In quel ragazzo che ha fatto del male alla professoressa io mi rivedo Ristretti Orizzonti, 2 giugno 2023 L’anima del progetto che mette in dialogo le scuole e il carcere mira a prevenire episodi come quello di Abbiategrasso, dove uno studente, armi in pugno, si è scagliato contro la professoressa che era lì per lui. Era lì per lui. Per prepararlo ad affrontare il futuro, per trasmettergli conoscenze che lo avrebbero aiutato a superare le insidie che la vita ti presenta quando il periodo della spensieratezza lascia spazio al mondo degli adulti. Era lì per lui, e sono sicuro che quella professoressa tornerà al suo posto per tutti gli altri suoi ragazzi, perché credo che, nonostante le difficoltà proprie della sua professione, non li abbandonerà. Io, invece, ero come lui, un ragazzino ribelle, violento, aggressivo, sprezzante delle regole e totalmente incosciente del fatto che tutte quelle persone che erano lì per me, come i professori, gli allenatori e i famigliari, cercavano in ogni modo di indirizzarmi verso lo studio, la cultura e la conoscenza. Oggi, anche se l’ho capito molto tardi, non riesco a fare a meno di pensare a tutti quei ragazzi in difficoltà, come il protagonista di questa drammatica vicenda, e li esorto, attraverso queste poche righe che voglio scrivere dal carcere, a chiedere aiuto e a parlare di tutto quello che provoca in loro quel malessere che sfogano poi con questi gesti di estrema violenza. Ero come loro “ieri”. Oggi sono un condannato all’ergastolo che, grazie allo studio, alla scuola e alla cultura, cerca di adoperarsi per il bene di quei ragazzi, offrendo loro la testimonianza di uno che si è perso i migliori anni della propria vita, passando da un carcere all’altro a causa di un’infinità di scelte sbagliate e atteggiamenti che, con il passare del tempo, mi hanno portato ad alzare il rischio e la posta in gioco, fino a farmi perdere la mia stessa vita, causando un dolore immenso e irreparabile a tantissime persone. E’ per questo che continuerò a seguire quel bellissimo progetto che la Redazione di Ristretti Orizzonti mi ha fatto conoscere, continuando ad invitare le istituzioni a rendere strutturale e obbligatoria per tutti gli studenti una partecipazione ad incontri con chi, nel corso della propria adolescenza, si è reso protagonista di comportamenti devianti. Tali incontri favoriscono un dialogo ed un confronto diretto, permettendo in questo modo ai ragazzi di conoscere e di “toccare con mano” le conseguenze reali che determinati atteggiamenti comportano e che in particolari situazioni possono renderli partecipi di atti irreparabili. Concludo questo scritto augurandomi che le istituzioni non si facciano prendere la mano, strumentalizzando un dramma e punendo severamente quel ragazzo, e spero che il ministro Valditara incontri anche lui, porgendo la mano a un adolescente che, come tanti altri, ha bisogno di aiuto. *Testo di un giovane ergastolano, redattore di Ristretti Orizzonti Perdono, pentimento. I rischi di una giustizia penale “privata” di Franco Corleone L’Unità, 2 giugno 2023 Invece di avviare una campagna per superare il carcere come discarica sociale e limitarlo ai reati gravi, ci si concentra sulle magnifiche sorti e progressive della giustizia ripartiva: una grande distrazione di massa. Il contributo di Andrea Pugiotto “Le ragioni delle vittime e quelle del diritto”, pubblicato sull’Unità il 20 maggio, spinge a una riflessione seria rispetto a nuovi paradigmi che si stanno imponendo e che mettono a rischio la matrice laica, liberale e garantista del diritto penale. L’avvertimento di esordio rende bene la preoccupazione: “La memoria dei propri lutti e delle proprie ferite è del tutto personale. Per alcuni è un rapporto riappacificato, per altri è fonte di un rancore inestirpabile. Proprio in questi casi la voce delle vittime si salda con lo spirito del tempo dominato dal risentimento, che è il carburante del populismo penale”. Recentemente Tamar Pitch, con il suo libro “Il malinteso della vittima”, ha offerto nuovi materiali per uscire dal dominio del paradigma vittimario. Nel 2019 come Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Toscana organizzai un convegno dedicato alla rilettura del pensiero di Alessandro Margara, “Carcere e giustizia. Ripartire dalla Costituzione”, e nella sessione Moralità e diritto si confrontavano proprio Tamar Pitch e Andrea Pugiotto con le relazioni intitolate “Il protagonismo della vittima” e “Pensare altrimenti il paradigma vittimario”. Proprio una frase di Tamar Pitch aiuta a comprendere il groviglio concettuale che deve essere sciolto: “E tuttavia, rivolgersi alla logica e al linguaggio del penale per vedere riconosciute le proprie ragioni o addirittura la propria soggettività politica, eleva precisamente la giustizia penale, nazionale e internazionale, a soluzione principe di tutti i problemi, a scapito della politica Ciò che si rischia è non solo un panpenalismo, ma anche la reiterazione senza fine dello statuto di vittima, laddove il processo penale non può che produrre delusione rispetto alla propria aspettativa di risarcimento narcisistico assoluto”. Ho ripreso in mano il volume che raccoglie gli atti e che rimane una pietra su cui fondare qualsiasi ipotesi di riforma, grande o piccola, della concezione della pena e del carcere. Negli ultimi tempi, si ascoltano dotte disquisizioni sulla giustizia riparativa prossima a venire, che dovrebbe realizzare un mondo nuovo e una giustizia penale alternativa a quella che oggi conosciamo. Queste riflessioni mi sembrano rappresentare soltanto una distrazione di massa promossa proprio da coloro che dovrebbero essere protagonisti della contestazione della crisi che si aggrava Dimenticati i tredici morti dell’inizio della pandemia nel carcere di Modena, archiviati gli 84 suicidi nei penitenziari italiani dell’anno scorso, trascurati i tanti processi per tortura e violenze nel carcere, invece di avviare una campagna per superare il carcere come discarica sociale e limitarlo ai reati gravi, ci si concentra sulle magnifiche sorti e progressive che potrà produrre l’attuazione della giustizia ripartiva. Preliminarmente, mi viene da dire che meglio sarebbe usare il termine di giustizia restitutiva o rigenerativa, eliminando una connotazione di contrattazione e rafforzando il principio costituzionale della pena orientata alla risocializzazione. Meglio ancora sarebbe parlare di giustizia di riconciliazione o di ricucitura, sapendo che sarebbe destinata a pochi casi, ma importanti dal punto di vista simbolico. Le commissioni per la verità e la riconciliazione, l’esempio più noto e efficace è quello del Sudafrica, hanno avuto valore per lo scopo di evitare un clima di vendette e di ricorso a guerre civili. Un esempio italiano di ricerca di dialogo tra protagonisti della lotta armata è testimoniato dal volume “Il libro dell’incontro” curato da Adolfo Ceretti e dagli incontri organizzati da Ornella Favero di Ristretti Orizzonti. I decreti attuativi della riforma Cartabia sono attesi per fine giugno e l’esperimento della giustizia riparativa entrerà a pieno titolo nel processo penale ordinano con caratteri diversi dalla esperienza del minorile; infatti l’invito a tentare la mediazione spingerà il reo a valutare l’interesse personale attraverso la confessione e mettendo in imbarazzo la vittima. L’accertamento della violazione della legge, che riguarda lo stato e la società, passerà in secondo piano rispetto a un rapporto di giustizia privata. Non sappiamo se questa dimensione inciderà sulla pena o sui possibili benefici, ma certamente la dimensione del pentimento e del perdono diverranno centrali e, nel caso di reati gravi, susciteranno notevoli perplessità. D’altronde, i casi di violazione della legge antidroga che rappresentano una percentuale altissima dei reati e degli ingressi in carcere, essendo reati senza vittima, resteranno fuori dal nuovo ambito e così molti reati bagatellari che saranno forse risolti con il ricorso all’istituto della Messa alla Prova (la cosiddetta MAP con un progetto che porta alla cancellazione del processo) e alla possibilità del giudice della cognizione di disporre direttamente sanzioni alternative. Il rischio è che si produca tanto rumore per nulla, mettendo in campo uno stuolo di mediatori assunti con contratti precari da 29 fantomatici Centri privati della giustizia riparativa accreditati dalle Conferenze regionali presso le sedi di Corte d’Appello, creando doppioni, invece di rafforzare gli Uffici per l’esecuzione penale esterna (Uepe) che sono già carenti di operatori. Forse sarebbe opportuno pensare a un momento di discussione pubblica per mettere ordine nel catalogo delle sanzioni alternative e per cercare di evitare di produrre un conflitto tra gli ultimi e i penultimi. La giustizia già oggi discrimina per classe. Basti pensare che con uno stesso reato c’è chi può accedere alla MAP e chi va in galera ed è destinato a scontare la pena fino all’ultimo giorno in condizioni di sovraffollamento che trasformano il reo in vittima. Mi viene in mente il pensiero di Aldo Moro, giovane giurista che suggeriva di cercare non tanto un diritto penale migliore ma qualcosa di meglio del diritto penale e che nelle “Lezioni di filosofia del diritto” auspicava la liberazione dal diritto come la più alta forma di libertà. Va anche ricordato che sempre Moro nelle lezioni sulla “Funzione della pena” tenute nel 1976 all’Università di Roma, due anni prima di essere assassinato, affermava la netta contrarietà alla pena di morte e soprattutto all’ergastolo in quanto la pena non può contraddire l’obiettivo della rieducazione prevista dalla Costituzione e ammoniva gli studenti: “Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati”. Ma la considerazione più originale di Moro è quella per cui il delitto è legato alla libertà e quindi comporta la responsabilità, con l’attribuzione di una pena commisurata al reato e che non aggiunga sofferenza a quella della perdita della libertà. Probabilmente anche l’istituzione del giudice di pace rappresentò una occasione mancata, perché invece di scegliere una forma di giudice dell’equità se ne fece una caricatura del giudice ordinario. In conclusione, mi preoccupa che la retorica della giustizia riparativa nasconda la sempre più grave condizione del carcere, senza educatori e senza direttori, in cui il diritto alla salute non è tutelato, l’alimentazione è affidata a imprese che non garantiscono qualità adeguata, in cui i diritti costituzionali come quello alla affettività sono violati e in cui il Regolamento del 2000 è disapplicato. Ci sarebbe un modo di praticare la giustizia di comunità senza retorica: istituire le “Case di reintegrazione sociale” secondo la proposta di legge n. 1064 presentata alla Camera da Riccardo Magi, strutture di piccole dimensioni diffuse sul territorio per i detenuti con un fine pena inferiore ai dodici mesi e affidate alla direzione dei sindaci, con una vera prova di reinserimento sociale con tanti attori a partire dal volontariato. Una risposta a chi ha proposto provocatoriamente lo stravolgimento dell’articolo 27 della Costituzione, pilastro di un diritto che si richiami a Cesare Beccaria. Carcere, Antigone mostra il trend della vergogna di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 2 giugno 2023 C’è qualcuno che, al Governo del nostro Paese, abbia letto il rapporto di Antigone sulle carceri italiane? Sono semplici dati, descrittivi di una emergenza democratica e civile che solo persone irresponsabili potrebbero continuare ad ignorare. Se c’è chi ha da confutarli lo faccia, ma ignorarli è impossibile, salvo che la Politica non voglia deliberatamente venire meno alle proprie inderogabili responsabilità. L’indice di sovraffollamento continua ad aumentare, con punte degne delle carceri sudamericane: Tolmezzo 190%, San Vittore 179%, Bergamo 178%, per fare solo qualche esempio. Ma è il dato strutturale che ci fa capire l’ineluttabilità di questo trend della vergogna: mentre la capienza nel 2022 è aumentata dello 0,8%, le presenze sono aumentate quasi del 4%. L’età media dei detenuti aumenta a vista d’occhio, con le ovvie ricadute sulla gestione del diritto alla salute: il 30% della popolazione detenuta è over 50, mentre sono raddoppiati (1.100) gli over 70 (e meno male che la norma preveda in tal caso di privilegiare la detenzione domiciliare!). Le condizioni nelle quali versano i detenuti dovrebbero farci vergognare, sempre che ce ne importi qualcosa: nelle nostre carceri, il 40% delle quali sono edifici costruiti in un arco di tempo che va dal 1800 al 1950, il 45% di quelle celle sovraffollate sono prive di acqua calda, il 12,4% sono prive di riscaldamento, il 56% sono prive di docce. Nel 35% di esse, non è garantito lo spazio minimo dei 3 mq (tre!) imposto dalle regole europee, e prima ancora dal senso di decenza e di rispetto minimo della dignità umana. Ma il dato a mio parere davvero esplosivo dal punto di vista della politica carceraria, che interroga le responsabilità del Parlamento e del Governo sulle strategie di fondo, ammesso che ve ne siano, riguarda l’entità delle pene che i detenuti definitivi stanno scontando. I detenuti che devono scontare oltre 20 anni di pena sono il 6,6%; gli ergastolani il 4,8%; quelli con un residuo pena inferiore a tre anni sono il 51%, mentre un altro 18% deve scontare pene inferiori ad un anno. Cosa significa questo? Che quasi il 70% dei definitivi hanno diritto di chiedere, e se meritevoli di ottenere, forme di detenzione alternative al carcere. Ma i Tribunali di Sorveglianza sono letteralmente travolti dai fascicoli, e prima ancora il personale che deve “osservare” e relazionare sui detenuti, è drammaticamente insufficiente (a Regina Coeli, per dire, un solo educatore ogni 300 detenuti). Al contempo, ascoltatemi, c’è un esercito (quasi centomila!) di c.d. “liberi sospesi”, cioè condannati definitivi a piede libero, che devono scontare la pena (inferiore a 4 anni), e che attendono (da anni e per anni) di sapere dai rispettivi Tribunali di Sorveglianza se dovranno farlo in carcere o ai servizi sociali. Fatevi una risata: secondo i fautori della teoria “certezza della pena=carcere”, dovrebbero tutti aggiungersi agli attuali detenuti. Non credo di dover aggiungere altro. Dunque, anche un bambino di media intelligenza capisce che lo snodo cruciale è, da subito, organizzare e investire massicciamente su serie, efficienti e controllate misure alternative al carcere, destinandovi denaro, personale, strutture adeguate. Per tre anni, la vasta comunità di magistrati, avvocati, accademia, operatori carcerari, riunita negli Stati Generali della Esecuzione penale, ha affrontato la questione, infine producendo (2016) soluzioni di formidabile qualità tecnica. Sono articolati già pronti, a lungo discussi e condivisi da chi sa di cosa si stia parlando. Basterebbe che almeno il Ministro Nordio facesse una chiacchierata con chi presiedette quei lavori, il Prof. Glauco Giostra. Sempre che si abbia voglia di affrontare sul serio la questione, e non si voglia invece continuare con slogan insensati tipo “garantisti nel processo, giustizialisti nell’esecuzione della pena”. Leggete quei numeri, e poi domandatevi: ma che diavolo significa? Carcere in numeri, ristretti e ammucchiati di Valentino Maimone La Ragione, 2 giugno 2023 Non è facile parlare di carcere in Italia. Ti prendono per disfattista, buonista, garantista peloso. L’unico modo per disarmare l’interlocutore di quelli che “Butterei via la chiave”, “Credono di stare al grand hotel?” e “Potevano pensarci prima” è far parlare i numeri. I migliori sono quelli di Antigone, che li raccoglie ogni anno monitorando decine di penitenziari su tutto il territorio nazionale e li pubblica in un rapporto che lascia ben poco margine a contestazioni strumentali. L’ultimo è appena uscito e già nelle sue prime pagine contiene un dato che si fa fatica a mandar giù come se niente fosse: dei 97 istituti di pena visitati nel corso del 2022 dagli osservatori di Antigone, il 20% è stato costruito fra il 1900 e il 1950. E un altro 20% addirittura nel XIX secolo. In strutture con una carta d’identità del genere lo Stato stipa ogni anno sempre più persone, fingendo di dimenticare la capienza ufficiale di 51.249 posti e i 3.646 spazi non disponibili per motivi vari: ad aprile di quest’anno i detenuti presenti erano 5.425 in più del dovuto. Si chiama sovraffollamento e il tasso medio nazionale è al 119%: vuol dire che circa il 20% dei detenuti viene sistemato in condizioni precarie. Una situazione che in alcune regioni raggiunge livelli intollerabili: in Lombardia è al 151,8%, in Puglia al 145,7%, in Friuli Venezia-Giulia al 135,9%. Ci sono carceri zeppe da far spavento: il primato assoluto spetta a Tolmezzo, in provincia di Udine, con il 190% di sovraffollamento. Ma anche San Vittore a Milano e gli istituti di Varese e Bergamo non scherzano (tutti sopra il 178%). Con questi numeri, se non siamo ultimi in Europa è soltanto perché ci sono Cipro e Romania capaci di far peggio di noi. Nonostante tutto, negli ultimi dodici mesi i posti a disposizione sono aumentati. Ma la percentuale, già di per sé irrisoria (+0,8%), non può bastare a tenere botta all’incremento dei detenuti, che è stato di quasi cinque volte superiore (+3,8%). La causa numero uno di questo boom di presenze non è una novità: come sempre è la custodia cautelare, che pesa per un 26,6% sul totale delle presenze dietro le sbarre. Significa che dentro le nostre carceri ci sono oltre 14mila detenuti in attesa di sentenza definitiva, dunque tecnicamente ancora non colpevoli e potenzialmente destinati a incrementare il numero delle vittime indennizzate per ingiusta detenzione (539 nel 2022, secondo Errorigiudiziari.com). Almeno c’è una buona notizia: la percentuale di persone in carcerazione preventiva continua a scendere, se è vero che undici anni fa era del 40,8% e che soltanto negli ultimi tre anni ha perso altri 3 punti percentuali. Peccato però che ci si ostini ad applicare soprattutto la custodia cautelare in carcere (500 misure in più rispetto all’anno precedente), a scapito degli arresti domiciliari senza braccialetto elettronico (-1.500). Unico, piccolo motivo di conforto: i domiciliari con braccialetto sono passati dai 2.808 del 2021 ai 3.357 dell’anno scorso. Dal 1983 qualcosa è cambiato? “Il sogno è Bollate, perché lì puoi studiare e impari un mestiere” di Daniele Mencarelli Sette - Corriere della Sera, 2 giugno 2023 Dalla Casa circondariale di Reggio Calabria, dove ragazzi e uomini adulti vengono alfabetizzati come bambini di 6 anni, ai “Caraibi” delle prigioni dove ti insegnano un lavoro. Il racconto di uno scrittore fatto dall’interno. È una piramide rovesciata. I luoghi in cui prendono vita le nostre istituzioni, da quella sanitaria alla scolastica, passando per la giudiziaria e poi l’amministrativa, rappresentano in modo fedele lo stato dell’arte di un Paese allo sbando, impoverito, senza più idee. Resistono eccellenze, perché l’istituzione è una scatola vuota ed è l’umano che la vive e rappresenta a validarne l’azione e i risultati. Ma, perlopiù, si resiste un pelo sotto la linea di galleggiamento. O meglio, si affonda lentamente. Il vertice di questa piramide è inabissato da decenni, ed è rappresentato dall’istituzione carceraria. A partire dalle leggi che incardinano il suo funzionamento e che spesso si pongono al di là della dignità umana. Questa non è opinione personale, ma il giudizio della Corte europea riguardo, solo per citare uno dei tanti esempi possibili, l’ergastolo ostativo. E si potrebbe continuare a lungo. All’incostituzionalità delle leggi corrisponde la fatiscenza degli istituti di detenzione. Ho girato diversi penitenziari, e conosciuto tanti uomini e donne privati della libertà perché colpevoli di reato e dunque incarcerati. Li ho visti chiusi dentro luoghi dove non è solo la libertà la grande privazione, ma anche la dignità, il decoro, la decenza. In Italia un detenuto non perde solo lo status di cittadino, precipita al di sotto della soglia che divide gli esseri umani da chi umano non viene più considerato. Princìpi quali la rieducazione, la risocializzazione, l’espiazione della pena come passaggio per un reinserimento nella comunità, vengono visti come parole morte, ideali di un tempo davvero mai esistito, almeno in questo Paese. Dei luoghi di pena che ho visitato, quello che è rimasto come cicatrice è senz’altro la casa circondariale Fulvio Panzera di Reggio Calabria. Ho conosciuto ragazzi, uomini, quasi tutti detenuti per reati di affiliazione, dentro un’aula dove viene concesso loro il diritto allo studio, o meglio una microscopica parte di esso: il conseguimento della licenza elementare, perché tanti di loro non hanno nemmeno quella. Questi detenuti vengono, in pratica, alfabetizzati come bambini dai sei ai dieci anni. Niente di più. Nemmeno la licenza media. Parlare di corsi professionali è pura fantascienza. Quelli più giovani, in forze, mi hanno raccontato di aver richiesta degli attrezzi per fare palestra, mi hanno pure rivelato di essere disposti, con una colletta, a pagarli di tasca propria, ma l’istituzione, il regime di massima sicurezza a cui sono sottoposti, nega anche questa possibilità. Confesso: non sapevo che nel nostro paese, i detenuti che desiderano dei figli con le proprie mogli, compagne, devono averli in provetta. Nemmeno sapevo, confesso ancora, che possono acquistare beni di prima necessità, un pacco di biscotti, una confezione di merendine, pagandoli molto più di quanto costano normalmente. A mia domanda precisa: perché? In tanti hanno alzato le spalle, oramai abituati a tutto, in particolare a non fare domande, perché una domanda senza risposta logica provoca stordimento, e poi rabbia, ma un detenuto dalla rabbia si deve tenere lontano, almeno se non vuole mettersi nei guai, commettere altri reati e dunque prolungare la propria prigionia. In molti, con gli occhi lucidi, sognano per loro il carcere di Bollate come i liberi una vacanza ai Caraibi. Lì si studia sino al diploma, ci sono i corsi per imparare un mestiere. Ma sono sogni di carcerati, e in Italia a un carcerato viene negato anche il diritto di sognare. Cei e Csm in visita nelle carceri di Valter Vecellio L’Opinione, 2 giugno 2023 Qualche giorno fa l’annuncio che una delegazione del Consiglio superiore della magistratura, guidata dal suo vicepresidente Fabio Pinelli e composta dai consiglieri laici e togati Daniela Bianchini, Ernesto Carbone, Antonello Cosentino, Eligio Paolini, dal vicesegretario generale Gabriele Fiorentino e dal consigliere giuridico Fabio Antezza si sono recati in visita alla casa circondariale toscana di Sollicciano; delegazione, come si dice, di alto profilo; ancora più autorevole perché c’era anche il cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana, Matteo Zuppi. Hanno visitato le diverse aree del carcere, e si sono resi conto di persona in che condizioni vivono i detenuti e i detenenti, così Marco Pannella chiamava la più vasta comunità penitenziaria composta dagli agenti di custodia, il personale, i volontari che prestano la loro opera nei penitenziari. La visita di Sollicciano con la Cei è solo la prima tappa del percorso d’ascolto del Csm, che proseguirà con altre visite agli istituti penitenziari italiani con esponenti di istituzioni, avvocatura e associazioni della società civile. La visita si è conclusa con un incontro con una delegazione di detenuti, dove Pinelli, dopo averne ascoltato le istanze ha detto che il Csm, nell’ambito delle proprie competenze, cercherà di accendere un faro, dando sempre più attenzione al settore della magistratura di sorveglianza. La stessa cosa era accaduta quando a presiedere la Corte costituzionale era Marta Cartabia, che ha appunto portato componenti della Corte nelle varie carceri del Paese. Si disse allora, con molta retorica che la Costituzione finalmente entrava in carcere. Naturalmente essendo la visita del Csm e del cardinale Zuppi una notizia vera è stata praticamente ignorata. Non che sia una novità. Mesi fa, ampio risalto all’inaugurazione della Scala di Milano. A quel concerto hanno partecipato le più alte personalità istituzionali e del mondo della cultura, i cosiddetti Vip. Ne mancava uno: il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha scelto di assistere al concerto tra i detenuti del carcere milanese di San Vittore. I mezzi di comunicazione si sono lungamente diffusi sui vestiti, le posture, gli applausi alla Scala; trascurato la “notizia” del ministro tra i detenuti e i detenenti. Un tempo erano soli Marco Pannella e i dirigenti e i militanti del Partito Radicale a visitare a Natale, Capodanno, Ferragosto, le carceri. Lo si continua a fare, ed è più che giusto che lo si faccia. Col tempo anche altri parlamentari di altri partiti, anche di maggioranza e di governo, visitano le carceri, mostrano sensibilità alla situazione dei nostri davvero istituti di pena. C’è di che rallegrarsene. Nel frattempo, là in quelle celle, continuano dolore e sofferenza; anche l’altro giorno un detenuto si è tolto la vita. Una settimana fa, altri due… Credo che dall’inizio dell’anno siano già 24. Non sappiamo i tentati suicidi per fortuna sventati. Non sappiamo quanti agenti di custodia, per il gravoso carico di sofferenza che vivono e che vedono vivere, decidono anche loro di farla finita, ma non sono pochi casi. Non sappiamo quanti atti di autolesionismo, ma certo nell’ordine delle migliaia. Ecco: ancora a una crescente sensibilità da parte di politici non corrisponde una attenzione dei mezzi di informazione che alimenti una consapevolezza della pubblica opinione. Ancora il carcere è luogo di pena sproporzionata e non luogo di recupero e reinserimento. C’è ancora tanto da fare, e forse da fare in modo diverso. Altro. Bisognerebbe pensarci. La giustizia riparativa ha mille vie di Marcello Maria Pesarini transform-italia.it, 2 giugno 2023 Sotto i buoni auspici della ministra Cartabia, per sua personale competenza ed attenzione, è entrata nei programmi del Ministero della Giustizia la giustizia riparativa. Qui si parla non di permesso all’utilizzo, quanto di spinta convinta, in contrasto sia con l’impulso all’edilizia penitenziaria sia alla dismissione di tutte le pratiche alternative nate dall’incontro fra colpevoli, vittime e attori penitenziari. L’incontro fra vittima e attore del reato, o suoi familiari, la presa in coscienza del danno arrecato e dei suoi effetti, il prendere il carico sulle spalle e condividerlo può avvenire attraverso un lungo percorso che richiede severe procedure, non tanto tecniche quanto di affettività e dedizione. L’esigenza di un’autentica responsabilizzazione dell’offensore, sostanzialmente privo di reali occasioni per prendere coscienza delle conseguenze che le sue azioni hanno sortito in altre vite: una finalità, quest’ultima, che non dovrebbe essere perseguita attraverso astratti e pre-definiti programmi di ‘rieducazione’ uguali per tutti, bensì mostrando all’offensore gli effetti del suo comportamento sulle vite che da questo sono state affette e chiamandolo, nei limiti del possibile, a porvi rimedio attivamente. Si intersecano alle volte in carcere con la giustizia riparativa attività teatrali, di lettura, di scrittura, di danza, come ausilio espressivo in alcuni passaggi. Questi momenti non vanno confusi con i pre-definiti programmi, più o meno avanzati di ‘rieducazione’, come detto in precedenza. L’intero pianeta carcere, in attesa di essere dismesso per come è concepito ora, deve seguire queste evoluzioni. L’esempio che riporto mi suggerisce, in maniera neanche tanto faceta, un’estensione del concetto di giustizia riparativa. Partecipando a una lezione integrativa in una scuola superiore tenuta da una responsabile trattamentale, sono rimasto impressionato dall’intelligenza e dal senso pratico di una studentessa che affermava che preparare foglietti infilati l’uno nell’altro a mo’ di scatola cinese per un’interrogazione era quasi più faticoso e meno educativo che studiare. Tal quale, lavorare o delinquere. Ovvio è che il reato veniva esaminato fuori da qualsiasi contesto sociale e storico, ma i vari avvertimenti che gli attivisti e le attiviste di Ultima Generazione e di FFF, che siano gettarsi fango addosso in sostituzione dell’abito usuale, o gettarsi nel fango a lavorare dove la natura si è ribellata all’uomo, imbrattare quadri di un’esposizione o un palazzo istituzionale, se non cambiare il colore dell’acqua di una fontana, vanno nella direzione della giustizia riparativa. Se il richiamo alla profonda preoccupazione per l’avvenire del pianeta si esercitasse con azioni eclatanti ma pericolose, si potrebbe parlare di mezzi che non sono giustificati dal fine. Se però ci preoccupiamo di analizzare la sproporzione fra l’impudente inattività e ancor peggio la continuazione di attività dannosissime alla convivenza umana e naturale, il ritardo accumulato a partire dagli eventi degli anni 60-70, abbiamo chiara la sproporzione fra la reazione alla denuncia e i comportamenti denunciati. Numerose persone appartenenti alla mia generazione avevano già cominciato a tentare di superare la dicotomia fra sviluppo sociale e salvaguardia ambientale davanti a eventi come l’avvelenamento dell’ACNA di Cengio a Seveso nel 1976, alle denunce di trasporto e interramento di rifiuti pericolosi a partire almeno dagli anni 70 dal Nord al Sud del mondo, alla