Pace tra il ministro Nordio e l’Anm: “Aperto un tavolo sulle riforme” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 giugno 2023 Due giorni fa l’incontro a via Arenula dopo le tensioni sul Ddl del Guardasigilli. Santalucia: “Carriere separate, l’allarme c’è ma ci dicono che non se ne parlerà a breve”. Si è tenuto due giorni fa un tavolo istituzionale fra il ministro Carlo Nordio e una delegazione della giunta esecutiva dell’Anm. Un segnale di apertura e distensione dopo le polemiche dei giorni scorsi, scatenatesi con il varo del primo ddl Giustizia e le successive critiche avanzate dalle toghe. Al confronto hanno partecipato, per via Arenula, il capo di Gabinetto Alberto Rizzo e la vicecapo vicaria Giusy Bartolozzi, e per l’Associazione magistrati il presidente Giuseppe Santalucia, la vice Alessandra Maddalena, il segretario generale Salvatore Casciaro e i componenti Cecilia Bernardo, Aldo Morgigni ed Emilia Di Palma. “Si è trattato di un incontro franco e cordiale - hanno affermato, in una nota congiunta, ministro e “sindacato” dei giudici - che ha toccato i temi dell’efficienza del sistema giudiziario. Il ministro ha assicurato che ogni intervento futuro si muoverà nel pieno rispetto dei principi di autonomia e indipendenza della magistratura, e nel quadro delle garanzie costituzionali”. Di tregua si può effettivamente parlare: l’apertura del tavolo era stata richiesta dall’Anm dopo l’assemblea generale degli iscritti di inizio giugno, scandita dalle tensioni con il guardasigilli che aveva poi accusato le toghe di interferenza in relazione, appunto, al primo pacchetto di riforme approvato in Consiglio dei ministri. “L’incontro dovrebbe essere la prova che al di là delle parole non c’era l’intenzione di escludere dall’interlocuzione l’Anm”, ha osservato al riguardo Santalucia. Si può parlare allora di un segnale distensivo? “Sì, ma nella chiarezza delle posizioni reciproche. Noi abbiamo rimarcato la nostra contrarietà rispetto ad alcune riforme, ma le nostre preoccupazioni più forti sono sulle modifiche all’architettura costituzionale”, ha dichiarato il leader della magistratura associata. “Il ministro ha tenuto ad assicurare che è un difensore dell’indipendenza della magistratura, ci ha ricordato che quelle riforme costituzionali sono nel programma di governo, ma non sono oggi una priorità. E dunque ci confronteremo quando arriveranno”, ha proseguito Santalucia. In realtà i botta e risposta a distanza che abbiamo letto sui giornali non avrebbero compromesso né interrotto l’interlocuzione tra i due organi, osservano fonti ministeriali. Rientrerebbe tutto nella fisiologica dialettica del confronto tra le parti. Anche nel pieno del conflitto mediatico ci sono stati, in realtà, scambi tra gli uffici del ministero e quelli del “sindacato”: per il guardasigilli è importante intercettare, rassicurano da Via Arenula, i bisogni degli uffici giudiziari, che sono infiniti e continui. L’obiettivo rimane sempre quello di portare avanti una strategia unitaria per trovare soluzioni adeguate ad accompagnare i magistrati in queste fasi di cambiamento, che chiedono formazione e disponibilità dei necessari strumenti. A tal proposito durante l’incontro si è parlato di due aspetti in particolare: la telematizzazione dei processi in ambito civile e la questione del mutamento del giudice, con la possibilità che il nuovo debba rivedere le prove dichiarative tramite videoregistrazione, come previsto dalla riforma Cartabia. Nordio ha parlato all’Anm delle “prossime azioni amministrative, che avranno come priorità l’efficienza del servizio giustizia”, ha riferito sempre il presidente Santalucia, che ha concluso: “Abbiamo grossi problemi con i processi telematici, gli applicativi informatici, la carenza di personale amministrativo e di magistrati. Il ministro ci ha assicurato un impegno sul fronte informatico e anche per una stabilizzazione degli addetti all’Ufficio del processo e per nuove assunzioni di personale. Tra gli obiettivi di immediato periodo c’è la velocizzazione del concorso in magistratura, a partire dal prossimo, con la digitalizzazione massiccia anche per la formazione dell’elaborato scritto e della correzione”. La riforma Nordio vista dall’avvocato Michele Sarno di Claudia Diaconale L’Opinione, 29 giugno 2023 Michele Sarno, avvocato penalista e cassazionista, è presidente emerito della Camera penale di Salerno. Gli abbiamo chiesto un suo parere in merito alla recente riforma della Giustizia effettuata dal ministro Carlo Nordio. Avvocato, in questi giorni si sono sentite moltissime opinioni di magistrati ed opinionisti in merito alla riforma della Giustizia, ma pochi sono stati i commenti da parte dei professionisti forensi... Il vero problema rispetto a questo è che purtroppo si paga un gap culturale nel nostro Paese per quel che riguarda il corretto approccio alle dinamiche inerenti alla giustizia. Ancora si ha una predilezione nell’ascolto della magistratura e dell’accademia, rispetto all’avvocatura. Quasi come se, sul tema della giustizia, l’avvocato sia figlio di un dio minore. Io ritengo invece che l’avvocatura abbia un ruolo nevralgico: in primis perché l’avvocato è il primo ad interfacciarsi con le norme garantendo la salvaguardia dei diritti dei cittadini; in secondo luogo, perché, con la propria esperienza, l’avvocatura potrebbe dare un notevole contributo alla produzione normativa, per adottare gli adeguati correttivi affinché la norma stessa possa adeguarsi in maniera puntuale alla realtà. Se da un lato la magistratura, attraverso le proprie sentenze, contribuisce all’interpretazione della norma - e quindi fa giurisprudenza - non va dimenticato, dall’altro, che l’avvocatura fa dottrina: significa che con il proprio lavoro l’avvocato sollecita delle decisioni che poi vengono recepite dal giudice e divengono giurisprudenza. Entrambe le categorie sono quindi protagoniste nell’ambito di quello che è l’esercizio dell’interpretazione del diritto e della norma... Sul tema delle interpretazioni vorrei sottolineare che vanno fatti ancora diversi passi avanti nel nostro sistema penale a favore dei cittadini. Da troppo tempo, infatti, si sta assistendo al venir meno del principio di tassatività a favore del principio dell’interpretazione della norma. Intendo dire che il precetto penale deve avere un linguaggio molto chiaro e facilmente comprensibile da tutti, proprio per evitare che le interpretazioni allarghino le maglie all’interno delle quali stabilire le responsabilità. Perché il cittadino deve essere messo in condizione di sapere quale comportamento corrisponde ad una sanzione da parte del nostro ordinamento. E lo deve sapere con precisione, senza possibilità di equivoci. Alle volte purtroppo, attraverso il linguaggio che anche il legislatore utilizza e che potrebbe essere non chiaro, si crea l’insidia dell’incertezza nell’applicazione del diritto. E questo non può essere in nessun modo condivisibile. Recuperare il principio di tassatività non vuole dire in nessun modo negare la discrezionalità del giudice nell’applicazione della norma, ma esaltarla nei principi essenziali: il giudice può applicare la norma con discrezionalità quando però questa stessa discrezionalità è orientata e contenuta nell’alveo di previsioni normative ben precise. Altrimenti l’interpretazione della norma diventa produzione della stessa. Ed in Italia, è bene ricordarlo, la produzione della norma è affidata non agli avvocati o ai magistrati, ma ai rappresentati parlamentari scelti dai cittadini. Bisogna essere molto cauti su questo argomento. E vorrei che il principio di tassatività venisse recuperato nell’ambito di un’interpretazione della norma che sia ancorata alla ratio della stessa, con la corretta aderenza al testo normativo. E credo che su questa tematica ci dovremmo interrogare e dovremmo tutti collaborare per arrivare alla definizione di un sistema che non sia percepito come incerto. Perché il diritto penale incide sulle libertà fondamentali di un individuo e non può essere incerto. Entrando nel merito della riforma Nordio, parliamo dell’abolizione dell’abuso d’ufficio... Partiamo dal presupposto che io condivido l’intervento del ministro Nordio, ma a questo arriverò dopo. In merito a questo punto ci sono delle voci distoniche laddove bisognerebbe prendere atto del fatto che le sentenze relative all’abuso d’ufficio hanno registrato assoluzioni in numero superiore al 90 per cento. Tutto ciò ci mostra chiaramente l’inutilità di mantenere in piedi una ipotesi delittuosa di tale tipo. Sarebbe bello se si riuscisse ad affrontare il tema della giustizia, e delle relative riforme, senza levate di scudo ideologiche e politiche, e con un approccio che non contempli interessi di parte. Ma tutti insieme, tenendo davvero in conto il bene comune di tutti i cittadini. E per quanto riguarda la prescrizione? Parlando della tanto vituperata prescrizione, quella norma aveva il senso di velocizzare la durata dei processi, era uno stimolo a far presto, per evitare che chiunque incappi nelle maglie della legge ci debba rimanere per dieci anni. Invece è stata interpretata come una scappatoia dietro la quale si andavano a trincerare i presunti rei. Ma il senso nobile della