E l’angoscia ha preso il sopravvento: intorno alle 18 di mercoledì sera si è tolta la vita impiccandosi nel bagno della sua cella. Avrebbe usato una t-shirt come cappio e uno sgabello per arrivare alle sbarre della finestra. Aveva un passato di litigi e maltrattamenti, un travagliato rapporto di coppia caratterizzato dall’abuso di alcol e durato otto anni, che l’aveva portata a compiere quel gesto per esasperazione nei confronti dell’uomo con cui all’epoca conviveva in una frazione isolata di Settimo Vittone. La donna, in carcere, avrebbe approfittato di un momento in cui si trovava da sola in cella, durante l’ora di socialità. Sarebbe stata la compagna a ritrovare il suo corpo e dare l’allarme. Orlarey era stata condannata a 4 anni e dieci mesi. “Aveva ottenuto per il buon comportamento un anno di liberazione anticipata. Nell’ultimo periodo la sua situazione di fragilità era conosciuta ed era per questo supportata anche a livello farmacologico- spiega il suo avvocato Mattia Fió del foro di Ivrea che aveva fatto il possibile per tentare di aiutarla - aveva esternato le sue paure di uscire dal carcere e approcciare una nuova vita fuori sia a me che alle due figlie. Durante il processo era emersa la storia difficile, di violenze e minacce reciproche con il compagno, e per questo aveva ottenuto tutte le attenuanti possibili”. “La situazione di questa detenuta era conosciuta e si stava lavorando molto per lei: non era stata dimenticata da educatori o dalla rete di servizi, anzi, si stava cercando di trovarle il supporto psicologico, abitativo e lavorativo in vista del suo reinserimento fuori dal carcere - commenta la garante Monica Gallo - purtroppo però non so quanto lei si sia resa conto di questo, certamente la paura di non riuscire a ricomporre un’esistenza dignitosa in questa sua fragilità l’ha spaventata”. Secondo il legale “per quanto la sua situazione fosse nota, il carcere non è il luogo ideale per questi soggetti fragili. Ma reperire strutture come le case famiglie non è semplice. Avevo provato a chiedere misure alternative ma senza disponibilità da parte delle strutture non era stato possibile”. Sassari. Detenuto al 41bis in sciopero della fame da 4 mesi, il caso di Domenico Porcelli baritoday.it, 30 giugno 2023 L’uomo è detenuto nel carcere di Bancali (Sassari) dove sta scontando una pena a 26 anni di carcere per associazione mafiosa. Recluso in regime 41 bis dopo essere stato condannato a 26 anni per associazione mafiosa, è in sciopero della fame da quattro mesi: è la storia di Domenico Porcelli 49enne di Bitonto attualmente detenuto nel carcere di Bancali, in provincia di Sassari. Lo riporta l’Ansa. Il 28 febbraio scorso ha smesso di alimentarsi. Come fece l’anarchico Alfredo Cospito, anche lui protesta contro il 41 bis. “Ha la pressione molto bassa, glicemia idem, lamenta dolori alle gambe, stanchezza costante, si assopisce spesso durante la giornata e anche l’eloquio non è fluido, un po’ biascicante”, racconta all’Ansa l’avvocata Maria Teresa Pintus, che insieme alla collega Livia Lauria difende Porcelli. “Dal 28 febbraio ha perso 16 chili solo di muscoli, purtroppo. Oggi pesa 61 kg e nonostante le tante richieste inviate, dal Ministero non abbiamo mai ricevuto una risposta”, continua la legale che difende anche lo stesso Cospito. Le due avvocate hanno presentato reclamo contro il regime 41 bis al Tribunale di sorveglianza di Roma, ma sono in attesa della fissazione dell’udienza. Il tempo, però, diventa sempre più stringente: “La situazione è già critica, se lo stato di salute di Domenico Porcelli dovesse ulteriormente peggiorare, sarà necessario trasferirlo in un centro clinico”, conclude la legale. Catania. Altri tre detenuti in sciopero della fame, senza fine l’emergenza nelle carceri di Alessia Candito La Repubblica, 30 giugno 2023 I palestinesi Fares, Walid e Ayman sono nel penitenziario di Catania perché sospettati di essere scafisti. Walid non riesce più ad alzarsi, Fares non cammina più, solo Ayman riesce con molti sforzi a raggiungere la sala colloqui. “Era un omone. Quando l’ho visto - mormora l’avvocata Grazia Palazzo - quasi ho stentato a riconoscerlo”. Ancora una volta, in un carcere siciliano c’è chi sceglie lo sciopero della fame e della sete per tentare di far sentire la propria voce. E sebbene sia passato poco più di un mese dalla morte dei due detenuti nel carcere di Augusta, andati via dopo una lunga protesta di cui nessuno è stato informato, di nuovo la notizia filtra solo grazie a legali e associazioni, che ieri sono riusciti a informare il Garante. Ma è ormai da giorni che Walid, Fares e Ayman rifiutano cibo, acqua e persino le flebo con cui hanno tentato di idratarli. Le loro condizioni peggiorano. “Finché non verranno ascoltati, non sono disposti a sottoporsi alle cure”, spiega l’avvocato. Non capiscono perché sono in carcere, non capiscono perché gli investigatori non abbiano creduto alle loro parole ma abbiano dato credito ad altri, non capiscono perché tentare di fuggire da violenze e abusi quotidiani in Libia sia considerato un reato. Non hanno scelto di lasciare Gaza, raccontano, sono stati obbligati. Non ne potevano più di fame e bombe per questo sono partiti, hanno affrontato mesi di Libia, dove hanno lavorato da schiavi e capito che lì non c’era futuro. L’hanno cercato insieme ad un altro centinaio di persone, a bordo di una carretta in resina, con un motore zoppo che a turno, raccontano, tutti hanno cercato di far ripartire. Li ha soccorsi un mercantile, che li ha presi a bordo prima dell’arrivo di una motovedetta della Guardia costiera con cui hanno raggiunto Catania. Pensavano che l’incubo fosse finito. E invece. Tre dei loro compagni di viaggio, tutti del Bangladesh, hanno puntato il dito contro di loro, gli investigatori non hanno trovato riscontri alle loro dichiarazioni, ma hanno valorizzato come prova a carico che fossero in possesso di “un telefono cellulare e di un borsone con effetti personali (tra cui sigarette, profumi e gel) e indumenti intrisi di benzina”. Uno di loro, si argomenta aveva “denaro contante in dollari americani (400), che avrebbero consentito il loro ritorno in patria per favorire altri viaggi o comunque la possibilità di collegarsi ad altri soggetti in madrepatria o in Italia”. Prove? Nessuna, tanto che la somma è stata subito dissequestrata. Ma loro, che di questa storia sono i protagonisti, raccontano il legale e le associazioni che li stanno seguendo, hanno scoperto tutto dopo. Bollati come “sedicenti” a dispetto di regolari passaporti e in un caso persino di un certificato dell’Unrwa, Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi, sono stati fermati e portati in carcere. Carte e documenti in lingua sono arrivati solo dopo. E dietro le sbarre non c’era neanche qualcuno a cui chiedere aiuto in una lingua comune. “Non si tratta di un caso isolato. In Italia ci sono quasi mille persone in carcere perché accusate di violazione dell’articolo 12 e bollate come scafisti”, spiega Richard Braude del circolo Arci Porco Rosso di Palermo, che da anni ormai segue la questione. “Spesso le prove sono deboli, del tutto indiziarie, ma non c’è alternativa alla detenzione perché non hanno un domicilio”. Alcuni centri, gestiti da associazioni o onlus, si rendono disponibili per la detenzione domiciliare. Ma i posti sono pochissimi. Risultato, i più rimangono in carcere, prigionieri non solo della struttura, ma anche dell’isolamento linguistico e relazionale. Una bolla che da tempo gli attivisti del “Porco Rosso” cercano di spezzare intrattenendo una fitta corrispondenza con i detenuti. “È un modo per aiutarli a mantenere il contatto con il mondo. Uno di questi ragazzi- dice Braude - è in carcere a Trapani da tempo, ci ripete “l’unico mio desiderio è potervi incontrare”, ma in questo ed altri casi le nostre istanze sono cadute nel vuoto”. Alcune associazioni, come il centro Astalli, riescono ad attraversare quelle sbarre, fornire almeno vestiti, beni di prima necessità e conforto. “Una delle richieste più frequenti - spiega Stefania, che ha incontrato i tre ragazzi - è di poter chiamare i familiari. Loro hanno diritto ad avere una scheda telefonica, ma è inutile perché non ha credito e va ricaricata e noi non possiamo farlo”. E di certo non possono farlo i familiari che spesso neanche sanno se i loro cari siano sopravvissuti. Ayman, tramite il legale, è riuscito a contattarli. A Gaza ha lasciato dieci figli. “Libera mio papà, signor giudice”, scandiscono in un video-appello inviato all’avvocato, in cui si sente la moglie dire: “Viviamo in una casa che è a stento un rifugio perché mio marito è solo un lavoratore, se fosse uno scafista non staremmo così”. Ma l’istanza di scarcerazione è naufragata e Walid, Fayes e Ayman hanno smesso di mangiare e bere. Informalmente, filtra dal carcere, si sta cercando di fornire loro tutta l’assistenza possibile. Fra i primi servizi necessari, ci sarebbe l’assistenza psicologica. Ma con la lingua a fare da barriera diventa impossibile. “In Italia, c’è in media meno di un mediatore per carcere. E ovviamente non parla tutte le lingue del mondo”, ricordano dal “Porco Rosso”. Lo sciopero della fame è “grido” universale, ma troppo spesso anche quello rimane inascoltato. Modena. Detenuti morti dopo rivolta