tragedia della centrale nucleare nell’allora URSS di Chernobyl del 1986; queste persone, noi, non possiamo non appoggiare la carica delle nuove generazioni contro il sistema. Ascoltare la nenia dei governanti, dei commentatori, che stigmatizzano Ultima Generazione e li chiamano a processo o legiferano in materia coercitiva e terrorista contro di loro, è odioso. Queste persone, questi sepolcri imbiancati che si accompagnano con l’insolenza e l’ignoranza che fa loro straparlare negando l’emergenza climatica, smantellano al contempo i presidi ambientali e sanitari pubblici costruiti dall’uomo, con l’effetto di restringere sempre di più l’agibilità e la salubrità per la maggior parte dei cittadini. Più che giustizia riparativa, visti i termini, si potrebbe parlare di legge del contrappasso. Però penso che governanti e sostenitori debbanoi conoscere l’angoscia costituita da fiumi di acqua e fango che non vengono riassorbiti in Romagna dopo una settimana, i mucchi di beni persi che vanno dai libri al cibo, dagli esseri umani e animali morti, dispersi a chilometri di distanza, la disperazione di scegliere fra l’allagamento dei campi coltivati e delle città. Il futuro distopico per queste persone è già arrivato, in Emilia-Romagna come nelle Marche, nei ghiacciai che si staccano dalle montagne o si sciolgono, in tante morti che richiedono una risposta. Non la può dare né chi governa né chi ha governato in precedenza. Le tensioni (pronte a esplodere) al ministero della Giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 giugno 2023 Il ministero di Via Arenula è una polveriera pronta a esplodere. La causa di tutte le tensioni porta un nome e un cognome ben precisi: Giusi Bartolozzi, vicecapo di gabinetto del Guardasigilli Carlo Nordio. Il ministero della Giustizia è una polveriera pronta a esplodere. La causa di tutte le tensioni porta un nome e un cognome ben precisi: Giusi Bartolozzi, formalmente vicecapo di gabinetto del Guardasigilli Nordio, sostanzialmente la persona che ha accentrato nelle sue mani tutte le decisioni più importanti che competono al ministero. Tanto da essere definita ormai la “zarina di Via Arenula”. “Al ministero non si prendono più decisioni in maniera collegiale, tutto è accentrato nelle sue mani, è lei che comanda”, riferisce una fonte del ministero, che ci riporta una realtà fino ad ora rimasta nascosta, in buona parte anche allo stesso Nordio. “Tutte le decisioni passano per il suo tavolo, anche quelle già prese in precedenza insieme dai capi degli uffici”. Come con la tela di Penelope, i provvedimenti vengono tessuti di giorno, in modo collegiale, ma disfatti di notte dalla vicecapo di gabinetto. Che si sente ben più di una vicecapo: “Bypassa sistematicamente i vertici degli uffici di diretta collaborazione del ministro. Fa il vice, il capo di gabinetto, il sottosegretario e anche il viceministro. Si sostituisce a tutti i capi, anche dei vari dipartimenti. Fa tutto lei”, conferma un’altra fonte, raccontando le rumorose sfuriate di Bartolozzi per i corridoi di Via Arenula. “Lei lo dice apertamente: ‘Sono qui per fare politica’. Ma allora non dovevi fare il vicecapo di gabinetto, bensì il viceministro o il sottosegretario”, commenta. Bartolozzi è una delle tante toghe collocate fuori ruolo al ministero. E’ stata giudice a Gela, a Palermo e poi alla corte d’appello di Roma. Poi è entrata in politica, venendo eletta alla Camera nel 2018 con Forza Italia. Nel luglio 2021 passò al gruppo Misto dopo essere stata rimossa dalla commissione Giustizia per aver annunciato il voto contrario a un emendamento proposto da Fi, considerato norma ad personam dalle opposizioni. Con l’uscita da Fi, Bartolozzi si attirò le ire di Marta Fascina, compagna di Silvio Berlusconi: “Non si tratta di silenziare le voci critiche - affermò Fascina - ma di impedire di utilizzare i partiti come taxi per raggiungere lauti stipendi a posizioni di potere, salvo poi (raggiunto l’obiettivo) cambiare idea, ideali, valori, partito”. Il ritorno di Bartolozzi nei ranghi della magistratura è durato poco. Appena diventato ministro, infatti, Nordio ha deciso di nominare il presidente del tribunale di Vicenza, Alberto Rizzo, come suo capo di gabinetto e Bartolozzi sua vice, non immaginando certamente che quest’ultima avrebbe ben presto dato vita a fibrillazioni al ministero della Giustizia. Fibrillazioni così profonde, riferisce una fonte, da essere arrivate persino all’attenzione del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Chi non sembra ancora essersi accorto di queste tensioni, o perlomeno non avrebbe compreso le ripercussioni devastanti che stanno producendo, sarebbe proprio Nordio, che continua a garantire fiducia a Bartolozzi e a delegarle ampi settori di intervento. Spesso con risultati paradossali, che vanno contro le stesse idee liberali espresse in tutti questi anni dal Nordio intellettuale. Porta la firma di Bartolozzi, ad esempio, l’emendamento al decreto sulla Pubblica amministrazione elaborato per aumentare di dieci unità il numero di magistrati da destinare al ministero della Giustizia. Lo stesso emendamento, poi ritirato, prevedeva anche la creazione nell’ufficio di gabinetto del Guardasigilli di un posto di funzione dirigenziale, da retribuire con 300 mila euro all’anno. C’è sempre Bartolozzi, poi, dietro l’emendamento che ha rinviato a fine dicembre il termine per emanare i decreti attuativi della riforma Cartabia sul Csm e sull’ordinamento giudiziario. L’obiettivo ultimo sarebbe quello di far decadere la riforma, e con questa i limiti introdotti per le porte girevoli tra politica e magistratura. Insomma, altro che separazione dei poteri. Con il suo attivismo in difesa delle toghe, Bartolozzi “sembra essere l’avamposto dell’Associazione nazionale magistrati al ministero della Giustizia”, ci dicono. La stessa Anm che nel 1997 convocò Nordio davanti ai probiviri per alcune sue affermazioni garantiste (Nordio li mandò a farsi benedire e non si presentò neanche). Nonostante ciò, la “zarina di Via Arenula” continua ad avere un forte ascendente sul ministro. Mettendo a rischio, per molti, il futuro stesso delle tanto attese riforme della giustizia. Fuga dall’Ufficio per il processo: si dimettono in 2.286 di Lara Neri pamagazine.it, 2 giugno 2023 Fuga dall’ufficio per il processo. Come evidenziato dalla relazione del gocerno sull’attuazione del Pnrr, più di duemila addetti hanno rassegnato le dimissioni. Al punto che non è escluso un nuovo concorso per colmare il vuoto di organico che si è venuto a creare. Al 31 dicembre dell’anno scorso risultavano assunti 11.017 dipendenti. A fronte di 2.286 dimissioni e delle nuove immissioni, al 30 aprile gli addetti dell’ufficio per il processo in servizio erano 9.165. Il ministero della Giustizia ha interamente destinato il contingente di personale assunto tramite concorso al rafforzamento e alla costituzione degli uffici per il processo presso i 169 uffici giudiziari coinvolti. Per quanto riguarda il contingente di personale tecnico, è stato destinato in gran parte ai medesimi uffici giudiziari (2.639 unità di personale tecnico in servizio al 31 dicembre 2022) e, in minor numero, ad altri uffici giudiziari (procure, procure generali e Direzione generale antimafia), per un totale in servizio al 31 dicembre 2022 di 3.173 unità di personale. Al 30 april, invece, risultavano in servizio 2.861 unità complessive di personale tecnico, a fronte di 3.238 immissioni e 377 dimissioni. L’ufficio per il processo è strategico nell’ambito del Pnrr giustizia. Ma complici i contratti a tempo determinato e le retribuzioni poco competitve, migliaia di addetti hanno gettato la spugna. Sulla loro decisione ha pesato in molti casi anche la mancata valorizzazione delle loro competenze. Intanto i processi sono un po’ meno lumaca. Nel 2022 la loro durata si è ridotta rispetto al 2019 dell’11,8% nel civile e del 10% nel penale. L’analisi è stata svolta dal Dipartimento per la transizione digitale della giustizia, l’analisi statistica e le politiche di coesione e dalla Direzione generale di statistica e analisi organizzativa di via Arenula. Gli impegni assunti con la Commissione europea prevedono, entro giugno 2026, una riduzione della durata dei processi del 40% nel civile e del 25% nel penale. Preoccupa invece il trend di smaltimento dell’arretrato civile: -9,3% in tribunale e -28,3% in corte di appello. L’Ue chiede una riduzione del 90% rispetto al dato del 2019 sia in tribunale che in corte di appello. Per l’Associazione nazionale magistrati l’ufficio per il processo ha dimostrato di “agevolare l’accelerazione dei processi civili e penali nonostante le carenze di organico”, ma deve diventare “una struttura professionale stabile con profili di competenza e specifica professionalità all’interno degli uffici giudiziari”. Sempre l’Anm sottolinea che l’attuale assetto dell’ufficio per il processo, legato alla temporaneità dei suoi componenti, richiede per ogni magistrato un dispendioso e ripetuto sforzo di formazione e disincentiva, anziché incentivare, la permanenza e la crescita professionale degli addetti. Abuso d’ufficio, l’allarme dei magistrati ignorato dal ministro della Giustizia di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2023 In commissione la testimonianza del procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, preoccupato per le infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione. Il gioco poliziotti buoni-poliziotti cattivi dentro al governo è all’ordine del giorno su più fronti, ma in particolare su quello economico e sulla Giustizia. Ma dopo le solite schermaglie tra i garantisti dei colletti bianchi a viso aperto di Forza Italia e i fautori di “ordine e sicurezza” - a fasi alterne - di Fdi e Lega, si ricompattano e si prosegue sulla via dei colpi di spugna del Codice penale compreso la depenalizzazione dell’abuso d’ufficio anche se, alla Camera, i magistrati che sono stati chiamati in commissione Giustizia, spiegano uno dopo l’altro che non si può cancellare quel reato. Ma il ministro Nordio ha ri-promesso la imminente riforma, dopo il sì di Lega e Fdi che avrebbero voluto svuotare l’abuso d’ufficio in maniera più “chirurgica” per paura, specie della Lega, che i sindaci si ritrovassero con imputazioni per “reati più gravi”. Remore dissolte dalla garanzia di Nordio di mettere mani complessivamente ai reati contro la pubblica amministrazione. Il ministro al Senato ha pure evocato il codice di Mussolini per giustificare la “radicale” riforma: “Il nostro Codice di procedura penale, voluto da una medaglia d’argento della Resistenza come il professor Vassalli, gode di pessima salute perché è stato demolito varie volte da interventi della Corte Costituzionale. Il paradosso è che il codice penale di Mussolini, invece, gode di ottima salute”. Sempre al Senato Enrico Costa, di Azione, ex FI, ha presentato insieme a Carlo Calenda la proposta per depenalizzare il reato di abuso d’ufficio, lo farebbe diventare una sanzione amministrativa, una “battaglia di civiltà” per Calenda. Nei giorni precedenti e successivi alle dichiarazioni di Nordio, in commissione Giustizia della Camera i magistrati chiamati per dare un parere tecnico in materia hanno messo in luce, ancora una volta, che il piano del governo è in rotta di collisione con gli organismi internazionali e non tiene conto, come ha ben detto il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, delle infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione: “Credo sia doveroso richiamare l’attenzione del dibattito pubblico sullo stato di profondo diffuso condizionamento criminale dei comportanti della pubblica amministrazione. Basterebbe guardare allo stato delle amministrazioni sciolte in 30 anni per accertati condizionamenti della criminalità mafiosa per toccare la concretezza dei problemi dell’assenza di ogni filtro, controllo, prevenzione”. E ancora: c’è un “profondo e diffuso condizionamento criminale dei comportamenti della pubblica amministrazione”, con i clan che, non solo al Sud, tendono a “entrare sempre più direttamente a contatto” con sindaci e assessori. Altro che svuotamento dell’abuso d’ufficio, il tema vero, ha aggiunto Melillo, è quello dei controlli interni alla Pubblica Amministrazione che “non esistono e quelli previsti dalla legge sono ridotti a mera cosmesi. Credo che il giusto obiettivo di ridimensionare la paura della firma non può esaurirsi nell’aggravare la frammentazione e l’incoerenza del sistema dell’incriminazione. I timori di invasione indebita della sfera di discrezionalità che deve essere riservata all’autorità amministrativa è un tema che avrebbe più credibilità se fosse accompagnato dalla rivendicazione dell’introduzione nel sistema di controlli interni alla pubblica amministrazione, in grado di tenere lontano il rischio dell’intervento giudiziario. È invece questo uno dei temi che resta fuori dal dibattito politico”. Non a caso il procuratore nazionale sottolinea quello che è sotto gli occhi di tutti e che molti fanno finta di non sapere, ovvero la riforma dell’articolo 323 del codice penale, l’abuso d’ufficio, del 2020, che ha circoscritto le condotte penali. Ha detto Melillo: “I rischi di espansione di una discrezionalità giudiziaria rispetto all’attività amministrativa dopo la riforma del 2020 sono confinati in ambiti assolutamente marginali. E questo riguarda non solo l’abuso di ufficio ma anche il traffico di influenze (che la maggioranza vuole eliminare, ndr), i cui termini sono stati ricondotti nelle salde mani dei principi costituzionali di tassatività delle previsioni” e le successive pronunce della Cassazione hanno “fugato ogni rischio di applicazioni incaute” delle norme che puniscono questi reati. Il procuratore a supporto delle sue tesi ha snocciolato cifre: “L’ 85% delle denunce viene archiviato” dai pm e le condanne “nel 2021 sono solo 18”. Anche le denunce sono “significativamente diminuite tra il 2020 e il 2021”. Poi, un passaggio sembrato a qualcuno in Commissione polemico ma vero: gli amministratori che agitano “la paura della firma” sono quelli che governano e quelli che, invece, “passano all’opposizione sono spesso i promotori delle denunce che sollecitano l’intervento del giudice”. Contro il progetto del governo di neutralizzare l’abuso d’ufficio c’è stata una presa di posizione per molti inaspettata, sicuramente di peso, quella del molto influente ex sotto segretario alla presidenza del Consiglio del governo Draghi, Roberto Garofoli, di nuovo presidente di sezione del Consiglio di Stato: con la riforma c’è il pericolo di dare vita a un “liberi tutti”. Anche Garofoli evoca la riforma del governo Conte, che ha già messo in “salvo” gli amministratori, pure troppo, secondo