Carcere e droghe, inizia la traversata del deserto di Stefano Anastasia e Franco Corleone Il Manifesto, 28 giugno 2023 Il 26 giugno abbiamo presentato il quattordicesimo Libro Bianco sulle droghe e vengono confermati i dati che producono la catastrofe del carcere e la crisi della giustizia. Cresce la popolazione detenuta, aumentano gli ingressi dei soggetti definiti tossicodipendenti (15.509 su un totale di 38.125, pari al 40,7%) a cui si aggiungono 9.961 persone, pari al 26,1%, entrate in carcere per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Le segnalazioni al prefetto per consumo di droghe, dal 1990 a oggi superano il milione e quattrocentomila unità, di cui un milione per cannabinoidi. Sui 56.196 detenuti presenti al 31 dicembre dello scorso anno, 19.283 in violazione della legge sulle droghe, pari al 34,3%, e 16.845, pari al 30%, erano i tossicodipendenti. Un quadro terrificante aggravato dal fatto che non è disponibile il dato relativo ai fatti di lieve entità, che darebbe l’esatta misura della gravità della cosa. La deputata Montaruli di Fratelli d’Italia ha annunciato una proposta di legge contrapposta a quella di Riccardo Magi, già discussa nella scorsa legislatura e ripresentata con il n. 71, per aggravare le pene proprio per i fatti di lieve entità. Il numero delle misure di comunità cresce, compresa la messa alla prova durante il processo, con la caratteristica classista di separare all’origine chi ne è meritevole da chi entra in carcere ed è destinato a starci fino all’ultimo giorno di pena. Si è estesa l’area del controllo penale, che neanche nella peggiore delle distopie sarebbe potuta arrivare a quasi centoquarantamila detenuti, quante sono oggi le persone a diverso titolo sottoposte a misure penali, detentive e non. Che cosa dobbiamo aspettarci per il futuro? Gli annunci sono preoccupanti. Abbaieranno alla luna, ma le minacce sono forti e la proposta del sottosegretario Delmastro di trasferire i detenuti tossicodipendenti in comunità chiuse come San Patrignano suona come un ricatto per le strutture democratiche e non salvifiche. Riguarda il carcere e quindi la politica sulle droghe che crea il serbatoio della detenzione sociale la proposta di modifica dell’art. 27 della Costituzione, che rappresenta un valore fondamentale della concezione della pena. La proposta è stata ripresentata dal deputato Cirielli con il n. 285 (nella scorsa legislatura la prima firmataria era Giorgia Meloni) e subordina la funzione rieducativa della pena a indeterminate e indeterminabili necessità di difesa sociale. Alessandro Margara con l’ironia sferzante che manifestava in alcune occasioni, scrisse l’articolo 27 come immaginava lo volesse il ministro Angelino Alfano:” Le pene possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono limitarsi, senza altri scopi, a contenere il condannato per il tempo necessario all’esecuzione della pena”. Non avrebbe immaginato certo che da parte del partito che esprime il Presidente del Consiglio si scrivesse, non per scherzo, il terzo comma così: “La pena (al singolare, ndr), che non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, assicura la giusta punizione del reo per il fatto commesso e la prevenzione generale e speciale del reato e deve tendere, con la collaborazione del condannato, alla sua rieducazione. Sono stabiliti con legge i limiti della finalità rieducativa in rapporto con le altre finalità e con le esigenze di difesa sociale”. Tutt’altra cosa sarebbe la realizzazione di “Case di reintegrazione sociale”, piccole strutture nella responsabilità delle amministrazioni locali per accogliere i condannati con un fine pena sotto i dodici mesi, con un duplice obiettivo, ridurre il sovraffollamento (sono oltre settemila le persone in questa condizione) e realizzare davvero una giustizia di comunità, non retorica e velleitaria. Anche questa proposta è depositata alla Camera dei deputati con il numero 1064. Come si diceva una volta, sappiamo tutto, bisogna agire. Legge carcerocentrica sulle droghe: l’Italia ha il doppio di detenuti rispetto alla media Ue di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 giugno 2023 Il 34% dei detenuti totali è in carcere per la legge sulle droghe: quasi il doppio della media Ue. Quasi la metà di loro è tossicodipendente. Un catastrofico record negli ultimi 17 anni. È quello che emerge dalla quattordicesima edizione del Libro Bianco sulle droghe presentato alla Camera da Riccardo Magi di + Europa assieme alle associazioni e realtà promotrici. Quest’anno il Libro Bianco si concentra sul tema delle presenze in carcere a causa della legge sulle droghe, offrendo spunti e riflessioni sul dibattito pubblico. In particolare, si esamina la situazione delle persone che usano droghe e finiscono in carcere, rimanendovi per lunghi periodi. Le soluzioni proposte dalle autorità governative, come quella del sottosegretario Delmastro, per i promotori dello studio sembrano rappresentare un brusco ritorno al passato, favorendo comunità chiuse che appaiono appaltare la detenzione al settore privato invece che una reale risorsa per la riabilitazione e la tutela della salute fisica e mentale delle persone che fanno uso di sostanze e si trovano in carcere. Inoltre, vengono ricordate le proposte che erano state avanzate ma mai attuate. All’interno del Libro Bianco, si trova uno studio redatto nell’ambito dell’Ufficio per il Processo della Cassazione, che si propone di eseguire una ricognizione empirica della giurisprudenza di legittimità in materia di spaccio di lieve entità. Questo studio viene accompagnato dalla riproposizione delle proposte di modifica della definizione di ‘ lieve entità’ come fattispecie autonoma, al fine di suscitare una riflessione sulle politiche attuali riguardanti la droga e la sua penalizzazione. Ma c’è anche un capitolo dedicato all’Onu dove si approfondisce il dibattito internazionale sulle politiche globali in materia di droghe, criticando aspramente le prese di posizione del governo italiano a Vienna, rappresentato dal sottosegretario Alfredo Mantovano. Si analizzano le politiche sulle droghe alla luce del rispetto delle convenzioni internazionali sui diritti umani e si esamina criticamente l’ultimo report dell’International Narcotic Control Board, che si focalizza sulle legalizzazioni della cannabis nel mondo, esponendo le fake news che sono circolate in merito. La legge sulle droghe svolge un ruolo determinante nelle politiche repressive e carcerarie. Si osserva che più del 25% dei detenuti entra in carcere a causa di reati legati alle droghe, mentre il 34% dei detenuti complessivi si trova in carcere per tale motivo, cifra che supera di gran lunga la media europea del 18%. La percentuale di persone che usano droghe e finiscono in carcere ha raggiunto un record catastrofico negli ultimi 17 anni, con oltre il 40% di coloro che entrano in carcere a farne uso. Questo dimostra come la legge sulle droghe continui a essere la principale causa di ingresso nel sistema di giustizia italiana e nelle carceri. Dopo 32 anni di applicazione del Testo Unico sulle droghe Jervolino- Vassalli, diventa evidente che gli effetti penali, in particolare l’articolo 73, hanno avuto conseguenze devastanti. La legislazione sulle droghe e il suo utilizzo, secondo il Libro Bianco, determinano i saldi della repressione penale. La decarcerazione potrebbe essere ottenuta attraverso la decriminalizzazione delle condotte legate alla circolazione delle sostanze stupefacenti, mentre le politiche di tolleranza zero e di controllo sociale coercitivo si basano sulla loro criminalizzazione. È importante notare che in assenza di detenuti per l’articolo 73 o di persone dichiarate tossicodipendenti, non ci sarebbe il problema del sovraffollamento carcerario, come dimostrato dalle simulazioni prodotte. Nel 2022, su un totale di 38.125 ingressi in carcere, ben 9.961 sono stati causati dall’articolo 73 del Testo Unico, relativo alla detenzione a fini di spaccio. Questo rappresenta il 26,1% degli ingressi, in calo rispetto al 28,3% del 2021. Al 31 dicembre 2022, su 56.196 detenuti presenti in carcere, ben 12.147 erano detenuti a causa dell’articolo 73, mentre altri 6.126 erano detenuti in associazione con l’articolo 74, che riguarda l’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope. Questo significa che il 34,3% dei detenuti totali si trova in carcere a causa delle droghe, un dato che supera di gran lunga la media europea del 18% e quella mondiale del 22%. I dati relativi ai detenuti definiti ‘ tossicodipendenti’ sono ancora più allarmanti. Nel 2022, il 40,7% di coloro che sono entrati in carcere erano tossicodipendenti. Al 31 dicembre 2022, c’erano 16.845 detenuti ‘ certificati’ presenti nelle carceri italiane, rappresentando il 30% del totale. Questo numero record, che non si verificava dal 2006, è alimentato dal continuo aumento degli ingressi in carcere di persone tossicodipendenti, con un aumento del 18,4% rispetto al 2021 dopo due anni di pandemia. Le conseguenze di questa situazione si riflettono anche nel sistema di giustizia. Purtroppo, a causa del diniego dei dati da parte del Dipartimento delle politiche antidroga, i promotori del Libro Bianco non dispongono di informazioni aggiornate sui processi in corso per reati legati alle droghe. Tuttavia, secondo i dati fermi al 2021, il 70% dei processi per droghe termina con una condanna, confermando la tendenza degli anni precedenti. Un aspetto interessante da evidenziare riguarda l’impetuosa crescita delle misure alternative, che si sono trasformate in un’alternativa alla libertà anziché alla detenzione. In un contesto caratterizzato da una forte richiesta di controllo sociale istituzionale, strumenti come la diversione e la probazione hanno ampliato l’area del controllo anziché limitare quello coercitivo penitenziario. Il Libro Bianco riporta anche le segnalazioni e le sanzioni amministrative per il consumo di droghe illegali. Negli ultimi tre anni, sono state effettuate oltre 30.000 segnalazioni all’anno. È preoccupante notare che il 38% di queste segnalazioni si conclude con una sanzione amministrativa, che può comportare il ritiro della patente di guida, del passaporto, del porto d’armi o del permesso di soggiorno turistico, anche senza che sia stato commesso alcun comportamento pericoloso. La repressione colpisce principalmente l’uso di cannabis, che rappresenta il 75,4% delle segnalazioni, seguita dalla cocaina (18,1%) e dall’eroina (4,2%). Dal 1990, oltre un milione di persone sono state segnalate per il possesso di derivati della cannabis. È importante sottolineare che l’aumento del 33% delle segnalazioni di minori per il consumo di droghe, di cui il 97% riguarda la cannabis, non indica necessariamente un aumento effettivo del consumo da parte dei minori, ma piuttosto una maggiore repressione mirata nei loro confronti. Si ritiene fondamentale considerare gli effetti stigmatizzanti e desocializzanti che tali azioni repressive possono avere sui minori. La repressione, piuttosto che offrire opportunità di trattamento e riabilitazione, può spingere i minori in un percorso sanzionatorio che li marchia socialmente. È preoccupante notare che il numero di inviti a presentarsi al Servizio per le Dipendenze da Droghe (SERD) e di sollecitazioni a presentare un programma di trattamento socio- sanitario è in diminuzione. Il Libro Bianco pone grande attenzione alle presenze in carcere derivanti dalla legge sulle droghe, rilevando l’intollerabile situazione delle persone che usano droghe e finiscono per restare in carcere. Le soluzioni proposte dalle istituzioni, come detto, risultano un brusco ritorno al passato, in cui le comunità chiuse sembrano essere più un meccanismo di detenzione appaltata al privato sociale che una vera risorsa per la riabilitazione e la salvaguardia della salute delle persone coinvolte. È fondamentale riconsiderare la legislazione sulle droghe e promuovere politiche che puntino alla decriminalizzazione, alla riduzione del sovraffollamento carcerario e alla tutela dei diritti umani. Ma la maggioranza di governo, così come d’altronde quelle precedenti, fa orecchie da mercante. Cara Meloni, sulle droghe il fallimento è tutto vostro di Franco Corleone* e Riccardo Magi** L’Unità, 28 giugno 2023 Ristabiliamo le cose per come sono. A governare il fenomeno è stata la sua parte politica e i risultati sono evidenti: tribunali ingolfati per un reato senza vittima, carceri che scoppiano a causa di una vera “detenzione sociale”. Noi siamo stati all’opposizione. Gentile Presidente, il 26 giugno è per noi una discriminante e da quattordici anni presentiamo un Libro Bianco sugli effetti della legge antidroga sulla giustizia e sul carcere curato dalle associazioni che si occupano di questo tema da decenni, Società della Ragione, Forum Droghe, Cgil, Antigone, Associazione Coscioni, Cnca e molte altre sigle. Molto spesso il Dipartimento Antidroga non rispetta questa scadenza, ma quando presenta la Relazione al Parlamento vengono confermati i nostri dati. Il confronto è stato chiaro, alla mattina nella Sala Stampa della Camera dei Deputati una operazione verità, al pomeriggio nella Sala dei Gruppi un’orgia di demagogia e retorica. Ristabiliamo le cose per come sono. La nostra storia è di dura opposizione alla legge in vigore, la legge Iervolino-Vassalli del 1990, che contrastammo a lungo. Quella scelta proibizionista fu voluta da Bettino Craxi che cambiò l’impostazione del Partito Socialista che era stato con Loris Fortuna vicino ai radicali nelle battaglie per i diritti civili, umani e sociali, dal divorzio all’aborto, dall’obiezione di coscienza all’eutanasia. La campagna contro la criminalizzazione dei consumatori creò un cartello “Educare e non punire” che aveva come esponente don Luigi Ciotti del Gruppo Abele e propose un referendum nel 1993 che fu vinto con l’affermazione della depenalizzazione del consumo personale. Noi siamo stati sempre all’opposizione della guerra alla droga, la “war on drugs” di origine americana, mentre la sua parte politica ha governato il Dipartimento antidroga con tanti zar, dal prefetto Soggiu al deputato di AN Nicola Carlesi, e per molti anni la responsabilità è stata nelle mani del sottosegretario Carlo Giovanardi e del dr. Giovanni Serpelloni. Addirittura la legge n. 49 del 2006 che Lei rimpiange affermava