prescrizione teneva in conto il senso stesso della pena: il nostro codice non prevede la sanzione punitiva, ma rieducativa e quindi risocializzante. E che senso può avere perseguire una persona a distanza di 10 o 15 anni? Ovviamente vanno fatti i dovuti distinguo sulla tipologia di reato. Nei casi più gravi questo discorso naturalmente decade. Ma nella maggior parte delle volte, invece, si tratta semplicemente di un principio di civiltà. Va assicurato un diritto chiaro, certo, semplice e veloce. Esistono storie di personaggi pubblici che sono stati cancellati ed esposti al ludibrio pubblico a causa della lungaggine delle loro vicissitudini processuali, anche se poi sono risultati totalmente innocenti. Avvocato, questo mi fa pensare ad uno dei suoi assistiti, Gianfranco Fini... Non mi piace parlare di questo perché il processo è ancora in itinere, ma sicuramente è un esempio calzante. È esplicativo del meccanismo appena descritto: come è possibile aspettare 10 e più anni in attesa di una risposta così condizionante sotto ogni aspetto? Torniamo alla riforma... Personalmente sono d’accordo con la riforma, ma soprattutto con l’approccio del ministro Nordio perché davvero si sta impegnando per migliorare le cose. E ci tengo a chiarirlo: non perché sia un suo tifoso o un suo amico. Non conosco personalmente Carlo Nordio, provengo da una storia politica e personale molto diversa: lui ha un’esperienza da magistrato ed io da avvocato. Eppure, mi trovo totalmente d’accordo con quanto sta facendo perché convergiamo su dei punti chiave della concezione stessa di diritto. Come nel caso delle intercettazioni: per quanto siano uno strumento fondamentale per quanto riguarda i reati più gravi - e nessuno lo ha mai messo in dubbio - come è possibile che si sia arrivati al grave abuso di questo strumento per quel che concerne la divulgazione delle stesse. Meccanismo che innesca quel circo mediatico tanto citato quanto dannoso. Perché, anche nel caso di archiviazione o assoluzione, il danno ormai è stato fatto. Noi ci dobbiamo porre il problema: non si possono esporre vizi e virtù di una persona al pubblico ludibrio. Parliamo del reato di influenze illecite... Ora si fanno le polemiche perché la riforma è stata portata avanti da un governo di centrodestra. Ma, nella realtà, ogni tipologia delittuosa va studiata, approfondita e applicata. Su certe dinamiche, non ci rendiamo forse realmente conto che per tanti anni abbiamo rincorso un giustizialismo di maniera, che ci ha portato non solo a non applicare il diritto, ma ad avere una percezione distorta per la quale il diritto non fosse avvertito come tale dai cittadini. Oggi molto spesso le persone, in Italia, rappresentano il timore di ritrovarsi dinnanzi ad un tribunale e questo è uno degli aspetti peggiori in quanto, allorquando si registra la sfiducia nelle istituzioni non c’è nessuno che vince (e tutti perdono). La nostra missione deve essere quindi quella di ripristinare la fiducia e di fare sì che i cittadini si sentano rappresentati e parte di istituzioni che li difendono. Ritorniamo un attimo al ruolo dei giudici… Guardi, noi dobbiamo assolutamente attuare la separazione delle carriere, proprio per il discorso della fiducia da ripristinare nei confronti dei cittadini. In tal senso ritengo giusto ribadire un concetto a me caro: garantire anche “l’estetica” del processo. Un’estetica che non trova una piena e completa attuazione allorquando il cittadino diventa spettatore di comportamenti fraintendibili: immaginiamo tutte le volte in cui il cittadino in tribunale vede che il pm viene trattato con maggiore confidenza rispetto all’avvocato. È evidente che in tutti questi casi avrà dei dubbi. Dubbi che contribuiscono ad amplificare una sfiducia rispetto alla corretta amministrazione della giustizia. È proprio questo l’elemento primario da combattere. L’immagine, infatti, oltre che l’essenza nel settore Giustizia è fondamentale per accertare l’equidistanza dalle parti e quindi l’imparzialità nel giudizio. Tanto si può realizzare solo con la separazione delle carriere. E questo credo sia un tema di buon senso rispetto al quale non potranno non essere tutti d’accordo. Eppure, ci sono state polemiche anche per il fatto che è stato introdotto un collegio di tre giudici per determinare la custodia cautelare... Innanzitutto, la riforma andrebbe letta anche nei dettagli perché, ovviamente, prevede eccezioni alla regola e casistiche specifiche. Ma, in termini generali, stabilire un sistema di garanzie dovrebbe essere l’auspicio di tutti, da accogliere con favore. Ritornando al discorso precedente va operata un’adeguata valutazione: il giustizialismo di maniera nato negli anni di Tangentopoli, che amava mostrare le manette, ha creato quel gap culturale che oggi è prioritario colmare. Si dovrebbe avere la capacità di immedesimarsi in una persona innocente allorquando viene arrestata: il dramma che vive questo essere umano può essere compreso semplicemente pensando “e se succedesse a me”? Ebbene, se partissimo da tale interrogativo, ci renderemmo conto che ognuno di noi auspicherebbe di avere la maggior parte di spazi e garanzie possibili atti a dimostrare la propria innocenza. Quindi, lo stabilire aprioristicamente un sistema di garanzie dovrebbe essere considerato un traguardo raggiunto da plaudire e non si dovrebbe seguire la deriva dei teorici giustizialisti che puntualmente, però, quando si sono ritrovati in prima persona ad affrontare dei processi, si sono scoperti garantisti! Il nostro direttore, Andrea Mancia, ospite la scorsa settimana al programma di Floris su La7 ha avuto modo di interagire con Davigo (che è stato condannato ad 1 anno e sei mesi, ndr), proprio specificando quello che lei ora sta dicendo... Confesso di aver visto la trasmissione e di aver apprezzato particolarmente l’intervento di Mancia, proprio perché rappresenta non solo il mio, ma il pensiero della maggior parte degli “addetti ai lavori”: il magistrato Davigo, nel momento in cui si ritrova a dover subire un procedimento penale, ha cambiato totalmente atteggiamento. Proprio perché un conto è la teoria ed un altro la pratica. La giustizia deve tenere conto della realtà dei fatti e della vita: è facile fare i giustizialisti con la pelle degli altri. Ed è facile, in tal modo, parlare alla pancia del Paese perseguendo un unico fine: raccogliere un consenso a buon mercato. Ma la questione Giustizia dovrebbe essere affrontata in maniera nobile e non certo per garantirsi un inconcepibile decimale di consenso. Personalmente ritengo che il ministro Nordio andrebbe sostenuto e stimolato nel fare ulteriori riforme. Ovviamente, auspico sempre un sistema dove si possa esprimere il proprio dissenso, ma in modo costruttivo, proponendo soluzioni alternative dopo aver spiegato le motivazioni della propria contrarietà e non come sta accadendo oggi in cui il dissenso nei confronti dell’attività governativa appare solo frutto di una gratuita polemica. Un auspico per il futuro? Spero che il ministro prosegua nella strada delle riforme. E spero che ascolti anche tutti gli addetti ai lavori: oltre all’avvocatura, andrebbe ascoltata la polizia giudiziaria ? che è quella che sul territorio va a perseguire i reati - come i cancellieri. Con la loro esperienza potrebbero dare indicazioni pragmatiche per facilitare il sistema e renderlo più agevole. Perché il “sistema Giustizia” si può rinnovare solo se abbiamo il coraggio di comprendere che bisogna remare tutti nella stessa direzione. L’ultima sentenza su Cospito? Non è l’ergastolo, ma gli somiglia di Antonio Maria Mira Avvenire, 29 giugno 2023 Dopo la condanna di Alfredo Cospito a “solo” 23 anni, invece dell’ergastolo, cosa succederà al leader anarchico della Fai-Fri, Federazione anarchica informale-Fronte rivoluzionario internazionale? E come ha reagito il movimento anarchico? In primo luogo ricordiamo che Cospito aveva iniziato, e poi portato avanti, lo sciopero della fame contro il 41bis, il cosiddetto “carcere duro”. Così diceva. Lo aveva poi interrotto il 19 aprile dopo la sentenza della Corte costituzionale, che bocciando la norma che escludeva le attenuanti, di fatto ha aperto la strada alla sentenza di due giorni fa. E il 41bis? Non c’entra niente. Infatti venne deciso il 4 maggio 2022, mentre la sentenza della Cassazione che apriva la strada all’ergastolo era arrivata il 6 luglio. Il 21 luglio Cospito aveva annunciato lo sciopero della fame. Ora però nulla è cambiato. Dopo un trasferimento nel carcere milanese di Opera per le conseguenze di salute dello sciopero, proprio tre settimane fa è tornato nel carcere di Sassari, al 41bis. Nessuna conseguenza dalla sentenza della Corte d’appello. E non è una sorpresa, non c’è un collegamento tra anni di condanna e 41bis, non tutti gli ergastolani sono al carcere duro. Bastano condanne molto più lievi, anzi spesso il 41bis scatta prima della condanna. Non lo decide infatti la magistratura ma il ministro della Giustizia, sentiti i magistrati competenti, sulla base della pericolosità e dei rischi di collegamento con l’esterno. Durante lo sciopero il ministro Nordio ha confermato il 41bis, poi la Cassazione ha respinto il ricorso. Ora è in ballo un nuovo ricorso sul quale dovrà