diversi magistrati, prevedendo solo il “dolo” come punibilità mentre, ha spiegato il consigliere di Stato, “di frequente gli abusi - anche i più odiosi - si annidano proprio nell’esercizio della discrezionalità”. Dunque, quando avremo, pare a stretto giro, la cancellazione dell’abuso d’ufficio formalmente o, più probabilmente, di fatto, con modifiche “machiavelliche”, l’impunità a 360 gradi sarà garantita e anche la minaccia mafiosa e l’infiltrazione delle cosche potrà aumentare a dismisura. Pene più severe per chi abbandona animali: “Carcere fino a 5 anni” di Alessandro Sala Corriere della Sera, 2 giugno 2023 Disegno di legge di Michela Vittoria Brambilla per equiparare gli abbandoni ai maltrattamenti. Chi si sbarazza di cani e gatti rischierà sanzioni rinforzate. L’avvicinarsi della stagione estiva fa risuonare l’allarme per gli abbandoni di animali. Un fenomeno che, nonostante campagne di prevenzione e di sensibilizzazione, non è mai stato davvero debellato. I numeri del randagismo, soprattutto in alcune regioni italiane, stanno a dimostrarlo. Dopo gli anni della pandemia, che hanno segnato un incremento delle adozioni di cani e gatti e la scoperta dei benifici di una famiglia allargata, il timore è che l’auspicato ritorno alla normalità possa accompagnarsi ancora alle cattive pratiche del passato. Ma laddove le iniziative di sensibilizzazione non funzionano, deve essere la legge a garantire la tutela di esseri senzienti che, nel corso del tempo, hanno acquisito via via sempre maggiore importanza nel nostro ordinamento giuridico, fino al loro diritto alla protezione che dallo scorso anno è riconosciuto dalla stessa Costituzione nell’articolo 9. Quest’ultimo demanda alla legge ordinaria le iniziative specifiche di tutela ed è proprio per questo che in Parlamento riparte l’iniziativa legislativa per intensificare le sanzioni per chi commette reati come l’abbandono. Alla Camera è stato presentato un disegno di legge a prima firma di Michela Vittoria Brambilla, deputata del gruppo misto e presidente dell’Intergruppo parlamentare per i diritti degli animali, che prevede un sostanziale appesantimento delle pene per chi si rende protagonista di abbandoni. Il testo, protocollato come AC30, ha iniziato ieri il suo iter in commissione Giustizia, a Montecitorio. “Presto potrebbe costare davvero caro, in ogni senso, abbandonare gli animali, magari perché, nella stagione delle vacanze, diventano un ingombro - sottolinea la parlamentare -. Questo odioso comportamento, un reato punito oggi con l’arresto fino a un anno o l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro, potrebbe essere considerato a tutti gli effetti maltrattamento e quindi sanzionato pesantemente, se passerà la mia proposta di legge per modifiche al codice penale in materia di reati contro gli animali”. Il testo di Brambilla, che ne è anche relatrice, prevede che la contravvenzione di “abbandono di animali”, oggi art. 727 del codice penale, sia assorbita da un “nuovo” art. 544-ter, che punisca il maltrattamento con la reclusione da tre a cinque anni e la multa da 5 mila a 30 mila euro. Sostanzialmente l’abbandono non sarà più considerato qualcosa di meno grave rispetto ad altre forme di maltrattamento fisico, come lesioni, sevizie, vessazioni non compatibili con la natura di esseri senzienti che viene riconosciuta agli animali, per cui si prevedono ulteriori inasprimenti rispetto ai termini sanzionatori sino ad ora previsti. “La pena attuale - osserva la deputata - è troppo blanda e non ha alcun effetto deterrente. Con sanzioni decisamente più severe, e il rischio concreto di essere sorpresi magari da qualche telecamera, chi progetta di compiere questo gesto ripugnante ci penserà due volte”. L’iter è appena agli inizi, ma già in altre occasioni il Parlamento, diviso su quasi tutto, ha trovato unità di intenti proprio nelle scelte a tutela degli animali (l’Intergruppo raccoglie esponenti di tutte le forze politiche presenti in Parlamento), in particolare quelli domestici. Reati procedibili a querela: il processo penale continua di Dario Ferrara Italia Oggi, 2 giugno 2023 Il processo penale pendente all’entrata in vigore della riforma prosegue anche se il reato è divenuto procedibile a querela con la legge Cartabia. E ciò perché due delle persone offese, e dunque danneggiate dal reato, si sono costituite parte civile in giudizio, mentre la sussistenza della volontà di punizione dell’autore dell’illecito non richiede formule particolari ma può essere anche riconosciuta dal giudice in atti che pure non ne contengono la manifestazione esplicita. Così la Cassazione nella sentenza 19971/23, III sez. pen. dell’11 maggio. Accolto il ricorso proposto dal titolare di un bar romagnolo tratto a giudizio per gli schiamazzi della clientela e i rumori delle apparecchiature: una delle imputazioni cade e per le altre la parola torna al tribunale per il trattamento sanzionatorio (l’imprenditore ha già ottenuto la sospensione condizionale). Non c’è dubbio che la nuova procedibilità a querela sia una norma più favorevole all’imputato e si applichi dunque ai giudizi in corso, compresi quelli di legittimità. A questo punto il giudizio si sarebbe dovuto sospendere per consentire all’interessato di presentare la querela entro i tre mesi concessi dall’entrata in vigore della riforma, avvenuta il 30 dicembre scorso: diversamente al giudice non resterebbe che prosciogliere subito l’imputato per mancanza della condizione di procedibilità. Ma la “scelta non è ineludibile”, almeno nel nostro caso, benché manchi una formale querela: anche la semplice riserva di costituirsi parte civile denota la volontà di punizione della persona offesa. L’aver inserito la contravvenzione di disturbo alla quiete pubblica fra i reati procedibili a querela, tuttavia, creerà “problemi applicativi”: l’illecito si configura quando in astratto coinvolge un numero interminato di persone, mentre è ristabilita la procedibilità d’ufficio quando il reato è “commesso nei confronti di una persona incapace per età e infermità”. Ed è davvero difficile stabilire se fra i potenziali danneggiati vi sono soggetti che appartengono alla categoria “protetta” quando risulta presentata una denuncia che non ha le caratteristiche della querela. Atti trasmessi al giudice del rinvio. Chiavari (Ge). Detenuto trovato morto in cella: indaga la procura di Genova Il Secolo XIX, 2 giugno 2023 L’uomo è stato trovato impiccato dalla Polizia penitenziaria: aveva litigato con un compagno di cella per motivi banali, i due erano stati separati. Il magistrato di turno ha disposto l’autopsia per fugare ogni dubbio. La Procura di Genova indaga sulla morte di un detenuto tunisino di 39 anni che si è impiccato ieri pomeriggio nel carcere di Chiavari. L’uomo era stato trasferito da poco dal carcere della Spezia, dove era entrato a fine 2021. Ieri aveva litigato con un compagno di cella, per motivi banali, e i due erano stati separati. Il detenuto era solo quando si è ucciso. La direzione del carcere ha subito inviato la segnalazione al magistrato di turno che ha disposto l’autopsia per fugare ogni dubbio. Nonostante il litigio, l’uomo era considerato un detenuto che non aveva mai dato problemi, anzi. In carcere studiava e si dedicava al canto. Era finito in cella per un cumulo pena per reati contro il patrimonio e avrebbe dovuto restarci fino al 2026. Palermo. Assolto ma “dimenticato” per due anni ai domiciliari perché l’avvocato era morto di Carmine Di Niro L’Unità, 2 giugno 2023 Era stato assolto, eppure è rimasto per quasi due anni agli arresti domiciliari senza saperlo. Il motivo? L’avvocato che lo aveva assistito era deceduto. È la storia che vede protagonista un 49enne sottoposto a misura cautelare il 25 settembre 2020 a Giardinello, in provincia di Palermo, per stalking. Il 19 maggio dell’anno seguente l’uomo viene assolto in primo grado per incapacità di intendere e volere e viene disposta la misura di sicurezza del ricovero in una struttura assistita, ma quel provvedimento non viene mai eseguito, anche dopo la conferma della sentenza in Appello il 20 ottobre 2021. Il 49enne, con qualche problema mentale, è rimasto ai domiciliari perché senza una difesa concreta ed effettiva a causa della morte dell’avvocato che lo aveva assistito in quella causa. Sono stati i carabinieri, spiega l’Ansa che racconta la vicenda, a richiedere la nomina di un difensore di ufficio per cercare di aiutarlo, viste le condizioni disagiate in cui viveva il 49enne. Ad assisterlo quindi sono arrivati gli avvocati Rocco Chinnici, Luigi Varotta e Francesco Foraci. “Ci siamo attivati per aiutare questa persona, dopo aver cercato di comprendere per quale titolo si trovasse sottoposto ancora sottoposto alla misura dei domiciliari - dicono i legali - Si tratta di una vicenda umana che evidenzia quanto sia importante il ruolo del difensore nel processo. Abbiamo ricostruito l’iter della posizione giuridica del soggetto con la collaborazione delle cancellerie e il pm ha immediatamente disposto la scarcerazione perché non vi era più alcun titolo che potesse giustificare il regime coercitivo al quale era sottoposto. L’uomo è tornato in libertà il 29 maggio quando in realtà doveva essere scarcerato il 19 maggio 2021. Si tratta di una detenzione di due anni sine titulo, e stiamo valutando le azioni giudiziarie da intraprendere nei confronti del Ministero della Giustizia per il risarcimento dei danni subiti”. Cuneo. Gli studenti del “Bonelli” in visita al carcere cuneodice.it, 2 giugno 2023 Accompagnati dagli insegnanti, gli alunni delle classi quinte hanno avuto modo di dialogare con i detenuti. “Per glorificare la vostra civiltà, non mostratemi i vostri palazzi, i vostri monumenti o le vostre chiese: mostratemi le vostre carceri” [Voltaire]: è sotto l’egida di queste parole che si è svolta il giorno 31 maggio la visita di alcune classi V dell’istituto “Bonelli” di Cuneo alla casa circondariale, in località Cerialdo. Accompagnati dai loro insegnanti (prof. Torello, Tomatis, Marengo, Gargiulo) le classi V A SIA, V A e V B AFM hanno avuto l’occasione di visitare un luogo che è (e dovrà esserlo sempre più) parte attiva e integrante del territorio cuneese. Un luogo spesso associato strumentalmente e deliberatamente ad espressioni come “il buttare la chiave” o “albergo a cinque stelle”, ma che, come hanno potuto appurare gli stessi studenti, è in realtà anche luogo di incontro e dialogo. Grazie anche alla sensibilità del responsabile dell’area educativa interna, dott. Pessolano che ringraziamo di cuore, e allo splendido lavoro degli agenti di polizia penitenziaria, la casa circondariale di Cuneo non soffre di particolari criticità, tipiche di altre realtà provinciali, regionali o nazionali, come, ad esempio, il sovraffollamento. In questa occasione, gli studenti hanno avuto modo di dialogare e confrontarsi con diversi detenuti che hanno accolto con gioia e favore l’interesse dei ragazzi, mossi da spirito critico e sana curiosità verso un mondo, quello carcerario, fatto non solo di ferrei orari, sbarre e privazioni, ma anche di scuola, occasioni di riscatto, reinserimento sociale e speranza, nel pieno rispetto dell’art. 27 della nostra carta costituzionale. La visita si inserisce all’interno dell’ampio ventaglio di attività inerenti i percorsi trasversali dedicati all’Educazione civica offerti dalla scuola e, ne siamo certi, avrà positive ricadute, didattiche e civili, sui nostri allievi. Il Festival dei matti sposta il confine tra normalità e follia di Marco De Vidi L’Essenziale, 2 giugno 2023 A Venezia una manifestazione arrivata alla sua tredicesima edizione segue lo stesso impulso di Franco Basaglia: riportare la follia “là dove essa ha origine, cioè nella vita”. È sulle tracce di Franca Ongaro e di Franco Basaglia che la psicoterapeuta e filosofa Anna Poma è arrivata a Venezia: “Venezia a me fa questo effetto, che il dentro sia sempre anche fuori e il fuori sia anche sempre dentro”, scriveva in un’antologia di autori veneziani autoctoni e adottati per spiegare l’arbitrarietà dei confini tra follia e normalità. Che sia proprio la peculiarità della città ad aver influenzato Basaglia, lo psichiatra che ha rivoluzionato il modo di rapportarsi alla malattia mentale, portando alla chiusura dei manicomi partendo da Venezia e poi in direzione Gorizia e, soprattutto, Trieste? È possibile. E seguendo lo stesso impulso a riportare la follia “là dove essa ha origine, cioè nella vita” (così scriveva lo stesso Basaglia), Anna Poma ha ideato un appuntamento, che ha chiamato Festival dei matti. Ogni anno dal 2009, a primavera inoltrata, la manifestazione diventa occasione di incontro per chi si occupa di psichiatria e cura, di filosofia e letteratura, porta al confronto operatori della salute mentale e coinvolge (anche con workshop e laboratori) curiosi e studenti universitari. Gli eventi delle quattro giornate di questa edizione si sono svolte dal 25 al 28 maggio tra la terraferma e la laguna, al museo M9 di Mestre, all’Accademia di belle arti, al teatrino di palazzo Grassi. La sindrome della rassegnazione - Si comincia con la proiezione di un documentario, Wake up on Mars, il primo lungometraggio della regista svizzera di origine albanese Dea Gjinovci, presente all’incontro. Il film parte dalla vicenda di una famiglia rom proveniente dal Kosovo, fuggita in Svezia in seguito alle persecuzioni subite nel periodo successivo alla guerra. E che si è ritrovata in un limbo burocratico insostenibile: la reazione delle due figlie, sorelle maggiori del piccolo protagonista, è quella di cadere in un coma profondo, un fenomeno conosciuto come “sindrome della rassegnazione”, che ha colpito diversi richiedenti asilo nelle stesse condizioni. Casi come questi, in cui il corpo reagisce in modo estremo realizzando una fuga dalla realtà, raccontano la sofferenza profondissima di chi si trova a dipendere per la propria stabilità da un pezzo di carta, da un permesso accordato oppure no. Il tema della salute mentale dei migranti ritorna anche in altri incontri, come quello dedicato alle condizioni di vita di chi si trova prigioniero di un confine, in cui sono presenti Emergency, l’associazione Lungo la rotta balcanica e Mediterranea, organizzazione che si occupa del salvataggio in mare dei migranti. Oppure quello dedicato alle patologie della cittadinanza, in cui intervengono i fondatori del centro Frantz Fanon, associazione che omaggia uno degli esponenti più importanti della decolonizzazione, cercando di affrontare il disagio psicologico di immigrati e richiedenti asilo, i più esposti alle pratiche di esclusione e discriminazione da parte delle istituzioni. È questa la violenza che va, di volta in volta, scovata e messa in