nel carcere, procura chiede archiviazione per 120 agenti di Valentina Reggiani La Nazione, 30 giugno 2023 Nelle indagini sull’8 marzo 2020, spiega la magistratura, i presunti pestaggi non hanno trovato riscontri. I “denunciati” pestaggi per mano degli agenti della Polizia penitenziaria non hanno trovato “adeguato riscontro”, nella documentazione sanitaria acquisita dai pm, e comunque tutte le prove acquisite impediscono di formulare “una ragionevole previsione di condanna degli indagati”, per i nove detenuti morti dopo la rivolta dentro al carcere dell’8 marzo 2020. Lo scrive il procuratore capo di Modena, Luca Masini, a proposito della “complessa ed articolata indagine”, di un paio d’anni, sulla rivolta in questione e sul suo tragico epilogo, che ha portato a iscrivere nel registro degli indagati per tortura e lesioni fino a 120 persone, tutti agenti penitenziari. La richiesta di archiviazione è stata registrata il 23 giugno, dopo che l’8 giugno, fra l’altro, era emerso che erano saliti a 14, da cinque, i poliziotti della penitenziaria indagati, dopo una proroga delle indagini. Se il fascicolo sui decessi è già stato archiviato, seguendo la pista del suicidio per overdose di metadone dei detenuti, nonostante la battaglia del Comitato Verità e Giustizia per i morti del Sant’Anna di Modena, costituitosi subito dopo i fatti dell’8 marzo 2020. Nel procedimento principale sono confluiti poi altri tre fascicoli, tutti innescati dai nove esposti firmati dagli stessi detenuti, con interrogatori di vari indagati e la consultazione di un album fotografico sull’8 marzo di tre anni fa. La Procura precisa che sono stati sentiti anche coloro che a vario titolo, sui media, avevano assicurato di avere informazioni puntuali sulla repressione della rivolta, anche se in certi casi non è stato possibile perché i diretti interessati non hanno voluto svelare le proprie generalità. E nemmeno sono stati acquisiti documenti video, perché “non disponibili”. In sostanza, la Procura si dice non in grado di formulare un giudizio di attendibilità sulla ricostruzione dei fatti offerta da parte delle persone offese e quindi, ancora meno, non ci sono previsioni ragionevoli di eventuale condanna degli indagati. Sulle “ripetute percosse” ai detenuti per mano degli agenti penitenziari, sostenute a loro volta dai ricorrenti, sarebbero emerse anche “dichiarazioni discordanti” sui luoghi e sul modo in cui sarebbero stati picchiati. Milano. Per Nordio la situazione al carcere minorile Beccaria è “particolarmente critica” di Enrico Spaccini fanpage.it, 30 giugno 2023 Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha risposto a una domanda durante il question time al Senato sul carcere minorile milanese Beccaria. Il Guardasigilli ha detto che la situazione “è particolarmente critica” e che il governo vuole prestare “un’attenzione ancora maggiore” per questi Istituti. Durante il question time che si è tenuto oggi, giovedì 29 giugno, in Senato la politica nazionale è tornata a parlare della situazione del carcere minorile milanese Cesare Beccaria. Il senatore del Partito democratico, Alfredo Bazoli, ha chiesto al ministro della Giustizia Carlo Nordio “quali iniziative necessarie e urgenti intende intraprendere per stabilizzare la direzione”, oltre che per “porre fine alle numerose criticità dell’istituto penale denunciate pubblicamente e a più riprese”. Il Guardasigilli ha risposto ribadendo la consapevolezza della “situazione nel carcere minorile Beccaria che è particolarmente critica”. Per quanto riguarda le risposte del governo, però, dovranno essere considerate le “limitazioni delle nostre risorse”, ha affermato Nordio rivolgendosi direttamente a Bazoli, “ed è inutile che spieghi quanto queste siano limitate”. Il nuovo personale sanitario - Il 26 gennaio scorso è stato siglato un accordo tra l’azienda socio-sanitaria territoriale Santi Paolo e Carlo della regione Lombardia e il ministero della Giustizia. Questo, ha spiegato Nordio, “ha a oggetto la graduatoria del concorso pubblico a tempo pieno e indeterminato di collaborazione di personale sanitario”. In particolare, continua il ministro, “sono stati assunti quattro funzionari della professionalità pedagogica”. Tre di questi hanno preso servizio lo scorso 12 aprile e l’ultimo inizierà a lavorare al Beccaria il prossimo 20 luglio. Gli agenti di polizia penitenziaria - Passando al tema polizia penitenziaria, invece, è ancora fresca la memoria degli avvenimenti di Natale. Sette giovani detenuti avevano approfittato della scarsa vigilanza e di un cantiere aperto da diverso tempo per fuggire dall’Istituto. Nordio, però, ha sottolineato come l’organico “è stato determinato in 71 unità di polizia giudiziaria a fronte della presenza di 38 detenuti”, quindi con un rapporto di 1,87. Il ministro ha comunque voluto ribadire come anche se “la criticità negli Istituti penitenziari è già elevata, quella che riguarda i minorili deve avere una priorità alla quale prestiamo un’attenzione ancora maggiore”. Napoli. Don Tonino Palmese nuovo Garante comunale dei detenuti di Rossella Grasso L’Unità, 30 giugno 2023 “Sarò sentinella per il mantenimento della dignità delle persone” La Città di Napoli ha un nuovo Garante dei detenuti: è Don Tonino Palmese, 66 anni, presidente della Fondazione Polis, già responsabile di Libera in Campania, che ricoprirà il ruolo. Palmese, sentito poco dopo l’annuncio da parte del sindaco da L’Unità, si è detto pronto a rimboccarsi le maniche con entusiasmo: “Voglio essere la sentinella del mantenimento della dignità delle persone, garantendo che nelle carceri ci sia continuità con quello che dice la Costituzione e le leggi dello Stato. Non è civile, né costituzionale, né cristiano che si consenta l’abbrutimento della dignità delle persone. Non deve succedere mai”, ha detto. Al sindaco Manfredi, Palmese è sembrato subito la persona giusta a ricoprire il delicato ruolo, perché, come sottolineato nel decreto sindacale, “ha maturato una consolidata esperienza tanto nel campo della tutela dei diritti umani quanto in quella delle attività sociali svolte presso istituti di pena, anche in collaborazione con il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Campania”. Anche Don Tonino Palmese, come chi lo ha preceduto, non percepirà alcuna indennità o compenso, svolgendo la sua attività a titolo completamente gratuito. Palmese, nato e cresciuto a Napoli, quartiere Ponticelli, è sacerdote da oltre 30 anni. “A casa mia si respirava l’aria di quella stagione bella del comunismo - racconta - A casa mia si leggeva l’Unità. Mio padre era comunista innamorato di Berlinguer. Il caso volle che morisse lo stesso giorno, mese e anno in cui morì il leader. Mia mamma era invece profondamente cattolica. Già tra le quattro mura di casa si respirava il ‘compromesso storico’ vero, quello volto a fare il bene comune”. “Una risposta autentica”, come ha detto don Tonino Palmese è quella che intende dare a quanti gravitano intorno al mondo delle carceri. Al centro del suo pensiero, della sua filosofia di vita, c’è la giustizia riparativa. Con la sua storia personale, il suo lavoro e il suo costante impegno, Don Tonino Palmese cerca di unire le fila tra le vittime e i colpevoli, di fare di due mondi opposti una narrazione comune. Da anni si occupa dei familiari delle vittime innocenti della criminalità, e con la sua esperienza ha capito quanto sia fondamentale mettere insieme questi due mondi, queste due storie, apparentemente inconciliabili per creare un mondo migliore, più libero. “E’ importante riuscire a raccontare alle vittime il mondo dei colpevoli. Stimolare la curiosità nel capire cosa c’è dietro un delitto, cosa li ha spinti a tanto, anche la prepotenza”. “Negli anni abbiamo organizzato tanti incontri in carcere tra i familiari delle vittime della criminalità e i detenuti - continua il sacerdote - è stato chiaro che più ci si conosce e più si alimenta la speranza concreta di uscire dalla rassegnazione della propria condizione, per entrambe le parti”. Ed è questo uno dei punti da cui ripartire per riabilitare e riattivare vittime e carnefici alla vita. “Il perdono non è né un punto di partenza né di arrivo, non è nemmeno un criterio metodologico per la giustizia perché attiene alla sfera della coscienza. Ma è importante come ipotesi di riconciliazione: non negare comprensione e accoglienza dell’altro nella propria vita”. Per il sacerdote l’incontro è la strada per lasciarsi alle spalle il dolore o migliorare la propria condizione, senza cedere più al male. Una via che migliora tutti e che ricade positivamente su tuta la società. Il sacerdote racconta che da ottobre partirà un corso sulla Giustizia riparativa organizzato in collaborazione con la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sezione Capodimonte, Fondazione Polis e il Garante della regione Campania, per creare dei veri professionisti della giustizia riparativa che possano operare in tal senso. Per Don Tonino Palmese l’altro punto da cui ripartire nelle carceri napoletane è migliorare la qualità della vita in carcere. Da anni con i suoi progetti entra ed esce dalle carceri, parla con i detenuti e i loro familiari e si è fatto una idea delle condizioni spesso drammatiche in cui versano: “Ogni volta che entro in un