decidere il Tribunale di sorveglianza di Roma. Nel frattempo, dunque, per Cospito non cambia nulla. Ricordiamo che è in carcere da 11 anni per la “gambizzazione” il 7 maggio 2012 dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi (“In una splendida mattina di maggio ho agito ed in quelle poche ore ho goduto a pieno della vita”, disse in tribunale”). Condanna definitiva nel 2015 a 9 anni e 5 mesi ormai in parte scontata. C’è poi la condanna sempre definitiva del 6 luglio 2022 a 30 anni del processo “Scripta manent” per una serie di attentati e associazione a delinquere con finalità terroristica. Lo stesso processo dal quale era stata esclusa la doppia bomba alla scuola carabinieri di Fossano, per la quale la Cassazione aveva chiesto un ricalcolo della pena. Il rischio era l’ergastolo e invece sono arrivati 23 anni. Che teoricamente si dovrebbero sommare ai 30. Sicuramente i difensori chiederanno la continuazione delle due condanne. Toccherà alla Cassazione che sicuramente confermerà la condanna a 23 anni e molto probabilmente deciderà per la continuazione. Così Cospito dovrà scontare 30 anni. Non è l’ergastolo ma è molto simile, perché molti ergastolani, tra benefici e sconti, riescono a uscire dopo 30 anni. E comunque, almeno per ora, resta al 41bis. Reazioni? Sui siti anarchici solo la secca cronaca della sentenza. La conferma, ci spiega un inquirente, che almeno una parte non ha gradito una campagna contro il 41bis che ha tirato in ballo anche i mafiosi. Ma altri, i “duri”, non hanno certo abbandonato la scelta violenta. Lo dimostra la bomba artigianale davanti al tribunale di Pisa non esplosa il 23 febbraio solo per un errore di confezionamento. Una data non casuale. Il giorno dopo arriva la decisione della Cassazione che conferma il 41bis. Due giorni dopo arriva la rivendicazione del “Gruppo di solidarietà rivoluzionaria - consegne a domicilio Fai/Fri”. Garante privacy: no al diritto all’oblio per reati gravi di Debora Alberici Italia Oggi, 29 giugno 2023 Per articoli recenti, spiega il Garante intervenuto sul caso di uomo condannato a due anni di reclusione per detenzione di materiale pubblicato da Al-Qaida prevale l’interesse pubblico a conoscere la notizia. No al diritto all’oblio per chi si è macchiato di reati gravi e la cui vicenda giudiziaria si sia da poco conclusa e sia ancora di interesse pubblico. Con questa motivazione il Garante privacy ha ritenuto infondata la richiesta di deindicizzazione di alcuni articoli recenti presentata da un uomo condannato a due anni di reclusione per detenzione di materiale pubblicato da Al-Qaida che aveva scontato la sua pena. Nel reclamo al Garante, l’interessato aveva chiesto di ordinare a Google, la rimozione dai risultati di ricerca di 18 url collegati ad articoli che riportavano la notizia di un suo arresto avvenuto nel 2019 nel Regno Unito per possesso di informazioni ritenute utili a commettere o preparare un atto terroristico. A suo dire, avendo ormai interamente scontato la pena ed essendo rientrato in Italia, la permanenza in rete di tali notizie gli avrebbe impedito di ricostruirsi una nuova vita e di trovare lavoro e poter così fronteggiare le responsabilità familiari. Nel rigettare la richiesta, il Garante ha ricordato che non si può procedere alla deindicizzazione di informazioni recenti quando a prevalere è l’interesse generale alla reperibilità delle notizie a causa della gravità delle condotte poste in essere dall’interessato. Nel caso specifico, il reclamante aveva commesso un reato di particolare allarme sociale legato al possesso di materiale appartenente a un’organizzazione terroristica internazionale come Al-Qaida. Per quanto riguarda il fattore tempo - altro elemento importante per la valutazione del caso - l’intervallo di pochi mesi intercorso dalla conclusione della vicenda giudiziaria e dall’espiazione della pena della reclusione è risultato assai limitato, non potendosi perciò qualificare le informazioni come risalenti nel tempo, né ancora prive di interesse pubblico. Toscana. Carceri, i numeri dell’emergenza psichiatrica di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 29 giugno 2023 Cure inadeguate e scarse, il Garante: “Chi entra sano, rischia di uscire malato di mente”. “In carcere se uno entra sano, talvolta rischia di uscire malato”. Con queste parole il garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani ha aperto la relazione introduttiva al convegno “Il rischio di stare in carcere: quando il disagio psichico è insopportabile”, che si è tenuto ieri pomeriggio all’auditorium Spadolini di Palazzo Panciatichi. Fanfani, nel corso del suo intervento, ha poi esposto alcuni numeri sul disagio psichico in carcere. Dati a dir poco allarmanti: “Secondo Antigone il 40 per cento dei reclusi viene curato con gli psicofarmaci. Quanto ai nostri penitenziari, a Sollicciano ci sono soltanto 6 psichiatri per un totale di 154 ore settimanali e 4 psicologi per 120 ore settimanali, è evidente che in questo modo non si possono curare questo tipo di malattie”. Il garante regionale ha poi ricordato i tanti atti di autolesionismo nel 2022 di cui sono stati protagonisti i detenuti di Sollicciano. Anche in questo caso i numeri sono preoccupanti: 380 atti di autolesionismo, con 28 tentati suicidi e 4 suicidi. Tanti casi anche a Pisa, con 29 tentati suicidi e 163 atti di autolesionismo. E poi Prato, con 139 atti di autolesionismo e 15 tentativi di togliersi la vita da parte di reclusi. A Livorno invece 19 tentati suicidi e 73 atti di autolesionismo mentre a Lucca i numeri sono rispettivamente 8 e 58. Al convegno era presente, tra gli altri, anche Luca Maggiora, presidente delle Camere Penali di Firenze: “È importante riunirsi tra magistrati, avvocati e operatori sociali per prevenire i rischi del disagio psichico e non solo in carcere lavorando sulla circolare del capo del Carlo Renoldi del 2022”. Sul fronte carcere, a Sollicciano proseguono i lavori di ristrutturazione del penitenziario, ma negli ultimi giorni, come denunciato dalle varie sigle sindacali, si sono registrati alcuni episodi di aggressione da parte dei detenuti agli agenti penitenziari. Particolarmente drammatico l’ultimo di questi episodi in cui un agente è stato preso a pugni. Torino. Tragedia nel carcere, detenuta trovata morta in cella di Davide Petrizzelli torinotoday.it, 29 giugno 2023 Si è trattato di un gesto volontario, stava scontando una pena per il tentato omicidio del compagno. Il corpo di Graziana Orlaray, 52 anni, è stato trovato dagli agenti di polizia penitenziaria in servizio nel carcere delle Vallette a Torino nella prima serata di ieri, mercoledì 28 giugno 2023, all’interno di una cella. Ancora un suicidio in carcere. Nel reparto femminile del Lorusso e Cutugno di Torino una detenuta di 52 anni di nazionalità romena si è tolta la vita all’interno della sua cella: per farlo ha utilizzato un cappio costruito con i suoi stessi vestiti. A dare l’allarme intorno alle 19 di ieri mercoledì è stata la polizia penitenziaria in servizio nel padiglione femminile che ha trovato il corpo della donna che per compiere il gesto ha utilizzato le inferriate della finestra del bagno. La detenuta aveva una condanna definitiva che aveva quasi finito di scontare e sarebbe dovuta uscire ad agosto. Ha aspettato che passasse il controllo periodico della polizia penitenziaria e subito dopo ha compiuto il gesto. Nella mattina era stata visitata da uno psichiatra e non aveva lasciato presagire nulla. La notizia è stata diffusa dal sindacato della polizia penitenziaria Osapp. Velletri (Rm). Omicidio in carcere, il caso arriva in Parlamento: interrogazione di Ilaria Cucchi romatoday.it, 29 giugno 2023 La senatrice ha presentato una interrogazione parlamentare al ministro della giustizia Carlo Nordio sul caso. Una interrogazione al ministro della giustizia Carlo Nordio per chiarire quando accaduto nel carcere di Velletri, in merito all’omicidio di Marcos Schinco. A presentarla è stata la senatrice del gruppo misto-Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. Accusato del delitto è Federico Brunetti. Il ragazzo sarebbe dovuto andare in una Rems, strutture per persone con disagi mentali, nei quali però c’è carenza di posti. Così è stato trasferito in carcere, anche se forse non era il luogo più adatto alla sua condizione. Una tesi, questa, sposata sia dalla famiglia di Brunetti e di Schinco che parlano di “tragedia annunciata” che si sarebbe “potuta evitare”, con colpe dello Stato. Il tutto in una doppia intervista, come si può leggere in questo articolo. “Quanto accaduto nel carcere di Velletri è un fatto di una gravità inaudita che non dovrebbe avvenire in nessun paese civile. Chi ha gravi forme di disagio non può essere trattato alla stessa stregua degli altri detenuti, e non può condividere una cella con altre persone. A Velletri qualcosa non ha funzionato”, ha spiegato Cucchi. A giudizio della senatrice di AVS “questo episodio, che purtroppo non è isolato, certifica quanto andiamo denunciando ormai da anni. Per i reclusi con gravi problemi psichici servono strutture idonee come le Rems per un percorso di cura che ovviamente non può essere compatibile con la detenzione. Il carcere deve essere un luogo