evidenza, quando i diritti possono diventare provvisori e revocabili, mai riconosciuti una volta per tutte. “Questo è lo stato neoliberale”, afferma con decisione Roberto Beneduce, etnopsichiatria fondatore del centro Fanon. “Vuole che noi siamo solo dei consumatori. E in questo modo tutto diventa un prodotto commerciabile, compresa la cittadinanza. Mentre questi sono soggetti che ci chiedono di essere riconosciuti”. Certo, la violenza ha portato anche all’omicidio della psichiatra Barbara Capovani a Pisa, uccisa ad aprile da un suo paziente. Ma ogni giorno continua a rivolgersi agli ultimi, a chi non ha una rete di protezione, a chi non sa esprimersi e non può difendersi. È quell’approccio disumanizzante capace di affrontare il disagio solo con la repressione e la chiusura, trasformando tutto in una patologia. Modello di esclusione e controllo - È una dinamica sempre all’opera in ogni ambito della nostra società. I molti appuntamenti, con ospiti come il conduttore radiofonico e psicologo Massimo Cirri, il filosofo Pierangelo Di Vittorio o l’artista visiva Sabrina Ragucci, oppure la proiezione del film di Pif E noi come stronzi rimanemmo a guardare, raccontano delle forme di disintermediazione nel mondo del lavoro, di una precarietà sempre più diffusa e dell’assenza di prospettive e di un’idea di futuro. Ci troviamo inoltre immersi in un oceano mediatico strabordante, che non ci permette più di distinguere cosa è vero da cosa è falso, le condizioni ideali per l’affermarsi di un regime totalitario, come teorizzava Hannah Arendt. In tutto questo, la delimitazione tra quello che è normalità e follia, tra chi può essere accettato e chi invece va confinato e tenuto al di fuori della società diventa il modello, sempre più raffinato nelle sue pratiche di esclusione e controllo. Come nota la filosofa Marica Setaro, che interviene all’incontro sulle patologie della cittadinanza, “la manicomialità come tecnica è un dispositivo complice dell’amputazione sociale”. Perché è un conflitto, quello che ha attraversato la storia della psichiatria, in Italia e nel resto del mondo. Il lavoro di Franco Basaglia, Franca Ongaro, Agostino Pirella, Sergio Piro, di un movimento come Psichiatria democratica e di un percorso che ha portato a ridefinire completamente i princìpi con cui affrontare la cura della malattia mentale, fino alle conquiste della legge 180 e alla chiusura degli ospedali psichiatrici, ha rappresentato una critica radicale all’istituzione e ai suoi meccanismi, che vanno continuamente rimessi in discussione. Quella di Basaglia, nota Roberto Beneduce, è stata una grande operazione di “immaginazione politica e terapeutica”. A ricordarci cos’abbia significato questa contenzione, ci pensa l’Accademia della follia, compagnia teatrale nata proprio all’interno del vecchio ospedale psichiatrico di Trieste, coinvolgendo attori che sono portatori di disagio e disturbo mentale. Lo spettacolo è un omaggio allo psichiatra Franco Rotelli, uno dei principali collaboratori di Basaglia, morto nel marzo di quest’anno. Il confinamento, le urla, il ritrovarsi legati a un letto senza contatti umani per ore, sono memorie vivide nelle parole di questi interpreti, testimonianza di un passato troppo vicino, che preferiamo dimenticare. Mentre per interpretare la contemporaneità, è la letteratura a venirci in aiuto. Come fa lo scrittore Giorgio Falco (in dialogo con il poeta Gianni Montieri) raccontando, nel suo ultimo romanzo Il paradosso della sopravvivenza, personaggi dal corpo difforme, che vivono in solitudine, costretti ad accettare solo lavori degradanti, “e questa è un’altra pratica di esclusione”. Oppure come descrive il poeta Francesco Targhetta nel suo Le colpe al capitalismo, storie minime di esistenze potenziali che nel ritrarsi, nel chiamarsi fuori dalla vita, esprimono l’unica forma possibile di dissenso. Targhetta, che è anche insegnante, mette in evidenza come tra le nuove generazioni il disagio e l’ansia paralizzante siano in aumento, a bloccare ogni spiraglio di speranza e fiducia nel futuro. Cosa può salvarci, in tutto questo? Nell’incontro di chiusura del festival, la poeta Anna Toscano e la filosofa Ilaria Gaspari raccontano le vite eccentriche della pianista e fotografa Lisetta Carmi e della scrittrice Brianna Carafa. Ilaria Gaspari, in particolare, mette in evidenza le qualità di un’autrice i cui personaggi costruiscono le proprie utopie, vivendoci, ridefinendo il proprio mondo. È la fantasia, l’antidoto: la capacità di immaginare, di ridisegnare la propria traiettoria, di riappropriarsi della propria storia possono restituirci la visione del futuro, una prospettiva che è cura, guarigione, salvezza. È labile, il confine tra normalità e follia, difficilissimo da definire. Ed è questa demarcazione, tutt’altro che pacificata, che il Festival dei matti vuole continuare a esplorare. A Barbano il premio intitolato a Bordin, primo “fustigatore” dei dogmi antimafia di Errico Novi Il Dubbio, 2 giugno 2023 Alessandro Barbano è un coraggioso. Una figura rara. Non perché il giornalismo italiano non annoveri professionisti di altrettanto elevato spessore. Ma perché pochissimi, fra i giornalisti, scelgono terreni impervi come la critica agli eccessi dell’antimafia. Così l’Unione Camere penali, che di battaglie solitarie o quanto meno impopolari se ne intende, ha deciso di assegnare a Barbano l’ormai tradizionale premio “Giornalismo e informazione giudiziaria” intitolato a Massimo Bordin, il mitico compianto conduttore di “Stampa e regime”, la rassegna stampa di Radio Radicale. Bordin era “un altro di quelli”. Un altro maestro particolarmente attratto dai terreni scoscesi. E guarda caso, gran parte di quegli spazi esplorati dallo storico direttore della radio pannelliana coincide con la materia a cui Alessandro Barbano dedica, ormai da mesi, la maggior parte delle proprie energie: il sistema dell’antimafia, appunto. Se n’è occupato in particolare con “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”, libro sconvolgente nonostante alcuni dei casi e che vi si trovano fossero riusciti a squarciare il velo dell’invisibilità. Barbano ha avuto la forza di denunciare il retroterra di oltraggi allo Stato di diritto che li accomuna con un’indignazione così bruciante, con una passione civile così assoluta, con un amore cosi incondizionato per la civiltà dei diritti, da realizzare qualcosa che forse in questo paese non si era mai visto. Barbano verrà premiato venerdì prossimo, in occasione di un più ampio e ormai altrettanto tradizionale appuntamento delle Camere penali: l’Open Day di Rimini, un “fine settimana lungo” di dibattiti ma soprattutto di incontro fra generazioni “coniato” quando al vertice dell’Ucpi c’era Beniamino Migliucci. Com’è stato fin dal principio, l’Open day, giunto alla settima edizione, è un evento concepito soprattutto per gli avvocati più giovani, ai quali l’Unione presieduta da Gian Domenico Caiazza trasferisce i valori e gli obiettivi delle proprie battaglie. Ecco, Bordin è un campione di questa lotta civile: è stato lui per esempio ad aver voluto raccontare la giustizia con gli audio dei processi, trasmessi dalla radio di Marco Pannella in tarda serata o a notte fonda ma sempre disponibili in streaming. Soprattutto, Bordin ha condotto un’opera incessante non solo per destrutturare i demagogismi della politica giudiziaria quando ancora la “radiazione cosmica” emanata dal big bang di Mani pulite sembrava potentissima, ma soprattutto per smascherare la leggenda nera della “trattativa” Stato- mafia, e tutti i miti e gli oscurissimi presunti incroci tra politica e mafia dei quali la storia italiana sembrava infestata. Bordin si è battuto quando ancora non erano arrivate, per gli imputati della “trattativa”, le assoluzioni in appello e in Cassazione: aveva intuito come la pretesa di processare lo Stato per un presunto accordo, per giunta “al ribasso”, con Cosa nostra fosse tutt’uno con la retorica che, sempre da Mani pulite in poi, ha derubricato la politica a vergogna e le istituzioni a impostura. Con la sua rassegna stampa (“ereditata” tra gli altri anche da Barbano, sempre guarda caso) e il suo microfono acceso nei processi, il giornalista alter ego di Pannella offriva con un ghigno sornione e inafferrabile la propria verità alternativa. Barbano per certi aspetti ha battuto il maestro, perché è andato oltre quel sorriso caustico, quell’attesa sulla riva del fiume delle verità processuali che arrivavano lente e inesorabili. Barbano parla, scrive con il tono dell’indignazione assoluta. Stronca l’assurdo delle misure di prevenzione antimafia che il codice consente di infliggere agli assolti. Ha capito che lì è l’epitome, il punto più estremo e pericoloso di una dittatura del moralismo giudiziario, di una religione dogmatica che preclude agli “infedeli” il diritto di critica. Lui quel diritto se l’è preso lo stesso. Se n’è infischiato dei dogmi. Nei giorni scorsi vi abbiamo raccontato di un convegno organizzato dalle Camere penali in Sicilia, a Capo d’Orlando, in cui si è discusso anche di misure di prevenzione e del libro di Barbano. In particolare vi abbiamo riferito della replica molto aspra che un procuratore della Repubblica, Emanuele Crescenti, ha rivolto non tanto all’opera di Barbano quanto in generale alla controinformazione sulle misure antimafia. Ne è venuta una dialettica a distanza serratissima fra il magistrato e il giornalista autore de “L’inganno”, entrambi intervistati sul Dubbio. Crescenti ha avuto modo di chiarire le proprie comunque rispettabilissime valutazioni sulle misure antimafia. Resta la sua iniziale sorpresa di fronte alla sfrontatezza di analisi come quelle di Barbano. Come chi scrive ha accennato in precedenti articoli, la severità della reazione di un magistrato di rango come Crescenti è l’inevitabile contraltare all’indignazione di Barbano. Ora, è difficile che i due mondi, cioè la magistratura e gli altri protagonisti dell’antimafia da una parte, e il giornalismo e l’avvocatura “eretici” dall’altra, possono trovare immediatamente punti di convergenza. Ma magari non si è così lontani. E se ci arriveremo, lo dovremo anche al coraggio di chi, come Barbano, è riuscito a urlare la verità quando pochissimi avevano voglia di sentirsela raccontare. Il 2 Giugno delle donne di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 2 giugno 2023 La festa della Repubblica celebra anche il giorno in cui il suffragio divenne universale. E la risposta fu straordinaria. A distanza di 77 anni restano però le diseguaglianze. Il 2 Giugno è un grande giorno. È la festa della Repubblica, della democrazia e della rinascita dell’Italia, la cui bandiera il fascismo aveva infangato e sporcato di sangue con la sua cultura d’odio, con guerre, torture, fame, sofferenza, pensiero unico, asservimento della Nazione invasa. Non si può festeggiare questa data senza ricordare questa verità storica. Il 2 giugno è anche il giorno in cui, con entusiasmo, le donne andarono a votare per la prima volta, più degli uomini, contro tutti i pronostici, con l’atteggiamento contrario e i commenti maschilisti di tanta stampa, ma non dei giornali femminili Grazia e Gioia. E riuscirono ad affermarsi 21 donne nell’Assemblea Costituente, anche a quei tempi accompagnate da tanti “commenti” sull’aspetto fisico, naturalmente. Ma che forza hanno sprigionato queste donne! Che grinta! Nadia Gallico Spano a chi sosteneva che era necessario un capofamiglia, in plenaria rispondeva che c’era già, la donna. Maria Maddalena Rossi, a Piero Calamandrei che diceva che le donne con la richiesta di famiglia democratica stavano contrastando il codice civile, rispondeva con fierezza: “Le donne cambieranno i codici”. Non parliamo poi degli interventi fondamentali sull’articolo 3. Lina Merlin ha il merito di aver fatto aggiungere la parola “sesso” nella prima parte dell’articolo 3, “Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di..”. Le dicevano che non serviva e che era implicito e lei si richiamava alla rivoluzione francese, dove “cittadino è considerato solo l’uomo con i calzoni, e non le donne, anche se oggi la moda consente loro di portare i calzoni”. Teresa Mattei fece aggiungere la parola “di fatto” alla limitazione della libertà e dell’uguaglianza, a sottolineare che le conquiste giuridiche sono importanti ma non sufficienti. E così si arriva al comma 2 dell’articolo 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E così nasce la nostra Carta Costituzionale con il segno sostanziale delle madri costituenti. Fantastiche! Una bussola fondamentale per sviluppare la libertà femminile e una vera democrazia. Ma la verità è che siamo molto indietro nell’attuarla, nonostante le grandi mobilitazioni delle donne, le loro innumerevoli conquiste, le leggi varate soprattutto negli anni ‘70, ma anche successivamente. Le leggi rimangono in molti casi sulla carta. Quella che istituiva i nidi pubblici era del 1971. Dopo 60 anni dove sono? La legge che costituiva i consultori nel 1975 come è stata attuata? La legge 328 sull’assistenza ad anziani e a disabili del 2000 non ha ancora visto la definizione dei livelli essenziali di assistenza. L’assunzione della Convenzione di Istanbul non ci vede applicarne uno dei contenuti, quello del rafforzamento dei centri antiviolenza e della loro estensione. La legge sulla parità salariale? E potrei continuare. Il grande vulnus della nostra democrazia a 77 anni dal 2 giugno 1946 è la svalorizzazione delle donne nel Paese. Fin quando questo nodo fondamentale non sarà risolto, non faremo il balzo vitale di libertà e giustizia sociale di cui il nostro Paese ha bisogno. L’approccio economicocentrico delle politiche ha impedito che il nostro Paese valorizzasse le donne che si sono affermate contro tutto e contro tutti, sulla base del loro valore, pagando un alto prezzo per la propria volontà di realizzarsi su tutti i piani. Altamente penalizzate in presenza di figli. Senza nessuna politica che realmente, e non a parole, renda loro possibile sprigionare la propria energia creativa su tutti i piani. Costrette a rinunce, rinvii, sacrifici, più sforzi per ottenere meno. Il tutto pur essendo la maggioranza della popolazione. Ci vuole una riscossa democratica contro le diseguaglianze, per la libertà di tutti. Tante intricate matasse del nostro Paese si sbroglieranno tirando il filo della soluzione della condizione femminile e se saremo capaci di imporre la centralità di questa questione nella strategia politica. Noi tutti cittadini democratici del Paese. Questo sarebbe il modo giusto per festeggiare la nostra Repubblica. FdI vuole il reato universale di Gpa, ma i condannati saranno i bambini di Giulia Merlo Il Domani, 2 giugno 2023 Vittorio Manes, avvocato