che le droghe sono tutte uguali, senza distinzione, con una pena per la detenzione e il piccolo spaccio da otto a venti anni di carcere, porta il nome di Gianfranco Fini. Solo grazie alla decisione del 2014 della Corte Costituzionale, provocata dall’iniziativa della Società della Ragione, all’intuizione di Luigi Saraceni e all’impegno di Giovanni Maria Flick, ci liberammo di una visione antiscientifica e punitiva. Mettiamo a posto le cose. Lei ha governato il fenomeno e noi siamo stati all’opposizione. I risultati di cui porta la responsabilità, sono evidenti. I tribunali sono intasati per un reato senza vittima, le carceri sono caratterizzate dal sovraffollamento dovuto a un fenomeno sociale che andrebbe governato non con il codice penale, ma con la prevenzione e l’informazione. I numeri sono eloquenti: il 40,7% degli ingressi in carcere è di soggetti qualificati come tossicodipendenti, 15.509 per l’esattezza e il 26,1% di soggetti accusati di violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90, esattamente 9.961; l’ingresso per tutti i reati ammonta a 38.125. Le presenze al 31 dicembre 2022 sono il 30% di detenuti tossicodipendenti (16.845) e il 34,3% per violazione dell’art. 73, detenzione e piccolo spaccio (18.273). Una vera detenzione sociale! Aggiungiamo un dato clamoroso, quello delle segnalazioni alle prefetture per mero consumo; dal 1990 ad oggi sono stati colpiti un milione quattrocentomila di giovani e oltre un milione per uno spinello. Una criminalizzazione e una stigmatizzazione di massa che provoca sanzioni amministrative che gettano nell’emarginazione sociale e nell’etichettamento morale. Lunedì abbiamo ascoltato un armamentario rancido di falsità come la canapa definita come droga di passaggio, come il livello di THC che sarebbe a livelli altissimi e una sovrabbondanza di paternalismo autoritario e di visioni apocalittiche che usano l’immagine del tunnel. Lei ha come modello la San Patrignano di Muccioli, le ricordiamo la tragedia di un ospite della comunità, di Roberto Maranzano massacrato nella macelleria e sepolto in una discarica di Napoli. Il nostro modello è invece don Andrea Gallo fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto. Ieri ha accreditato comunità chiuse, autoritarie, ed è significativa la decisione della rete più vasta di strutture di accoglienza, il Cnca, di non partecipare alla kermesse governativa. Nel tentativo di mettere in cattiva luce le esperienze di legalizzazione della cannabis negli Usa avete invitato due lobbisti del proibizionismo che si sono prodigati nel ribadire le fake news più ricorrenti. Hanno parlato degli effetti nefasti delle riforme antiproibizioniste in Colorado e ogni spettatore o giornalista curioso si sarà chiesto perché il governo italiano, se vuole fare un convegno serio, in cui parlare anche dell’esperienza del Colorado, chiama questi due e non dei rappresentanti dello Stato del Colorado. Ironia della sorte ha voluto che a Denver si sia appena conclusa la più grande conferenza mai tenuta sulla Psichedelia, Psychedelic Science che ha visto la partecipazione di 13 mila persone tra medici, politici, artisti, interessati alle più che promettenti applicazioni mediche degli psichedelici e ai nuovi regimi normativi sul tema. Abbiamo ascoltato il programma del sottosegretario Alfredo Mantovano che ha avuto l’intelligenza di non parlare delle proprietà chimiche delle sostanze, ma della persona. Sono indicazioni preoccupanti ma ci confronteremo con nettezza. Il mantra portato avanti dai proibizionisti è che una legge più severa è necessaria per superare i danni del permissivismo! Il problema è che per decenni abbiamo vissuto sotto la cappa della repressione e del moralismo. I guerrieri della droga mascherano il loro fallimento e la volontà di proseguire all’infinito, per sete di potere, la loro lotta in nome della salute e della libertà. Ci piace ricordare quanto scrisse Paolo Mieli sul Corriere della Sera del 2 dicembre 2003 rispondendo al Sottosegretario all’Interno di AN, Alfredo Mantovano che fu il vero artefice del testo di Gianfranco Fini, dicendo che “in Italia non è mai stata sperimentata non solo la libertà ma anche solo la legalità della droga”. E aggiungeva: “Sono anni che lo Stato insiste a proibire anche le sostanze leggere e i risultati sono quelli da lei descritti. Infine fa sorridere, mi creda, il tentativo di riversare la colpa di ogni calamità in questo campo su quel (peraltro disatteso) referendum del 1993”. Tutta la documentazione della nostra riflessione nazionale e internazionale La può trovare nella raccolta del mensile Fuoriluogo, con i contributi fondamentali di Giancarlo Arnao e di Peter Cohen, sui miti e i fatti della Marijuana. Le cose non sono banali. Esiste la canapa terapeutica che viene prodotta dall’Istituto militare di Firenze e che recentemente ha visto la visita del presidente Mattarella ed esiste la canapa tessile esaltata negli anni del fascismo. Per fortuna nel modo il vento sta cambiando, dall’Uruguay al Canada, da tanti Stati degli Usa alla Germania si sceglie la via della legalizzazione. Lei aspira a fare dell’Italia il capofila della reazione. Auguri! La sfidiamo sul terreno della democrazia. Sblocchi la piattaforma digitale per raccogliere le firme per i referendum e l’anno prossimo verificheremo la decisione dei cittadini. Noi abbiamo fiducia nell’intelligenza e nel senso di umanità e giustizia dei giovani che potranno riacquistare fiducia nelle istituzioni. Con cordialità. *Responsabile Comitato scientifico della Società della Ragione. Già sottosegretario alla Giustizia **Deputato, segretario di +Europa Italia prima nell’Ue per detenuti over 65: sulle carceri sempre più sovraffollate il peso dei tempi della giustizia di Emanuele Bonini La Stampa, 28 giugno 2023 Un’età media di 42 anni, il maggior numero di ultracinquantenni (15.255, il 28% del totale in carcere), e la quota più alta in termini assoluti di over 65 dietro le sbarre (2.540, pari al 4,7% del totale). L’Italia ha i detenuti più anziani di tutta l’Unione europea. Un’età media di 42 anni, il maggior numero di ultracinquantenni (15.255, il 28% del totale in carcere), e la quota più alta in termini assoluti di over 65 dietro le sbarre (2.540, pari al 4,7% del totale). Non solo. La popolazione carceraria non diminuisce, addirittura cresce dello 0,3% tra il 2021 e il 2022, e di conseguenza problemi e criticità del sistema Paese non scompaiono, a partire dal sovraffollamento. Si contano, in media, 107 persone per posti letto disponibili, evidenzia il rapporto annuale 2022 del Consiglio d’Europa, che accende ancora una volta i riflettori su un fenomeno per nulla nuovo. Dati alla mano, quello italiano “è tra i Paesi con il più grave sovraffollamento”. Del resto non potrebbe essere altrimenti. Uno dei rilievi dell’organismo di Strasburgo per la promozione di democrazia e diritti, non può fare a meno di ricordare come la capacità carceraria tricolore si basa sui dispositivi di un decreto ministeriale del 1975. Un sistema che appare se non obsoleto comunque da rivedere. Va tenuto conto però di una specificità tutta italiana che spiega il perché di certi numeri. Uno su tutti, quello degli anziani. “In Italia, una parte significativa dei detenuti di età pari o superiore a 65 anni sono ex boss mafiosi condannati all’ergastolo”, rileva il Consiglio d’Europa. Con loro, presumibilmente, anche affiliati, visto che il grosso della popolazione carceraria è rappresentata da condannati per reati di droga (31,6%), business in cui la criminalità organizzata è da sempre molto attiva. A questo si aggiunge un altro problema strutturale, quello dei tempi della giustizia. Dei 54.372 detenuti censiti a fine gennaio 2022, si calcola che il 30% non stia scontando una pena definitiva e resti in cella in attesa di giudizio di terzo grado. Questo fa sì che il soggiorno nelle case circondariali sia tra i più lunghi. In media vi si resta 18 mesi, prima di sapere se si otterrà la scarcerazione o il prolungamento per decisione d’aula di tribunale. Tra sistema della giustizia e sistema carcerario c’è dunque del lavoro da fare. Anche perché svuotare le carceri potrebbe comportare anche benefici in termini economici. All’Italia ogni singolo detenuto costa, al giorno, 152 euro. Alla fine del 2021 il sovraffollamento delle carceri è costato all’Italia tre miliardi di euro. “Noi genitori di figli con doppia diagnosi siamo abbandonati, il carcere non è la soluzione” di Simona Berterame fanpage.it, 28 giugno 2023 Giacomo e Jacopo sono due ragazzi con una doppia diagnosi, ovvero una tossicodipendenza e un disturbo psichiatrico. Non si conoscono ma i loro genitori stanno facendo rete per richiamare l’attenzione sulle loro storie, fondando il movimento “Madri doppiamente disperate”. Le loro condizioni sono incompatibili con la detenzione carceraria, ma non c’è posto per loro in strutture alternative. “Mio figlio era in una pozza di sangue, ha provato ad uccidersi mangiando dei vetri”. Loretta Rossi Stuart è la mamma di Giacomo Seydou Sy, un giovane tossicodipendente con problemi psichiatrici detenuto in carcere da più di un anno. Questo nonostante la Corte di Strasburgo abbia già intimato all’Italia di spostarlo in una struttura adatta e alternativa al carcere nel 2020. All’epoca Giacomo era dietro le sbarre per la prima volta nonostante il suo quadro clinico. A tre anni di distanza la storia si ripete: il ragazzo stava intraprendendo un percorso all’interno di una Rems ma è riuscito a fuggire. “Dopo la fuga ha ricominciato a drogarsi ed ha commesso un altro reato - racconta rassegnata Loretta - quando lo hanno preso pensavo che l’avrebbero riportato nella struttura invece è finito di nuovo in carcere”. Ma quello di Giacomo non è un caso isolato. Per questo Loretta ha fondato il “Movimento Mamme Doppiamente Disperate” (Famiglie in rete), un gruppo di contatto e di collaborazione tra familiari di persone con problemi di dipendenza e disturbi di personalità. “Siamo tanti sparsi per tutta Italia- ci spiega Loretta - abbiamo storie diverse ma ci accomuna lo stesso senso di abbandono nei confronti delle istituzioni”. Anche Paolo per anni ha dovuto combattere per salvare il figlio Jacopo da se stesso. Un primo arresto per spaccio e l’ingresso in una casa famiglia. Ma lì le cose non sono andate come Paolo sperava. “Ha subito atti di bullismo - ci racconta - e come se non bastasse ha continuato a fare uso di sostanze perché dentro la struttura entrava di tutto”. Le Rems nel Lazio - Le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) hanno sostituito gli Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari) aboliti nel 2013 e chiusi definitivamente il 31 marzo 2015. Nel Lazio ci sono 6 Rems. “Dovrebbero essere destinate alle persone con una misura di sicurezza definitiva - spiega la Garante per i detenuti di Roma Valentina Calderone - ma nella realtà molti posti sono destinati a persone con misure di sicurezza provvisoria. Questo provoca lunghe liste d’attesa e capita purtroppo che ci siano persone detenute per mesi in carcere in attesa di un posto libero”. Perché papà è in carcere? di Giuseppe Rizzo L’Essenziale, 28 giugno 2023 In Italia centomila bambini e ragazzi hanno uno o entrambi i genitori detenuti. Spesso gli adulti mentono per proteggerli, sbagliando. Una giornata con padri e figli a Bollate per capire come affrontare un tema enorme, che non riguarda solo chi è in cella. Le mura di cinta dell’istituto penitenziario di Bollate a Milano sono così alte che anche messi l’uno sulle spalle dell’altro i bambini che le stanno costeggiando non ne supererebbero la cima. C’è chi ha tre anni, chi sei, chi otto, ma all’ombra della recinzione sembrano ancora più piccoli; e allo stesso tempo la barriera che li sovrasta appare più invalicabile. Alan ha sette anni e ogni tanto guarda in su per seguire l’arabesco del filo spinato. Secco come uno spillo, indossa la maglia dell’Inter e non vede l’ora di arrivare all’area verde dell’istituto per mangiare. È mezzogiorno e mezza, il sole picchia e lui rallenta un po’ il ritmo, ma non troppo: non sembra per niente stanco, nonostante abbia corso per due ore durante la Partita con i papà, un evento che dal 2015 l’associazione Bambini senza sbarre organizza in molte carceri italiane. Il 12 giugno di quest’anno al campo da calcio di Bollate c’erano venti bambini e ragazzi, dai tre ai diciotto anni, e tredici padri. E poi una quantità enorme di moscerini, di cui però nessuno si è preoccupato: né i bambini, felici di passare una giornata con i genitori che non vedono quasi mai; né i genitori, che per un momento hanno provato a dimenticare le sbarre, i lucchetti e la violenza che sprangano le loro giornate. La sensazione di libertà somigliava ai pini oltre le mura del carcere: se ne intravedeva appena la punta, ma bastava per farne immaginare il fogliame rigoglioso e il tronco forte. Durante la partita Alan è rimbalzato da un punto all’altro, ma non si è mai allontanato dal padre, come se fosse un piccolo satellite del genitore. Chestor C. invece di tenere d’occhio la palla, ha più che altro guardato lui, incapace di staccargli gli occhi di dosso. Come tutti gli adulti in campo, da molti anni non vede suo figlio addormentarsi la sera, né risvegliarsi la mattina, non c’è durante gli incubi notturni, le risate o i momenti di smarrimento che hanno bisogno di rassicurazioni quotidiane. Il tempo di una bugia - Ogni anno in Italia centomila minorenni vanno a trovare i genitori detenuti in prigione. Paradossalmente, però, sono proprio loro i primi a cui è nascosto cosa sia un istituto penitenziario, com’è fatta una cella, perché papà o mamma ci sono finiti. Non gli si dice neanche chi sono gli altri che ci sono rinchiusi, come si vive in luoghi vecchi e disumani, e quali alternative ci sono. Il problema è che nonostante i pochi tentativi per evitarlo, insieme ai detenuti finiscono in carcere anche le loro famiglie, che nonostante non abbiano commesso alcun reato pagano sulla propria pelle l’isolamento, il giudizio sociale e il dolore causati da ogni detenzione. È un trauma che ciascun genitore affronta come può: spesso negando la realtà con i propri figli, a volte facendo finta che la prigione sia un ospedale o un luogo di lavoro, raramente maneggiando la questione senza causare ferite. Chestor C. e sua moglie all’inizio hanno deciso di mentire. “Quando mi hanno arrestato Alan era molto piccolo, per cui gli abbiamo detto che lavoravo qui. Ma non è durato tanto”, dice, mentre il bambino gli si arrampica sulle gambe e si siede sulle sue ginocchia. Riparati da una pergola in legno, genitori e figli si sono stretti intorno a dei tavoli di plastica per pranzare e passare del tempo insieme dopo la partita. Accanto alla pergola ci sono scivoli, altalene, dondoli e una casetta rossa, simbolo di uno spazio di riservatezza, costruita in collaborazione con il Politecnico di Milano. Chestor C. stringe le spalle di Alan e racconta che il figlio si è reso conto presto delle bugie dei suoi: “Quando è venuto a trovarmi ha visto le sbarre, le divise, le pistole… Un giorno, senza che ancora gli avessimo spiegato niente, mi fa: ‘Papà, ora ti libero e ti porto a casa’. Allora gliel’ho detto”. Chestor C. chiede direttamente al bambino: “Ti ricordi cosa ti ho detto?”