di riabilitazione per una nuova vita, invece ora è solo punizione e morte. Una sconfitta assoluta per lo Stato e per le Istituzioni tutte”, conclude Cucchi che nell’interrogazione chiede se il Ministro in indirizzo “sia a conoscenza di quanto esposto e se non voglia prendere provvedimenti, per quanto di competenza, per garantire i diritti umani fondamentali anche negli istituti carcerari” e in quale modo “intenda intervenire al fine di ovviare al problema della carenza di Rems, per garantire a tutti i detenuti le giuste cure e dare esecuzione a una legge dello Stato”. San Gimignano (Si). Un detenuto ci scrive: regime illegittimo e privazioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 giugno 2023 Giovanni Barone ha denunciato alla procura di Firenze l’immotivato isolamento. In una lettera segnala anche tentativi di aggressione, in un istituto già finito nell’occhio del ciclone. Nessun percorso trattamentale o accesso ad attività creative. Di fatto un isolamento. Anche l’ora d’aria, dapprima non garantita, sarebbe stata concessa presso dei “cubicoli punitivi”. Presunti tentativi di aggressione da parte di agenti penitenziari secondo quanto denunciato alla procura di Firenze. Una realtà che riguarderebbe anche altri reclusi nel carcere di San Gimignano. Lo scrive il detenuto Giovanni Barone in una lettera inviata a Il Dubbio attraverso il suo avvocato, Marco Rigamonti, nella quale denuncia presunte gravi violazioni dei diritti umani e delle norme detentive all’interno dell’istituto penitenziario. Nella sua lettera Barone afferma di essere stato trasferito nella sezione di isolamento del carcere il 5 febbraio 2023 senza che gli sia stata comminata alcuna infrazione o provvedimento disciplinare che giustifichi tale regime detentivo. Secondo quanto riportato, gli è stato negato il diritto alle ore d’aria, non gli è consentito continuare il suo percorso di studi con l’Università di Milano attraverso lezioni in Dad (Didattica a distanza) e gli sono negate le attività ricreative e trattamentali. Tutto ciò avviene in assenza di prescrizioni disciplinari o giuridiche che ne vietino la fruizione. Dopo le sue denunce il 24 aprile scorso veniva comunicato verbalmente che lui e gli altri detenuti potevano usufruire delle ore d’aria all’aperto. Due ore al mattino dalle 9 alle 11 presso “cubicoli punitivi” sottostanti. Le altre due ore assegnate, risulterebbero incompatibili con la somministrazione del pasto serale. Giovanni Barone scrive che la situazione di privazione viene imposta non solo a lui, ma anche ad altri detenuti presenti nella sezione di isolamento, violando così l’articolo 78 del DPR 230/ 2000. Il detenuto ha presentato un esposto/ denuncia al Guardasigilli Carlo Nordio e al Direttore/ Capo del Dap l’11 aprile scorso, richiedendo un’ispezione ministeriale per rendere noto lo stato detentivo subito in violazione di legge. Inoltre, Barone ha presentato una denuncia presso la procura di Firenze il 23 marzo 2023, sia per denunciare le condizioni detentive subite, sia un presunto tentativo di aggressione da parte di un gruppo di agenti penitenziari durante una perquisizione intimidatoria. Sostiene che solo le sue richieste di spiegazioni avrebbero evitato conseguenze più gravi, evidenziando più volte che tali provvedimenti violano l’articolo 78 del DPR 230/ 2000 e l’articolo 613 bis del Codice Penale, ma non sarebbero state prese misure a riguardo. Il detenuto afferma che il regime detentivo applicato non trova alcuna giustificazione legale, violando le norme dell’ordinamento penitenziario e le riforme introdotte dal legislatore e dalla comunità europea, in particolare l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani. Nonostante sia considerato un detenuto “protetto”, Barone ribadisce che tale protezione gli venga applicata attraverso un regime carcerario non conforme al suo stato detentivo. Ricorda di aver presentato un’istanza di trasferimento presso un altro istituto in Lombardia il 30 marzo 2023, con la motivazione di riavvicinamento al luogo di residenza e alla famiglia, nonché per motivi di studio. Parliamo del rispetto della territorialità della pena. Tuttavia, la richiesta è stata protocollata solo dopo circa un mese e a seguito di numerose sollecitazioni da parte sua. Di fronte a questa situazione ingiusta, Barone ha affidato ai suoi legali il compito di adire le vie legali per tutelare i suoi diritti e porre fine a questa assurda situazione. Nella sua lettera a Il Dubbio Giovanni Barone sottolinea che il problema da lui denunciato non riguarda solo il suo caso personale, ma coinvolge anche altri detenuti che stanno vivendo la stessa assurda e illegittima situazione. Pertanto, ha deciso di rendere pubblica la sua denuncia al fine di evidenziare come, nonostante le norme nazionali e internazionali enuncino la funzione rieducativa della pena, all’interno del carcere di San Gimignano nulla di tutto ciò avvenga. L’istituto penitenziario di San Gimignano, secondo Barone, è caratterizzato da un approccio carcerocentrico alla pena, in aperto disprezzo delle norme e dei regolamenti vigenti. Il detenuto lamenta che gli operatori penitenziari non si impegnino adeguatamente per favorire il reinserimento sociale dei detenuti e che non vengano rispettati i loro diritti fondamentali. Barone fa appello all’opinione pubblica, alle istituzioni competenti e alle organizzazioni per i diritti umani affinché prestino attenzione a questa situazione e intervengano per porre fine alle presunte violazioni nel carcere di San Gimignano. Chiede che venga garantito il rispetto delle norme nazionali e internazionali in materia di trattamento penitenziario e che venga data la possibilità ai detenuti di svolgere attività di studio, di partecipare a programmi di riabilitazione e di usufruire dei loro diritti fondamentali. È importante sottolineare che, al momento, le accuse mosse da Barone sono al vaglio della procura fiorentina. Tuttavia, le sue denunce evidenziano una situazione che richiede un’adeguata attenzione da parte delle autorità competenti per garantire il rispetto dei diritti i all’interno del sistema carcerario. Si auspica che le istituzioni coinvolte prendano seriamente in considerazione queste denunce e intraprendano azioni concrete per risolvere la situazione e garantire un trattamento dignitoso e rispettoso dei detenuti. Ricordiamo che il carcere di San Gimignano è risultato da sempre problematico. Essendo stato costruito in aperta campagna, lontano da tutti e tutto gli stessi familiari dei detenuti che provengono da regioni diverse sono costretti a organizzarsi con un pullman. Un carcere che ha cambiato spesso il direttore, perché nessuno si augura di andarci. Non avendo una direzione forte e stabile, alla fine il potere diventa, di fatto, autogestito all’interno del carcere. Ma parliamo di un istituto che non ha nemmeno l’acqua potabile, tanto che qualche anno fa, l’allora garante locale, era riuscito a ottenere come magra soluzione la vendita di bottigliette di acqua minerale a basso prezzo. È un carcere che si trova tra i boschi, dove è facile che salti la corrente e ci siano problemi di collegamenti telefonici a causa degli eventi atmosferici. Oltre al problema del sovraffollamento (ultimi dati disponibili: 314 detenuti per una capienza di 243 posti, ma non sono sottratti i locali inagibili), altro dato significativo è che c’è stato un aumento esponenziale dei detenuti che compiono gesti di autolesionismo. Un istituto penitenziario toscano che, di fatto, è una riserva a sé stante. A marzo scorso, cinque agenti penitenziaria sono stati condannati in primo grado per il reato di tortura nei confronti di un tunisino durante il trasferimento di cella. Una vicenda che Il Dubbio ha seguito fin dall’inizio, a partire dalla prima segnalazione, una lettera di denuncia indirizzata a Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha Onlus, da parte di un detenuto che è stato spettatore del pestaggio. Ritornando alla denuncia del detenuto Barone, c’è bisogno di fare chiarezza, magari una ispezione ministeriale per comprendere se i problemi enunciati risultano fondati e preoccupanti. Torino. Il “buco nero” del carcere minorile di Marina Lomunno Avvenire, 29 giugno 2023 Il Garante chiede chiarezza sul Ferrante Aporti Tante le strutture senza un dirigente. C’è un luogo a Torino che da sempre è specchio del malessere che cova nelle nuove generazioni, soprattutto dei giovani più fragili. È l’Istituto penale minorile, l’Ipm Ferrante Aporti, un microcosmo in cui i disagi dei giovani detenuti, riflette il degrado delle periferie cittadine e l’assenza di senso di tanti adolescenti alienati dall’illusione dei incisi o dalla precarietà della nostra società. Così l’arcivescovo di Torino, Roberto Repole, durante la sua recente visita all’Ipm richiamava l’urgenza di una “alleanza educativa di tutte le forze in campo per riempire di senso la vita dei nostri giovani, in modi diversi nati fragili”. Un invito che ha ripetuto in cattedrale sabato 24 giugno, festa del patrono di Torino san Giovanni, ricordando che “i dati ci dicono che la popolazione carceraria giovanile cresce. Forse qui dentro c’è un urlo, una richiesta di senso che dobbiamo ascoltare”. Stessa