e professore ordinario di Diritto penale a Bologna, analizza la proposta di rendere “reato universale” il reato di gestazione per altri, come da proposta di Fratelli d’Italia. “Per perseguire fatti commessi interamente all’estero è quello della cosiddetta doppia incriminazione, ossia la previsione come reato anche nell’ordinamento dove il fatto è commesso”. “La mia impressione è che queste riflessioni siano rimaste in superficie, o persino sovrastate da altre finalità, principalmente volte a tramandare un messaggio simbolico, o persino pedagogico, che non dovrebbe essere proprio di una legislazione penale razionale” Fratelli d’Italia ha scelto il suo totem giuridico: rendere la gestazione per altri quello che viene definito dal disegno di legge a prima firma di Carolina Varchi, “reato universale”. La pratica - che è una forma di procreazione assistita in cui una donna provvede alla gestazione per conto di una o più persone che acquisiranno la responsabilità genitoriale nei confronti del nascituro - nel nostro ordinamento è già reato, punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. FdI, però, vuole far sì che la gestazione per altri venga perseguita in Italia anche se il fatto è commesso all’estero. Una previsione del genere, però, si scontra con l’interesse del minore e sembra volta “a tramandare un messaggio simbolico, o persino pedagogico, che non dovrebbe essere proprio di una legislazione penale razionale”, spiega Vittorio Manes, avvocato e ordinario di Diritto penale all’università di Bologna. Professore, in quali ambiti è utilizzato il concetto di “reato universale”? In generale, il concetto di “giurisdizione universale” nasce in relazione a gravissimi crimini internazionali, quali, ad esempio, il genocidio ed altri crimini contro l’umanità, per permettere una repressione di queste intollerabili forme di criminalità a prescindere dal luogo dove siano commessi. Vi sono poi ipotesi in cui speciali disposizioni di legge prevedono una estensione della giurisdizione italiana, come in relazione ai delitti di violenza sessuale, schiavitù, tratta e pedopornografia, quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano, ovvero - a talune condizioni - dallo straniero in concorso con cittadino italiano. Una tale giurisdizione “estesa” si spiega in ragione della particolare gravità degli specifici reati e di un diffuso giudizio di disvalore su condotte poste a tutela di interessi di “valore universale”, la cui protezione rafforzata è espressiva di un principio di solidarietà internazionale tra Stati. Ci sono casi in cui questa “universalità” viene estesa ai reati comuni? Rispetto ai delitti “comuni” realizzati dal cittadino all’estero, il nostro codice prevede che il cittadino sia punito secondo la legge italiana purché si trovi nel territorio dello Stato e, per i delitti puniti con pena restrittiva della libertà inferiore nel minimo a tre anni - come nel caso del reato di gestazione per altri - purché vi sia richiesta del ministro della Giustizia. Una richiesta che, a quanto consta, non è mai intervenuta sino ad oggi. Si tratta di un costrutto giuridico razionale in relazione al reato di gestazione per altri? In questo caso la valutazione deve essere necessariamente più articolata. Può dirsi che vi sia un giudizio di diffuso disvalore - non solo in Italia - sulla condotta di gestazione per altri motivata da ragioni lucrative, quindi al cospetto della mercificazione di una funzione biologica essenziale della donna. Ma questo giudizio cambia già, ad esempio, nel caso di una gestazione per altri motivata da ragioni di solidarietà, e soprattutto contempla risposte sanzionatorie molto diverse a seconda dei contesti. Rendere tale reato, che nel nostro ordinamento è già previsto, come “universale” solleva interrogativi riguardo a tutti gli interessi coinvolti, in primis quelli del minore, che non deve pagare il prezzo di condotte altrui. Dal punto di vista puramente tecnico, è possibile punire in Italia un fatto commesso all’estero, dove esso non è reato? Al momento no, se non nelle ipotesi speciali già menzionate. Il principio di fondo per perseguire fatti commessi interamente all’estero è quello della cosiddetta doppia incriminazione, ossia la previsione come reato anche nell’ordinamento dove il fatto è commesso. Il principio si fonda sul rispetto della sovranità dei singoli Stati. Altrimenti, l’effetto sarebbe di scardinare del tutto le frontiere fra i diversi ordinamenti ed il giudice penale finirebbe, è stato detto, per trasformarsi in un “cavaliere errante della giustizia penale”. Ritiene che la proposta di FdI superi la prova di un vaglio tecnico? La mia impressione è che queste riflessioni siano rimaste in superficie, o persino sovrastate da altre finalità, principalmente volte a tramandare un messaggio simbolico, o persino pedagogico, che non dovrebbe essere proprio di una legislazione penale razionale. Ragioniamo sulle conseguenze di questa iniziativa di estendere la giurisdizione anche a condotte realizzate interamente all’estero. C’è il rischio che si finisca davanti alla Corte costituzionale? Il diritto penale non è una risorsa a costo zero, ma innesca sempre effetti collaterali. La creazione di un “reato universale” innesca effetti dannosi che si riverberano, soprattutto, sul superiore interesse del minore ad uno stato di filiazione che risponda alle sue concrete esigenze di vita e all’instaurazione di rapporti socio-familiari effettivi che prescindono dal mero dato biologico, con tutta una serie di significative conseguenze legali, come il diritto al cognome o alla cittadinanza. La punibilità del fatto anche se commesso all’estero, in particolare, può confliggere e sacrificare diritti fondamentali che al minore non possono essere negati, anzitutto il superiore interesse del minore alla conservazione del proprio status e dei legami familiari ed affettivi già instaurati. Basti considerare che la richiesta di trascrizione dallo stato civile straniero in quello italiano equivarrebbe ad una vera e propria “autodenuncia” dei genitori, con conseguenze - facilmente intuibili - su tutto il nucleo familiare. Questo governo è stato finora decisamente “creativo”, introducendo reati o allargando la portata di quelli esistenti. Come valuta questa scelta? È in atto una tendenza - ormai conclamata - ad invocare il diritto penale soluzione facile, veloce e frugale, per ogni problema sociale, anche per le questioni “ad altissima sensibilità etico-sociale”, per usare le parole della Consulta. Un diritto penale sempre più utilizzato in funzione prettamente simbolica, per conseguire consensi elettorali o persino indirizzato a compiti di pedagogia sociale. Ma il diritto penale non può prestarsi a questi compiti, che non gli sono propri. Che effetti si producono? Innanzitutto si compie una evidente semplificazione, poi si accetta una “doppia finzione”. Da un lato si scommette ingenuamente sul fatto che gli effetti attesi si realizzino, il che è tutto da dimostrare. Dall’altro si trascurano gli effetti collaterali che l’incriminazione concretamente produce, specie sui diritti fondamentali coinvolti e travolti dalla scelta legislativa. Anche per le proposte penali in materia di maternità surrogata bisognerebbe considerare, anzitutto, gli effetti collaterali. E ricordare il monito di Umberto Eco: per ogni problema complesso esiste sempre una soluzione semplice; ed è sbagliata. Migranti. Strage di Cutro, primi indagati per mancati soccorsi di Simona Musco Il Dubbio, 2 giugno 2023 Perquisizioni nelle sedi di Frontex, Guardia di finanza e Capitaneria di porto per fare luce sul naufragio in cui hanno persona la vita almeno 94 persone. Sei gli indagati con l’ipotesi di naufragio colposo, rifiuto ed omissione di atti d’ufficio. La Guardia Costiera, ore prima, classificò la vicenda come “evento migratorio”. Inspiegabili ritardi, nonostante il target - la nave poi colata a picco con il suo carico di anime - fosse stato intercettato dai radar in tempo utile per evitare la tragedia. Tanto che almeno cinque ore prima della tragedia la Guardia Costiera classificò la presenza di quella nave nelle acque calabresi come “evento migratorio”. È quanto si legge nelle carte con le quali la procura di Crotone ha iscritto sul registro degli indagati tre militari del reparto operativo aeronavale della Guardia di Finanza di Vibo Valentia e alcuni ufficiali della capitaneria di porto. Si tratta di di Alberto Lippolis, comandante del Roan della Guardia di Finanza di Vibo Valentia, Antonino Lopresti, luogotenente della Guardia di Finanza di Vibo Valentia e Nicolino Vardaro, comandante del Gruppo Aereonavale della Guardia di Finanza di Taranto, indagati con l’ipotesi di naufragio colposo, rifiuto ed omissione di atti d’ufficio. Ma ci sono almeno altre tre persone indagate, per il momento coperte da omissis, con lo scopo di vederci chiaro sulla catena di soccorsi del tragico sbarco del 26 febbraio scorso a Steccato di Cutro, nel quale hanno perso la vita almeno 94 persone. E proprio per tale motivo, il pm Pasquale Festa e il procuratore Giuseppe Capoccia hanno disposto alcune perquisizioni nelle sedi locali dei due corpi e nella sede del Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia, competente su tutto il territorio regionale, sequestrando documenti e telefonini, per capire cosa sia successo nelle ore immediatamente precedenti la tragedia. Passati al setaccio anche gli uffici di Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, la prima ad aver avvistato il caicco che poi si è schiantato su una secca a pochi passi dalla costa. Una tragedia evitabile, con ogni probabilità, dal momento che Frontex, già alle 21.26 del 25 febbraio, aveva appuntato la presenza di una “possibile nave di migranti” con il portello anteriore aperto, intercettata mentre effettuava una chiamata satellitare verso la Turchia e con una significativa risposta termica. Il naufragio è avvenuto alle 4 di domenica 26 febbraio, ma la Guardia Costiera ha raccolto i superstiti in mare, attraverso un’imbarcazione, soltanto alle 6.50, nonostante il porto si trovi a poche miglia di distanza, a soli 10 minuti di navigazione. Un dato che conferma il racconto dei sopravvissuti - rimasti in mare circa tre ore prima di essere salvati - e riportato nella relazione della Guardia Costiera, da incrociare con un’altra circostanza: le pattuglie via terra sono arrivate in spiaggia alle 5.35, un’ora e 35 minuti dopo il naufragio. La ricostruzione della procura - Secondo quanto si legge nel decreto di sequestro, alle ore 22.26 del 25 febbraio l’aereo “Eagle 1” di Frontex, impegnato nel servizio di controllo delle frontiere esterne dell’Unione Europea, individuava un “target” sospetto diretto verso le coste calabresi, inoltrando la relativa segnalazione all’ufficio competente a Varsavia. Alle 23.03, dunque, la segnalazione viene inoltrata all’International coordination centre di Pratica di Mare, nonché al Viminale e alla Guardia Costiera, comunicando le coordinate del caicco, la rotta e la possibile presenza di persone sottocoperta, in assenza di giubbotti di salvataggio. Frontex comunica inoltre la rilevazione di una telefonata satellitare verso la Turchia, i portelloni aperti e una significativa risposta termica dai boccaporti. Da questo momento, dunque, tutti sono a conoscenza della presenza della nave, tant’è che il Comando Generale della Guardia Costiera, alle ore 23.30 circa, predispone un fascicolo sull’evento in corso, classificandolo come “evento migratorio” e informando la Capitaneria di Reggio Calabria senza particolari indicazioni. In una telefonata partita alle 23.49 tra l’operatore del Roan della Guardia di Finanza di Vibo Valentia e il capo turno della sala operativa della Guardia Costiera, registrata sul server del Mrsc di Reggio Calabria, l’operatore del Roan, su indicazione di Lo Presti, informa l’operatore della capitaneria di porto dell’impiego di una motovedetta. Durante la conversazione, l’operatore avvisa della possibilità di allertare una unità, ricevendo rassicurazioni da parte dell’operatore della Guardia di Finanza. Nonostante quanto riferito alla sala operativa della capitaneria di porto e attestato da Lo Presti dall’annotazione redatta dal comandante della vedetta, la motovedetta, lungi dall’essere in navigazione alla ricerca del target, si trova in realtà “all’interno del porto di Crotone”. Stando alla relazione di servizio, “valutati i dati cinematici al momento in possesso e nelle more di ricevere un possibile ed eventuale aggiornamento della posizione del target così da indirizzare e restringere l’area di ricerca, la vedetta rientrava nel porto vecchio per eseguire una puggiata operativa finalizzata al rifornimento carburante e vi rimaneva fino alle ore 02.20 del 26 febbraio”. Secondo la procura, però, “le modalità di redazione del giornale di chiesuola - ovvero il registro sul quale vengono annotati tutti gli elementi relativi alla navigazione - inducono a ritenere che le circostanze presenti alle pagine 37, 38, 39 e 40, verificatesi in momenti antecedenti al disastro, quindi in una situazione non di emergenza, siano state annotate successivamente ai fatti”. “Appare ragionevole ritenere - scrive ancora la procura - che a causa dell’impossibilità di impiegare la vedetta veniva richiesta al Gan di Taranto, comandato da Nicolino Vardaro, l’impiego del pattugliatore “Barbarisi” distaccato il giorno prima dal porto pugliese per prestare servizio a Crotone”. Vardaro, alle 23.06, viene informato della necessità di impiegare il pattugliatore e dell’arrivo della nave attorno alle 3. Ciononostante, “impartiva l’ordine di salpare alle ore 02.10, solo dopo aver ricevuto alcuni solleciti da Lo Presti”, iniziando la navigazione alle 2.30. Il radar ignorato - Alle ore 03.50, la Sala Operativa del Roan di Vibo Valentia acquisisce tramite la rete radar costiera la posizione di una nave, a quel punto a circa due miglia da Le Castella, “non immediatamente riconducibile all’imbarcazione segnalata da Frontex”. Dall’analisi delle tracce del radar, “emerge che il natante oggetto di segnalazione era stato agganciato, per la prima volta, alle ore 03.34.28 a distanza di 6,329 km dalla costa di località Le Castella di Isola Capo Rizzuto e di 13,519 Km dalla Foce del torrente Tacina (luogo in cui avverrà il naufragio) e veniva monitorato per circa 38 minuti, con ultimo aggancio avvenuto alle ore 04.12.10 ad una distanza dalla foce del torrente Tacina di 3,643 Km”. Successivamente all’inversione di rotta delle navi della Finanza, tra le 03.58.03 e le 03.59.38, quindi successivamente anche all’orario indicato dal Lippolis e Lo Presti, intercorre un’ulteriore conversazione tra l’operatore della sala