. Alan, che finora ha ascoltato il genitore in silenzio, risponde con gli occhi bassi: “Che avevi sbagliato”. E il padre annuisce: “Bravo. Ti ho promesso che sarei tornato a casa, ma prima però devo pagare per i miei errori”. Uno di questi errori me lo racconta proprio davanti ad Alan, perché sembra voler ribadire un concetto che ripete spesso al figlio, ma anche a se stesso: “Ho fatto tante cazzate”. Si ferma, si porta la mano alla bocca e alza gli occhi al cielo: “Ok, ho detto una parolaccia davanti a lui”, sorride. Poi riavvolge il nastro e racconta: “Ero dipendente dai giochi e dalla droga. Ho cominciato a giocare per scherzo ma mi sono perso subito”. Alan lo ascolta, poi come se le parole che ha appena sentito fossero state soffiate via dal vento chiede: “Papà, quando esci mi porti uno dei tuoi giochi della Play?”. Chestor C. gli risponde di sì, sta per ripetere di nuovo di non giocare mai per soldi, ma il bimbo non lo fa finire, ride e va dalla madre, contento della promessa del padre. Ora che siamo rimasti soli la voce e il viso dell’uomo crollano come una diga: “Giocavo in continuazione, e perdevo. La cocaina mi ha mandato fuori di testa. Mi servivano i soldi per comprarla, per giocare e perché mi ero indebitato con degli albanesi. Ero come un topo in trappola. Perciò rapinavo la gente. Finché un giorno non ho fatto una cazzata più grande delle altre”. Raccontandola, Chestor C. dà l’impressione di riviverla: “Ho tirato due pugni a un anziano per rubargli il Rolex e prendergli il portafogli. È caduto, ha sbattuto la testa e ha perso conoscenza. Ho visto che non si muoveva e mi sono spaventato”. Chestor C. sostiene di aver avvisato una passante che c’era un uomo a terra. “Quando sono arrivato a casa ho vomitato pensando a quello che avevo fatto”. I carabinieri lo hanno trovato subito grazie al video di una telecamera di sorveglianza. L’anziano aggredito era finito in coma. “Ma io per mesi ho pensato che fosse morto. Pregavo giorno e notte per lui”. Dice queste ultime parole mentre gli occhi gli si riempiono di lacrime. Non è semplice accostare le immagini dell’aggressione con quella dell’uomo che piange. Da un lato c’è una violenza che spaventa e fa orrore, e che si immagina abbia stravolto la vita della vittima, dall’altro c’è uno degli effetti indiretti di questo stravolgimento: Chestor C. ha 34 anni ma cinque di carcere lo hanno spezzato e ingrigito. Il carcere è in grado di causare un dolore che consuma il tempo e ti invecchia in fretta. Il male esiste, non c’è dubbio, ma invece di sanare le ferite, la prigione lo moltiplica. E raramente prevede la possibilità del bene. Il sistema non ammette - non può farlo - le parole che Aleksandr Solženicyn ha scritto in Arcipelago gulag: “La linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno (…) Dal bene al male è un passo solo. Dunque anche dal male al bene”. “Qui a Bollate mi hanno accoltellato per rubarmi il pacco con i vestiti”, spiega Chestor C. “Mentre a Pavia, dove mi avevano portato dopo l’arresto, ho provato a uccidermi perché con mia moglie andava tutto male e perché ero in preda ai rimorsi per il signore che avevo aggredito”. Dice che se oggi lo incontrasse, lo pregherebbe in ginocchio di perdonarlo, che ha capito cos’ha fatto: “Non ero più un uomo. Ho seguito dei percorsi di disintossicazione, sia dalle droghe sia dal gioco”. Tra le cose che dice di aver capito, c’è anche il ruolo del padre nella situazione in cui si trova: “Era un alcolizzato, mi ha insegnato lui a giocare d’azzardo e a rubare”. Lo picchiava quando tornava con i soldi e lo massacrava quando rincasava senza. Lo legava in un recinto con i maiali per metterlo in punizione. “Era sordo, e me le dava con bastoni, mazze e cinture finché non percepiva qualcosa delle mie grida”. Il bilancio che Chestor C. fa di quegli anni è perfino generoso nei confronti del genitore: “Per un 20 per cento la colpa se sto qui è sua”. Ma la sintesi vera di quell’educazione la trova in queste parole: “Non so cosa significa essere un bambino”. Per questo, nonostante gli sbagli, cerca di proteggere suo figlio. “Non voglio che soffra come ho sofferto io, che paghi per i miei errori. Ogni volta che viene ai colloqui mi dice che gli manco. Quando mi tira per le mani e mi prega di tornare a casa con lui mi spezza il cuore. Gli spiego sempre che manca poco”. Si vedono ogni settimana ma la speranza di Chestor C. è di trovare un lavoro e rientrare in carcere solo la sera. Quando il bambino, che intanto è tornato, sente queste parole, lo interrompe subito: “Papà, se esci scappi subito, così resti con noi”. Ma il padre non cede: “No, non è così. È meglio che pago adesso per i miei sbagli e poi siamo felici”. Poi promette al figlio che quando tornerà a casa costruirà uno studio di registrazione nella sua stanza: per passare il tempo in carcere Chestor C. scrive e canta dei pezzi rap, e uno lo ha composto per il compleanno del figlio. Il bambino alza le mani al cielo in segno di vittoria, poi diventa serio: “Ma nella mia stanza c’è un armadio gigante, occupa tanto spazio”. Guarda il padre, che gli risponde: “Non ti preoccupare, in qualche modo facciamo”. Un approccio morbido - Teo è il più grande tra tutti i figli che hanno partecipato alla Partita con i papà: lo è per età, con i suoi diciott’anni; e lo è fisicamente, con il suo un metro e novanta. Ha il corpo massiccio del padre e il viso dolce della madre. Da un pezzo sembra essersi lasciato alle spalle l’ingenuità di Alan, e i segreti. “Non mi piace nascondermi, i miei compagni di scuola e i miei amici sanno cos’è successo a mio papà. E nessuno di loro si è allontanato, a differenza di quello che hanno fatto molte persone che conoscevano i miei genitori”, racconta in un momento di pausa della partita. “È il motivo che ha spinto mia madre a diventare più diffidente, come se avesse perso la fiducia negli altri”. Occhi azzurri e fronte imperlata di sudore, preferisce parlare camminando. “Quando hanno arrestato mio papà io avevo dodici anni e ho un ricordo sfocato di quel quel giorno”. Ma un’immagine gli è rimasta impressa: “Ero in camera mia e la porta era socchiusa, così ho intravisto due persone sconosciute a casa”. Erano gli agenti che avrebbero portato via il genitore. È stata la madre a dover filtrare l’aria incandescente intorno a lui: “Quando era chiaro che papà non sarebbe tornato mi ha detto che era fuori per lavoro”. Tuttavia, nel giro di qualche settimana, la bugia non reggeva più: “Il telefono suonava in continuazione, mamma parlava con l’avvocato, con i parenti, e non riusciva a nascondermi tutto. Così mi ha accennato la situazione, scendendo via via nei dettagli”. A questo punto ci raggiunge il padre, Roberto, che di questi dettagli non vuole parlare. “Preferisco che si chiuda tutta la vicenda prima di raccontarla”, spiega. Dice che fino all’arresto non aveva avuto alcun problema con la giustizia, e che “è stata una batosta tremenda”. Teo ha due sorelle, una poco più piccola di lui e una ancora sul confine tra l’infanzia e l’adolescenza. Con lui il padre ha scelto di affrontare l’argomento un po’ alla volta. “Papà è bravo con le parole”, racconta il ragazzo, “mi ha rassicurato e mi ha spiegato il contesto di quello che era successo. Non lasciava trasparire molte emozioni, ma ricordo di aver sentito della rabbia nelle sue parole”. “Teo ha vissuto e sta vivendo tutto sulla sua pelle”, spiega il genitore, “ma quello che provo a fargli capire è che anche questa esperienza tremenda deve servire a farlo crescere”. Con le ragazze spiega invece di aver avuto “un approccio più morbido, le cose sono venute fuori più lentamente”. La moglie lo dice in modo più diretto: “All’inizio abbiamo mentito per proteggerle. La più piccola aveva davvero pochi anni quando è successo, perciò abbiamo aspettato e glielo abbiamo detto quand’è cresciuta un po’”. Arrestato nel 2017, il marito ha passato un primo periodo a Opera, dove ha cominciato a frequentare i laboratori sull’essere genitori, e sull’esserlo in carcere, di Bambini senza sbarre. “Per me la cosa più brutta è non vedere i miei figli crescere, e non poterli aiutare a farlo. È tremendo”. A misura di bambino - Gli strumenti che l’associazione usa per evitare che una famiglia con un genitore detenuto esploda, e che le schegge colpiscano i bambini, sono diversi. “Ci sono gli spazi gialli, i laboratori di teatro e di disegno, e il sostegno psicologico”, spiega Martina Foschiatti, psicoterapeuta di Bambini senza sbarre. Tutti sotto la pergola la salutano e ringraziano per il suo lavoro. “Gli spazi gialli sono aree all’interno del carcere con giochi, disegni alle pareti e un ambiente accogliente che permette ai bambini di aspettare il colloquio con i familiari senza subire la durezza e il grigiore delle prigioni”, dice Foschiatti. Il primo è stato aperto nel 2007 a San Vittore. “O meglio, visto che nell’istituto non c’era neanche lo spazio, ci ha ospitato il museo della Scienza, lì vicino”, ricorda Lia Sacerdote, fondatrice di Bambini senza sbarre. “Oggi gli spazi gialli sono in decine di istituti”, spiega Sacerdote, che fa anche parte di Sabof, un gruppo che unisce filosofia e psicologia nell’analisi delle storie personali. I laboratori invece servono a recuperare una quotidianità con i figli che molti dietro le sbarre hanno perso. Passando del tempo insieme, senza la presenza del genitore libero, i bambini accorciano una distanza che a volte si trasforma in un precipizio. “Il mantenimento della relazione affettiva è fondamentale. Il legame con il padre e la madre struttura i bambini”, continua Sacerdote. Per questo la cosa più importante non è proteggerli dalla verità, ma fargli capire di non essere stati abbandonati: “Tenerli lontani dai genitori in carcere crea un senso d’abbandono pericoloso. Li incatena dal punto di vista psicologico. Un bambino a cui mamma e papà spiegano cos’è successo, che è portato in prigione per mantenere il legame con loro, potrà scegliere altre strade”. “È un lavoro utile non solo alle famiglie, ma al carcere stesso”, dice Maria Visentini. Ex ispettrice penitenziaria in pensione dal 2018, Visentini ha cominciato a collaborare con Bambini senza sbarre quando era ancora “dall’altra parte, quella della prigione”, scherza. Oggi questa esperienza le permette, tra le altre cose, di aiutare l’associazione nella formazione degli agenti penitenziari. “Spieghiamo agli operatori che tutto dev’essere fatto a misura di bambino”, racconta al telefono. “L’accoglienza dev’essere morbida, i toni calmi e rassicuranti. Suggeriamo che i controlli dei più piccoli siano fatti da figure femminile, e di usare frasi tipo: ‘Mi puoi far vedere se hai delle caramelle in tasca?’”. Con i genitori invece si lavora su altri aspetti. “Spesso non sanno come dire la verità ai figli”, dice Visentini, “noi li aiutiamo, prima con dei colloqui individuali con la psicologa dell’associazione, poi con dei consigli su come affrontare la questione”. Naturalmente, il momento del “racconto di verità”, come lo chiama Visentini, non sempre è facile. “A volte i più piccoli reagiscono con rabbia, sia per le bugie sia per i reati commessi dai genitori. ‘Perché lo hai fatto?’, gli chiedono”. La psicologa può aiutarli a superare questa rabbia, come può sostenere chi si sente in colpa per il destino del padre o della madre: “Alcuni pensano che se un genitore è in cella è perché loro stessi sono cattivi”. Alla fine, però, “i bambini sono in grado di perdonare, e di voltare pagina”, dice Visentini. Tutto questo serve a evitare che la rete familiare si sfaldi, insieme a ogni possibilità di cambiamento della persona in cella. “È ormai accertato che la leva della famiglia è fondamentale nel reinserimento dei detenuti”, spiega Visentini. “Se qualcuno che ha commesso un reato è riuscito a dirlo ai suoi figli significa che ha cominciato a elaborare quello che ha fatto. E questo è un primo passo indispensabile per lasciarsi alle spalle il carcere”. Nelle parole di Visentini risuonano quelle di Solženicyn: “Mi piace pensare che così facendo un detenuto si abitua al bene. Chiaramente le cose non sono mai lineari, ma in generale, senza quell’elaborazione, non ci sono molte possibilità che una storia possa cambiare”. Risalire dal fondo - Lauro Pippa ha parte della sua storia tatuata sul viso. Sulla guancia destra ci sono dei numeri - quelli delle celle in cui è passato - e due rondini che spiccano il volo. “Mi aiutano a ricordare cosa devo fare: evitare di finire di nuovo dentro”, dice. Sopra il sopracciglio sinistro si è invece fatto scrivere le parole the end, la fine: “Come la canzone dei Doors, solo che a me ricorda la decisione di smetterla con la coca. Era il 2017, la molla è stata vedere il fondo negli occhi di chi mi vuole bene”. Pippa ha esplorato quel fondo per bene: “Sono cresciuto a Rho, qui a Milano. Mio padre faceva il camionista, mia madre la cassiera nei supermercati”. Pausa. “Io non ho mai lavorato in vita mia”. Sorriso, ma senza troppa convinzione. Fino all’ultimo arresto i soldi li ha fatti con la droga. “Ho cominciato da ragazzo. Sniffavo cocaina, prendevo pasticche. Era un gioco, poi il gioco è diventato altro, e avevo bisogno di soldi per continuare con lo stile di vita che facevo: una sera andavo a ballare a Roma, quella dopo a Firenze. Queste cose costano, la droga costa, e così sono entrato nel giro”. Pippa racconta questa scelta con la stessa incoscienza del figlio che si arrampica su uno scivolo alto, senza pensare a come dovrà scendere. Nel 2018 l’Interpol lo ha trovato a Valencia, in Spagna, dov’era latitante. “Abitavo in una villa con piscina, facevo la bella vita, muovevo tanta roba”, dice. Poi si ferma, si accende una sigaretta, si sfiora la scritta the end, forse in modo teatrale o forse inconscio, e aggiunge: “Ma non ne è valsa la pena, le persone a cui volevo bene soffrivano”. Così ha deciso di risalire dal pozzo con piscina in cui era finito. Oggi ha 42 anni e quattro figli con quattro donne diverse. “È per loro che mi sono beccato un provvedimento disciplinare in carcere: siccome ero stato arrestato per narcotraffico, un reato ostativo che non prevede più di due telefonate al mese, dovevo scegliere quale di loro sentire, così mi sono procurato dei telefoni: provavo a chiamarli tutti ogni giorno, ma mi hanno beccato”. Messo in isolamento in una cella liscia, cioè senza finestre e nient’altro che una branda per dormire, dice che accanto a lui molti altri sono implosi: “Non vedi e non parli con nessuno per giorni interi, a volte settimane. C’è chi si è impiccato, chi si è dato fuoco. Ci chiudevano a chiave anche nelle docce”. Per tutta la pandemia non ha potuto incontrare tre dei suoi figli. “I minori di dodici anni non li facevano entrare. Da un lato è stato meglio, perché in prigione il virus girava tantissimo. Dall’altro è stato dolorosissimo”. Ora la più piccola gioca con il fratello maggiore nell’area giochi. A loro Pippa ha detto che era in castigo, mentre ai più grandi lo hanno spiegato le madri e i nonni. “E poi hanno visto il video dell’arresto, quindi non potevo inventare scuse”, racconta. Ma c’è anche dell’altro: “Se gli dicevo che lavoravo qui c’era il rischio che pensassero: ‘Anche gli altri papà lavorano, perché tu non torni a casa, forse perché non mi vuoi bene?’”