carcere mi accorgo che mancano i presupposti per la vita - ha detto Palmese - parlo di spazi, tempi, colloqui e soprattutto la salute vista come valore che richiede buone cure messe bene in pratica”. Don Tonino Palmese intende portare avanti il suo lavoro per le carceri dentro e fuori dalle mura, per far capire a tutti che “nessuno ha il diritto di togliere la vita di un altro ma nemmeno di abbrutire la vita di un altro”. Busto Arsizio. I diplomi in carcere, investimento sul futuro dei detenuti e del territorio informazioneonline.it, 30 giugno 2023 “C’è un tempo perduto, ma posso fare cose belle”. Alla Casa circondariale un evento che ha mostrato cosa si può fare attraverso la forte sinergia con scuola, volontari, tutte le istituzioni. La direttrice Pitaniello: “Oggi siamo la testimonianza che chi vuole, ce la fa”. Il garante Roncari: “C’è questa saggezza di voler costruire con le pietre che hai”. Un neodiplomato: “E non è finita qua”. Fatica, felicità, orgoglio e speranza: per sé, le proprie famiglie, il territorio. Tutto questo dietro, dentro i diplomi consegnati questa mattina ai detenuti che hanno portato a termine un percorso scolastico. “E non è finita qui” promette più di un protagonista di questo “evento educativo” come la casa circondariale di Busto Arsizio ha tenuto a definire la cerimonia. Tutti insieme - Una tappa che mostra cosa si può fare quando si lavora insieme: carcere, scuola, volontari, tutte le istituzioni. Ne è visibile testimone la serra, in cui hanno messo tante energie alunni e insegnanti. È stata anche la prima manifestazione, fortemente partecipata dalle istituzioni, che ha permesso alla nuova direttrice Maria Pitaniello di presentarsi a Busto. Accanto a lei, il garante dei detenuti Pietro Roncari, la comandante della polizia penitenziaria Rossella Panaro, i docenti del Cpa e del Verri, il cappellano don David Maria Riboldi. E ancora tra le autorità civile e militari gli assessori Daniela Cerana e Salvatore Loschiavo, il capitano dei carabinieri Annamaria Putortì, il dirigente del Commissariato di polizia Franco Novati, il comandante della Guardia di Finanza Daniele Marra, il comandante della polizia locale Stefano Lanna. Usa un’espressione importante, la dottoressa Pitaniello: “Siamo un serbatoio di risorse, attingiamo dal territorio ma diamo anche tanto. Oggi siamo la testimonianza che chi vuole, ce la fa. Anche in un contesto impegnativo, anche in persone di una certa età. Dobbiamo portare fuori questa testimonianza perché sia utile”. Così l’appello a condividere con i propri compagni la strada affrontata, e anche fuori appunto: “Lavoriamo insieme a favore di tutti”. Investimento sul futuro - Giovani e meno giovani, italiani e stranieri, si sono impegnati a costruirsi un avvenire e a indicare una speranza. Il garante Roncari lo sottolinea: “Questo è un investimento sul futuro. C’è questa saggezza di voler costruire con le pietre che hai. Voi siete aggregatori di speranza, anche il giornalino è frutto di un lavoro. “La scuola è maestra di vita” trovate sulla prima pagina del pieghevole sulla poesia, lo ricordiamo nei 100 anni di don Lorenzo Milani”. “Sono molto fiera - è intervenuta l’assessore Cerana - l’amministrazione è a vostra disposizione. Credo molto nei processi di alfabetizzazione per dare pari opportunità a tutti. La casa circondariale è un microcosmo”. Dentro e fuori, noi e loro: confini che si sciolgono grazie a un impegno comune e si plasmano in un ponte. Tra le difficoltà principali, il cambio di penitenziario da parte dei detenuti ed è una conquista che diventa segnale l’essere riusciti a far prendere il diploma a un allievo trasferito a Vigevano. Dalla struttura del carcere, agli insegnanti, ai volontari, alla motivazione degli alunni: tutti insieme si riesce. Il dottor Alessandro Longheu, dirigente del Cpa, rimarca tutte queste caratteristiche e parte proprio dal caso sopra citato: “L’ultimo, ma si è potuto far completare il percorso, che è soddisfazione, riscatto personale… La sinergia ha evitato un percorso monco”. Trenta le certificazioni di lingua italiana, passo fondamentale, 15 licenze medie, poi i diplomi di agraria. In prima linea i docenti del Cpa e quelli dell’Ipc Verri di Busto. La professoressa Maya Coianiz lo ribadisce: “Il corso triennale di qualifica per l’operatore agricolo dà competenze tecniche molto solide, immediatamente spendibili nel mondo del lavoro”. Teoria e pratica, ascolto della natura e coltivazione anche delle relazioni. E non è finita qua - Le voci delle persone detenuti offrono un mondo di reazioni ed emozioni: “Mi ritengo un’altra volta un giovanotto” commenta uno di loro. E un altro: “Sono tantissimo felice, anche per i miei figli. C’è un tempo perduto, ma posso fare cose belle”. Qualcuno freme già per iscriversi al prossimo corso. Davide Morelli ha preso la qualifica con il massimo dei voti: “Voglio continuare - assicura - all’esterno per orizzonti più ampi. Sono tanto felice e non sarà finita qua”. Napoli. A Miano “Un’altra Chanche”, ovvero inclusione e recupero dei detenuti corriereirpinia.it, 30 giugno 2023 Si è tenuta ieri, presso il Bene Confiscato alla camorra “Mianville”, la manifestazione conclusiva del Progetto “Un’Altra Chance”, messo in campo dalla Cooperativa Sociale “il Quadrifoglio”, con il quale sono stati promossi “percorsi sperimentali di empowerment e di inclusione socio lavorativa rivolti alle persone detenute negli istituti penitenziari, al fine di favorirne il processo di riabilitazione e di rieducazione penale, mediante l’acquisizione, il riconoscimento, il recupero ed il rafforzamento delle competenze di base fondamentali per l’avvio di un processo di inclusione sociale”. L’iniziativa, partita nel luglio 2022, ha coinvolto 10 donne detenute all’interno della Casa circondariale femminile di Pozzuoli e 7 donne in area penale esterna in carico al UEPE; le attività con le donne in area penale esterna si sono svolte presso un Bene Confiscato alla camorra “Mianville”, sede de “il Quadrifoglio”. La progettualità è stata articolata in tre moduli: “orientamento e bilancio delle competenze”, “sostegno alla genitorialità”, “sartoria” con il quale le partecipanti sono state coinvolte in un percorso di inserimento lavorativo nel percorso appunto della sartoria. La giornata conclusiva ha visto la partecipazione del Presidente de “Il Quadrifoglio” Lidia Ronghi e del Garante dei Detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello. “Questi laboratori-borse lavoro sono stati finanziati da Cassa delle ammende e dalla Regione Campania, in collaborazione con il mio ufficio di Garante campano delle persone private della libertà personale, dell’ufficio UEPE e del Provveditorato campano dell’amministrazione penitenziaria. Sono piccole cose dal valore non quantificabile, sono stati bei progetti, come questo specificamente fatto dalla cooperativa Quadrifoglio, per due motivi: sia perché ha visto coinvolte le donne ristrette nel carcere di Pozzuoli, sia le donne in misura alternativa al carcere. Le donne costituiscono una minoranza nella popolazione carceraria e il modello penitenziario prescelto, sia nelle norme, che nella sua traduzione pratica, prevalentemente concepito per gli uomini. Manca un insieme dettagliato di norme standard capaci di tenere conto delle esigenze specifiche delle donne detenute e anche quelle uscite dal carcere. Mancano sia le specificità penitenziarie per le donne ristrette, per esempio i modelli organizzativi, formativi, strutturali, sono sempre gli più o meno gli stessi corsi. Manca anche un’attenzione quando escono, senza dimenticare che, queste donne all’esterno vivono anche la maternità, che è un’aggiunta ma molte volte anche un’aggravante. Comunico che il Provveditorato, la Regione Campania, l’ufficio Garante e il UEPE hanno già predisposto una programmazione per finanziamenti, sempre per laboratori, borse lavoro, dentro le carceri e in misura alternativa, comunità e luoghi per detenuti senza fissa dimora, borse di studio per detenuti che escono per svolgere lavori di pubblica utilità”, così il Garante campano Ciambriello. “Da anni mettiamo in campo progettualità che coniugano la riabilitazione della pena con l’opportunità di un reinserimento lavorativo tramite processi di formazione specifici. Ringrazio per la presenza e per il lavoro costante e senza sosta che svolge il Garante Ciambriello. Se la filiera istituzionale funziona, le speranze che, una volta scontata la pena, si possa ritornare ad una vita dignitosa, e senza che si ricommettano reati, aumenta”. È quanto ha dichiarato Lidia Ronghi, presidente de “il Quadrifoglio”. Napoli. Minorenni vittime di reati, protocollo tra istituzioni di Paolo Cuozzo Corriere del Mezzogiorno, 30 giugno 2023 La pm De Luzenberger: il filo conduttore della violenza è la mancanza della scuola. Un patto, sotto forma di protocollo tra istituzioni locali e con finanziamenti mirati, per garantire azioni a sostegno dei minori vittime di reato nel territorio di Napoli: è il contenuto dell’intesa con Defense for Children Italia Odv per la loro presa in carico. La stipula del protocollo di intesa, che coinvolge la procura per i minorenni di Napoli, la procura di Napoli (per i giovani maggiorenni), il centro di giustizia minorile della Campania, la Regione