preoccupazione ripresa due giorni fa dai Garanti dei detenuti di Regione, Bruno Mettano, e del Comune, Monica Cristina Gallo, per illustrare alla città, dopo le recenti dimissioni della direttrice Simona Vernaglione, la situazione critica dell’Ipm e la necessità di “tutelare i diritti fondamentali dei giovani detenuti”. “Il Ferrante Aporti è da sempre un termometro della società e della necessità di ricorrere a una riflessione più complessiva con le politiche sociali, di sicurezza, urbanistiche” ha esordito Mettano. Per l’Ipm di Torino Pnrr ha previsto uno stanziamento di 25,3 milioni, “il più consistente a livello nazionale. Ne siamo lieti ma non sarebbe accettabile che venissero spesi per il contorno rispetto alla sostanza: l’area detentiva, oggi, è in condizioni inaccettabili” hanno denunciato i Garanti. E poi c’è la carenza di personale: agenti penitenziari costretti a turni massacranti, educatori e personale sanitario al lumicino il continuo turnover dei dirigenti impedisce di mettere in campo seri progetti di rieducazione peri minori reclusi, come ha più volte ha ribadito Sirnona Vernaglione già direttrice degli istituti minorili di Torino e di Bari. Proprio il fatto di essere costretta a dividersi tra i due penitenziari, è stato alla base della “scelta dolorosa” di dimettersi dal Ferrante Aporti. “Apprezziamo l’ottimo lavoro della direttrice in un contesto difficile per essere governato due giorni alla settimana o avendo altri incarichi”, hanno sottolineato i Garanti. Una situazione, quella della carenza di direttori non solo “torinese”: sarebbero 45 i futuri direttori che devono entrare in servizio a settembre e altrettante carceri della penisola al momento “scoperte”. Nell’Ipm torinese oggi sono 46 i ragazzi reclusi (capienza massima della struttura): per la maggior parte si tratta di minori stranieri non accompagnati ai quali dovrebbe essere offerta l’opportunità di seguire percorsi educativi e di formazione (tra le criticità, la mancanza di posti nelle comunità rieducative) e svolgere attività in vista del reinserimento nella società. Invece, hanno denunciato i garanti, il “vuoto” di progettuali favorisce episodi di violenza in cella e autolesionismo: ben 220 solo nel 2022. “Condivido in pieno le preoccupazioni dei Garanti” ha commentato Pasquale Ippolito, responsabile formazione professionale per Infocoop Piemonte nell’Ipm e presidente dell’Associazione di volontariato “Aporti Aperte” che opera da anni al Ferrante. “Mancano una visione educativa e figure stabili di riferimento”. Palermo. Durante il lockdown al Pagliarelli i boss chiesero di allentare le restrizioni di Salvo Palazzolo La Repubblica, 29 giugno 2023 Il clamoroso retroscena emerge dalle indagini sul clan del Villaggio Santa Rosalia. Furono i boss a intercedere con la direzione dell’istituto. Durante i giorni più difficili del lockdown erano i boss di Cosa nostra a fare da ambasciatori di tutta la popolazione carceraria di Pagliarelli. È l’incredibile retroscena che emerge dall’ultima indagine della procura sul clan del Villaggio Santa Rosalia. Scrive il gip Walter Turturici nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere 26 persone: “In quel periodo, i detenuti intrapresero iniziative volte ad intercedere con la direzione dell’istituto di pena per avanzare alcune istanze volte ad implementare la lista dei generi vittuari da poter acquistare e, dunque, ridurre le limitazioni causate dalle restrizioni imposte a seguito dell’emergenza Covid”. Queste rivendicazioni “in nome e per conto di tutta la popolazione carceraria sono state assunte dai detenuti dell’area cosiddetta “Alta Sicurezza”. In questo contesto emergeva il ruolo di responsabilità di Andrea Ferrante all’interno del carcere, quale imprescindibile punto di riferimento per tutti gli altri esponenti mafiosi detenuti”. Ferrante è uno dei boss più autorevoli del Villaggio: i finanzieri del Gico, con il contributo della polizia penitenziaria, lo hanno video intercettato mentre nella saletta della società parla con un altro mafioso importante del Villaggio, Giovanni Cancemi. Avevano sempre lo stesso tavolo riservato. E avevano a disposizione anche alcuni detenuti “lavoranti”, quelli che girano per il carcere con varie mansioni. Erano loro a portare notizie e pizzini, i biglietti erano sistemati dentro le bottigliette di caffè. Ma era la “trattativa” condotta dai boss a dare forza e autorevolezza ai capimafia. “Il 13 dicembre 2020 - scrive il giudice delle indagini preliminari - veniva richiesto ed ottenuto un incontro con la direzione da parte di una delegazione dei detenuti in regime di Alta Sicurezza così composta: Michele Madonia, Salvatore Sansone, Agostino D’Alterio, Francesco Pitarresi, Salvatore Ariolo, Cristian Cinà, Giuseppe Vassallo”. Insomma, il fior fiore della mafia palermitana. “Nel corso dell’incontro - si legge ancor nel provvedimento del giudice - i detenuti avanzavano alcune richieste, tra cui l’ampliamento di generi vittuari da acquistare per tramite del cosiddetto sopravvitto”. Naturalmente, i boss sono abituati alle trattative a modo loro. E, allora, per portare avanti le loro istanze il giorno prima avevano fatto pressioni: Andrea Ferrante aveva organizzato una manifestazione di protesta con la battitura delle inferriate. Il boss venne intercettato mentre diceva: “Voi, per come sentite noi, iniziate”. Scrive ancora il giudice: “Tali direttive erano state impartite anche ad altri esponenti mafiosi di rilievo, di altri mandamenti, tra i quali Giuseppe Di Cara, uomo d’onore di spicco del mandamento di Port Nuova”. Ferrante aveva pianificato la strategia dei boss: “È il discorso della spesa, la spesa la dobbiamo fare”. Spesa che, fanno notare i finanzieri del Gico nel loro rapporto alla procura distrettuale antimafia, era uno dei “canali privilegiati per l’interscambio di comunicazioni riservate, sia a voce che tramite pizzini”. I video registrati all’interno del carcere di Pagliarelli raccontano anche della riverenza che i detenuti avevano nei confronti di Ferrante. Nelle intercettazioni è finita la richiesta di un ospite della struttura che chiedeva aiuto al boss del Villagio per essere spostato di cella. Nel luglio del 2021, ci furono altre proteste dei detenuti. Ferrante venne intercettato in carcere mentre diceva a un compagno: “Dimmi una cosa… quella lista dove abbiamo messo le firme…appena tu ce l’hai nelle mani me la devi fare avere”. La lista di altri generi alimentari da poter acquistare. Ferrante scoprì che due detenuti avevano poi cancellato la propria firma, andò su tutte le furie: “Lui cose mie non ne deve cancellare più! … te la posso dire una cosa io? Se la faceva un palermitano abbuscava di mia”. L’indagine del nucleo di polizia economico finanziaria coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dalla sostituta procuratrice Federica La Chioma è entrata nei segreti di una delle cosche più attive di Palermo: dal carcere i boss continuavano a gestire soprattutto affari. Il padrino più autorevole del clan, Salvino Sorrentino, era detenuto nel carcere romano di Rebibbia, ma neanche per lui era un problema interloquire con i complici in libertà: utilizzava le videoconferenze con la famiglia varate durante la stagione del Covid per organizzare dei veri e propri summit. I giudici autorizzavano solo i familiari al colloquio, ma a casa di Sorrentino arrivavano sempre i colonnelli della cosca. Napoli. Don Tonino Palmese è il nuovo Garante dei Detenuti di Pierluigi Frattasi fanpage.it, 29 giugno 2023 Don Tonino Palmese è il nuovo Garante dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale di Napoli. Lo ha nominato il sindaco Gaetano Manfredi con decreto firmato oggi, giovedì 29 giugno 2023. Don Tonino succede a Pietro Ioia, ex garante dei detenuti di Napoli, arrestato nell’ottobre del 2022, e accusato di aver portato droga e cellulari all’interno del carcere di Poggioreale, approfittando della sua posizione. La carica di Garante dei Detenuti è del tutto gratuita, non si percepisce alcuna indennità o compenso. L’incarico dura 5 anni e può essere rinnovato un’unica volta. Don Tonino Palmese, è scritto nel decreto di nomina, “ha maturato, come è emerso dalla lettura del relativo curriculum, una consolidata esperienza tanto nel campo della tutela dei diritti umani quanto nel campo delle attività sociali svolte presso istituti di pena, anche in collaborazione con il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Campania”. La figura del Garante dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale è stata istituita con delibera del 25 giugno 2019, con l’obiettivo di “contribuire proficuamente alla salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone detenute e private della libertà personale, garantendo il rispetto della dignità, migliori condizioni di vita e sociali, oltre che alla tutela del diritto alla salute, al lavoro e alla formazione, nonché superare le discriminazioni esistenti e determinare le effettive condizioni di pari opportunità”. Il 22 marzo scorso, poi, è stato modificato il Regolamento, eliminando il requisito della “Residenza nel Comune di Napoli” ritenuto restrittivo e poco inclusivo. Sassari. “LiberaMente a Teatro”: un progetto che