. Quando ha saputo dei laboratori di Bambini senza sbarre ha fatto subito la richiesta per partecipare. “È stato grazie al loro lavoro che ho finalmente respirato un’aria di casa, di famiglia”. Oggi lavora otto ore al giorno come centralinista della Eolo, un’azienda che fornisce servizi internet, e guadagna 1.200 euro al mese: “Una cifra che prima spendevo in due giorni, ma lo dico senza rimpianti. Il mio rimpianto più grande è che qui siamo condannati a vivere sempre la stessa giornata, ma fuori il mondo va avanti, i tuoi bambini crescono e tu non ci sei. Io non ho mai visto la mia figlia più piccola svegliarsi la mattina”. Oltre il tabù - Il carcere è una macchina in grado di immagazzinare errori e restituire violenza. E i bambini ne sanno qualcosa. Sono stati loro tra i primi a sperimentare la reclusione in istituti che hanno anticipato le moderne prigioni. Nel sedicesimo secolo in Inghilterra molti finivano nelle house of correction, case di correzione, insieme a ladri, prostitute e poveri, “corretti” attraverso il lavoro e la disciplina. La loro unica colpa era quella di essere stati abbandonati dai genitori. Nel diciassettesimo secolo a Firenze, all’interno dell’ospizio di San Filippo Neri, conosciuto anche come casa dei monellini, fu creata una sezione in cui i ragazzi poveri abbandonati, ma anche quelli di buona famiglia che non seguivano le regole, erano rinchiusi in celle singole e tenuti in isolamento giorno e notte. Nei secoli successivi, la comparsa del carcere così per come lo conosciamo oggi, non ha risparmiato bambine, bambini e adolescenti. In Italia nel 1934 fu istituito il tribunale per i minorenni. Ma solo nel 1989 la legge fu riformata per evitare il più possibile di mandare in cella chi non ha ancora compiuto diciott’anni. Non abbiamo avuto paura a imprigionarli, ma abbiamo paura a parlargli di carcere. Discutere con bambine, bambini e adolescenti di galera, crimine e violenza è considerato un tabù. Sia dai genitori detenuti, sia da tutti gli altri adulti. Molti sono convinti che sia una questione che riguarda solo un certo numero di persone come Chestor C., Roberto, Lauro Pippa, ma è un errore. Occuparsi male - e spesso all’insegna della violenza e della vendetta - di qualcuno che sta in cella, e non occuparsi affatto di chi ha lasciato a casa, senza colpe e responsabilità, ha conseguenze su tutti. Una società così non sarà certo più giusta. Né, come piace dire in tempi di ossessione per le manette e le gabbie, sicura. Il nome e alcuni dettagli che riguardano Alan sono stati cambiati. Roberto e Teo hanno chiesto di non comparire con il loro vero nome Più biblioteche nelle carceri regioni.it, 28 giugno 2023 La Conferenza delle Regioni ha condiviso con il Ministero della Giustizia (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), l’Anci e l’Associazione Italiana Biblioteche, un “Protocollo d’intesa per la promozione e la gestione dei servizi di biblioteca negli istituti penitenziari italiani”. Il protocollo, di durata quinquennale, prevedrà eventuali accordi quadro e convenzioni tra i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria e le Amministrazioni regionali o gli Enti Locali attraverso una rete di integrazione con le biblioteche territoriali presenti. Le attività promosse saranno: accesso al patrimonio librario e multimediale da parte dei detenuti e progressivo incremento dello stesso; valorizzazione degli aspetti multiculturali delle etnie presenti negli Istituti penitenziari; integrazione del servizio interno con le biblioteche del territorio; formazione professionale dei detenuti e del personale incaricato della conduzione del servizio interno; realizzazione di iniziative culturali e integrazione di tali iniziative con il Progetto d’Istituto stilato dall’Area Trattamentale, titolare della gestione del servizio di biblioteca interno. I tifosi della giustizia di Mario Bertolissi Corriere del Trentino, 28 giugno 2023 Divampano le polemiche e si fronteggiano le tifoserie. In disparte, il cittadino, che si chiede come mai la giustizia debba sempre provocare risse. Omessi un ragionamento pacato e la consapevolezza che tutto è discutibile. Non privo di difetti. Da non banalizzare, però. Perché la banalizzazione è, di per se stessa, un male, al quale è difficile porre rimedio. Del resto, moderazione e sobrietà consentirebbero di comprendere ciò che, soprattutto, è in gioco. 1) Se c’è un principio, che caratterizza, nella sua stessa ragion d’essere, lo Stato di diritto, questo è il principio della separazione dei poteri. Le Costituzioni lo presuppongono e fissano le regole, che il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario debbono rispettare. Quella italiana indica i casi in cui il Governo può sostituirsi al Parlamento; il quale, tuttavia, rimane il decisore per eccellenza, quando si tratta di esercitare la funzione legislativa. Il giudiziario - a rigore, ordine e non potere - non gode, sotto questo profilo, di alcuna particolare prerogativa. Anzi, l’articolo 101, II°comma, stabilisce - allo scopo di salvaguardarne l’indipendenza e, al tempo stesso, di circoscriverne il raggio d’azione - che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Se, poi, la legge è incostituzionale - come qualcuno sostiene, a proposito del disegno di legge del ministro Nordio se ne occuperà, appunto, la Corte costituzionale, investita dai giudici con apposita ordinanza di rimessione. 2) La riforma, di cui si discute, riguarda il diritto penale, disciplinato da una serie non trascurabile di disposizioni costituzionali, che hanno ad oggetto, tra l’altro, il diritto di difesa, il giudice naturale, il principio di legalità e la non retroattività della legge penale (articoli 24, 25 e 27). Tuttavia, prima di queste previsioni, ne vengono in gioco altre: esse concernono la libertà personale (o dagli arresti: articolo 13) e le prerogative della persona, che il Costituente ha ribadito più volte, quando ha parlato di dignità (articoli 3, 32, 36 e 41), colta sotto molteplici profili, tutti riconducibili a un’idea generale di rispetto per ciò che la persona è, ha compiuto e, prospetticamente, potrà compiere in libertà. A proposito delle intercettazioni, si è rilevato che, se limitate, non avremmo mai potuto conoscere fatti e misfatti gravi. Ma, troppo spesso, siamo venuti a conoscenza di dati e notizie, che riguardano, addirittura, persone estranee alle indagini, delle quali sono stati rivelati episodi ed aspetti della vita, che nessuno ha il diritto di conoscere. Perché tutti hanno il diritto di custodire le proprie miserie, se sono tali, di cui sono sovraccarichi pure i santi. Ma chi ha a cuore la dignità offesa? Protesta soltanto quando ne è leso. Quasi mai prima, perché preferisce a un’idea di giustizia, che inquieta le coscienze, quella sbalorditiva del vecchio mal vissuto, con in mano una corda, destinata ad impiccare il malcapitato di turno. Un Enzo Tortora? 3) Perché, tutto questo? La risposta è frutto di una riflessione, che riguarda ruolo e funzioni del magistrato. Il pubblico ministero non è giudice, ma è magistrato e può, oggi in forma più limitata rispetto al passato, ricoprire entrambe le posizioni. Ebbene, Piero Calamandrei ci ricorda - quando scrive del consigliere della corte d’appello di Firenze, Pasquale Saraceno - che “l’errore giudiziario era la sua ossessione”. In generale, però, mentre “La professione dell’avvocato è (…) maestra di modestia”; “per il giudice (…) la superbia (…) è una malattia professionale”: infatti, “è raro che il magistrato (…) rinunci al privilegio inebriante (anche se a lungo andare pericoloso) di aver sempre ragione”. Lo scambio reciproco di contestazioni risentite non ha nulla a che fare con la giustizia. Per sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda, è necessario sapere - ci avverte Alessandro Manzoni - che le passioni “non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne’ loro effetti, e detestarle”. Per questo, sarebbe opportuno disintossicarsi pensando, piuttosto che a sé, al prossimo. La riforma Nordio è un grattacapo per il Pd. E i gruppi si spaccano sull’abuso d’ufficio di Giacomo Puletti Il Dubbio, 28 giugno 2023 Riunione alla Camera sul ddl giustizia: si va verso un contropacchetto sull’intera proposta di legge, una sorta di “riforma ombra” firmata dai dem. Le anime del Pd sulla giustizia sono due, o forse tre, o magari quattro. È quel che emerso dalla riunione del gruppo della Camera per discutere il ddl Nordio e le contromisure da prendere circa i provvedimenti adottati dal Guardasigilli e rigettati al mittente dal Nazareno. Il problema è che gli stessi provvedimenti, o almeno una parte di essi, sono accolti con favore dagli amministratori locali dem e da una parte dei parlamentari di minoranza, a partire da Base riformista di Lorenzo Guerini e dai giovani turchi di Matteo Orfini. “C’è stata una discussione che ha visto confrontarsi due approcci un po’ diversi - spiega un deputato di peso, che preferisce restare anonimo - Sull’abuso d’ufficio, ad esempio, c’è un pezzo di partito molto più vicino alle problematiche dei sindaci, e un altro allo stesso tempo sensibile ma con soluzioni diverse rispetto a quelle previste da Nordio”. La soluzione? Discutere, discutere e discutere ancora, fino a trovare un punto di caduta che però ieri non è stato raggiunto. “C’è chi ritiene possibile mantenere l’impianto attuale dell’abuso d’ufficio già modificato nel 2020 e chi ritiene che l’attuale formulazione sia troppo vaga e generica e provoca immobilismo amministrativo e paura della firma”, spiegano ancora fonti dem. Quello su cui la maggioranza del gruppo è convenuto è la necessità di un approccio non ideologico ma pragmatico e concreto andando a vedere nel merito le proposte, ma non sono mancati quelli che tendevano a un rigetto più radicale. Nei prossimi giorni la discussione continuerà fino a prendere una decisione sulle due ipotesi emerse dal tavolo: la presentazione di un pacchetto di emendamenti al ddl Nordio o la presentazione di un contropacchetto sull’intera proposta di legge, una sorta di “riforma ombra” della giustizia, targata Pd. Quel che i dem hanno intenzione di fare è riprendere le proposte di legge già depositate nella scorsa legislatura, facendo valere la propria iniziativa politica. Magari tirandosi dietro il resto delle opposizioni. Anche perché, è il ragionamento, ci sono alcune questioni che la riforma Nordio non risolve. “Il caso dell’ex sindaca di Crema Stefania Bonaldi, indagata “per non aver adottato i dispositivi necessari ad evitare l’incidente” (le dita di un bambino erano rimaste incastrate nella chiusura di una porta, ndr) non sarebbe stato evitato nemmeno con la riforma Nordio, che quindi anche da questo punto di vista non tutela del tutto gli amministratori locali - aggiunge uno dei presenti alla riunione - insomma, c’è ancora da fare”. Riforma della giustizia, impossibili le indagini senza intercettazioni di Alessandro Crini* Corriere Fiorentino, 28 giugno 2023 Gli uffici giudiziari sono ancora alle prese con l’impatto non lieve della legge Cartabia - per la quale quella definizione è senz’altro appropriata, visto che si tratta di centinaia di norme promulgate nell’idea di adeguare il sistema agli standard necessari all’attuazione del Pnrr - e già si profila la riforma Nordio: pochi articoli stavolta, destinati tuttavia ad incidere su aspetti molto rilevanti del diritto processuale e sostanziale. La premessa. Si legge che il ministro, già procuratore aggiunto a Venezia, prima del pensionamento, pare non gradire l’interlocuzione dell’Anm. Il che è doppiamente sbagliato. Da un lato perché finisce per delegittimare l’organo di più diretta rappresentanza della gran parte dei magistrati, come certamente non può essere il Csm, organo di autogoverno a composizione mista; dall’altro perché evoca lo spettro di una magistratura che si muoverebbe in una prospettiva di potere più che di servizio. Mentre, se l’ispirazione della riforma deriva al ministro anche dalla sua passata esperienza di pubblico ministero, non si vede il perché della diffidenza verso ex colleghi, portatori di esperienze consimili. C’è anzitutto il tema delle intercettazioni; strumento certamente invasivo, ma di cui è ormai chiarissimo che sarebbe imprudente privarsi, in un mondo in cui i contatti sono sempre più guardinghi e spesso avvengono tra persone lontane. Se ne parla (male), peraltro, prevalentemente in relazione