Campania, il Comune di Napoli, l’Asl Napoli 1 Centro, la questura di Napoli e il comando provinciale dei carabinieri, è avvenuta nel Centro europeo studi di Nisida. “Partiremo dalle vittime dei reati più gravi - spiega Maria de Luzenberger, procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Napoli - per poi sperimentare questo dispositivo ed estenderlo il più possibile. Penso a reati come gli omicidi, alle violenze familiari, penso ai minorenni che subiscono o assistono alle violenze contro le madri, ai minori figli di vittime di femminicidio. Si tratta di un sistema che dovrebbe portare a una maggiore integrazione fra i vari operatori, le due procure, i servizi sociali, le forze dell’ordine, per una presa in carico immediata della vittima, perché capita che non ci sia alcuna presa in carico della vittima, o che sia troppo tardiva, quando il danno è stato fatto: i tempi dei minori non sono quelli degli adulti, anche pochi mesi possono essere determinanti”. Tra le azioni a sostegno, l’attivazione di uno specifico dispositivo nel momento in cui viene acquisita una notizia di reato a danno di un minore o esiste un pericolo evidente di essere vittima di un reato. La segnalazione viene trasmessa dal procuratore ordinario o minorile al referente dell’Ussm (Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni) per valutare quali misure di protezione adottare. E sarà proprio quest’ultimo organismo a coordinare il dispositivo, e sempre all’Ussm compete assumere informazioni sul nucleo familiare del minore, sulle sue condizioni e sul contesto di vita personale e familiare, ma anche sulla frequentazione scolastica. “È un momento abbastanza grave dal punto di vista della delinquenza minorile. C’è un aggravamento del fenomeno”, ha detto Maria de Luzenberger, procuratrice minorile di Napoli. “Il filo conduttore ha spiegato - è la mancanza della scuola: questi ragazzi che delinquono, commettono reati violenti, hanno spesso alle spalle degli abbandoni scolastici o dei percorsi comunque non portati bene a termine. L’abbandono della scuola è indice poi anche di una cattiva educazione familiare, perché ovviamente indica che tipo di famiglia c’è alle spalle”. comportamento tenuto in classe. “Il filo conduttore - ha spiegato il magistrato - è la mancanza della scuola: questi ragazzi che delinquono, commettono reati violenti, hanno spesso alle spalle degli abbandoni scolastici o dei percorsi comunque non portati bene a termine. L’abbandono della scuola è indice poi anche di una cattiva educazione familiare, perché ovviamente indica che tipo di famiglia c’è alle spalle”. Un ruolo determinante tra le istituzioni lo gioca il Comune di Napoli che “agirà con i propri servizi sociali ed educativi per fare in modo che vengano costruiti percorsi di reinserimento educativo ma anche lavorativo”, ha raccontato il sindaco Manfredi. Per il quale “l’obiettivo è fare in modo che questi minori possano avere una seconda chance per un ritorno alla normalità in un momento in cui i fenomeni di violenza che riguardano i giovanissimi sono sempre più numerosi”. Mentre l’assessore alla Legalità della Regione Campania Mario Morcone plaude a “questa alleanza tra le istituzioni a sostegno dei più deboli” anche perché “la tutela dei minori comporta un impegno economico e istituzionale rilevante, da qui l’importanza e il valore dell’intesa stipulata”. Firenze. Don Vincenzo lascia Sollicciano dopo 20 anni di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 30 giugno 2023 Le dimissioni del cappellano, ma continuerà a occuparsi di carceri per la diocesi. Era arrivato a Sollicciano che era poco più di un ragazzo. Adesso lascia, dopo quasi un ventennio, all’età di 60 anni. E così don Vincenzo Russo, ormai da qualche settimana, non è più il sacerdote del penitenziario fiorentino. Lascia dando le dimissioni dopo tanti anni. Sulle motivazioni preferisce non esporsi, quello che resta è il suo impegno per chi è recluso a Sollicciano. Tantissime le battaglie del sacerdote napoletano, cresciuto nella Madonnina del Grappa e tuttora presidente dell’Opera della divina Provvidenza. Si era sempre battuto per un sogno, quello di portare il papa, in particolare Francesco, tra le sbarre di Sollicciano. Sogno irrealizzato, ma il papa conosceva la realtà del carcere e l’aveva incontrato in quella memorabile messa allo stadio Franchi dove l’altare era stato costruito proprio dai reclusi. Centinaia quelli con cui lui parlava settimanalmente nella stanza dei colloqui, raccogliendone le frustrazioni, i drammi personali, le difficoltà, gli sfoghi, i pianti, prevenendo atti di autolesionismo e tentati suicidi. E tante le lettere che, nel corso di questi anni, non si era mai stancato di spedire a ministri, sottosegretari, parlamentari e presidenti vari per far arrivare il grido d’allarme degli ultimi tra gli ultimi, come li chiama lui, i senza voce a cui troppe poche persone prestano attenzione. “A Sollicciano è emergenza cimici e perfino topi” avevano scritto un gruppo di detenuti a lui vicini nel 2022. E poi l’esposto del luglio del 2022. Un esposto alla Procura per denunciare “le condizioni drammatiche” all’interno del carcere di Sollicciano e chiedere di valutare se si possano ravvisare comportamenti illeciti nella gestione della popolazione carceraria. A firmare l’esposto erano stati circa trecento detenuti del penitenziario fiorentino. E poi le battaglie per il gelo d’inverno e il cado infernale d’estate, nella speranza di portare in carcere refrigerio e, soprattutto, ventilatori. E ancora le lotte per i pochi educatori del carcere, per i troppi tossicodipendenti all’interno del penitenziario e il poco lavoro per la rieducazione. Su questa vicenda delle dimissioni, don Russo preferisce non rilasciare dichiarazioni ufficiali. Resterà comunque, per conto della diocesi, responsabile dell’area carcere, e continuerà quindi a vigilare sulle condizioni dei vari penitenziari toscani. Napoli. Segre, l’abbraccio ai detenuti di Poggioreale di Antonio Mattone Il Mattino, 30 giugno 2023 L’idea era venuta a uno degli undici detenuti del carcere di Poggioreale che partecipano agli incontri su tematiche di attualità e sulla pace promossi dalla Comunità di Sant’Egidio (a Poggioreale e Secondigliano anche Il Mattino svolge un progetto di socializzazione, “Parole in libertà”), ma era stata condivisa con entusiasmo da tutti gli altri. E così è partito l’invito a Liliana Segre. Queste le parole: “Le scriviamo nella speranza che Lei possa onorarci della Sua presenza, per permetterci di proseguire nella crescita morale e umana”. Così iniziava la missiva scritta a più mani, poche righe che facevano emergere una conoscenza della storia della senatrice forse inaspettata da parte degli ospiti di un istituto penitenziario, desiderosi di “ascoltare chi ha subito in prima persona il dramma della Shoah”. Ma erano soprattutto parole di riconoscenza e di rispetto verso chi è riuscito a “trasformare una orribile tragedia personale e familiare in un messaggio lucido e potente che andrebbe diffuso nelle scuole e alle nuove generazioni”. La risposta non si è fatta attendere. “Cari ragazzi, vorrei chiamarvi per nome ma temo di fare una pessima figura perché i miei occhi un po’ stanchi, non sono stati in grado di leggere correttamente le vostre firme, siete undici, una bella squadra di sentinelle della memoria, eletti sul campo”. Tuttavia, l’età avanzata e la fatica di andare in giro per il mondo a raccontare l’inferno dei campi di sterminio non le ha consentito di dar seguito all’invito dei detenuti di Poggioreale. Nell’ottobre 2020 Liliana Segre ha deciso di fermarsi e di interrompere i suoi incontri di testimonianza, affidando al documentario “Ho scelto la vita” il racconto sulla sua terribile esperienza. La senatrice Segre comunque ha preso molto sul serio l’invito ricevuto e ha usato parole di grande premura. C’è un legame molto forte e una sincera riconoscenza verso i detenuti. Lo racconta in uno dei suoi libri, quando all’età di 13 anni prima di essere confinata al lager fu prigioniera con suo padre a San Vittore. La mattina in cui vennero deportati, erano in 600 incolonnati in fila e mentre si incamminavano verso “ignota destinazione”, i carcerati erano affacciati ai ballatoi. “Ci gettarono chi una mela, chi un’arancia, chi una sciarpa. Non avete fatto niente di male ci dicevano, che Dio vi benedica, che Dio vi protegga”. Anche per questo la condizione carceraria è rimasta sempre nei suoi pensieri. Tanto che durate la pandemia, non appena arrivarono i vaccini, si espresse perché i detenuti fossero tra le prime categorie a cui destinarli. E così, non potendo avere la sua testimonianza diretta, abbiamo visto insieme il documentario che lei stessa ci aveva suggerito. Alla fine della visione nella saletta del padiglione è sceso un grande silenzio, nessuno riusciva a dire una parola. Il racconto di Liliana Segre era davvero potente e struggente. Alcuni occhi lucidi trasmettevano in modo eloquente sentimenti e stati d’animo. Ad un certo punto si è rotto il ghiaccio ed è iniziato il dibattito. Qualcuno ha confessato di aver sentito per la prima volta un racconto sulla Shoah. Un altro ha notato che anche in carcere così come nei campi di sterminio non è ammessa la debolezza. E poi quel tatuaggio