operativa del Roan di Vibo e l’operatore della sala operativa dell’Mrsc di Reggio Calabria (sempre captata sui server della Cp) durante la quale, sebbene il target sia monitorato da circa 24 minuti, l’operatore di sala riferisce che “dal radar al momento non battiamo nulla”. Nessuna traccia delle conversazioni - La procura, nel tentativo di ricostruire la vicenda e comprendere “le ragioni sottese a simili scelte operative, al ritardo accumulato nell’operazione della Gdf e alla mancata comunicazione della posizione del natante alla Cp” ha tentato di acquisire le comunicazioni di servizio intercorse tra gli operatori della Guardia di Finanza impegnati nel servizio quella notte, “ma sui server in uso alla Guardia di Finanza non veniva ritrovata alcuna traccia audio”. Da qui il sequestro dei telefonini, dal momento che gli stessi operatori “hanno utilizzato per le comunicazioni anche i telefoni privati o di servizio”. Inoltre, nelle relazioni di servizio “non vengono esplicitate le ragioni di simili scelte operative procedendosi esclusivamente all’elencazione delle circostanze già emergenti dai documenti ufficiali”. Le norme ignorate - Ad essere coinvolti nelle indagini, dunque, sono anche i due corpi dello Stato che il governo ha tentato in ogni modo di scagionare, sin dalle primissime ore. La Guardia di Finanza, subito dopo la segnalazione di Frontex, era uscita in mare per un’operazione di polizia, senza tenere in considerazione - come evidenziato dai legali delle famiglie delle vittime - “l’articolo 7 del Decreto del ministero dell’Interno 14.7.2003, secondo cui “nell’assolvimento del compito assegnato l’azione di contrasto è sempre improntata alla salvaguardia della vita umana ed al rispetto della dignità della persona”. Il che significa, dunque, che la tragedia si sarebbe potuta evitare “assegnando a questo tragico evento i crismi della singolarità nel confronto con le tante tragedie e naufragi, costate la perdita di migliaia di vite umane, e il salvataggio eroico, da parte dei nostri Corpi, di un numero ancor più grande di vite”, avevano evidenziato i legali in un lungo documento depositato in procura. A causa delle condizioni avverse del meteo, però, le Fiamme Gialle erano rientrate in porto, abbandonando l’operazione - e, dunque, anche il contrasto ad un possibile reato -, avvisando la Guardia Costiera. Nessuno è, però, più uscito in mare, nonostante la presenza delle cosiddette “inaffondabili”, imbarcazioni autoraddrizzanti capaci di operare anche in condizioni meteomarine proibitive, come quelle di quella notte. La motovedetta della Guardia costiera intervenne,dunque, circa sei ore dopo l’avvistamento e solo a seguito dell’allarme lanciato da alcuni pescatori che si trovavano sulla spiaggia di Steccato, dove ormai erano affiorati i primi corpi. I legali delle famiglie delle vittime - “Siamo sempre stati convinti che il procedimento per i mancati soccorsi fosse in ottime mani - commenta al Dubbio Francesco Verri, componente assieme ai colleghi Luigi Li Gotti, Mitja Gialuz e Vincenzo Cardone del team legale che segue i familiari delle vittime -. Le mani di magistrati che cercano la verità senza guardare in faccia nessuno. Oltre cento morti reclamano questa verità e le indagini stanno procedendo spedite verso il traguardo. Avremo un processo per la strage di Steccato di Cutro, questo è poco ma sicuro. Lo Stato ha responsabilità evidenti e la procura di Crotone le accerterà per portare chi ha sbagliato davanti al giudice”. Abusi nel respingimento collettivo: il dramma dei 500 migranti verso la Libia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 giugno 2023 Le Ong denunciano il mancato soccorso italiano. E Malta li ha “trascinati” nei famigerati centri di detenzione libici. Ci sarebbe stata una operazione, per procura, di respingimento collettivo dove si prefigurerebbe un abuso per mancato soccorrimento. A effettuare il respingimento verso la Libia di 500 migranti fuggiti soprattutto dalla guerra in Siria è stata l’autorità maltese, ma - secondo quanto denunciano le ong Alarm Phone, Sea-Watch, Mediterranea Saving Humans ed Emergency - le Autorità italiane avrebbero dovuto mobilitare i soccorsi per proteggere quelle vite e garantire il loro sbarco in un luogo sicuro. Nel pomeriggio del 23 maggio 2023, oltre 500 persone provenienti dalla Siria, dall’Egitto, dal Bangladesh e dal Pakistan, tra cui donne e bambini, sono fuggite dalla violenza e dalla prigionia in Libia. Purtroppo, le loro speranze di trovare sicurezza sono state infrante quando sono stati riportati in Libia, un paese che ancora non riesce a garantire la protezione dei diritti umani fondamentali. Il loro viaggio verso la speranza ha subito un duro colpo quando il motore del peschereccio a doppio ponte su cui si trovavano ha smesso di funzionare. Senza possibilità di controllo, l’imbarcazione è stata abbandonata alla deriva. Le richieste di soccorso disperate delle persone a bordo sono state ignorate dalle autorità responsabili, nonostante la posizione GPS indicasse chiaramente la loro presenza nella zona di ricerca e soccorso (SAR) maltese. Fortunatamente, il gruppo in pericolo è riuscito a contattare la rete Alarm Phone, che ha immediatamente allertato le autorità competenti a Malta e in Italia. Ma nonostante l’urgente bisogno di soccorso, la situazione delle 500 persone è peggiorata ulteriormente. Con l’imbarcazione che affondava e l’acqua che invadeva gli spazi interni, le persone sono state costrette a fuggire sul ponte superiore per cercare di sopravvivere. Nonostante il pericolo imminente, le navi mercantili che transitavano nella zona non si sono fermate per prestare aiuto. Ciò solleva interrogativi sulla mancata comunicazione delle autorità maltesi alle navi presenti in zona riguardo alla presenza del peschereccio alla deriva con 500 persone in pericolo. Questo fallimento ha ulteriormente complicato la situazione critica delle persone a bordo. Dopo ore di comunicazione con Alarm Phone, l’ultima volta che si è avuta notizia delle persone a bordo è stata alle 6: 20 del 24 maggio. Successivamente, nonostante i numerosi tentativi di riconnettersi, sia i parenti che Alarm Phone non sono stati in grado di stabilire un contatto. Ciò ha alimentato il timore che le 500 persone potessero essere state intercettate e rimpatriate forzatamente in Libia, un paese notoriamente instabile e pericoloso. Le preoccupazioni si sono rivelate fondate quando, la mattina successiva, è emerso il destino tragico del gruppo. Le 500 persone non erano state soccorse come richiesto, ma invece trainate in modo forzato per oltre 160 miglia nautiche, equivalenti a più di 300 chilometri, fino al porto libico di Bengasi. Questo respingimento, di fatto, illegale e la successiva deportazione, sono state coordinate dalle autorità responsabili della zona di ricerca e soccorso maltese, il RCC Malta. Secondo le Ong questa operazione ha evidenziato una chiara violazione dei diritti umani e delle convenzioni internazionali. Invece di fornire assistenza e garantire un luogo sicuro per le persone che cercavano di sfuggire alla violenza estrema in Libia, l’autorità di uno Stato membro dell’Unione Europea, ovvero Malta, secondo le Ong ha agito in modo irresponsabile. Ha ordinato un respingimento collettivo in mare, mettendo di fatto a rischio la vita di 500 individui e costringendoli a un pericoloso viaggio di oltre 300 chilometri fino a farli rinchiudere nei centri di permanenza libici conosciuti per essere una detenzione infernale. Ciò che rende ancora più sconcertante questa situazione è il silenzio delle autorità competenti. Non solo non hanno risposto alle richieste di soccorso e aiuti delle organizzazioni di soccorso civile, come Alarm Phone, Emergency e altre, ma hanno anche mantenuto il segreto sulla sorte del gruppo. Le Ong hanno giustamente denunciato le azioni delle autorità italiane e maltesi, sottolineando come la mancanza sistematica di assistenza in mare da parte di Malta, all’interno della sua zona di competenza, fosse già nota da tempo. Pertanto, le autorità italiane avrebbero dovuto intervenire per proteggere le 500 vite in pericolo e garantire il loro sbarco in un luogo sicuro. Questo fallimento nell’adempimento del dovere umanitario minaccia i valori fondamentali dell’Unione Europea e solleva gravi preoccupazioni sulla gestione delle crisi migratorie nella regione. La storia di queste 500 persone fuggite dalla guerra e dalla prigionia in Siria e successivamente riportate in Libia rappresenta una tragica testimonianza dei gravi abusi dei diritti umani e dell’indifferenza delle autorità competenti. È fondamentale che venga fatta luce su questo incidente, che vengano assunte responsabilità e che si adottino misure concrete per evitare che situazioni simili si ripetano in futuro. La protezione dei diritti umani e la salvaguardia delle vite umane dovrebbero essere la priorità assoluta nelle operazioni di soccorso e nell’affrontare la questione delle migrazioni. Ricordiamo che la Libia non può essere considerato un Paese sicuro, ma si continuano a fare accordi. Essere una persona migrante in Libia significa infatti essere costantemente a rischio di essere: arrestato, detenuto, abusato, picchiato, sfruttato. Eppure, oltre ai respingimenti, ricordiamo che l’Italia ha rinnovato il cosiddetto memorandum dove non si pone alcun limite alle violazioni dei diritti delle persone migranti in Libia. L’Ue vota l’economia di guerra: “Sì ai fondi del Pnrr per le armi” di Andrea Carugati Il Manifesto, 2 giugno 2023 Europarlamento. Destre a favore, ma il governo: non li useremo. Il Pd si spacca: 10 sì, 4 astenuti e un no. I dem sotto attacco di destre e terzo polo per difetto di atlantismo. Fratoianni: se si è contrari si vota contro. L’Europa corre verso un’economia di guerra. Il Parlamento europeo ieri ha approvato a larga maggioranza (446 sì, 67 no e 112 astensioni) il regolamento Asap (Act in Support of Ammunition Production) voluto dal commissario al mercato interno Thierry Breton. Nessuna suspence sull’esito del voto che apre il negoziato con i 27 paesi per arrivare a luglio al voto finale che consentirà ai paesi Ue di utilizzare anche i fondi del Pnrr e di Coesione per produrre munizioni e armi. Oltre alla minima dotazione prevista dal regolamento (500milioni) la novità è che i paesi potranno dirottare miliardi del Pnrr (che era stato pensato per il welfare e la transizione ecologica dopo la pandemia) sulla produzione di armi. Anche il gruppo socialista, dopo che gli emendamenti voluti dal Pd per escludere il Pnrr dai fondi cui attingere per gli armamenti erano stati bocciati, ha dato indicazione per il sì al regolamento. Un sì motivato anche dalla necessità, hanno spiegato, di continuare a fornire armi all’Ucraina e, nel contempo, riempire arsenali sempre più vuoti. Tra i socialisti ci sono stati 95 sì, 10 no e 20 contrari. Segno che, anche tra chi vuole sostenere Kiev, cominciano ad emergere dubbi sulla forsennata corsa al riarmo. Tra i partiti italiani, le destre e l’ex terzo polo hanno votato convintamente a favore (e contro le modifiche chieste dai dem), no da Verdi e M5S. Il Pd si è spaccato rumorosamente: 8 hanno votato sì, e tra loro il capogruppo Brando Benifei e la vicepresidente del parlamento Pina Picierino, oltre alle deputate Tinagli e Gualmini e all’ex ministro De Castro. Sei gli astenuti, tra loro Camilla Laureti della segreteria di Schlein (è responsabile agricoltura), Pietro Bartolo e l’ex pm antimafia Franco Roberti. Mentre Alessandra Moretti e Patrizia Toia, che risultavano astenute, hanno poi spiegato che si è trattato di un “errore materiale” e che il loro era un voto a favore. Un solo contrario, Massimiliano Smeriglio, che spiega: “Cresce l’area del dissenso sulla trasformazione dei fondi del Pnrr e di coesione in armi. Un atto sbagliato che riarma 27 eserciti con soldi per le politiche sociali e ambientali senza far fare un passo in avanti alla difesa comune europea. E per il governo Meloni un assegno in bianco per modificare il Piano di ripresa a proprio piacimento. Lavoriamo per ribaltare questo esito con il voto finale sull’atto previsto a luglio. Bene anche il dissenso che si è espresso tra le fila del Pd”. I 5 Stelle rivendicano il loro no: “Siamo convinti che questa folle corsa al riarmo non è assolutamente la strada giusta per costruire un futuro di pace in Europa e nel mondo”. Nicola Fratoianni definisce “indecente” la decisione europea. “La guerra porta con sé l’economia di guerra, spinge la corsa della spesa militare, e lo fa a scapito del futuro”, spiega il leader di Si che ha partecipato con i Verdi a un flash mob davanti a Montecitorio. Quanto al Pd, ragiona, “se si è contrari a una scelta si vota contro. Essere contrari e votare a favore non funziona”. I dem ora puntano sull’evitare che il governo italiano utilizzi i fondi del Piano di ripresa. Ieri in Senato hanno presentato una interrogazione al ministro Raffaele Fitto, chiedendo che il governo escluda l’uso di quei fondi per le armi. “La facoltà di poter accedere a queste risorse non è in alcun modo all’ordine del giorno”, la risposta del ministro di Fdi. Ma i dem non sono convinti della buona fede dell’esecutivo. Per questo hanno chiesto un voto del Parlamento. “Le rassicurazioni del ministro non ci rassicurano, perché i gruppi della destra nel Parlamento europeo hanno votato contro gli emendamenti presentati dal Pd che prevedevano espressamente l’eliminazione della possibilità di utilizzo, attraverso fondi Pnrr, di risorse per l’acquisto di armi e munizioni”, ha detto il capogruppo Francesco Boccia. “Per noi è necessario arrivare ad un voto in Aula su un atto di indirizzo che trasformi l’impegno assunto oggi dal ministro in atti non più reversibili”. Sul Pd piovono critiche da tutte le parti. Dal terzo polo e da +Europa l’accusa è di aver abbandonato l’atlantismo e di aver abboccato “alla propaganda pacifinta del M5S”. Dal partito di Conte l’accusa opposta. “Il Pd alla fine ha votato sì ad un regolamento che apre alla possibilità di usare il Pnrr per il riarmo, quando si era detto contrario: comportamento per me incomprensibile”, attacca il capogruppo Stefano Patuanelli. L’Europa dal welfare al warfare di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 2 giugno 2023 Non solo non usciamo dalla guerra, ma la sua agenda diventa sempre più onnivora e si allarga come del resto avviene sul campo di battaglia. Il voto di ieri dell’Europarlamento che ha approvato la relazione della Commissione europea denominata Asap (Act to Support Ammunition Production) dice che i governi nazionali potranno impegnare a man bassa fondi già destinati dal Pnrr (Il Piano di Ripresa e resilienza) per l’avvio del Next generation