ha coinvolto anche i detenuti di Giampiero Marras unionesarda.it, 29 giugno 2023 Una recita teatrale, un video documentario e un libro fotografico: sabato il CineTeatroAstra di Sassari ospita alle 19.30 “LiberaMente a teatro” (ingresso gratuito) che presenta il progetto avviato dieci anni fa dai fratelli Alessandro e Vittorio Gazale. L’attività ha coinvolto circa 50 ragazzi che hanno avuto accesso, sia dentro che fuori dalla Casa Circondariale di Sassari, a diverse forme di lavoro, con iniziative svolte in collaborazione con Enti e Associazioni del territorio, come i parchi dell’Asinara e di Porto Conte. Sono stati realizzati diverse pubblicazioni, video, osservatori della memoria. La rappresentazione teatrale racconta il lavoro svolto da un manipolo di detenuti nei depositi di archivio presenti nelle vecchie carceri di San Sebastiano. Documenti liberati dall’oblio che hanno permesso di far rivivere molti momenti di vita quotidiana. Sul palco i giovani attori della Scuola Civica di Sassari, qualche ospite a sorpresa e tre ragazzi in regime di articolo 21 in una sorta di rovesciamento dei ruoli. Il copione è stato interamente scritto dai ragazzi detenuti all’interno dei laboratori teatrali. La regia è di Alessandro Gazale. I saluti introduttivi della serata sono affidati a Ilenia Trofa, responsabile dell’area educativa della casa circondariale di Bancali, e Marina Maruzzi, presidente dell’Associazione dei volontari di Bancali “Oltre i muri” che ha promosso l’evento di sabato. In Sicilia cresce lo sfruttamento minorile: 15 mila “orfani bianchi” senza tutele di Alessia Candito La Repubblica, 29 giugno 2023 Lo rivela un rapporto Unicef. Nell’Isola il 4,58 per cento degli incidenti registrati riguarda ragazzini. In Sicilia quasi il 5 per cento dei lavoratori avrebbe età buona per stare sui banchi, ma fatica nei campi, nei ristoranti, nei cantieri. Inquadrati come dipendenti, operai agricoli o contrattati con voucher, i minori che lavorano sono un piccolo esercito che, fatta eccezione per gli anni del Covid, è cresciuto di poco, ma progressivamente. Formalmente, sono per lo più braccianti, statisticamente più maschi che femmine, ma nella realtà concreta sono probabilmente molti di più. I dati arrivano dall’Unicef, che nella giornata mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile ha presentato il suo primo report statistico, realizzato in collaborazione con il “Laboratorio di Sanità Pubblica per l’analisi dei bisogni di Salute delle Comunità” della scuola Medica Salernitana. Ma - emerge in filigrana - i numeri sono approssimati per difetto. A rivelarlo è quello, drammatico, relativo agli infortuni. Nell’Isola il 4,58 per cento degli incidenti registrati riguarda ragazzini, proiettando la Sicilia all’ottavo posto in Italia per numero di denunce. Statisticamente, anche maggiore a quello registrato fra gli adulti. In dettaglio, secondo i dati forniti da Unicef, il 22,7 per cento dei lavoratori minori ha subito un infortunio. In numeri assoluti, significa 5.222 fra i 15 e i 19 anni e 10.900 under quattordici. Quasi il doppio. Di base, sottolineano da Unicef, sarebbe illegale, almeno stando all’articolo 32 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Per legge, l’ammissione al lavoro non può essere inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo, che in Italia corrisponde a 16 anni, 15 nei casi di alternanza scuola-lavoro. “Pertanto, le denunce di infortunio sul lavoro da parte di giovani di età pari o minore a 14 anni, che hanno quindi intrapreso attività lavorative almeno un anno prima dalla fine dell’obbligo scolastico, si configurano come infortuni avvenuti in attività lavorative non regolamentate da legittime forme contrattuali”. Traduzione: incidenti avvenuti a causa della “scarsa o mancata attenzione a procedure di sicurezza sul lavoro”, circostanza assai comune quando questo è irregolare o informale. Ma nella Sicilia dei controlli impossibili per mancanza del personale che li esegua, mentre i protocolli che già da mesi avrebbero potuto portare rinforzi rimangono nei cassetti, è impossibile avere dati certi. “Per nostra esperienza - dice Tonino Russo, segretario regionale della Flai Cgil - soprattutto nel ragusano la situazione è drammatica”. Nelle serre sono centinaia i bambini e ragazzini costretti a lavorare insieme ai genitori, il più delle volte braccianti stranieri costretti a faticare giornate intere senza neanche uno straccio di contratto, o - nella migliore delle ipotesi - in forza di un pezzo di carta che in genere racconta assai meno delle reali ore da loro lavorate. “Questi lavoratori vivono in casolari o ruderi diroccati nei pressi delle serre, lontani dai centri abitati, senza alcun mezzo di trasporto che consenta loro di raggiungerli”, spiega Russo. Risultato, per i figli niente scuole, né asili, meno che mai parchi gioco o svago. Li chiamano “orfani bianchi” e il più delle volte sono destinati a seguire il destino dei genitori, impiegati a schiena curva anche dieci ore al giorno e che spesso non hanno altra opzione se non portarli con sé. Facile, spiegano dal sindacato, che rapidamente vengano reclutati formalmente o informalmente. Qualche mese fa, sulle loro condizioni ha acceso un faro “Save the children”, che ha chiesto un intervento integrato, che vada dal sostegno ai nuclei familiari disagiati ai servizi di collegamento che emancipino i lavoratori delle serre dalla dittatura dei “caporali del trasporto”, che per accompagnare i lavoratori stranieri pretendono cifre da capogiro. Unica soluzione per non condannare i figli alla strada di sfruttamento dei padri. Fine vita, ribaltata la sentenza Cappato: condannato a Torino per l’aiuto a morire di Chiara Comai La Stampa, 29 giugno 2023 Tre anni e 4 mesi al presidente dell’associazione Exit, Emilio Coveri: “Chiederò di andare in carcere, voglio dare un segnale”. “Chiederò di andare in galera. Voglio dare un segnale”. Emilio Coveri, fondatore e presidente di Exit-Italia, ieri è stato condannato a tre anni e quattro mesi dal tribunale di Catania per istigazione al suicidio. “E sa che cosa mi rode? Che non ho potuto aiutare nessuno. Non l’ho fatto perché non mi metto contro la legge italiana” spiega. La sentenza della terza sezione della Corte d’Assise d’Appello si riferisce al caso di Alessandra Giordano, catanese morta in Svizzera attraverso suicidio assistito nel 2019. “Con questa persona non ho mai nemmeno parlato”, dice Coveri, che nel novembre 2021 era stato assolto in primo grado “perché il fatto non sussiste”. C’è un solco profondo che divide Coveri da altri casi, come quello di Marco Cappato. Lui non accompagna chi ha deciso di farla finita. Lui traccia la via: fornisce informazioni, contatti. Ascolta e dà risposte. E così ha fatto con Alessandra Giordano, insegnante catanese, che nel marzo 2019 decise di rivolgersi alla clinica Dignitas, in Svizzera. Secondo la procura, soffriva di “patologie non irreversibili” e si sarebbe rivolta a Coveri che l’avrebbe istigata al suicidio. “La signora Giordano aveva fatto il testamento biologico e si era recata autonomamente nella stessa clinica che ha accolto Dj Fabo - spiega il presidente di Exit -. Io ho saputo che era andata in quella struttura tramite il programma “Chi l’ha visto?”. Quando le persone si rivolgono a noi, ci chiedono informazioni. Noi indichiamo quali sono le quattro associazioni in Svizzera che consentono il suicidio assistito, e basta. A noi preme solo dare le informazioni necessarie a chi vuole mettersi in contatto con queste strutture”. La pratica d’altronde non è semplice. “Bisogna fornire la documentazione medica e il singolo caso viene valutato da una commissione di tre medici svizzeri che può accettare o meno la richiesta”. Il tutto costa non meno di 10 mila euro, viaggio escluso. “Ma possibile che si debbano spendere 10mila euro per morire in esilio? Chiediamo di poter morire nel nostro letto vicino agli affetti familiari, così è una vergogna. Noi aiutiamo gente innocente. Ricevo 90 telefonate alla settimana di persone disperate che mi raccontano la loro storia. Ascolto tutti, e piango con loro”. La storia di Coveri è quella di un figlio che ha visto il papà spegnersi per un cancro ai polmoni. “Allora, nel 1988, non davano neanche la morfina. Due anni dopo a mio zio è venuto un tumore alle ossa. Andai a casa sua per vedere Juventus-Barcellona, era in piedi davanti alla finestra e mi disse: “Aprila che mi butto giù”. Dopo la sua morte ho giurato a me stesso che una fine così non la farò mai. Per un essere umano non è possibile soffrire così tanto e morire così male”. Coveri ha fondato Exit-Italia nel 1996 e ne è ancora presidente, all’età di 72 anni. L’associazione fornisce assistenza a chi vuole scrivere il proprio testamento biologico e a chi chiede informazioni sulle cliniche di eutanasia legale in Svizzera. “Le persone esprimono le loro volontà per evitare che un altro decida per loro quando non saranno più in grado di intendere e di volere”. In Italia il testamento biologico è riconosciuto dalla legge 219, che consente a “ogni persona di esprimere consenso o rifiuto su trattamenti sanitari, scelte terapeutiche e accertamenti diagnostici”. C’è un progetto di legge pronto che