con il numero 75190 marchiato sul braccio della Segre a ricordarle che “ad Aushwitz, prima ancora della dignità, si perdeva il nome, si diventava una cosa. La perdita del nome è il primo passo verso l’oblio” ha fatto scattare un’acuta osservazione: “Io ho il tatuaggio con il nome di mia moglie, ogni volta che lo guardo penso a lei ... immagino invece Liliana Segre cosa pensi quando lo vede”. Alla fine del documentario la Segre racconta un episodio chiave che sarebbe stato decisivo per la sua vita, una scelta da cui sarebbe dipeso il suo futuro. Nel momento in cui russi ed americani stavano per liberare il lager, il comandante del campo, uno dei più crudeli aguzzini, si spogliò della divisa per mettersi in abiti civili e gettò per terra la sua pistola. In un attimo passò nella mente della Segre il pensiero di vendicarsi, di chinarsi sull’arma e di sparargli. Poteva essere un giusto finale, ma bastò un attimo per capire che lei non era come lui, che aveva scelto la vita e per nessun motivo al mondo avrebbe potuto togliere la vita a qualcuno. Oggi si uccide per niente, per una discussione per strada, la grandezza di questa donna è stata quella di insegnare il bene nonostante il male ricevuto, commentavano vari detenuti. E pensierosi hanno fatto ritorno nelle loro celle. La scuola come luogo di pena: svolta securitaria sul voto in condotta di Luciana Cimino Il Manifesto, 30 giugno 2023 La logica securitaria della destra inizierà ad essere applicata anche nella scuola. I recenti fatti di cronaca sulle aggressioni ai docenti hanno fornito l’occasione al Ministro all’Istruzione (e “del merito”), Giuseppe Valditara, di tornare su un suo vecchio cavallo di battaglia: i lavori socialmente utili per gli studenti. E hanno attivato la Lega che ha presentato una proposta di legge, attualmente in discussione in commissione Istruzione alla Camera, che prevede l’inasprimento delle pene previste dal codice penale se la vittima delle violenze è un docente o un dirigente scolastico. Come annunciato già mercoledì, Valditara ha presentato gli interventi “sui criteri di valutazione del voto di condotta”, “al fine di ripristinare la cultura del rispetto, di contribuire ad affermare l’autorevolezza dei docenti e di riportare serenità nelle nostre scuole”. Il voto di condotta tornerà a fare media in pagella già dalle scuole medie. Sarà riferito a tutto l’anno scolastico e, nel caso delle superiori, la valutazione del comportamento inciderà anche sull’ammissione alla maturità. La bocciatura, finora prevista solo con il 5 in condotta in presenza di gravi atti di violenza o di commissione di reati, avverrà adesso anche per “reiterate violazioni del regolamento di Istituto”. Mentre il 6 genererà un debito scolastico in Educazione civica. Il punto più controverso, però, è rappresentato dalle sospensioni: fino a due giorni lo studente sanzionato sarà coinvolto in attività scolastiche sui temi legati ai comportamenti che hanno causato il provvedimento. Se superiore, lo studente dovrà svolgere attività di cittadinanza solidale presso strutture convenzionate. “Sono misure totalmente inefficaci nel contrastare il clima di violenza e di discriminazione che contraddistingue il sistema scolastico italiano - ha commentato la coordinatrice nazionale dell’Unione degli studenti, Bianca Chiesa - Una valutazione solo numerica tende ad avere un carattere punitivo nei confronti dello studente invece che formativo; noi pensiamo che per contrastare ogni episodio di violenza serva cambiare il sistema didattico e di valutazione”. Di misure spot parla anche il Pd, con la responsabile scuola Irene Manzi che scrive sui social: “La cultura della sanzione da sola non basta a porre rimedio al disagio che quegli episodi esprimono, che ha radici profonde”. Più che “misure spot” il combinato con la Pdl della Lega può fare invece emergere l’ideologia di una scuola vista non come luogo di apprendimento ma di pena.”La destra cerca tutte le risposte nell’aumento delle pene o in nuovi reati” sostiene la capogruppo Pd in commissione Istruzione del Senato, Cecilia D’Elia”. Si riferisce alla legge a prima firma di Rossano Sasso, già sottosegretario leghista all’Istruzione con il governo Draghi, prevede anche la modifica dell’articolo 336 del codice penale, riguardante la violenza o minaccia a un pubblico ufficiale e del 341-bis sull’oltraggio al pubblico ufficiale. In sostanza: la pena sarà aumentata “da un terzo a due terzi se il fatto è commesso nei confronti di un dirigente scolastico o di personale docente”. Nella realtà potrebbero finire in carcere dei minorenni. Chi sono, quanto guadagnano (e perché) gli youtuber delle sfide? di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 30 giugno 2023 Dopo il tragico incidente di Casalpalocco, occhi puntati sulle challenge: Google - che controlla YouTube - ha rimosso dal canale dei The Borderline tutti gli annunci pubblicitari. Questo significa che né “il collettivo” guidato da Di Pietro né la stessa Google potranno più “monetizzare” le visualizzazioni. Quando un bambino muore così, come è successo il 14 giugno a Casal Palocco, niente dovrebbe restare come prima. Non solo nella vita, straziata, della famiglia di Manuel. Non solo in quella di Matteo Di Pietro, il ventenne alla guida del suv che è andato a schiantarsi contro la smart di Elena Uccello. Non solo nel futuro dei The Borderline, gli youtuber protagonisti della gara di resistenza finita in tragedia: Google - che controlla la piattaforma video - ha rimosso dal loro canale tutti gli annunci pubblicitari. Questo significa che né “il collettivo” guidato da Di Pietro né la stessa Google potranno più “monetizzare” le visualizzazioni. In 6 mesi, i The Borderline, seguiti da oltre 600 mila persone, hanno fatturato quasi 200 mila euro. Se cliccate ora, compare una scritta bianco su nero: il gruppo si ferma, esprime “il massimo, sincero e più profondo dolore”, ammette che “nulla potrà mai più essere come prima”. Il “prima” sono le challenge, le sfide. Tipo: “vivo 50h in macchina”, “vivo 50h in una scatola”, “24ore sulla minizattera”. L’idea, come viene ribadito nel messaggio di addio, è/era “quella di offrire ai giovani un intrattenimento con uno spirito sano”. È sullo “spirito sano” che possiamo provare a riflettere affinché ci sia un “dopo” anche per noi. Diverso. Almeno nella scala della consapevolezza. Ispiratore e modello di comunità spregiudicate come The Borderline è Jimmy Donaldson, Mr Beast, che ha pochi anni di più (è nato nel 1998) ma numeri stupefacenti. Il suo è il primo canale al mondo per traffico che sia gestito da un individuo (secondo o terzo in assoluto). Ha raccontato di essere vissuto, da quando era teenager, nell’ossessione di YouTube di cui ha scandagliato i processi di viralità. Che cosa è in grado di catturare l’attenzione di Internet, bucando un’offerta affollata allo spasimo, superando la tentazione di staccare dopo una manciata di secondi? Che cosa ha la forza di uscire dai confini della piattaforma per rimbalzare su ogni piattaforma social? Mr Beast ha trovato la risposta. Lui offre al pubblico atti di indiscreta, esorbitante carità. Fa beneficenza: improvvisa, arbitraria, a volte assurda. E con questo salto “ideale” supera le challenge che hanno come obiettivo soltanto i record. Diventa un guru. Due esempi, tra tantissimi, su cui Donaldson ha costruito il suo profilo di santo laico della Rete. La consegna di 10.000 dollari a un senzatetto incontrato a bordo strada. L’operazione chirurgica, videodocumentata puntata per puntata, regalata a 1000 persone che rischiavano la cecità (seguiranno i sordi). Quello che conta, come hanno spiegato New York Times e New Yorker, è la moltiplicazione degli zero. Non 1 cieco ma 1000, non 1 ospite del canile ma tutti i cani adottati, non 1 clochard ma la sensazione che sia l’inizio di una serie. Non 1 milione di visualizzazioni, ma 195 (per i cani), 144 (per i ciechi), 434 (per una gara a Squid Game). Gli iscritti oltre 160 milioni. E ci sono stratagemmi incrementali: per ogni nuovo arrivo in piattaforma, 10 cents in più di donazioni. C’è una ruota che gira. Una ruota che - come un mulino - raccoglie e macina. Denaro. L’attenzione porta soldi (attraverso la pubblicità attivata da Google che, dal 2008, viene divisa più o meno a metà). I soldi innescano la charity. La charity genera contenuti. I contenuti attenzione. L’attenzione è partenza e approdo. Agli spettatori, guardanti e non paganti, viene chiesto di restare lì. L’audience è una commodity, in un rapporto esplicito. Nel campionato della generosità come in quello della repulsione, funziona l’esagerazione. Stesso meccanismo. Fino al demoniaco. Le esibizioni diventano esibizionismo: cene, resort, auto supercostose. E al lusso si accompagna l’irrisione - quasi stupore - per chi non va in corsia di sorpasso. Un andamento esponenziale, come in pandemia. Il contatore di pollici alzati conferma la matematica del contagio. A noi il ruolo di protagonisti della compulsione, che moltiplica quegli zero zero zero. Moltiplica i dollari che portano con sé il potere - o l’illusione - di trasformare il mondo. “Oro? Oro giallo, fiammeggiante, prezioso? - chiede Shakespeare nel Timone di Atene - (...) Ce n’è abbastanza per fare nero il bianco, brutto il bello, ingiusto