ai rischi di una loro ingiustificata propalazione, che è il tema su cui la nuova disciplina intende intervenire. Rilievo in sé condivisibile; salvo considerare, tuttavia, che la legge vigente, tra archivi riservati posti sotto la diretta responsabilità del procuratore, tracciabilità degli accessi e verifica preventiva sull’utilità e pertinenza delle conversazioni intercettate, appare già in grado di apprestare adeguata tutela rispetto a tali pericoli. Ma veniamo a ciò che esiste e che invece, secondo la riforma Nordio, dovrebbe essere abolito: l’appello del pm contro le assoluzioni in primo grado, sia pure limitatamente a reati di modesta gravità. Capisco il rilievo: se la condanna deve essere pronunciata al di là di ogni ragionevole dubbio, come può non esistere un dubbio, quando esso è addirittura consacrato in una prima sentenza assolutoria? Ineccepibile. Ma il fatto è che, specie quando il giudice è monocratico, e nel nostro sistema questo accade per moltissimi reati, anche molto gravi, quando l’imputato scelga di essere giudicato col rito abbreviato (casi nei quali, peraltro, l’appello sembra restare ammissibile) come escludere un eventuale travisamento del fatto, magari anche molto evidente, per un’occasionale negligente valutazione del giudice? E se non lo si può escludere, è giusto che questo travisamento non sia in alcun modo redimibile in un grado successivo? Direi di no. Si è accennato all’abbreviato, e all’eventualità che esso possa definire anche processi per fatti molto gravi, rimettendo a un singolo giudice enormi responsabilità. Quello stesso giudice, invece, quella medesima persona fisica, nel momento in cui esamina una richiesta di misura cautelare, almeno per taluni reati, deve, secondo la nuova normativa, riunirsi in collegio con altri due colleghi; con l’idea, evidentemente, che tre sia meglio di uno, in termini di garanzia. Il ragionamento, in sé, possiede una sua teorica plausibilità; ma, a prescindere dal rilievo circa il grande potere che, a questo punto un po’ contraddittoriamente, l’ordinamento riconosce al giudice unico al momento del giudizio, esso si scontra anche con problemi processuali insormontabili: se l’emissione di una misura rende incompatibile non un solo giudice, ma addirittura tre, in relazione a decisioni future relative a quello stesso procedimento, è facile prevedere quale potrà essere il groviglio inestricabile di incompatibilità che verrà a determinarsi in tribunali di medio-piccole dimensioni, dove le funzioni di gip/gup, giudici della misura e della fase preliminare, sono ricoperte al massimo da quattro o cinque magistrati, se non meno. Dopodiché, una misura così concepita andrebbe comunicata all’interessato cinque giorni prima dell’esecuzione nel caso, così deve ritenersi, che egli abbia da fornire spiegazioni immediatamente chiarificatrici. Questo purché non vi siano pericolo di fuga o pericolo di inquinamento della prova: condizioni che, escluse al momento della emissione della misura, potrebbero tuttavia sopraggiungere al momento della consapevolezza, nel soggetto avvisato, dell’esistenza di una misura cautelare a proprio carico. Chi non si tutelerebbe in qualsiasi modo, vien fatto di osservare! Ora si dirà che è quanto già avviene per le misure interdittive. È vero. Ma un fatto di corruzione, sembra sinceramente un’altra cosa. Lì l’esecuzione della misura, a sorpresa, è anche l’occasione per acquisire qualcosa che può servire alla prova, di cui si conosce l’esistenza, ma che si è preferito non prendere prima per non disvelare l’indagine. Non è un po’ troppo? E non è un po’ troppo poco garantista rispetto alle ragioni di chi è rimasto vittima di quei comportamenti illeciti? Su un punto, credo, bisogna essere espliciti: non esiste un modo elegante, poco invasivo, non tanto per scoprire reati gravi quanto per raggiungere la prova certa, utilizzabile nel contraddittorio di un giudizio. Da ultimo l’abuso d’ufficio. O meglio la sua abolizione. Abolirlo integralmente, osservava una collega, significa proporre il pessimo messaggio che qualunque tipo di raccomandazione o favoritismo, che non sia tale da mostrare una corruttela, non sarà mai un reato; anche se il favorito e il raccomandato non sono i migliori e quindi non avrebbero alcun diritto di superare questi ultimi. Certamente non è ciò che il Governo vuole. E quindi l’invito non può che essere quello a ripensare l’abuso d’ufficio come il resto. Secondo direttrici che forse la magistratura si sente in grado di indicare proprio in virtù d’una quotidiana esperienza. *Già procuratore capo di Pisa Le mille tensioni di Nordio con la procura europea ed Eurojust di Ermes Antonucci Il Foglio, 28 giugno 2023 Non c’è pace per il Guardasigilli, al centro di critiche e malumori da parte della magistratura che ora scavalcano persino i confini nazionali. Non c’è pace per Nordio, al centro di critiche e malumori da parte della magistratura che ora scavalcano persino i confini nazionali. Il primo fronte riguarda la nomina del nuovo componente italiano della procura europea (Eppo), organismo indipendente dell’Unione europea incaricato di indagare, perseguire e portare in giudizio reati che ledono gli interessi finanziari dell’Ue, come frodi, corruzione e riciclaggio. Oggi nel collegio dei procuratori l’Italia è rappresentata da Danilo Ceccarelli, che è anche vicecapo del collegio, presieduto dalla procuratrice rumena Laura Codruta Kovesi. La notizia sta nel fatto che Nordio avrebbe indicato come successore di Ceccarelli il nome di Andrea Venegoni, oggi sostituto procuratore generale in Cassazione. Il problema è che Venegoni avrebbe ottenuto una valutazione comparativa inferiore ad altri due candidati esaminati da un panel di tecnici nominato dal Consiglio su proposta della Commissione europea: il panel avrebbe infatti suggerito come primo nome Stefano Castellani, attualmente procuratore europeo delegato a Torino, seguito da Francesco Testa, collega a Roma. La scelta di Nordio ha generato la protesta di tutti i quattordici procuratori europei delegati in Italia, che hanno vergato una lettera indirizzata a Kovesi dai toni allarmati, in cui si sostiene che con il mancato rispetto della graduatoria Nordio sta “minando in radice l’indipendenza del procuratore europeo italiano che con tale metodo dovesse essere nominato”. “Come magistrati italiani e procuratori europei delegati - continua la lettera - avuto riguardo allo statuto d’indipendenza e autonomia che la nostra Costituzione e le norme europee ci garantiscono, consapevoli del tuo ruolo di garante della funzionalità della procura europea, ti preghiamo di tener presente che tali valori sono per noi irrinunciabili per poter svolgere correttamente le nostre funzioni”. Quello dell’Eppo non è l’unico fronte caldo. Un piccolo caso è emerso anche attorno a Eurojust, l’agenzia dell’Unione europea per la cooperazione giudiziaria penale. Il ministro Nordio ha infatti presentato uno schema di decreto legislativo per l’attuazione del regolamento Ue che nel 2018 ha ridisegnato la struttura di Eurojust. Nel provvedimento si stabilisce che la nomina dei magistrati a Eurojust spetta al Consiglio superiore della magistratura, ma il ministro della Giustizia può indicare un candidato diverso da quello proposto dal Consiglio superiore, che in questo caso è tenuto a motivare “specificamente” perché fa una scelta che se ne discosta. Di fronte a questa proposta di modifica è arrivato subito l’altolà del plenum del Csm, che ha approvato un parere a larga maggioranza, con l’astensione di quattro componenti laici (Enrico Aimi, Enrico Carbone, Isabella Bertolini e Rosanna Natoli). “Non appare coerente” con “gli aspetti di novità” del regolamento, “la scelta di confermare il coinvolgimento del ministro della Giustizia nella procedura di selezione dei magistrati nominati presso Eurojust in misura pregnante”, avvertono i consiglieri nel parere. Il fatto che il ministro possa proporre un candidato alternativo a quello del Csm comporterebbe più di un rischio: si “potrebbe determinare una possibile divergenza istituzionale”, cioè aprire un conflitto tra Via Arenula e Palazzo dei Marescialli. Non solo: una tale previsione potrebbe “esporre la procedura di nomina a contenziosi giurisdizionali basati direttamente sulle contrapposte valutazioni dei due organi”, vale a dire portare a montagne di ricorsi davanti alla giustizia amministrativa, Tar e Consiglio di stato. Come uscire da questa situazione? Per il Csm la risposta è semplice: limitando il ruolo del ministro all’espressione di un parere sui candidati individuati dal Csm. Bisognerà vedere se Nordio sarà d’accordo. In caso contrario, rischia di aprirsi uno scontro istituzionale tra il ministero della Giustizia e il Csm. Codice della strada, un’altra stretta inutile targata Salvini di Linda Maggiori Il Manifesto, 28 giugno 2023 Qualche multa in più per assuntori di droghe e alcool. No alle auto di grossa cilindrata per i neo patentati da tre anni (prima era solo uno). Meno autovelox e più traffico. Il consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge delega presentato da Matteo Salvini sul codice della strada, all’insegna della tolleranza zero. Una stretta in base alla quale i neopatentati non potranno guidare le automobili di grossa cilindrata per i primi tre anni (finora era uno solo) dal conseguimento della patente. Chi viene fermato per eccesso di velocità, guida con il cellulare o contromano, oltre alla multa avrà sospesa la patente dai 7 ai 15 giorni, se si hanno meno di 20 punti. Chi è stato condannato per guida in stato di ebbrezza avrà l’obbligo di montare l’alcolock, un dispositivo che impedisce l’avvio dell’auto se il tasso di alcol nel sangue è superiore, appunto, allo zero. Per i recidivi che guidano sotto l’effetto di droghe o alcol, è previsto l’ergastolo della patente, ovvero la revoca a vita. Le associazioni per la mobilità sostenibile però giudicano il ddl insufficiente: “Un ddl da una parte inefficace, perché non interviene sulla velocità che è la prima causa degli incidenti più gravi nelle città e anzi limita l’uso degli autovelox, e dall’altra parte dannoso, perché addirittura fa passi indietro sulle norme esistenti per la mobilità sostenibile, limitando le possibilità di realizzazione di ciclabili, Ztl e sosta regolamentata”, commentano le Associazioni della Piattaforma #Città30subito che riunisce Legambiente, FIAB-Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta, Asvis, Kyoto Club, Salvaiciclisti, Fondazione Michele Scarponi, Amodo, Clean Cities Campaign. Nei mesi scorsi avevano promosso una proposta di legge, sul modello di un provvedimento analogo già adottato in Spagna, per promuovere la sicurezza stradale nelle città moderando la velocità e rigenerando lo spazio pubblico. “La richiesta a Governo e Parlamento, se davvero si vogliono salvare vite umane, è quella di istituire il limite dei 30 km/h nei centri urbani, per città più a misura di persona, e di ritirare le modifiche sulla mobilità sostenibile”. Buona, secondo le associazioni è la parte sanzionatoria di chi fa abuso di sostanze illecite alla guida: “È importante contrastare chi guida sotto l’influsso di alcool e droghe, sapendo che tali comportamenti sono causa del 4% degli incidenti (6761 su 151.875 totali, secondo il Ministero dell’Interno), ma in aggiunta a questo è bene ricordare che la principale causa di incidenti, come prima causa o concausa che ne aggrava altre, è la velocità eccessiva (Istat 2021), su cui mancano interventi incisivi”. L’obiettivo del ddl è avvicinarsi il più possibile a zero vittime sulla strada entro il 2050 (“Vision Zero”). Meno auto e meno veloci, chiedono le associazioni, per questo occorre incentivare le alternative all’auto privata. Ma la pdl presentata del Ministro Salvini non va in questa direzione: prevede anzi l’obbligo di targa per i monopattini elettrici, assicurazione per la responsabilità civile verso terzi e casco obbligatorio. Le associazioni temono anche ulteriori strette rispetto agli utenti deboli, come l’ipotesi di estendere obbligo di casco, targa e assicurazione anche ai ciclisti urbani, disincentivando di fatto l’uso e la diffusione. Il ddl depotenzia strumenti introdotti nel 2020 come le corsie ciclabili, il doppio senso ciclabile, le case avanzate ai semafori, limitandone l’uso e l’attuazione. Secondo le associazioni, “intervenire in modo repressivo sugli utenti della micromobilità, non incide sull’attuale strage stradale e rischia di allontanare le persone da scelte di mobilità sostenibile, indispensabili per fermare l’aumento delle morti su strada in città, per le quali l’Italia detiene il triste primato in Europa. Nelle città avvengono infatti oltre il 70% di tutti i sinistri stradali”. Viene pesantemente ristretta anche la possibilità per i Comuni di istituire ZTL, controlli elettronici e zone tariffarie di disincentivo all’uso dell’automobile. Una sola multa al giorno, anziché per ogni violazione, per chi viola il divieto di transito. Viene anche ristretta la possibilità di controllo elettronico in uscita da zone e aree limitate e ridotto l’uso di dispositivi elettronici per le violazioni al solo passaggio col semaforo rosso. Ora il ddl passerà al Parlamento, che potrà apportare modifiche. Caso Cospito, ora solo Nordio può decidere sulla revoca del 41 bis di Liana Milella La Repubblica, 28 giugno 2023 In autunno il tribunale di sorveglianza di Roma deciderà sulle due richieste dell’avvocato Rossi Albertini. L’esperta di 41 bis Angela Della Bella conferma che “l’eventuale revoca prima della naturale scadenza dovrà essere decisa dal Guardasigilli”. E cosa accadrà adesso al leader anarchico Alfredo Cospito? Potrà lasciare il 41 bis, il carcere duro per mafiosi e terroristi, dopo la riduzione di pena a 23 anni dall’ergastolo decisa dalla Corte di Appello di Torino? La palla è di nuovo nelle mani del Guardasigilli Carlo Nordio, che ha già respinto, prim’ancora della pronuncia della Consulta, e durante lo sciopero della fame dell’anarchico per 182 giorni, la possibilità che potesse lasciare il regime detentivo speciale. Perché tocca ancora a Nordio - Un’esperta di 41bis è la professoressa Angela Della Bella, docente di diritto penale alla Statale di Milano e autrice di un libro proprio sul 41 bis. Edito da Giuffrè il libro è intitolato così: “Il carcere