propone di ampliare e rendere legale anche l’eutanasia e il suicidio assistito. “A settembre saremo davanti al Parlamento per chiedere di discutere il testo di Exit-Italia, che di fatto è una copia della legge Svizzera sull’eutanasia. Vogliamo poter morire qui, a casa nostra”. E lei, ora che rischia il carcere? “Le sentenze vanno rispettate. Faremo ricorso in Cassazione, perché questo è un processo alle intenzioni: non è democrazia. Se vedesse le mail che sto ricevendo, sono di un’incommensurabile tenerezza”. Respingere i migranti è illegale, Italia condannata di Luca Casarini L’Unità, 29 giugno 2023 Il Tribunale di Roma ordina al governo “l’immediato ingresso nel territorio dello Stato italiano” di un migrante respinto in Libia che è riuscito a fare ricorso. L’ambasciata deve subito dargli un visto. “Il Giudice designato: accoglie il ricorso e, per l’effetto, dichiara il diritto del Sig.Khalid (lo chiameremo così qui, per motivi di sicurezza) di presentare domanda di protezione internazionale in Italia e ordina alle amministrazioni competenti di emanare tutti gli atti ritenuti necessari a consentire il suo immediato ingresso nel territorio dello Stato italiano”. Si chiude così l’Ordinanza del Tribunale di Roma, recapitata al governo italiano, al Ministero degli Esteri di Tajani e alla nostra ambasciata a Tripoli. È una sentenza storica: il governo italiano è obbligato a fornire un visto umanitario alla persona, che è un giovane sudanese più volte detenuto e torturato in Libia, e lui ha il diritto di fare ingresso in Italia, dalla Libia, e di chiedere asilo. Non solo. “emanare tutti gli atti necessari”, in assenza di collegamenti accessibili e sicuri ai quali la persona possa accedere, vuol dire che devono andarlo a prendere. Perché lui, il giovane Khalid, è ancora lì per colpa del nostro stato, ed è a Tripoli, dopo un respingimento operato in mare dalla sedicente “guardia costiera libica”, con la collaborazione accertata dell’Italia. È la prima volta che accade. È la prima volta che accade, e questo giovane che ha vinto la sua battaglia legale contro l’Avvocatura dello Stato, non ha cambiato, speriamo, solo la sua di vita, ma potrebbe aver impresso un cambio di traiettoria anche alla storia contemporanea del Mediterraneo e della scia di sangue, privazioni, violazioni delle Convenzioni Internazionali e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo, con cui l’hanno inquinato i governi europei, Italia in testa, nella guerra sporca contro i migranti. Ma partiamo dall’inizio. Il giovane rifugiato sudanese è finito in Libia dopo essere stato costretto alla fuga dal posto in cui era nato e cresciuto, il Darfur nel sud Sudan. Finisce il Libia, perché certo in quelle condizioni non vi è modo di decidere le destinazioni o i paesi da evitare. Profughi significa questo: cercare il modo di sopravvivere e di giungere il più vicino possibile all’Europa, che sta al di là del mare. Nel 2017 Khalid riesce a partire con un barcone da quell’inferno dove era finito. Lo cattura in mare la milizia, quella che allora cominciava a muovere i suoi primi passi da “guardia costiera”, finanziata a tal scopo dall’allora governo Gentiloni e “istruita” dall’allora Ministro degli Interni Marco Minniti. Lo catturano in mare, lo riportano in un centro di detenzione, insieme a molti altri come lui. Khalid non si dà per vinto: riesce a reggere le botte e la fame, e alla prima occasione ci riprova, un anno dopo, il 30 giugno del 2018. Partono in 3 gommoni almeno, da cento persone l’uno. Ci si saluta lì, in spiaggia, di notte, anche tra fratelli o madri, o padri, figli se capita che ti abbiano diviso. Perdersi in mare a bordo di quelle zattere con i tubolari lunghi sette metri, è facile. Ritrovarsi, vivi, è la speranza più grande. Dopo una notte intera passata in mare, il primo luglio dal gommone sul quale era anche Khalid, qualcuno riesce a contattare la Guardia Costiera Italiana. La situazione è ormai al limite, sta entrando acqua e i tubolari stanno cedendo. Che fanno le autorità italiane, difronte a questa richiesta di soccorso? Quello che fanno anche ora, secondo una prassi illegale ma consolidata: avvisano i carcerieri che le vittime sono riuscite a fuggire, dandogli le indicazioni precise per una cattura rapida. E qui è il primo grande nodo del sistema Libia, messo in piedi dalle menti raffinate che lavorano per i diversi governi italiani che hanno sin qui operato: le autorità italiane sanno perfettamente che i libici non fanno soccorsi, ma catture e deportazioni. Vietate dalla Convenzione di Ginevra. Il soccorso in mare non è la priorità per i funzionari alle dipendenze del Ministero dei Trasporti e degli Interni italiani, nonostante le chiamate provengano da persone che rischiano il naufragio. La priorità è l’operazione di polizia, come a Cutro così in alto mare, volta ad impedire l’arrivo di migranti, perché coloro che chiamano da acque internazionali, se continuassero a navigare, se per caso miracolosamente riuscissero a restare vivi e liberi dalle catene che li tengono in Libia, arriverebbero nella “zona Sar” di responsabilità italiana, poco sotto Lampedusa, e lì sarebbe più difficile respingerli. Le strade dunque sono almeno due: o si spetta che sia il mare, il vento o la sete a risolvere, anzi, eliminare il problema, oppure si chiamano i libici, pagati profumatamente per fare da polizia di frontiera anche con scorribande in acque internazionali. Il “problema”, naturalmente, sono donne, uomini e bambini, che per le nostre autorità non sono degni di godere di alcun diritto umano. Eppure muoiono da umani, come tutti, quando affogano. Khalid viene dunque catturato il primo luglio del 2018 dalla motovedetta classe “Bigliani” fornita dall’Italia ai miliziani libici e rinominata “Zuwarah”, grazie alle indicazioni di Roma. La Zuwarah, è uno dei primi assetti navali che ha cominciato ad operare come polizia di frontiera nelle acque del Mar Mediterraneo. Famosa è la foto nella quale si vede uno dei criminali segnalati dalle Nazioni Unite, “Bija”, in posa tronfio in coperta, circondato da altri banditi armati. Vanno a caccia, in mare, e l’Hending Game è reso possibile dall’alto, dai droni e aerei di Frontex, e spesso da terra, grazie alle indicazioni del Mrcc di Roma. Nei dintorni c’è la nave “Duilio” della Marina Militare Italiana, allertata anch’essa ma con la consegna a non intervenire perche’ “ci pensano i libici”. Invia il suo elicottero, “EliDuilio” sopra il gommone. Passano le ore prima che la Zuwarah arrivi, e nel frattempo il gommone cede. Muoiono così, nell’attesa dei libici, ottanta persone. Khalid è tra i 18 superstiti sbattuti a bordo della motovedetta. La Nave Duilio, Marina Militare Italiana, ben più attrezzata e idonea del mezzo libico dato in gestione a dei macellai, non è intervenuta. Perché? Per il semplice motivo che se quelle persone, almeno quelle rimaste vive, fossero salite a bordo di un mezzo italiano, nessuno avrebbe più potuto portarle indietro. La Zuwarah continua la sua caccia in mare, nonostante abbia a bordo persone che hanno appena visto morire davanti ai loro occhi fratelli, figli, madri. Ma la compassione, l’umana pietà, non è contemplata nel patto “Italia Libia”. Alla fine i carcerieri riescono a catturare 262 fuggiaschi. Sono pronti a riportarli all’inferno. Ma la motovedetta, stracarica di gente disperata, si rompe, va in avaria. E qui questa triste ma incredibile storia ci offre un altro spunto importante per capire il “sistema Libia” che affligge il Mediterraneo. Interviene una nave italiana, un mercantile “supply vessel” che si chiama “Asso Ventinove” e fa parte della flotta della “Augusta Offshore” che opera a supporto di sicurezza attorno alla piattaforma di Sabratha. Ma chi dà ordine alla nave mercantile italiana di andare a soccorrere i naufraghi e l’equipaggio della “Zuwarah”? La comunicazione parte dalla nave militare “Caprera”, che è in rada al porto di Tripoli, banchina “Abu Sitta”. È stabile quella nave, mandata dal governo con approvazione del Parlamento, nell’ambito dell’operazione “Nauras”, che formalmente prevede il “solo supporto meccanico e logistico” per la manutenzione delle motovedette fornite alla cosidetta “guardia costiera libica” dall’Italia. Ma la “Caprera” invece, è il vero centro di coordinamento dei libici, che non hanno nemmeno uno straccio di ufficio. La “Asso Ventinove” effettua il trasbordo, si carica guardie e ricercati, e fa rotta su Tripoli, con motovedetta vuota a rimorchio. A Khalid, che chiede spaventato che cosa sarebbe stato di loro, un miliziano libico risponde con un mezzo sorriso “vi portiamo in Italia, tranquilli”. La nave italiana si ferma invece davanti al porto di Tripoli, e Khalid viene preso con tutti gli altri, fatto sbarcare e internato nel lager di Tariq Al Matar. Subisce per tre mesi torture e violenze di ogni tipo, per poi essere destinato come schiavo ai lavori forzati. Khalid è sopravissuto alle tante volte che la morte gli ha fatto visita. Oggi vive nei dintorni di Tripoli, in balia della prossima cattura, ed è certificato da Unhcr come “person of concern”, cioè persona che deve ricevere aiuto. La sua storia, di un testimone ancora vivo di uno dei tanti respingimenti illegali e disumani, operati con la complicità delle autorità italiane ed europee, si è trasformata nell’atto politico di un ricorso giudiziario alla magistratura. Questo grazie al lavoro instancabile di decine di attiviste ed attivisti del JLP Project, che fa parte dei “progetti speciali” di Mediterranea Saving Humans. Sarita Fratini, l’anima di questa che è innanzitutto una difficile ma preziosa attività di ricerca delle persone inghiottite dall’inferno libico, e di tessitura di relazioni, ascolto, cura, è molto chiara:” Ora l’Ambasciata Italiana a Tripoli deve dare subito il visto a Khalid. Dobbiamo tirarlo fuori da li, lo dice una sentenza. Possibile che noi, accusati continuamente dal governo di illegalità, dobbiamo denunciare pubblicamente Ministri e ambasciatori italiani che non vogliono rispettare la legge?”