il giusto, volgare il nobile”. Meloni: migranti, Ue sulle nostre posizioni. No di Polonia e Orbán di Francesca Basso Corriere della Sera, 30 giugno 2023 Morawiecki: serve l’unanimità. L’Ungheria: è una grande battaglia. Dal summit sostegno a Kiev. Borrell: Putin debole è più pericoloso. La discussione sull’immigrazione aggiornata a venerdì mattina. Polonia e Ungheria ci hanno provato fino all’ultimo, nella prima giornata del Consiglio europeo, a rimettere in discussione l’accordo sulla migrazione raggiunto l’8 giugno scorso a Lussemburgo dai ministri dell’Interno a maggioranza qualificata. “Sarà una lunga notte”, aveva twittato Balázs Orbán, direttore politico del premier ungherese Viktor Orbán, contestando il “testo pro-immigrazione”. Varsavia e Budapest hanno bloccato le conclusioni e chiesto di togliere il punto migrazione. Si è tentato a lungo di emendare il testo. Le discussioni sono proseguite fino all’1.10 del mattino quando i leader Ue hanno deciso di non adottare le conclusioni per la parte che riguarda la migrazione e rimandare il confronto su questo tema a venerdì mattina, insieme alla discussione sul tipo di relazioni da tenere con la Cina, l’economia e le relazioni esterne. Hanno adottato invece le conclusioni su Ucraina, sicurezza e difesa. La premier Giorgia Meloni, al suo arrivo al summit, aveva detto che “le conclusioni del Consiglio europeo sono un’ottima base di partenza, ci sono le posizioni dell’Italia”, così come i 12 miliardi in più per la migrazione nel bilancio Ue “sono un ottimo punto di partenza soprattutto se quelle risorse si concentrano sul Mediterraneo”. E il cancelliere tedesco Olaf Scholz si è detto “molto felice dell’accordo”. Il premier polacco Mateusz Morawiecki, che ha sottolineato l’”ottimo rapporto” con Meloni, ha invece chiesto che sulla migrazione si decida all’unanimità, come si era impegnato a fare il Consiglio europeo in passato. La premier, invece, guarda avanti: “Siamo davvero riusciti a cambiare il punto di vista, anche col contributo di altre nazioni - ha detto - dall’annosa divisione tra Paesi di primo approdo e Paesi di movimenti secondari a un approccio unico che risolve i problemi di tutti: la dimensione esterna”. Morawiecki ha presentato il suo piano “per le frontiere sicure”, che è un “no” a tutto inclusa l’imposizione di sanzioni per chi non accetta di aiutare i Paesi di primo ingresso. Varsavia ha ricordato di avere accolto oltre tre milioni di rifugiati e ha lamentato lo “scarso sostegno”. Il vicepremier Antonio Tajani nel suo intervento al pre-summit dei popolari ha sottolineato che “il Ppe è stato fondamentale per raggiungere l’accordo politico sul nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo”. Sul sostegno all’Ucraina l’Ue è stata compatta. Il Consiglio europeo è stato preceduto da una colazione con il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. Le conseguenze della rivolta del gruppo Wagner sono state al centro del confronto. La Polonia e i Baltici hanno manifestato preoccupazione per la Bielorussia ora che sta ospitando Prigozhin e per la retorica nucleare. L’Alto rappresentante Ue Josep Borrell ha detto che “un Putin più debole rappresenta un pericolo maggiore” mentre il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, in videocollegamento, ha replicato che “la debolezza della Russia la renderà sicura per gli altri e la sua sconfitta risolverà il problema di questa guerra”. Quanto al Mes, ieri il presidente dell’Eurogruppo Paschal Donohoe, intervenendo alla commissione Problemi economici del Parlamento Ue, ha spiegato di “rispettare e capire il punto di vista del governo italiano” che non vuole farne uso ma ha invitato Roma alla ratifica per permettere che le nuove funzioni “possano essere disponibili per altri governi dell’Eurozona”. Intanto ieri la commissione Esteri della Camera ha dato il via libera al ddl di ratifica del Mes con la decisione del governo di rimettersi alla posizione delle opposizioni. Francia. Violenza poliziesca, tra neoliberismo e autoritarismo di Giso Amendola Il Manifesto, 30 giugno 2023 La questione della violenza delle forze dell’ordine, senza perdere la sua dimensione specifica postcoloniale e di razza, sta sempre più allargandosi a questione democratica generale, sintomo della compenetrazione completa tra neoliberalismo e autoritarismo. Così lotte sociali e lotte antiautoritarie tendono a non separarsi più. Dopo l’uccisione di Nahel a Nanterre, ammazzato a freddo con un colpo di pistola da un poliziotto dopo che si era fermato a un posto di blocco, il tentativo di difendere l’indifendibile è durato poco. Le immagini video hanno fatto piazza pulita della narrazione dell’estrema destra, e di gran parte dei sindacati di polizia, che avevano cercato di tirare in ballo la consueta legittima difesa. Il tentativo menzognero di incolpare la vittima, abituale purtroppo come abituale è il tipo di evento, c’è comunque stato, prima che qualcuno cominciasse a pensare che non fosse ancora il caso di soffiare sul fuoco. E, insieme all’arsenale retorico sulla legittima difesa, si è immediatamente mobilitato anche il consueto apparato repressivo: schieramento dei reparti antisommossa e quartiere Picasso in stadio d’assedio “preventivo”. Davanti a un copione ormai diventato ordinario, la sorpresa inscenata dal governo e da Macron nei confronti dell’espandersi rapido della rivolta suona davvero fuori luogo. È chiaro, infatti, che i tentativi di ridurre l’episodio tutt’al più a una follia individuale della proverbiale “mela marcia”, non hanno più capacità di reggere di fronte a un’evidenza inaggirabile: le violenze poliziesche sono ormai avvertite dalle persone, e in primo luogo dalle persone razzializzate, come un dato che appartiene al loro quotidiano. Non è un caso che l’estrema destra trasformi la sua difesa “d’ufficio” tradizionale delle forze di polizia direttamente in un episodio della razzializzazione dello scontro interno, sfoderando immediatamente tutto l’ordine discorsivo sull’assedio e sulla paura dei “bianchi”, proclamando esplicitamente una legittima difesa di razza e di classe. C’è però un elemento importante di maturazione che emerge, analizzando rivolte e resistenze alla violenza di polizia: la trasformazione della resistenza delle persone razzializzate in un nodo di una rete sempre più fitta e diversificata di campagne e di lotte. In altre parole, la questione della violenza delle forze dell’ordine, senza perdere la sua dimensione specifica postcoloniale e di razza, sta sempre più allargandosi a questione democratica generale. Così la lotta alla violenza poliziesca è entrata, come elemento centrale e qualificante, nei cicli di movimento francese più recenti: dai Gilets Jaunes al movimento contro la riforma pensionistica. E non si è trattato solo della consueta campagna antirepressiva che ogni movimento sociale si trova prima o poi ad affrontare, quanto dell’assunzione del problema della violenza della polizia come sintomo della compenetrazione completa tra neoliberalismo e autoritarismo, e della conseguente definitiva scissione tra democrazia e liberalismo che questo comporta. Lotte sociali e lotte “antirepressive”, antiautoritarie e contro la violenza strutturale delle forze dell’ordine, tendono a non separarsi più, come voleva una tradizione di difficile convivenza tra lotte “economico-sindacali” e lotte contro gli apparati di Stato. Oggi i due aspetti, e in qualche misura anche i due diversi stili di lotta, cominciano a trovare una congiunzione molto più forte che in passato, seguendo del resto la scia dei movimenti americani, dove le campagne per sottrarre fondi alla polizia (Defund the police!) hanno alimentato sperimentazioni importanti su nuovi modelli di controllo sociale dal basso, sulla giustizia trasformativa oltre la sanzione penale, e più in generale su una nuova, intensa rivendicazione di democrazia “abrogazionista”, che chiede il superamento radicale delle attuali forme della polizia e del carcere. È presto evidentemente per capire se le rivolte contro la violenza poliziesca annuncino la ripresa immediata di un movimento forte e generalizzato in Francia: ma certo una dinamica nuova, almeno potenziale, le collega alle lotte sociali. Mentre la violenza sistemica delle forze dell’ordine rivela la crisi strutturale della “democrazia neoliberale” e la sua intrinseca contraddittorietà, la riappropriazione della democrazia, in tutta la sua portata e generalità, assume sempre più l’immagine dell’”intersezionalità delle lotte” lungo le linee di razza, classe e genere. Francia. “Il mito integrazionista è fallito. Parigi ora teme l’alleanza tra poveri bianchi e neri” di Antonio Alia Il Manifesto, 30 giugno 2023 Intervista alla giornalista francese di origine algerina Louise Yousfi: “La sinistra, in particolare France Insoumise, ha avviato una riflessione su autoritarismo di Stato e antirazzismo. Una novità: nel 2005 il movimento delle banlieue rimase isolato”. Louisa Yousfi, giornalista residente a Parigi e figlia di algerini immigrati, è autrice di “Restare barbari”, libro di grande successo in Francia e pubblicato di recente per i tipi di DeriveApprodi. Yousfi denuncia la violenza delle politiche assimilazioniste delle istituzioni francesi e descrive il conflitto che