Eu e indirizzarli invece direttamente sul riarmo. Si può dire che questa scellerata decisione era attesa, visto che nessuna delle leadership europee si pone il problema di come fermare il disastro della guerra russo-ucraina e visto che l’unica prospettiva, emersa anche ieri dal vertice internazionale in Moldavia, è l’ingresso dell’Ucraina nella Nato - come se questo non precipitasse ancora di più nella voragine la crisi ucraìna: alla criminale guerra di Putin si risponde con la guerra atlantica. Nessuno avverte che la soluzione non si trova in più armi e più guerra, garanzia di ulteriore morte e distruzione. Ma il voto di ieri, che tace e insieme allontana anche la prospettiva di un cessate il fuoco e di un negoziato, è particolarmente grave. Perché all’ordine del giorno non c’era nemmeno l’invio di armi sì oppure no - su cui gli interrogativi dopo un anno e tre mesi di guerra sono aumentati: ci sipoteva pure dividere all’inizio dell’invasione russa su questo, ma ora che gli arsenali con i tanti invii si sono vuotati è chiaro che questo vuol dire solo accettare la politica di riarmo che i governi stanno imponendo ai vari Paesi; e poi non c’era forse anche dentro il Pd un’area significativa che chiedeva che le armi da inviare dovessero essere solo di difesa, mentre ora la guerra dilaga in Russia? Tant’è: la deterrenza nucleare è finita e non fa a quanto pare più paura la ripetuta minaccia atomica che incombe. No. Ieri l’Europarlamento ha votato sì all’’autorizzazione ad un prelievo forzato, ad una distrazione di fondi che non è prevista nemmeno dai Trattati europei. Che impediscono di finanziare con soldi comunitari le industrie militari nazionali. Perché l’Europa fin qui ancora - ma fino a quando? - è segnata dai fondamenti della sua costruzione che allontana le ragioni della guerra ricordando la tragedia di due guerre mondiali. Stavolta infatti la decisione presa è quella di attingere, per la produzione di armi, ai fondi destinati alle Regioni per sostenere le politiche sociali, il lavoro e il diritto allo studio, l’ambizione ambientalista della transizione ecologica e, dopo tre anni di pandemia, il nuovo, ineludibile, assetto della sanità, in più l’attenzione al dramma delle migrazioni epocali e al diritto d’asilo. Ecco perché anche le neosegretaria del Pd Elly Schlein ormai ripete che “non sarà l’ultimo fucile a porre fine a questa guerra”. Ieri Schlein e tutto il gruppo Pd erano per emendamenti contrari, ma alla fine il voto è stato di 10 a favore all’Asap, 4 astenuti e uno contrario. Una spaccatura: il Pd resta sospeso anche sulla guerra. La decisione di ieri dell’Europarlamento mette in discussione tutto: sia il fatto che nuovo armamento può essere prodotto utilizzando fondi che erano destinati a migliorare la vita delle persone dopo le costrizioni da pandemia, sia i fondamenti stessi dell’Unione europea. L’indirizzo è chiaro, visto che la prospettiva è quella di una guerra di anni se non infinita, l’obiettivo praticato è passare dal welfare al warfare. Un indirizzo non solo europeo ma mondiale. Lo conferma il trend della spesa globale del 2022 - ricordava sul manifesto Massimiliano Smeriglio l’eurodepudato di S&D che è protagonista di questo scontro nelle istituzioni europee: la spesa militare globale ha raggiunto la cifra record di 2.200 miliardi dollari con Stati uniti, Russia, Francia, Cina e Germania - che ha decsio un riarmo di ben 100 miliard di euro - in prima fila, e l’Italia “crosettiana” è sesta nel campionato mondiale degli esportatori di armi. Sarà nuovo alimento per quel fronte di paesi autoritari - più atlantisti che europeisti -, Visegrad e non solo, che stanno diventando la nuova trazione dell’Unione europea aspettando la nefasta conferma che si avvicina- vedi il voto spagnolo e greco - delle prossime elezioni continentali. E una manna per il governo italiano di estrema destra-destra che ha nella guerra e nella sua continuità una polizza assicurativa a vita. Ora il ministro Fitto, incapace di spendere i soldi del Pnrr per opere civili e sociali, dice che questo il governo non lo accetta: provi a chiedere a Crosetto? E al fronte di Giorgia Meloni che con i Conservatori ha votato sì, insieme ai Popolari di Weber, ai Socialisti europei e a tutto il centro e alle destre. La partita però non è chiusa. Non tanto perché il voto finale sull’atto è previsto per luglio, ma perché per la prima volta cresce l’area di dissenso verso queste scelte scellerate: oltre ai 446 sì, ci sono state ben 116 astensioni - che coinvolgono il voto del Pd - e 67 no, tra cui i Verdi italiani, il M5s e il gruppo della sinistra europea del Gue. A fronte di una opinione pubblica secondo ripetuti sondaggi, contraria in Italia e dubbiosa in Europa, bisognerà alzare ancora più forte la voce contro la guerra, perché si fermi il massacro di vittime civili ormai dell’una e dell’altra parte, come ieri di tanti bambini e indifesi, la stessa ecatombe di militai mandati al macelloe . E perché il riarmo di 27 eserciti europei non avvenga sulla pelle degli ultimi e delle nuove generazioni. Kosovo ponte dell’odio, la città di Mitrovica è simbolo delle divisioni di Letizia Tortello La Stampa, 2 giugno 2023 Gli albanesi sfidano i serbi: “Via da casa nostra”. Il premier di Pristina Kurti risponde a Vucic: “È un autocrate ma sono pronto al dialogo. Elezioni anticipate solo se cessano le violenze”. Per Milos Petrovic, 36 anni, il mondo “a Sud” finisce lì. In piazza Fratelli Milic a Kosovska Mitrovica, Nord del Kosovo, il “Muro di Berlino” che divide simbolicamente il Paese in due. Milos è alto un metro e novanta e ha il piglio guardingo. Controlla se ci sono infiltrati. Anche se un confine tra serbi e albanesi non c’è, chi si permette di varcare la linea simbolica dell’odio, in questa mattina di manifestazioni contrapposte, serbi del nord e albanesi del sud della stessa città, rischia grosso. Milos ha 36 anni, è seduto su un muretto dipinto coi colori della Serbia, sotto il monumento che ricorderà per sempre come eroi Srdjan and Boban Milic, due membri del Corpo d’Armata jugoslavo di Pristina, uccisi dalla Nato in un bombardamento nel ‘99. Sono le 12 e la piazza di Mitrovica Nord si riempie di gente. Serbi per lo più uomini e giovani. Come allo stadio, l’atmosfera ribolle. Nessuno di loro è lì per caso. È un raduno, anche se i militari della Kfor sono ovunque, quindi non è bene darlo a vedere. Milos guarda fisso dall’altra parte del ponte che lacera Mitrovica, su Telegram arrivano video e notifiche e le fake news si mescolano alla suggestione: “Gli albanesi si stanno muovendo, vogliono venire qui”, si dice. A 150 metri di distanza oltre le arcate in cemento sul fiume Ibar, un centinaio di persone è sceso in strada, per farsi vedere e sentire. “Questo è il nostro Stato”, urlano dei ragazzini albanesi. Spuntano al collo bandiere dell’Uck, l’Esercito di Liberazione del Kosovo, simboli che sono fumo negli occhi per i coetanei al di là della passerella. Per Endrit Hoxha, 22 anni, muscoli scolpiti che escono dalla maglietta nera, il mondo “a Nord” finisce lì. In un microcosmo di rivendicazioni tra etnie di una terra che non ha pace e convivenza, anche se il Kosovo si è reso indipendente dalla Serbia nel 2008, ma c’è ancora qualche capitale tipo Belgrado che non lo riconosce. Endrit è con gli amici all’ombra della statua di Isa Boletini, eroe albanese. “Se sono mai andato a Mitrovica Nord? Sì, qualche volta. Ma non mi interessa vedere quella gente, la peggior gente del mondo, i serbi”, dice con rabbia. È arrivato da un villaggio vicino per sostenere la polizia kosovara. “Se non gli sta bene vivere lì, tornino da Vucic! - aggiunge, concitato -. Questo Stato è nostro, questo Stato è albanese! Dai Dardani, dagli Illiri, queste terre sono nostre. E anche Montenegro, Macedonia, anche la Grecia, se andiamo indietro. I serbi vedono una cosa e pensano che sia tutto loro”. Le camionette dei carabinieri presidiano il ponte di Mitrovica giorno e notte, ma in questo momento l’allerta è ai massimi livelli, dopo gli scontri di lunedì a Zvecan, tra serbi e militari della Nato, dove sono rimasti feriti 11 alpini e circa 50 persone tra soldati e civili. È un venerdì di festa al Sud, il “giorno dei bambini”, e si montano palchi per l’evento serale. Ma nessuno sa se il concerto si farà. Mai si era vista tanta tensione. “Questa è la nostra normalità. I serbi vogliono sfidare la nostra pazienza, se partono le molotov come l’altro giorno, scoppia la guerra”. Al Nord, il racconto è l’esatto opposto. Si dice che due albanesi abbiano osato attraversare il ponte: “Hanno iniziato a provocare e sono stati picchiati”, spiega Peter. È quasi la stessa generazione di Endrit, ma trovare chi abbia amici dalle due parti, a Kosovska Mitrovica, è molto raro. Passano le ore e i raduni, stavolta, si svolgono senza violenze. Ma ieri era anche la giornata della diplomazia. E di Kosovo si è parlato un po’ dovunque, da Oslo, al meeting dei ministri degli Esteri Nato, a Chisinau, dove si teneva il summit della Comunità politica europea. E proprio da quel palco, il presidente francese Macron e il cancelliere tedesco Scholz sono tornati a fare pressioni sul primo ministro di Pristina Kurti, perché organizzi presto nuove elezioni nei quattro Comuni del Nord, dove i sindaci albanesi eletti sono contestati. Dopo giorni di pressing internazionale, compreso dagli Stati Uniti Kurti in un colloquio con la stampa italiana, fa una parziale apertura e lancia un suo piano per la de-escalation: “La legittimità del voto è bassa, lo ammetto. I sindaci inizino il mandato e facciamo colloqui a Bruxelles con la Serbia, poi organizzo elezioni anticipate”. Pristina vuole tornare al dialogo, ma a patto che si formalizzi il riconoscimento del Kosovo, “con un modello ispirato a quello delle due Germanie della dottrina Willy Brandt”, continua. Che poi attacca il presidente serbo Vucic: “Un autocrate filorusso, con cui non puoi essere generoso”. Neanche l’Occidente deve esserlo, per Pristina. La polveriera Kosovo, se è possibile, si allontana sempre di più da una normalizzazione. Iran. A processo le croniste che scoprirono il caso Mahsa Amini, rischiano l’impiccagione di Parisa Nazari La Stampa, 2 giugno 2023 L’accusa è di cospirazione. Ma la rivoluzione delle donne non si arrende al regime. A chi mi chiede a che punto sia la notte in Iran porto l’esempio di Niloofar Hamedi e Elaheh Mohammadi, le due giornaliste rinchiuse in carcere dalla fine di settembre per aver raccontato sui rispettivi giornali la storia di Mahsa Amini, portandola di fatto all’attenzione del mondo. Per capire il significato politico del caso, di cui mi occupo sin dall’inizio cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica italiana, basti pensare che è finito alcuni mesi fa nelle comunicazioni ufficiali dell’intelligence di Teheran come emblema della minaccia incombente sul Paese. Le due donne, entrambe poco più che trentenni, sono accusate, secondo quanto ricostruito da Reporter senza frontiere, di “collaborazione con governi ostili, cospirazione e collusione contro la sicurezza nazionale e propaganda anti establishment”. La pena prevista è l’ergastolo ma, sostiene sempre Rsf, se gli inquirenti confermassero il reato di “spionaggio” rischierebbero l’impiccagione. Niloofar e Elaheh sono donne, sono attiviste, sono giornaliste, sono la parte della società che poco alla volta ha tolto la terra sotto i piedi del regime: sono la sua spina nel fianco. Mi diceva nei giorni scorsi Riccardo Noury di Amnesty International che la Repubblica Islamica d’Iran è l’unico Paese in cui se devi citare dieci militanti vivi trovi dieci donne. È una lotta che parte da lontano, che scava, carsica, sotto la routine quotidiana, ma che negli ultimi anni i social network hanno portato a galla. A quasi un anno dall’inizio della rivoluzione la repressione si è fatta incalzante. Dietro al messaggio spaventoso delle cariche in strada c’è quello, neppure troppo sotteso, agli organi d’informazione, ai giornalisti, a chi, raccontando, impedisce l’isolamento internazionale e dunque la condanna al silenzio del popolo iraniano. Niloufar, prigioniera a Evin, è imputata anche per aver scattato e pubblicato su “Sharq” la foto di Mahsa Amini morta in ospedale, un’immagine diffusa in realtà dalla famiglia. Mentre Elaheh, rinchiusa nel penitenziario di Qarchak, paga per la cronaca su “Hammihan” del funerale di Mahsa a Saqqez, nel Kurdistan occidentale, laddove risuonò per la prima volta lo slogan “Donna, vita, libertà”. Accuse che sono simboli, marcatori, come i colpi sparati dalla polizia agli occhi di chi protesta. Il bersaglio è donna ma non è solo donna. Le donne iraniane in prima linea sin dal principio coinvolgono anche perché sono giovani, belle, coraggiose. Eppure sarebbe un grave errore dimenticare gli uomini che le affiancano, quelli più a rischio, quelli le cui sentenze capitali vengono eseguite davvero. Dieci ragazzi sono stati impiccati dall’inizio delle proteste dopo presunte confessioni estorte con la tortura e un altro, Mohammad Ghobadloo, aspetta nel braccio della morte l’esecuzione annunciata come imminente. Mohammad è un ragazzo di soli 22 anni e soffre di disturbo bipolare. La situazione è pesante, l’attenzione del mondo è calata, le manifestazioni non ci sono quasi più e d’altra parte sarebbe stato difficile tenere le barricate in strada per nove mesi. Ma la protesta resiste, ha cambiato natura. Tanto per cominciare non si vede in giro neppure l’ombra di una contro-manifestazione, segno che ormai è impossibile per gli ayatollah trascinare in piazza le truppe cammellate minacciando ritorsioni: la società non li segue più al punto che durante l’ultimo corteo filogovernativo il quotidiano di Stato “Rooyesh Mellat” è stato costretto a ritoccare le immagini con Photoshop per camuffare la scarsa partecipazione. La geopolitica della nuova alleanza anti-occidentale con Mosca e l’ex nemica Riad gonfia la retorica ma non riesce a coprire le voci che cominciano a levarsi anche dentro alla maggioranza. E poi le donne, ancora loro, la spina nel fianco, l’icona del rifiuto. Anche se la prima udienza contro Niloofar Hamedi e Elaheh Mohammadi si è conclusa senza difesa, senza testimoni, al buio, anche se sono molto in ansia so che camminiamo. Due mesi fa un ufficiale della sicurezza nazionale ha ammesso che ci sono ormai milioni di donne senza velo in Iran e che non è possibile arrestarle tutte: uno squarcio nel buio, il regime non ha alcuna possibilità di vincere contro le sue donne e contro gli uomini che le sostengono. Non si vedono più i cortei di ottobre, novembre e dicembre ma il NO è germogliato, si è fatto corposo, è quotidiano. E non c’è bavaglio che tenga: “Donna, vita, libertà”.