. L’Ordinanza, che è molto articolata, obbliga il Ministro Antonio Tajani, ad evacuare immediatamente Khalid dalla Libia. Ad andare a prenderlo e a portarlo in Italia. Dice chiaramente una sentenza che fa giurisprudenza, che quello fu un respingimento vietato dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati e richiedenti asilo, che la Libia non è un luogo sicuro e quindi nessuno, nemmeno i libici, può deportare persone lì. Si scrive, nero su bianco, che chi coordina o supporta la cosiddetta “guardia costiera libica” commette un grave crimine. E come la mettiamo adesso, con motovedette regalate, milioni di euro elargiti per fare questo immondo lavoro? Ma soprattutto, cara Presidente del Consiglio, va a prenderlo lei Khalid? O ci manda Salvini? Francia. “Come negli Usa”: 17enne arabo ucciso dalla polizia di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 29 giugno 2023 Scontri in piazza dopo l’uccisione del giovane in una banlieue di Parigi. “La giustizia non è uguale per tutti”. Già 9 morti nel 2023. L’agente in stato di fermo, Macron: “Senza scuse”. Ma c’è chi si schiera con le divise. Un minuto di silenzio all’Assemblée nationale, deciso dalla presidente Yaël Braun-Pivet, per ricordare Nahel, 17enne di origine algerina ucciso da un poliziotto a Nanterre martedì perché non si era fermato all’alt. Il presidente Macron evoca “solidarietà e affetto alla famiglia” e “l’emozione della nazione tutta intera”, perché “niente giustifica la morte di un giovane”, in un dramma “inesplicabile e inescusabile”. La prima ministra, Elisabeth Borne esige “l’assoluta verità” su un intervento che “chiaramente non sembra in conformità con le regole” e auspica che “la calma abbia ragione sulla rabbia”. Persino il ministro degli Interni, Gérald Darmanin, di solito schierato a prescindere con la polizia, promette che “se le accuse saranno confermate” ci sarà “una decisione amministrativa di sospensione” del poliziotto responsabile dello sparo mortale, che resta in stato di fermo, denunciato per “omicidio volontario”. L’avvocato della famiglia di Nahel ha denunciato anche il secondo agente, che si vede su un video di 50 secondi, a fianco della Mercedes gialla guidata da Nahel, che non si ferma all’alt. L’avvocato sporge denuncia anche per falso: i poliziotti hanno raccontato di essere stati minacciati dall’auto e di aver reagito “in legittima difesa”, affermazione smentita dal video, con registrazione sonora ed esplicita minaccia di morte. Oggi la madre di Nahel organizza a Nanterre una “marcia bianca” in ricordo del figlio. Il governo spera che la marcia aiuti a calmare gli spiriti. Dopo una prima notte di disordini, Darmanin ha inviato per ieri sera 2mila poliziotti per impedire un’esplosione delle banlieues. Dopo Nanterre, ci sono stati momenti di tensione e scontri anche in altri comuni e città francesi lontane da Parigi, con più di una trentina di arresti. Nel 2005, la rivolta delle banlieues era iniziata con la morte di due ragazzini, Zyed e Bouna, fulminati in una centralina elettrica, dove si erano rifugiati per sfuggire a un controllo di polizia. Da allora, la polizia è diventata in Francia ancora più dura. Nelle periferie il dialogo sembra impossibile, la diffidenza è reciproca, acuita dopo la legge del 2017 ai tempi del socialista Valls, che in seguito a un’aggressione violenta di due poliziotti aveva allentato le regole della legittima difesa. Nel 2022, 13 persone sono morte perché non si sono fermate all’alt, sono già nove quest’anno. Il mondo dello spettacolo e dello sport ha reagito immediatamente. “Sto male per la mia Francia”, ha affermato il calciatore Mbappé, denunciando una “situazione inaccettabile” di violenze della polizia. “In questi quartieri c’è un sentimento condiviso che la giustizia non è uguale per tutti, come non lo è la scuola, il diritto al lavoro, tutto questo nutre frustrazioni - ha allertato il sindaco di Nanterre, Patrick Jarry (indipendente di sinistra) - Nanterre ha vissuto una delle giornate più terribili della sua storia”. E ha denunciato le “inaccettabili degradazioni” dopo la morte di Nahel: “Vogliamo giustizia e l’avremo con una mobilitazione pacifica”. Ma il mondo politico si è spaccato. Per il deputato di Renaissance, Marc Ferracci, “in questo tipo di situazione deve applicarsi il principio di proporzionalità e qui si vede sproporzione”. Per Jean-Luc Mélenchon “la polizia deve essere interamente rifondata”, in Francia “non esiste più la pena di morte”. La verde Marine Tondelier denuncia “un’americanizzazione” della polizia francese e per il segretario del Ps, Olivier Faure, “il rifiuto di fermarsi non significa permesso di uccidere”. Ma a destra e all’estrema destra il discorso è opposto e violento. “Guidava senza patente e ha rifiutato di fermarsi”, giustifica l’eurodeputato dei Républicains, François-Xavier Bellamy. Per il segretario di Lr, Eric Ciotti, “non bisogna togliere il sostegno a chi ci protegge”. Sébastien Chenu del Rassemblement national, se la prende con chi “approfitta” di questo dramma “per minare il sostegno alle forze dell’ordine”. Marine Le Pen giudica le parole di Macron “irresponsabili”, come il sindacato di poliziotti di estrema destra, Alliance, che ritiene “inconcepibili” le affermazioni del presidente (ma anche gli altri sindacati di polizia se la prendono con Macron e Borne e invocano la presunzione di innocenza per gli agenti). Il gruppuscolo France Police, che ha inviato “complimenti” ai poliziotti e accusa i “genitori, soli responsabili, che non sanno educare i figli”, dovrebbe venire dissolto per legge, ha annunciato Darmanin. Francia. Morti per “refus d’obtempérer” alla polizia triplicati dal 2017 di Filippo Ortona Il Manifesto, 29 giugno 2023 La legge che autorizza ad utilizzare le armi su cittadini inermi. Nel solo 2022, 13 persone hanno perso la vita così. L’omicidio di Nahel, l’adolescente di 17 anni ammazzato a colpi di pistola da un poliziotto francese a Nanterre, nella periferia di Parigi, è l’ultimo di un’inquietante serie di casi simili tra di loro, in preoccupante aumento in Francia sin dal 2017 e tutti relativi al refus d’obtempérer, ovvero quando una persona al volante rifiuta di fermarsi durante un controllo della polizia. Secondo i dati del giornale indipendente francese Basta!, infatti, dal 2017 a oggi il numero delle persone uccise a colpi d’arma da fuoco da un poliziotto, durante o in seguito a un refus d’obtempérer, è aumentato in maniera drammatica: almeno 26 vittime in sei anni (2017-2023), contro 17 nei quindici anni precedenti (2002-2017). Nel solo 2022, 13 persone hanno perso la vita in questo modo. Non è un caso che sia proprio durante il 2017 che si è cominciato a registrare un aumento vertiginoso di questo tipo di eventi. All’inizio di quell’anno, sotto la pressione esercitata dai sindacati di polizia, la presidenza socialista di François Hollande ha approvato un alleggerimento delle norme che inquadrano la “legittima difesa” dei funzionari di polizia e l’impiego delle armi d’ordinanza. La nuova legislazione ha esteso il perimetro legale dell’utilizzo delle armi da fuoco da parte degli agenti, avendo un effetto particolarmente pronunciato proprio sugli episodi di refus d’obtempérer. Con un linguaggio volutamente ambiguo, la legge ha autorizzato i poliziotti “a fare utilizzo delle proprie armi” qualora non ci fossero altri modi per “immobilizzare” dei veicoli che rifiutano di fermarsi ai controlli e che “sono suscettibili di perpetrare, nella loro fuga, danni alla propria vita a quella altrui”. Una legge che “permette ai poliziotti di sparare su dei cittadini anche quando questi ultimi non rappresentano una minaccia grave e immediata”, secondo uno studio statistico pubblicato alla fine dell’anno scorso dai ricercatori Sebastien Roché (Cnrs), Paul le Derff (Università di Lilla) e Simon Varaine (Università di Grenoble). I tre esperti hanno analizzato i cambiamenti prodotti dalla riforma del 2017, concludendo che gli spari sui conducenti in questo tipo di casi sono diventati “più frequenti proprio a partire dalla legge del febbraio 2017”. Negli ultimi sei anni, sono aumentati anche gli spari contro “veicoli in movimento”, secondo le cifre fornite dall’amministrazione della polizia francese. Da una media di 119 spari all’anno tra il 2012 e il 2016, si è passati a una media di 165 spari tra il 2017 e il 2021, con un picco di 202 episodi proprio nel 2017.