da almeno mezzo secolo infiamma le periferie d’oltralpe. Ci spiega cosa sta avvenendo nelle banlieue? Ancora una volta con “i selvaggi all’assalto dell’Impero”, per citare il sottotitolo dell’edizione italiana del suo volume... Uno degli assi fondanti del movimento decoloniale è la lotta contro le violenze della polizia nei confronti degli abitanti dei quartieri popolari, principalmente arabi e neri. A partire da questa violenza immediata, spettacolare, visibile si è costruita la consapevolezza che in Francia esistono dei cittadini di serie b, le cui vite non hanno lo stesso valore di quelle degli altri cittadini della Repubblica. Quello che è successo a Nanterre è soltanto l’ennesimo episodio del trattamento coloniale che la polizia riserva ai quartieri popolari. Ogni anno ci sono in media tredici morti per mano della polizia e il 90% sono neri o arabi. La differenza è che questa volta abbiamo le immagini di quello che è successo. Immagini forti che rendono difficile la difesa dei poliziotti. Prima della comparsa delle immagini, nella versione ufficiale, la vita dei poliziotti era in pericolo e si erano dovuti difendere. Si è però visto che non era solo un omicidio ingiustificato, c’era anche il tentativo di nasconderlo, che è quello che succede tutte le volte che non ci sono immagini: la polizia fa quadrato per nascondere i propri crimini. Restare barbari ci chiarisce come e perché le vite dei non bianchi sono inferiorizzate; quello che ho cercato di raccontare nel libro è la fine del mito integrazionista repubblicano secondo cui neri e arabi sono diventati francesi e si sono ritagliati un posto nella società. Nel 2005 Sarkozy chiamò “racaille”, feccia, i rivoltosi. Oggi lo Stato incrimina di omicidio il poliziotto che ha sparato a Nahel: cosa è cambiato? La condanna istituzionale dell’omicidio è inconsueta. C’è il concreto timore che la situazione degeneri. Per tutta la notte nell’intera Francia ci sono state rivolte molto estese e violente. Ma va anche ricordato che il paese è reduce dal movimento contro la riforma delle pensioni che ha mobilitato milioni di persone. Il grande timore è quello di cui parla Houria Bouteldja nel suo libro Boeufs et barbares: un’alleanza tra le classi popolari bianche della sinistra e quelle delle banlieue. Un’alleanza inedita e pericolosa, resa possibile dalla forte opposizione al potere espressa da entrambe: in questa situazione lo Stato è pronto a “sacrificare” un poliziotto per calmare le acque. Inoltre le Olimpiadi del 2024 si terranno proprio nella regione parigina, dove sono situate le banlieue e quindi c’è in gioco anche l’immagine internazionale della Francia. Su quali basi si sta costruendo questa alleanza tra “barbari” e “bifolchi”? Oggi nessuno legittima la criminalizzazione della vittima che si è invece vista in passato; tutti dicono che non importa quale fosse la sua condotta, non meritava di morire perché viviamo in uno stato di diritto. È un discorso molto importante e grazie al lavoro fatto dal movimento decoloniale negli ultimi quindici anni oggi c’è una grande preparazione e capacità di mobilitazione contro le violenze poliziesche. In questo lasso di tempo questo è stato il fronte strategico più importante della politica antirazzista. Da parte sua la sinistra, in particolare quella rappresentata da France Insoumise di Mélenchon, ha avviato una riflessione su antirazzismo, autoritarismo di Stato e violenza poliziesca e si dice pronta a difendere gli interessi dei quartieri popolari. È una novità che la sinistra sia pronta a rompere il patto autoritario e ad accogliere le rivolte. Non fu così nel 2005, quando il movimento delle banlieue rimase isolato. Solo alcune frange dell’estrema sinistra espressero una timida solidarietà, mentre la sinistra istituzionale chiedeva repressione. Oggi è quest’ultima a dire, attraverso Mélenchon, che non farà appelli alla calma e che solidarizza senza riserve con i rivoltosi. La marche blanche a Nanterre (di ieri pomeriggio, ndr), per rendere omaggio al ragazzo ucciso, è stata piena di collera, tanto da essere anche una manifestazione politica e di rivendicazione che certo non si esaurirà. Tutte le frange antirazziste della sinistra e della estrema sinistra si sono espresse in maniera solidale. Anche l’organizzazione “Soulevement de la terre”, un movimento bianco ed ecologista molto forte, ha partecipato alla marcia di Nanterre. C’è dunque un blocco a sinistra che si sta ricostituendo. Bisogna essere prudenti, ma può crearsi un’alleanza tra quelli che noi chiamiamo “boeufs” e “barbares”, cioè tra è bianchi della classe popolare e i neri e gli arabi delle banlieue. Gran Bretagna. Stop all’invio dei migranti in Rwanda: “Non è un paese sicuro” di Stefano Mauro Il Manifesto, 30 giugno 2023 La sentenza della Corte d’appello. Che apre però alla possibilità di attuare la legge se Kigali rettificherà “i difetti nel suo processo di asilo”. Sunak: “Ci appelleremo alla Corte suprema”. I “Il Rwanda non è un paese terzo sicuro”. Questa è la conclusione della Corte d’Appello britannica che rende illegale il progetto di rimpatrio obbligatorio nei confronti di migranti clandestini voluto dall’allora primo ministro conservatore Boris Johnson e sostenuto dall’attuale premier Rishi Sunak. I tre giudici dell’Alta Corte di Giustizia hanno indicato, in una sentenza di 160 pagine, il rischio per i richiedenti asilo in un paese “non sicuro”, con la concreta possibilità che “i migranti vengano rimandati nel loro paese di origine in attesa della revisione della loro richiesta”. Tuttavia, il tribunale lascia la porta aperta per l’attuazione della politica, se Kigali rettificherà “i difetti nel suo processo di asilo”. A dicembre l’Alta Corte aveva però convalidato il testo, prima di autorizzare un ricorso. L’opposizione, che non è riuscita a bloccare il progetto in Parlamento, lo ritiene “impraticabile, disumano e troppo costoso”. A inizio settimana infatti il ministero dell’Interno ha stimato il costo del trasferimento per ogni richiedente asilo: circa 200mila euro a persona, molto più caro di quanto costerebbe l’alloggio nel Regno unito. La sentenza di ieri sul controverso piano del governo britannico per “inviare” i richiedenti asilo in Rwanda è frutto del ricorso presentato all’Alta Corte di Giustizia britannica da diversi gruppi per i diritti dei migranti, in particolare Care4Calais e Detention Action, nonché del sindacato dei servizi pubblici e commerciali, che rappresenta il personale di frontiera che dovrà far rispettare la legge. I querelanti hanno da sempre considerato il provvedimento dell’ex premier Johnson “illegale e immorale” ed hanno attivato una serie di azioni legali che hanno costretto il governo inglese ad annullare il primo volo di espulsione, programmato lo scorso 14 giugno 2022. Nell’aprile 2022, il governo britannico aveva annunciato un accordo con il paese africano in base al quale “qualsiasi migrante entrato illegalmente in Gran Bretagna potrà venire mandato in Rwanda, indipendentemente dal suo background e dalla sua nazionalità, per attivare la sua richiesta di asilo”. In cambio di questo “servizio”, Londra ha firmato aKigali un grosso assegno da 140 milioni di euro. Il Rwanda, paese a sua volta segnato dalla guerra civile e dall’esilio, si è posizionato da diversi anni nella nicchia del subappalto di rifugiati per i paesi occidentali: quello che le Ong hanno definito “l’esternalizzazione dell’asilo”. Una tendenza attualmente in crescita: è possibile un accordo anche con il governo danese, al quale in cambio di consistenti finanziamenti Kigali promette “di integrare i richiedenti asilo nel suo sistema educativo e di offrire loro un nuovo futuro e lavoro”. Secondo le associazioni umanitarie e la società civile inglese sono numerosi i dubbi sulla “legalità del provvedimento e la successiva sorte degli immigrati inviati in Rwanda”, visto che già nel 2013 un accordo simile con Israele è stato rapidamente abbandonato quando si è saputo che “i rifugiati erano stati detenuti, altri picchiati in prigione” e, secondo l’Ong Human Rights Watch, molti “avevano pagato i trafficanti per lasciare il Rwanda”. Da parte sua il governo conservatore inglese ha affermato che si appellerà contro questa decisione. “Rispetto la corte, ma fondamentalmente non sono d’accordo con le sue conclusioni - ha commentato Sunak - per noi il Rwanda rimane un ottimo partner e ci appelleremo alla Corte Suprema per far valere le nostre decisioni”. La svolta dell’Onu: un organismo indipendente indagherà sui 130 mila “desaparecidos” siriani di Paolo Brera La Repubblica, 30 giugno 2023 In assemblea generale 83 voti favorevoli, 11 contrari (tra cui Russia e Cina) e 62 astensioni. Molti potrebbero essere ancora detenuti nelle carceri di Damasco dai tempi della guerra civile. Ci sono voluti dodici anni, un’infinità di dolore e la denuncia compatta dei parenti delle vittime e di un centinaio di organizzazioni umanitarie ma alla fine il carrozzone dell’Onu è riuscito a percorrere quella piccola grande tappa così a lungo attesa: con 83 voti favorevoli, 11 contrari e ben 62 astenuti l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha approvato la risoluzione che istituisce un organismo indipendente incaricato di indagare sulla sorte di 130 mila persone che