duro tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali. Presente e futuro del regime detentivo speciale”. Che alla domanda se l’anarchico adesso possa lasciare il 41 bis risponde con nettezza: “No, assolutamente no”. Aggiungendo subito dopo: “L’eventuale revoca prima della ‘naturale scadenza’ del 41 bis dovrà essere decisa dal ministro della Giustizia”. Ecco allora di nuovo Nordio protagonista del caso Cospito. Vediamo perché non sarà possibile una procedura che eviti, o passi sopra, il suo intervento. I passaggi necessari - Spiega Della Bella: “Il 41 bis è applicato a detenuti che siano imputati o condannati per uno dei titoli di reato previsto dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, indipendentemente dal quantum di pena per cui vi sia stata la condanna”. E in questo caso cosa succede? Ancora Della Bella: “In questo caso il titolo di reato è rimasto fermo, l’articolo 285 del codice penale, e nulla rileva il fatto che la Corte d’Assise di Torino, anziché applicare l’ergastolo - che prima della sentenza della Corte costituzionale era una scelta obbligata stante il divieto di ritenere prevalenti le attenuanti in presenza di recidiva - abbia potuto bilanciare le circostanze e dare rilievo all’attenuante dell’articolo 311 dello stesso codice penale sulla tenuità del fatto, con il risultato di applicare la pena di 23 anni”. Perché è obbligatorio il parere del ministro - Chiediamo alla professoressa per quale ragione una modifica dello stato carcerario dell’anarchico dipende esclusivamente dal Guardasigilli. Della Bella risponde così: “In ogni caso la revoca da parte del ministro si giustifica nel momento in cui si accerti che siano venuti meno i presupposti della stessa applicazione”. E cioè, spiega ancora la giurista, “perché il detenuto ha finito di scontare la pena per il reato presupposto oppure lo stesso detenuto è stato assolto per quel titolo di reato, o ancora perché è venuta meno l’attualità dei collegamenti”. Ma in questo caso, come fa notare l’esperta di 41 bis, “la sentenza della Corte d’Assise non incide su questi due profili e quindi non ci sono di per sé ragioni per la revoca”. Le prossime mosse dell’avvocato di Cospito - Proprio alla luce di questa situazione normativa, già a fine udienza, l’avvocato del leader anarchico Flavio Rossi Albertini ha subito detto che non presenterà altre istanze di revoca perché non avrebbero un sufficiente sostegno. E comunque lo stesso Rossi ha già presentato due differenti istanze che in autunno saranno affrontate e discusse dal tribunale di sorveglianza di Roma, cui fanno capo i 41 bis. È possibile la richiesta di revoca dei pm? Anche dopo la requisitoria del procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo è da escludere che gli inquirenti torinesi, in prima battuta i pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia che hanno affrontato il caso Cospito, e lo stesso Saluzzo, possano chiedere la revoca del carcere speciale. L’avvocato Rossi Albertini sembra escludere un’ipotesi di questo genere. Perché in tutta la vicenda Cospito gli inquirenti di Torino hanno sempre tenuto una linea dura nei confronti dell’anarchico. L’unica apertura è venuta dal procuratore nazionale antimafia Gianni Melillo che, in pieno sciopero della fame, aveva ipotizzato la possibilità di assegnare Cospito, in alternativa al 41 bis, al regime di alta sorveglianza. In attesa dell’autunno - A questo punto bisognerà comunque attendere l’autunno e il pronunciamento del tribunale di sorveglianza di Roma. Qualora quel tribunale dovesse confermare il 41 bis Nordio dovrà decidere se dare il suo assenso oppure no. Considerato il suo atteggiamento nei confronti di Cospito, che in Parlamento ha definito leader anarchico e punto di riferimento della galassia anarchica, in grado di influenzare le azioni dei suoi compagni, si può già escludere che l’attuale ministro della Giustizia possa recedere dalla linea dura nei suoi confronti. Posizione peraltro condivisa da Fratelli d’Italia, come dimostra la stessa polemica del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove su Cospito e la polemica dura con il Pd. Perché Cospito è stato condannato a 23 anni: niente ergastolo per l’anarchico di Frank Cimini L’Unità, 28 giugno 2023 No alla richiesta della procura generale, pesa la decisione della Consulta sulla possibilità di concedere attenuanti. 17 anni e 9 mesi per la coimputata Beniamino. Alla fine ha pesato la decisione della Corte Costituzionale sulla possibilità di concedere le attenuanti a causa della scarsa entità dei danni provocati dall’attentato alla scuola dei carabinieri di Fossano e l’anarchico Alfredo Cospito ha evitato l’ergastolo come invece chiedeva il procuratore generale della Repubblica di Torino Francesco Enrico Saluzzo ed è stato condannato a 23 anni di reclusione mentre la coimputata Anna Beniamino ha avuto 17 anni e 9 mesi. “Sono tantissimi comunque” dice la difesa. Il magistrato dell’accusa all’inizio dell’udienza in sede di replica aveva ribadito la richiesta del massimo della pena dicendo: “A Fossano l’azione è stata micidiale e il pericolo massiccio non è stata una somma di petardi ma esplosivi con un discreto potenziale. e poi abbiamo la rivendicazione che Cospito fa di quell’atto, l’obiettivo di Cospito e di Anna Beniamino non erano i cittadini o i passanti ma le istituzioni”. Il difensore Flavio Rossi Albertini rispondendo al procuratore generale precisava: “Non si capisce perché la procura generale voglia applicare una pena così esemplare”. E rivolgendosi ai giudici popolari il legale aggiungeva: “Abbiamo parlato della strage di Bologna, voi avete un senso di proporzionalità e giustizia. È importante in processi come questi che i cittadini valutino quanto è accaduto realmente a Fossano dove non ci furono morti o feriti”. Prendeva la parola anche l’anarchico che seguiva il processo in videoconferenza dal carcere di Sassari Bancali dove era stato trasferito da quello di Opera essendosi parzialmente rimesso dal lunghissimo sciopero della fame. “Non c’è nessuna prova che abbiamo messo gli ordigni. In vent’anni di attentati di sigle anarchiche non c’è mai stato un morto. Chiaramente erano tutti attentati dimostrativi. Questo è solo un processo alle idee. Gli anarchici non fanno stragi indiscriminate noi non siamo lo Stato”. “In questo processo sono evidenti accanimenti e stranezze, quando è successo il fatto nessuno gli ha dato importanza, poi la Cassazione ha trasformato un’accusa di strage semplice in strage politica. Non ci si può affidare a perizie fatte in epoca successiva. La perizia calligrafica su quattro parole non è una prova, è una forzatura. La tesi surreale che è passata è che abbiamo ricalcato la nostra stessa calligrafia” ha concluso Cospito. Che Cospito avesse buone probabilità di evitare l’ergastolo lo si era capito dal momento in cui la corte di assise di appello di Torino accoglieva l’eccezione di costituzionalità del difensore mandando gli atti del processo alla Consulta. E la Corte Costituzionale in sostanza diceva di sì, pronunciandosi per una pena non sproporzionata ai fatti. Ovviamente il caso di Fossano non finisce qui. La procura generale infatti ricorrerà ancora in Cassazione alla quale spetta l’ultima parola. Intanto per il corteo in solidarietà con Cospito dell’11 febbraio a Milano il gip Guido Salvini su richiesta della procura ha messo sette misure cautelari, tre divieti di dimora nel capoluogo lombardo e quattro obblighi di dimora nei comuni di residenza. I reati sono di danneggiamento, travisamento uso illegittimo di fumogeni. Il giudice scrive nel motivare il provvedimento di un considerevole livello di violenza. “Gli indagati usarono tecniche di guerriglia urbana per avanzare contro la forza pubblica, provocando disordini e il ferimento di sei agenti” sono le parole di Salvini. Alle 5 di ieri mattina la Digos di Potenza ha effettuato perquisizioni a casa di alcuni anarchici cercando prove di partecipazione alla campagna di solidarietà con Cospito e sequestrando dispositivi elettronici. Ancora a Torino è stata chiesta la condanna di un giovane che tradusse dall’inglese i proclami pubblicati in vari paesi dalle organizzazioni anarchiche. La Cassazione aveva annullato una precedente sentenza di assoluzione. Carceri in Veneto, manca protocollo per il rischio suicidario leurispes.it, 28 giugno 2023 Nelle carceri di tutta Italia si contano 57.230 detenuti, di cui 38.665 italiani. Nel marzo 2020 il diffondersi del Covid-19 nelle carceri e la sospensione dei colloqui ha portato a violente rivolte a Modena, Rieti, Bologna e in decine di altri istituti, ponendo drammaticamente l’accento sul tema della salute tra i detenuti italiani. Il lavoro presentato dall’Istituto Eurispes all’interno del Rapporto Italia 2023 si propone di affrontare il tema del diritto alla salute nelle carceri d’Italia, attingendo come fonti al Ministero della Giustizia e all’Osservatorio Antigone. In Veneto le carceri sono nove. Sette sono case circondariali (Belluno, Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Verona e Vicenza), una è una casa di reclusione (Padova) e una è una casa di reclusione esclusivamente femminile (Venezia), una delle cinque presenti in Italia (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia Giudecca). Quivi sono detenute 2 donne con 3 figli al seguito, secondo i dati del Ministeri della Giustizia al 31 maggio 2023. Negli istituti penitenziari del Veneto si contano in totale 133 donne detenute, mentre la percentuale tra stranieri ed italiani è rispettivamente il 50,5% e il 49,5%. Manca in molti casi un protocollo di prevenzione del rischio suicidario e delle articolazioni per detenuti con infermità mentali. Discreto il numero medio di ore settimanali degli psicologi e psichiatri che svolgono all’interno del carcere. Risulta invece alto il tasso di affollamento in quasi tutte le carceri venete, arrivando a superare il 150% nella casa circondariale di Treviso. Ad oggi, le carceri venete ospitano 2487 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 1947 presenze. Torino. “Ferrante Aporti, al centro di ogni progetto vi siano i giovani detenuti” di Claudio Raffaelli comune.torino.it, 28 giugno 2023 Nel corso di una conferenza stampa tenuta oggi a Palazzo Civico, i due Garanti dei detenuti di Città di Torino e della Regione Piemonte, rispettivamente Monica Cristina Gallo e Bruno Mellano, hanno espresso forte preoccupazione per la situazione nell’Istituto penale per i minorenni “Ferrante Aporti”. A fronte di una popolazione detenuta che a metà mese raggiungeva le 46 unità (17 gli italiani, 13 i tunisini, 7 i marocchini: sono 34 i minorenni), la locale sezione della Polizia penitenziaria conta su 30 persone in servizio operativo e altre 10 distaccate per i servizi esterni: un numero insufficiente, inferiore a una pianta organica già forse inadeguata. Inoltre, notano i Garanti, si tratta di persone giovani e carenti di formazione sulle strategie relazionali e gestionali. A destare qualche apprensione sono anche alcuni elementi strutturali, come la fatiscenza degli spazi detentivi del Centro di prima accoglienza (CPA), dove spesso il soggiorno si prolunga più del dovuto. Nelle quattro sezioni detentive, una delle quali riservata ai giovani adulti maggiorenni, la situazione climatica non è ottimale, tra mancanza di caloriferi e assenza di schermature e sistemi di raffreddamento, che rendono gli ambienti non ottimali sia d’inverno che nei mesi estivi. Anche le camere di pernottamento, è stato sottolineato nel corso della conferenza stampa, sono deteriorate e spesso prive degli elementi d’arredo necessari. Critica, inoltre, risulta la situazione dei servizi igienici e di spazi come le sale adibite ai colloqui con i familiari, prive di finestre e degradate. Particolare rilievo, in questo quadro, assumono le carenze di personale, non solo degli agenti di custodia ma anche, ad esempio, nel caso dei funzionari giuridico-pedagogici, che pure sono figure fondamentali per strutturare progettualità nel percorso di ciascun giovane recluso. Una forte preoccupazione è stata poi espressa da Gallo e Mellano per il mantenimento dell’uso delle due celle di isolamento al pian terreno, non adeguate ad ospitare giovani con particolare vulnerabilità Per quanto concerne l’assistenza medica, i due Garanti hanno snocciolato i dati relativi al personale medico e paramedico presente al Ferrante Aporti. Nell’istituto prestano la loro opera un medico di continuità assistenziale, due medici specialisti oltre gli operatori del DSM e del SERDAP, un medico generalista, due infermieri e O.S., affiancati da due psicologi e un mediatore culturale sanitario, presenti da 8-9 ore al giorno per tutti i giorni della settimana alle 4 ore di un solo giorno settimanale (è il caso del dentista), se non soltanto su chiamata come nel caso dello psichiatra. In questo quadro disagevole, nel 2022, si sono registrati duecento gesti di autolesionismo (con un tentativo di suicidio), un numero superiore a quello della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” sia in termini assoluti sia in proporzione alla quantità di persone recluse”. Cresciuti esponenzialmente anche gli interventi delle ambulanze del 118, con 62 trasporti l’anno scorso (uno per TSO) contro i 19 del 2021 e una media negli anni precedenti intorno alla decina. Nel luglio del 2022, il Consiglio comunale effettuò un sopralluogo presso la struttura detentiva - Mellano e Gallo hanno preso atto degli sforzi compiuti dalla Direzione uscente e dell’attivazione di numerosi progetti di valore a favore dei giovani detenuti. Tuttavia, i Garanti richiamano le precedenti raccomandazioni degli organi di garanzia Nazionale, Regionale e Comunale, che richiedono una direzione stabile e costantemente presente in Istituto, presupposto imprescindibile per il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro. Tornando ai problemi strutturali dell’Istituto minorile, i Garanti di Regione e Città di Torino hanno sottolineato come i fondi messi a disposizione dal PNRR per il miglioramento delle strutture penitenziarie (quasi 133 milioni di euro fino al 2026). Per il Ferrante Aporti, destinatario di 25,3 milioni (il più consistente degli interventi programmati) si tratta di un’opportunità preziosa. In questa prospettiva, hanno aggiunto, è fondamentale che al centro dell’attenzione e della progettualità vi siano i giovani reclusi nella struttura, senza dimenticare il personale che vi opera, con opportuni interventi su spazi e strutture. Evitando quindi una logica di progettualità puramente in chiave edilizia, senza alcuna preventiva condivisione con il territorio e gli operatori locali dei singoli servizi interessati e toccati dai consistenti lavori. Macerata. Convegno sulla mediazione penale minorile e la giustizia riparativa Il Resto del Carlino, 28 giugno 2023 Domani, l’Università di Macerata chiuderà il progetto sulla mediazione penale minorile con un convegno. Istituzioni e associazioni discuteranno sulla giustizia riparativa, strumento di risoluzione dei conflitti e tutela della personalità dei minori. Con il convegno “Esperienze di giustizia riparativa, la mediazione penale minorile”, domani si chiuderà il lavoro di un progetto dedicato alla mediazione penale minorile finanziato dal dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Macerata e curato dal Centro di studio e di ricerca sulla giustizia minorile diretto da Lina Caraceni. L’appuntamento è organizzato con l’Ordine degli avvocati di Macerata e la Camera penale di Macerata, con il patrocinio della Camera minorile dorica e della Camera minorile e della famiglia della Marca. Per informazioni: giurisprudenza.unimc.it. Il convegno, che si svolgerà dalle 9.30 nell’aula verde del Polo Pantaleoni, rappresenta un’occasione di confronto che coinvolge importanti istituzioni del territorio come il Centro regionale di mediazione dei conflitti, l’Ufficio di servizio sociale per minorenni, il Centro per la giustizia minorile Emilia Romagna e Marche, l’Ufficio del garante regionale dei diritti della persona, oltre all’Ordine degli avvocati di Macerata e diverse associazioni di avvocati che si occupano del tema. Durante la prima sessione interverranno i professori Tiziana Montecchiari, Monica Raiteri, Alessandra Fermani, Elena Cicciù, Giorgio Berti e Marco Bonfiglioli, mentre nella seconda parte Paola Nicolini, Veronica Guardabassi, Mariano Cingolani, Romolo Donzelli, Claudia Cesari e Lina Caraceni. La mediazione penale è uno strumento di giustizia riparativa che prevede un percorso relazionale tra l’autore del reato e la vittima orientato a risolvere conflitti e salvaguardare la personalità del minore, ancora in via di formazione. Padova. Nordio ai detenuti-attori: “Opera straordinaria” di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 28 giugno 2023 “Avete fatto un’opera straordinaria. Con la vostra abilità e fantasia siete stati capaci di tradurre in termini accessibili il tema principale di uno dei testi più difficili di Shakespeare, quello della riconciliazione e del perdono”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, saluta con un videomessaggio i detenuti in regime di Alta sicurezza del carcere “Due Palazzi” di Padova, in scena dal 27 al 29 giugno con “L’isola”, ispirato a “La Tempesta” di William Shakespeare. Nel suo saluto, il Guardasigilli ricorda l’importanza della cultura negli istituti di pena, “essenziale nel percorso di rieducazione, che secondo la nostra Costituzione deve connotare la carcerazione”. Da questo punto di vista “i classici e in particolare Shakespeare, che della natura umana è il migliore interprete, svolgono un ruolo fondamentale”, prosegue il Ministro. Lo spettacolo è frutto del laboratorio promosso dal Teatro stabile del Veneto e curato dalla compagnia Matricola Zero nell’ambito del progetto “Per aspera ad astra”. Giunta alla sua quinta edizione, l’iniziativa, promossa da Carte Blanche/Compagnia Teatrale della Fortezza di Volterra e sostenuta da Acri con Fondazione Cariparo, è oggi attiva in 15 carceri. Oltre 1000 i detenuti che finora hanno partecipato al progetto, frequentando corsi di formazione professionale nei mestieri del teatro e andando in scena al termine dei percorsi. Il Guardasigilli ringrazia anche gli organizzatori dello spettacolo, “il Teatro Stabile del Veneto e l’istituto penitenziario, che stanno portando avanti questo progetto con cui stiamo lavorando per favorire la rieducazione in funzione anche del reinserimento sociale di chi, a fine pena, avendo appreso un lavoro in carcere, può trovare occupazione”. Reinserimento che, rimarca Nordio, “è uno degli obiettivi primari di questo governo e di questo ministero”. Estimatore delle opere di Shakespeare, il Ministro sottolinea il merito dell’autore inglese di aver reso “infinita la tavolozza di sentimenti e ricognizioni delle caratteristiche della nostra umanità”. L’auspicio finale del Guardasigilli è che “a questo spettacolo seguiranno altri adattamenti di altre opere shakespeariane. Vi auguro di tutto cuore di continuare con questa opera meritoria”. Milano. “La bellezza salverà il mondo”: a San Vittore si celebra la vita, nel ricordo del mare di Giorgia Valeri Famiglia Cristiana, 28 giugno 2023 Arnoldo Mosca Mondadori, Ciro Menale e Luigi Maruzzi sono stati co-organizzatori di un evento tenutosi al carcere di San Vittore destinato ai detenuti, per restituire speranza, bellezza e poesia a coloro che non ne hanno mai conosciuta con il progetto “Metamorfosi”. La sala centrale del carcere di San Vittore, da cui si diramano i sei raggi nei quali sono distribuiti i detenuti della casa circondariale del centro di Milano, si è trasformata in una cassa armonica che ha fatto risuonare in tutta la struttura le note e la musica del Quartetto del Mare e della Piccola Orchestra dei Popoli. Per un’iniziativa di Arnoldo Mosca Mondadori e della sua Fondazione della Casa delle arti e dello Spirito, è stato allestito un concerto per i detenuti che ha incantato gli spettatori per un’ora grazie alla forza catalizzatrice della musica. Gli sguardi rapiti dei ragazzi, le braccia conserte e le orecchie tese a scorgere la propria lingua madre, a carpire le parole del poeta Luigi Maruzzi messe in musica e cantate dalle interpreti dell’Orchestra dei Popoli rispondono perfettamente al concetto intorno al quale Mondadori ha ideato tutto l’evento: “La bellezza salverà il mondo”. Tutti gli elementi del contesto, dalla collocazione dei musicisti, alla scelta delle poesie di Luigi Maruzzi e gli intermezzi musicali, tutti curati dal direttore artistico Ciro Menale, ruotano attorno al concetto di Metamorfosi, che vuole dar voce a tutta quella popolazione, soprattutto quella dei migranti, costretta dalla povertà estrema a riversarsi nelle carceri: il progetto si rivolge soprattutto ai giovani adulti, affinché che possano trovare nella detenzione un’opportunità di crescita, di cambiamento, di “metamorfosi” appunto. E la metamorfosi non è soltanto umana, ma anche materiale, perché gli strumenti utilizzati dal Quartetto del Mare sono molto particolari: realizzati dai detenuti del carcere di Opera, insieme all’aiuto di maestri liutai, i violini, la viola e il violoncello sono stati creati con le cataste di legno dei barconi approdati a Lampedusa. O, per lo meno, con quello che ne era rimasto. Quando i musicisti poggiano gli archetti, infatti, sulle corde di questo strumenti colorati e quanto mai straordinari, nasce un suono ovattato, fluido, che ricorda i flutti del mare, la spuma delle onde che si incaglia tra le tavole del legno e assorbe la paura, ma anche i sogni e le speranze dei migranti che a quelle navi hanno affidato la propria vita. “Questi strumenti sono delle rimembranze” dice un ragazzo detenuto nel carcere, arrivato dal Nord Africa proprio con uno di quei barconi. La musica trasporta quindi e racconta un viaggio, il loro viaggio, quello passato segnato dalla tragedia dell’abbandono della propria patria, e quello futuro, verso un destino ancora tutto da scrivere. Con questo progetto, Arnoldo Mosca Mondadori vuole iniziare a raccogliere un fondo povertà, che possa restituire dignità a tutti coloro che possiedono poco più di qualche vestito e che non possono neanche permettersi beni alimentari allo spaccio. Oltre agli “strumenti del mare”, ad animare questa iniziativa anche le poesie del già citato poeta Luigi Maruzzi, direttore area Erogazioni della Fondazione Cariplo che recentemente ha pubblicato con Morcellania Lentamente dolcezza, una raccolta di poesie, prosa e prosa poetica che dona la parola “a chi la ascolta”. E se chi l’ascolta sono i detenuti, che parlano lingue diverse e non conoscono bene l’italiano, è necessario restituire alla poesia il valore universale che le è proprio. Lo stesso autore, in un intervento conclusivo, ha infatti dichiarato che non sono stati necessari traduttori, perché “è in questi luoghi che abitano le lingue, che sono strumento vivo di conoscenza, del mondo e degli altri”. Così tradotte dai detenuti stessi, le poesie sono state recitate dalle interpreti della Piccola Orchestra dei Popoli, che hanno letto e cantato in arabo, russo, spagnolo e albanese. La musica e la poesia animano il legno, riportano la bellezza nei posti in cui era stata data per sconfitta e il fragoroso applauso finale ne è stato testimone. Napoli. I detenuti del carcere di Secondigliano ripuliscono la foce del fiume Volturno Corriere del Mezzogiorno, 28 giugno 2023 Onlus Plasticfree e associazione non profit Seconda Chance, d’intesa con il Comune, promuovono la pulizia del tratto di spiaggia. Una domenica ecologica e inclusiva ha raccolto una ventina di volontari alla foce del fiume Volturno per ripulire una parte di spiaggia da detriti e immondizia portati dal fiume e dall’incuria umana. Grazie all’assessore all’ambiente di Castel Volturno, Pasquale Marrandino, e la presenza sul territorio della onlus Plasticfree, in collaborazione con l’associazione non profit Seconda Chance, un gruppo di detenuti del carcere di Secondigliano ha partecipato con grande entusiasmo alla pulizia dell’arenile. Dopo il successo si punta ad un’altra giornata - Alla fine erano oltre 40 i sacchi di materiale plastico raccolti, oltre a parecchi rifiuti pesanti. E visto il grande lavoro da compiere c’è voglia di ripetere presto l’appuntamento per bonificare quest’angolo di Riserva naturale. Grazie alle direttive di Lucia Castellano, provveditore alle carceri della Campania, del direttore di Secondigliano Giulia Russo e della educatrice Gabriella Di Stefano, sarà probabilmente possibile intensificare queste attività. “Tutti dobbiamo avere maggiore attenzione all’ambiente e questi ragazzi hanno dimostrato di avere grande sensibilità”, ha detto Renato Venezia, responsabile Plasticfree Campania. Polizia e populismo nell’Italia contemporanea di Giso Amendola Il Manifesto, 28 giugno 2023 “Incontri troppo ravvicinati?”, un libro di Vincenzo Scalia. Nel saggio, tra sociologia e politica, vengono analizzate diverse storie di abusi. Federico Aldovrandi e Riccardo Magherini sono due casi di “incontri troppo ravvicinati”, uccisi dall’intervento dei tutori dell’ordine. Vincenzo Scalia (Incontri troppo ravvicinati? Polizia, abusi e populismo nell’Italia contemporanea, manifestolibri, pp. 180, euro 12, con prefazione di Stefano Anastasia) muove dall’analisi dei discorsi prodotti dalle e sulle forze di polizia in quelle circostanze, per mostrare come, contro ogni retorica delle mele marce, quei fatti siano rilevatori della violenza strutturale delle politiche dell’ordine pubblico. Scalia fa emergere un blocco culturale di fondo che riguarda la cultura dell’Europa continentale: le polizie tendono ad essere identificate strutturalmente e persino “eticamente” con lo Stato, sicché l’indagine stessa, anche solo scientifica, sulle forze dell’ordine è a priori sospetta di contenere una qualche insidiosa minaccia alla nazione. Un modello di organizzazione centralistico e un onnipresente elemento di militarizzazione, che resiste malgrado le riforme, testimoniano dentro la struttura delle forze dell’ordine questa matrice statualistica. Il ricorso continuo da parte della polizia a pratiche di “alterizzazione”, vale a dire alla costante riduzione a “nemico” dei diversi attori che ne incrociano l’azione, e una cultura interna caratterizzata da machismo e conservatorismo, ne testimoniano il costitutivo isolamento dalla popolazione. Molto più dinamico è invece il rapporto tra società e polizia nei modelli anglosassoni, ispirati al decentramento e a un rapporto più stretto con le comunità. Non è vero, però, che una governance decentrata sino a giungere all’elezione democratica dei capi della polizia, garantisca contro la violenza sistemica molto di più del centralismo continentale. Questo perché, spiega bene Scalia, l’offerta di polizia “dall’alto” si incrocia con la domanda “di sicurezza” dal basso. Il securitarismo poliziesco è evidentemente un prodotto dell’irriducibilità violenza del comando statuale, ma è anche, in modo forse più complesso e insidioso, il frutto delle politiche neoliberali che hanno destrutturato il welfare. L’analisi delle politiche della sicurezza in pandemia è un buon esempio di questo intreccio tra controllo dall’alto e domanda di sicurezza dal basso: la richiesta di protezione sociale è stata sistematicamente elusa e tradotta esclusivamente nei termini di una gestione emergenziale dei comportamenti, e nella sollecitazione di una sorveglianza diffusa affidata alla popolazione stessa. Questo intreccio critico di culture securitarie di polizia e di populismo penale dal basso non chiude però tutti gli spazi. Se il neoliberalismo ha reso difficile avanzare richieste di cura collettiva e di diritti sociali, non ha eliminato un certo senso comune sulla difesa dei diritti individuali, che rende difficile affossare le vicende più gravi di abuso poliziesco. Si tratta di contestare la tesi delle “mele marce”, e di portare avanti lotte per una responsabilizzazione delle forze dell’ordine, sul modello delle richieste dei numeri di riconoscimento visibili e delle commissioni di inchiesta. Molto più scettico invece si mostra Scalia sui movimenti abolizionisti, che hanno proposto lo smantellamento della polizia o almeno un radicale spostamento di risorse dalla polizia a modalità alternative e democratiche di controllo. Scalia solleva il problema che l’abolizionismo potrebbe, contro le sue intenzioni, finire per dare una mano ad un ulteriore privatizzazione del controllo di polizia. Se questo avvertimento deve essere sicuramente tenuto prudentemente presente nel progettare alternative