si calcola siano scomparse in Siria durante la guerra civile. E’ un voto storico che ascolta la richiesta dei parenti delle vittime, preoccupati che in nome del nuovo clima di parziale riapertura nei confronti del regime siriano sancita dalla riammissione nella Lega Araba si dimenticassero i crimini commessi. Una vergogna in gran parte (ma non esclusivamente) ascrivibile al governo siriano, che non a caso ha votato contro la risoluzione. Il dramma dei desaparecidos siriani è figlio della rivoluzione e della guerra civile siriana iniziata nel 2011: gli arresti, le torture e le sparizioni improvvise sono lo strumento utilizzato per reprimere le proteste, sopprimere il dissenso ed eliminare ogni minaccia interna. Lo ha utilizzato largamente il regime di Assad, ma lo hanno utilizzato anche le fazioni ribelli. Una settimana fa, alla vigilia di un voto molto atteso, nove organizzazioni siriane che raccolgono le famiglie degli scomparsi e una decina di famiglie avevano scritto un appello insieme a 101 organizzazioni per la difesa dei diritti umani siriane e internazionali chiedendo che venisse approvata la risoluzione. “Per più di dieci anni le famiglie dei dispersi hanno affrontato enormi difficoltà nell’ottenere qualsiasi informazione sulla sorte dei loro cari, una questione che tutte le parti in conflitto non sono state disposte ad affrontare lasciandoli in uno stato di perpetua agonia e incertezza”, aveva denunciato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, chiedendo all’Onu di “aiutarli a trovare alcune delle risposte che meritano”. Il voto degli 11 paesi contrari (Bolivia, Cina, Cuba, Bielorussia, Corea del nord, Eritrea, Iran, Nicaragua, Russia, Siria e Zimbabwe) è una mappa del sovranismo autarchico, e chi ha scelto di astenersi ha motivato la decisione dicendo che “strumentalizza politicamente l’assistenza umanitaria e non contribuisce alla pace nella regione”, come ha dichiarato per esempio il Venezuela secondo cui il voto “risponde all’agenda politica dei suoi promotori, incoraggia la divisione e va contro i principi della Carta delle Nazioni Unite”. L’ambasciatore siriano Bassam Sabbagh ha definito la risoluzione “politicizzata” chiedendo che venisse respinta come “flagrante interferenza negli affari interni siriani” e come ennesima prova di un “approccio ostile” degli Usa e dei Paesi occidentali. La tesi siriana è che Damasco abbia già affrontato la questione elaborando tutte le richieste di informazioni presentate alle autorità e svolgendo “indagini indipendenti in conformità con la legge siriana e sulla base delle informazioni e delle risorse disponibili”. “Anche con una cooperazione iniziale limitata o nulla da parte di Damasco, crediamo che questa istituzione farà progressi significativi”, ha tagliato corto il vice ambasciatore degli Stati Uniti, Jeffrey DeLaurentis. Il fatto che i voti contrari abbiano raccolto solo 11 adesioni è un segno di quanto fosse indifendibile la tesi di una strumentalizzazione politica di fronte a una tragedia immane e alla voce disperata di decine di migliaia di famiglie che non sanno neppure se i loro congiunti siano ancora vivi, in qualche segreta del regime o nelle mani dei non meno feroci ribelli islamisti. Il nuovo organismo avrà il compito di registrare ufficialmente i casi raccogliendo le informazioni e coordinandosi con altri meccanismi già esistenti. Ne saranno rappresentate le vittime accertate, i sopravvissuti e le famiglie dei dispersi. Il segretario dell’Onu, Antonio Guterres, deve adottare le misure necessarie a istituire rapidamente l’organismo e a metterlo in funzione, ed entro 100 giorni lavorativi dovrà riferire sulla sua attuazione. Le famiglie e i sopravvissuti avevano chiesto aiuto in questi anni senza mai riuscire a scalfire le coscienze di chi aveva il potere di offrirglielo. La battaglia è stata lunga, come sempre quando a muoversi è il colosso dell’Onu paralizzato dai veti incrociati. Ma a agosto dello scorso anno Guterres propose la creazione di un’istituzione indipendente, e fu una svolta di cui ora si vedono i risultati. “La stragrande maggioranza dei desaparecidos è detenuta in condizioni orribili nelle carceri del regime di Assad, ed è tagliata fuori da ogni contatto con il mondo esterno”, ha denunciato The Syria Campaign secondo cui “il ritorno di Bashar Al-Assad nella Lega Araba e la sua riabilitazione sulla scena diplomatica” rendono “cruciale” mantenere i riflettori accesi sui “crimini contro l’umanità” commessi in questi 12 anni, tra cui “le sparizioni forzate di massa”. L’Italia, che ha votato a favore, non ha mai avuto esitazioni a schierarsi: a marzo il rappresentante permanente presso l’Onu, l’ambasciatore Vincenzo Grassi, era intervenuto alla 52ma sessione del Consiglio diritti umani sostenendo la richiesta di Guterres e riaffermando “la preoccupazione dell’Italia per i casi di detenzione arbitraria, tortura e sparizioni forzate, nonché di violenza sessuale e di genere segnalati in Siria”. In questi dodici anni di conflitto sono state uccise mezzo milione di persone, e ci sono più di 11 milioni di sfollati su una popolazione di 23 milioni. Pakistan. Persecuzioni verso la comunità islamica degli Ahmad di Luca Attanasio La Repubblica, 30 giugno 2023 Fondata nel 1889 nell’attuale Punjab indiano da un mistico musulmano è una comunità religiosa presente in oltre 180 Paesi nel mondo, con circa 100 milioni di fedeli. Sono 100 milioni nel mondo, sparsi in ogni continente, radicati in ogni area geografica, ma lontani dai loro luoghi d’origine che è la zona al confine tra Punjab e Pakistan, dove sono duramente perseguitati: imprigionati per blasfemia, abusati, uccisi perché considerati un’eresia dell’Islam. In realtà dell’Islam sono interpreti fedeli, ne seguono fedelmente i principi e professano un ritorno alle origini fatto di purezza, non violenza e promozione di giustizia e diritti. Sono questo e molto di più gli Ahmadi. Una comunità religiosa internazionale. Fondata nel 1889 a Qadian, nell’attuale Punjab, India, da Hazrat Mirza Ghulam Ahmad, un mistico musulmano autore di oltre 90 testi, l’Ahmadiyya Muslim Jama’at è una comunità religiosa internazionale, attualmente presente in oltre 180 paesi nel mondo, che conta circa 100 milioni di fedeli. Conosciuta ovunque per il motto “Amore per tutti, odio per nessuno” e unita sotto un’unica guida spirituale - attualmente Sua Santità Mirza Masroor Ahmad il V successore - la comunità Ahmadiyya professa una fede che si basa, oltre che ovviamente sul Corano sugli insegnamenti del profeta Muhammad, sull’assunto che l’Islam - al pari delle altre religioni rivelate - sia stato creato per assicurare i diritti e le libertà dell’umanità, per proclamare il rifiuto della violenza e per costruire una società pacifica, mai bellica. Uniti nell’idea di pace. Tra il 16 e il 18 giugno scorsi, la componente italiana della comunità Ahmadiyya - un migliaio di fedeli - si è radunata a San Pietro in Casale, Bologna, dove ha sede il centro principale, per celebrare la Jalsa Salana, il raduno che ogni comunità nel mondo organizza una volta all’anno. “La Jalsa - spiega l’Imam della Comunità Ahmadiyya italiana Ataul Wasih Tariq - è più che un semplice evento. È un’incarnazione tangibile della nostra aspirazione all’unità, alla pace e alla fraternità universale. Questa quindicesima edizione ha accolto oltre 400 partecipanti provenienti da ogni angolo d’Italia con rappresentanti di più di 15 diverse nazionalità. Ciò dimostra che, nonostante le differenze culturali, etniche e geografiche, tutti noi possiamo unirci sotto l’egida della pace e della fratellanza universale”. Non violenza e uguaglianza. A frequentarli, fin dall’inizio si notano alcune caratteristiche che spiccano, l’approccio radicalmente non violento, riassunto dal motto-mantra “Amore per tutti, odio per nessuno”, e un concetto paritetico del ruolo delle donne nella comunità. Questi due principi, molto sentiti dai membri, sono praticati nella vita di tutti i giorni. “Le caratteristiche di non violenza e di eguaglianza tra i sessi sono pilastri essenziali dell’Ahmadiyya - riprende l’Imam - sono principi sono profondamente radicati nella nostra teologia”. Pesanti persecuzioni nel loro Paese. Nonostante il loro radicale rifiuto della violenza, o forse proprio per questo, così come per il ruolo paritetico delle donne, gli Ahmadi sono gravemente perseguitati in Pakistan e in altre aree dove l’Islam fondamentalista è predominante. Per questo sono sostanzialmente una comunità in permanente esodo che riesce, però, lì dove si insedia, a integrarsi e a stabilire una presenza pacifica. Il progetto di radicarsi in Italia. “Ma noi - dice ancora Ataul Wasih Tariq - oltre a denunciare le continue vessazioni, perseveriamo nella nostra fede nella non-violenza. E puntiamo a essere una presenza pacifica lì dove scegliamo di vivere. È per questo che coltiviamo sogni riguardo la nostra presenza in Italia. Stiamo pianificando l’acquisto di ulteriori proprietà in diverse città italiane, per garantire che ciascuna delle 15 diverse congregazioni presenti in tutto il Paese abbia un centro dedicato. Questo ci permetterà di continuare le nostre missioni umanitarie e di offrire un luogo accogliente a coloro che desiderano capire meglio l’Islam e la nostra comunità”.