praticabili alla polizia, è bene ricordare, però, il grande ruolo che le campagne abolizioniste dei movimenti americani tipo “Defund the police!” hanno avuto nel creare, contro la violenza di Stato, un forte terreno di connessione intersezionale tra mobilitazioni di classe, di genere e di razza. L’abolizionismo potrebbe offrire alla lotta contro gli abusi di polizia un orizzonte più generale di riappropriazione radicale di democrazia e di mobilitazione antiautoritaria, senza peraltro essere alternativo alle necessarie e saggiamente riformiste campagne sull’accountability democratica delle forze dell’ordine. Per capire il male bisogna raccontarlo di Aldo Grasso Corriere della Sera, 28 giugno 2023 Giorgia Meloni se la prende con le “serie che hanno come eroe uno spacciatore”. Una conoscenza che non tenga conto del male è una conoscenza a favore del male. Nel duro botta e riposta che Giorgia Meloni ha avuto con il deputato Riccardo Magi (Più Europa), in occasione della “Giornata mondiale contro le droghe” a Montecitorio e moderata da Gianni Ippoliti, la premier, alzando i toni come in talk show, ha affermato: “Arriviamo al paradosso di avere serie che hanno come eroe uno spacciatore sulle stesse piattaforme che hanno fatto documentari contro Muccioli che aveva salvato migliaia di ragazzi quando lo Stato era girato dall’altra parte”. Chissà forse il riferimento era a quel capolavoro di Breaking Bad o a serie come The Wire, The Sopranos, Romanzo criminale, Gomorra, cioè a serie che hanno messo in scena il male. Dobbiamo per questo far finta che il male non esista? Dobbiamo produrre solo fiction agiografica e non raccontare in “SanPa: luci e tenebre di San Patrignano” i metodi usati da Muccioli? Dobbiamo chiedere alla tv o al cinema di esimersi dal raccontare la criminalità, nel timore che ciò dia origine a comportamenti emulativi? Una conoscenza che non tenga conto del male è una conoscenza a favore del male. Sostenere l’esistenza di una connessione diretta tra l’esposizione ai messaggi dei media e il comportamento dell’individuo è ingenuo teoricamente (una teoria in voga in passato, smentita poi da tutti gli studi sugli effetti dei media). Significa trascurare l’aspetto della fruizione, il peso del contesto e delle motivazioni degli individui, riducendo l’analisi a un conteggio della frequenza con cui un certo contenuto viene diffuso. In tutte le narrazioni mitiche e religiose, il male è posto all’origine del cammino umano. Di questo dobbiamo prendere atto. Esiodo narra come il mondo ebbe origine dal Caos, voragine immensa e tenebrosa. La Genesi racconta del peccato dei Progenitori, che cedettero per un atto di superbia alla tentazione di mangiare il “frutto proibito”, con tutte le conseguenze del caso. Tutto il male che vediamo è da capire e per capirlo bisogna anche raccontarlo. Caritas: la povertà è strutturale ed è tornata al livello del 2019 di Mario Pierro Il Manifesto, 28 giugno 2023 Il rapporto. Per la Caritas il 10% della popolazione italiana vive in povertà. Oggi sono oltre 5 milioni e 700 mila le persone in “povertà assoluta”, pari al 2019 quando è stato introdotto il “reddito di cittadinanza”. Dalla prima crisi globale del 2008 sono triplicati: allora erano 1,8 milioni. La pubblicazione del primo rapporto statistico sulle povertà della Caritas, insieme al proprio bilancio sociale, ieri ha confermato che in Italia il 10% della popolazione residente in Italia vive in condizioni di povertà assoluta. E che solo nell’ultimo anno, vigente il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, questo tipo di povertà ha coinvolto 5 milioni 571 mila persone. Dunque è tornata pari, o di poco superiore, al 2019 quando è entrata in vigore questa misura che sarà ristretta e rinominata “assegno di inclusione” dal governo Meloni una volta convertito in legge il “decreto lavoro” entro il prossimo 3 luglio. Più di tante considerazioni parziali, basterebbe solo questo dato per suggerire valutazioni più avvertite sulla problematicità di un’idea di governo dei poveri che non è riducibile ad una singola misura politicamente polarizzante. La Caritas segnala inoltre che nel 2022 gli assistiti nei suoi centri di ascolto e servizi informatizzati sono aumentati del 12.5%. Questo dato è dovuto in gran parte alla crescita delle persone ucraine giunte in Italia con la guerra (da 3.391 a 21.930). Senza questa occasione, ci sarebbe stata una crescita degli utenti pari al 4,4%, comunque in crescita rispetto all’anno precedente. Sono piccoli segnali che andrebbero considerati come una spia dell’andamento carsico e multidimensionale di un fenomeno socio-politico, e non solo economico, come la povertà. Non riguarda solo condizioni particolarmente compromesse, ma anche quella dei lavoratori poveri che rientrano nella categoria statistica più estesa della “povertà relativa”. L’indagine rivela che è alta la quota dei lavoratori poveri occupati che fanno ricorso ai suoi servizi o alle parrocchie. Due su cinque sono in carico da almeno cinque anni. Molti di loro addirittura da oltre dieci. Chiedono pasti, vestiario, prodotti per neonati, oltre che sussidi economici per pagare bollette o affitto. C’è poi un altro gruppo, definito “giovani stranieri in transito”, età media 25 anni, in maggioranza celibi, spesso senza dimora. Uno su due è di nazionalità africana. Per la maggior parte sono persone che vivono sul confine italo-francese e cercano di raggiungere altri paesi europei. L’analisi ha individuato un altro gruppo, quello dei genitori fragili” tra i 35 e i 60 anni, soprattutto donne disoccupate o precarie, con figli minori conviventi. E poi ci sono i “poveri soli” tra i 35 e i 65 anni, soprattutto celibi o divorziati. Nel Centro, lato Tirreno, e nel Nord Ovest. Quasi la metà vive nelle città e hanno bisogno della mensa e di vestiti. Questa condizione risente dell’impatto dell’inflazione sulle famiglie in povertà assoluta. “Se le fasce più deboli hanno subito un rincaro dei prezzi del 17,9%, la parte più ricca si è fermata a +9,9%. In questa fase di insicurezza globale si rafforzano le disuguaglianze tra le famiglie più benestanti e quelle meno abbienti, in continuità con quanto accaduto con la pandemia da Covid 19”. Triplicata dal 2008, quando interessava 1,8 milioni di persone, la povertà è diventata “strutturale”. Infermità mentale solo agli psicotici: utilità e limiti della proposta di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 28 giugno 2023 Con la proposta di legge n. 950 del marzo 2023, a prima firma del deputato Antoniozzi (FdI), è stato avanzato alla Camera un disegno di modifica degli articoli 88 e 89 del codice penale in materia di non imputabilità o semi- imputabilità per vizio totale o parziale di mente. Si tratta di una proposta che, a ben guardare, riprende tra le righe la dicotomia tra una concezione dell’infermità mentale così come intesa dalla nosografia psichiatrica classica, gelosamente attaccata al carattere necessariamente organicistico della malattia mentale (intesa come la sola malattia psichiatrica) e un’altra concezione, della cosiddetta “anti- psichiatria”, che invece non esclude la possibilità di riconoscere la non imputabilità anche nelle ipotesi di gravi disturbi della personalità, sebbene non qualificabili come malattia psichiatrica. La proposta di legge, dunque, a mo’ di “giusto mezzo”, tenta di individuare una terza via, propugnando una modifica del testo normativo (i ricordati articoli 88 e 89 c. p.). Superando, in qualche modo, la distinzione tra patologia psichiatrica diagnosticata (così come individuata nel “Dsm”) e disturbi di personalità, si concentra sul carattere psicotico del disturbo mentale lato sensu, inteso - come si legge nella proposta - come “qualsiasi condizione, oltre alle psicosi classiche, che presenti un’alterazione evidente del test di realtà in senso psicotico”. Da qui, dunque, l’auspicato tentativo di contemperare i due contrapposti interessi in gioco: da un lato, dare voce e rilievo alle persone offese o vittime dei reati che - per via forse di applicazioni eccessivamente di favore da parte della giurisprudenza - si sono viste negare la domanda di giustizia a seguito del riconoscimento di infermità totali o parziali di mente, che conducevano a declaratorie di non imputabilità o semi- imputabilità; dall’altro, il rispetto del principio cardine per cui solo in presenza di piena o parziale capacità di intendere e volere si possa essere imputabili o semi imputabili. Il rischio paventato dai fautori della proposta, per il vero già deriva giurisprudenziale per certi versi, è che si addivenga all’impropria equazione per cui disturbi di personalità determinino, quantomeno, lo scemare della capacità d’intendere o di volere, imponendo il riconoscimento di una semi infermità e dunque la diminuzione di pena. Ritenuto, quindi, di dover scongiurare tale rischio, si propone di riempire il concetto di “infermità” impiegato dal Codice, limitandolo ai soli casi di disturbi “gravi”, senza ricondurre a quel concetto una qualsiasi manifestazione di condizioni psicopatologiche che non presentino alterazioni dell’esame di realtà e sintomatologie psicotiche. Non si escludono, dunque, a priori nella categoria anche i disturbi di personalità ma solo se questi hanno condotto - al momento del fatto - a manifestazioni psicotiche. Al di là delle valutazioni di competenza della miglior scienza medico- psichiatrica, parrebbe che il ripristino di tassatività ricercato con l’introduzione della cosiddetta discriminante psicotica possa - in ausilio tanto al magistrato giudicante quanto ai periti chiamati ad esprimersi - trovare favorevole accoglimento. Non mancano alcune riserve, sicuramente superabili all’esito di un eventuale prosieguo dell’iter di approvazione parlamentare, di carattere formale e testuale che potrebbero condurre a esiti infausti: ci si riferisce, in particolare, al non meglio definito - anche nella sua utilità - concetto di “evidenza” dello stato di grave alterazione ovvero alla mancata soppressione del riferimento all’”infermità” nel testo di cui all’articolo 89 del codice penale. *Avvocato, Direttore Ispeg L’età dei video online che sfidano la morte di Vincenzo Vita Il Manifesto, 28 giugno 2023 La vicenda di Casal Palocco, a Roma, con la morte del giovanissimo Manuel a causa di un incidente causato da un Suv che sfrecciava a tutta velocità per documentare una assurda esperienza esistenziale al limite, ci fa capire che l’impianto normativo in vigore è acqua fresca. È vero che l’autore del gesto criminale Matteo Di Pietro è indagato per incidente stradale, ma il gioco è diventato estremamente pericoloso. Com’è tragicamente noto, la sfida era lucrativa: la società Borderline dei soggetti in questione è una delle numerose aziendine nate magari per caso in grado di raccogliere migliaia di visualizzazioni (Click Bate) su YouTube, con ragguardevole ritorno economico. Ora, a fronte del dolore, il canale è stato chiuso ancorché non immediatamente e su indicazione dello stesso provider. Ma fino a quando continuerà simile tentazione a usare i mezzi offerti dall’età digitale come base di affari ai confini della legalità? Malgrado le recenti, più aggiornate, discipline europee tese a considerare le piattaforme che trasportano i contenuti corresponsabili degli stessi, fintanto che non sarà a regime l’impostazione del Digital Services Act, rimane l’inerzia del decreto legislativo 70/2003 (che recepiva la direttiva dell’Ue 2000/31) e la questione delle responsabilità naviga nel limbo. Insomma, se nei casi di maggior efferatezza la giustizia si volge contro gli esecutori materiali, rimane esente chi veicola i messaggi. Tutto questo ha origine della ventata iniziale che investì la Rete come immaginato luogo di libertà e di relazioni solidali, con un forzato distinguo rispetto ai media classici. Nel mondo che fu analogico, il quadro giuridico - difetti e lacune a parte- le responsabilità editoriali erano (e sono) improntate a qualche certezza. Nelle stagioni tecnologicamente avanzate si è sognato che fosse sufficiente l’autoregolamentazione. Un conto, infatti, è lottare contro ogni forma di censura o di bavaglio. Altro è non definire con precisione i coinvolgimenti decisionali, laddove i content creator stipulino contratti di partnership con le medesime VSP. Gli Stati devono adempiere a tali compiti, attraverso - ad esempio- l’intervento attivo delle Autorità preposte a regolare il sistema. Parliamo soprattutto dell’Agcom, che si appresta a presentare in Parlamento la sua relazione annuale. Se ci fosse, al riguardo, una sorpresa positiva? La speranza è l’ultima a ritirarsi, anche perché l’istituzione presieduta da Giacomo Lasorella è già intervenuta in materia, pur se in casi particolari. La difesa dei minori, peraltro, è un criterio generale cui guardare a maggior ragione in occasioni estreme e inquietanti. Tuttavia, minori o meno che si sia, gli utenti sono persone, con diritti e doveri previsti dalla Costituzione. Qualcosa è successo negli ultimi mesi, con le multe e le condanne contro l’utilizzo delle piattaforme per il gioco d’azzardo: Google e Facebook nel mirino. E You Tube (appena sfiorato), che è un enorme canale di trasmissione, con un’utenza che supera diverse offerte della vecchia televisione generalista? Non si perda rapidamente la memoria di quanto è avvenuto a Casal Palocco, secondo una penosa tradizione di certa cultura mediale, per cui dopo pochi giorni i riflettori si spengono e i cattivi tirano sospiri di sollievo. Pare venuto il tempo di aprire una stagione finalmente all’altezza della situazione, con il varo di misure capaci di precedere e non solo di seguire i misfatti. La geopolitica dell’infosfera impone di cambiare registro e di percorrere strade adatte a raccogliere i nuovi stili di produzione e di consumo. Gli stessi dati sulle audience continuano a considerare i media il cuore tolemaico, cui aggiungere le altre fruizioni. L’assunto va rovesciato: si cominci da You Tube, per indagare sulla realtà effettiva, non quella supposta. PS. Corre notizia che nel testo in elaborazione del nuovo Contratto di servizio tra lo Stato e la Rai compaiono le parole natalità e genitorialità e non giornalismo d’inchiesta. Ha sollevato il tema l’attento consigliere Laganà. È auspicabile che non sia vero, perché esiste la categoria del ridicolo.