Rieducazione, il diritto negato di Chiara Daina Corriere della Sera, 27 giugno 2023 Una ricerca su 97 istituti penitenziari. Mancano lavoro qualificato e laboratori. Lo psicologo? Per 11 minuti a settimana. Allarme suicidi nel 2022 con 85 casi. La denuncia: troppe pillole, pochi progetti. In carcere spesso e volentieri la soluzione contro il disagio dei detenuti è una pillola. Anche se non c’è una malattia mentale da curare e il farmaco serve a ben poco. Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni detentive, riferito al 2022, nei 97 istituti penitenziari (circa la metà del totale) visitati dagli osservatori della Onlus il 20% dei detenuti assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi e il 40% sedativi o ipnotici. Ma quelli con una diagnosi psichiatrica sono meno del 10%. “Si ricerca nella terapia farmacologica il rimedio salvifico per gestire uno stato di malessere e disadattamento che invece avrebbe bisogno di interventi educativi e di strumenti socializzanti, dalla possibilità di avere un lavoro a quella di frequentare attività di laboratorio, di formazione o sportive e di sentire al telefono i propri cari più dei dieci minuti concessi a settimana. La pena non deve essere solo punitiva, ma deve anche mettere il detenuto nelle condizioni di non delinquere più una volta fuori di lì” commenta Michele Miravalle, tra gli autori del rapporto e coordinatore dell’Osservatorio sulle carceri per adulti della Onlus. Il problema, rileva Antigone nel documento, è che negli istituti penitenziari “manca il lavoro, soprattutto quello qualificato”: solo il 35% dei detenuti ha un impiego e di questi la maggioranza (87%) è impegnata in piccole mansioni interne, alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, non spendibili all’esterno. Anche la formazione professionale è quasi assente: alla fine dello scorso anno riguardava appena i14% dei detenuti. Gli educatori - si legge nel report - sono 803, oltre cento in meno di quelli previsti, in media 1 ogni 71 carcerati anziché 1 ogni 65. Mentre nel campione di istituti visitati direttamente dai volontari di Antigone emerge che lo psicologo è a disposizione mediamente per n minuti a testa a settimana. “C’è talmente carenza di risorse che il diritto alla rieducazione si riduce a un premio per i più collaborativi e meritevoli e chi sta male sul serio, che non è in grado di chiedere aiuto, rischia di non essere intercettato. E anche così che cresce il numero di suicidi, che nel 2022 con 85 casi è stato il più alto di sempre” denuncia Miravalle. C’è poi una categoria di persone detenute con comportamenti intolleranti e aggressivi verso gli operatori, i compagni di cella e se stessi, che si tende a delegare alla psichiatria e a trattare con gli psicofarmaci senza alcun risultato. “Perché i farmaci non hanno una vera efficacia in questi casi. Li passivizzano e basta. Queste persone, infatti, non hanno una malattia psichiatrica ma un disturbo antisociale e più spesso un disagio psicologico, un’insoddisfazione rispetto al rifiuto o mancanza di risposta ai loro bisogni che si manifesta attraverso la trasgressione delle regole, la manipolazione e la violenza contro sé, gli altri e le cose. Ma se il carcere psichiatrizza queste persone fa loro un danno, esentandole da ogni responsabilità e non occupandosi del loro recupero sociale” sottolinea Giuseppe Nese, psichiatra e coordinatore del gruppo sulla salute mentale in carcere della Regione Campania. In una circolare del luglio 2022 l’ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ricordava che comportamenti di questo tipo sono “spesso confusi con patologie della sfera psichica” e indicava una modalità di intervento integrata socio-sanitaria, che porti a una graduale partecipazione alle attività proposte dall’istituto. Programma Demetra - Una strategia del genere la sta sperimentando la casa circondariale “Rucci” di Bari con il progetto Demetra, avviato a febbraio dall’unità di medicina penitenziaria dell’Asl cittadina. Un’equipe multidisciplinare formata da psicoterapeuti, psicologi, educatori, assistenti sociali e psichiatra, segue una trentina di detenuti “disturbanti” a cui si è evitato di attribuire impropriamente una diagnosi di disturbo psichiatrico. “Definiamo insieme alla persona un piano di riabilitazione individuale che tenga conto dei suoi interessi, bisogni e preoccupazioni. Il trattamento si basa su un percorso di psicoterapia giornaliera o settimanale. L’obiettivo è costruire una relazione di ascolto e fiducia reciproci con le autorità” spiega la psicoterapeuta Cinzia De Giglio. Paolo (nome di fantasia), cinquantenne, in galera da oltre io anni, è uno degli utenti del progetto. “I farmaci in tutti questi anni sono stati inutili. Paolo ha bisogno di sentirsi sempre impegnato, è molto rigido, ossessivo, prevaricatore e provocatorio nei confronti degli agenti e degli altri reclusi - racconta De Giglio. Da quando lo seguiamo ha ridotto l’ansia e abbassato le difese. Ha iniziato a dare forma ai suoi pensieri attraverso la scrittura. Ha chiesto e ottenuto che la biblioteca fosse aperta per più ore e sta lavorando a un progetto sulla legalità”. L’estate delle carceri italiane di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 27 giugno 2023 Ho sempre ritenuto che la peggiore stagione dell’anno, per chi viva e/o lavori all’interno delle carceri italiane, sia l’estate. È quella che le persone libere indicano come la “bella stagione”, ma che nelle carceri è invece la più infernale ed insopportabile. Anche tale condizione sfavorevole, a ben guardare, potrebbe rientrare nel “pacchetto” di debiti che è stato mollato al nuovo governo della premier Meloni e del ministro Nordio i quali, tra le tante problematiche che dovranno affrontare nei diversi scenari di complessità, aggiungeranno anche questa. E non è cosa da poco, perché è proprio nella bella stagione che possono scatenarsi, anche a dire dei criminologi di vecchia scuola, gli istinti e le aggressività peggiori. Il caldo, quando è insopportabile, ottenebra le menti e rende tutti più irascibili, scontrosi, litigiosi, non distinguendo copioni e ruoli. Non so se dalle parti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria abbiano studiato una strategia, per quanto minima, per prevenire, affrontare e risolvere le criticità. Me lo auguro però, perché non sarebbe giusto che poi a pagarne le conseguenze siano sempre e soltanto gli anelli deboli di un sistema complesso che attende da anni - forse finanche da decenni - un’attenzione concreta, e non i pistolotti della serie “vogliamoci tutti bene”, perché il bene deve essere sempre conquistato e non è mai “a gratis”. Sia con il personale penitenziario che con le persone detenute, nel corso della mia vita professionale, mi sono imposto un dialogo franco, leale, rigoroso, perché le persone, tutte le persone, hanno bisogno di essere trattate con rispetto e chiarezza, non nascondendo mai le difficoltà. Ho sempre diffidato quella singolare Comunità di persone detenute e detenenti dall’assumere come buone, salvifiche, le soluzioni ai problemi che i tanti sacerdoti del diritto e i venditori porta a porta di libertà mostravano nelle loro valige, perché non funzionava così, non poteva ragionevolmente immaginarsi che le cose andassero come venivano propagandate. Per fortuna mi hanno, nella generalità dei casi, creduto e così, insieme, abbiamo trascorso e superato, in quella che potrebbe essere definita la strategia della cosiddetta “riduzione del danno”, tutte le calde estati che abbiamo trascorso insieme. Però questo non mi esime dal fare delle considerazioni, per quanto ex post, perché tante domande che affollano la mia mente richiederebbero, ancora oggi, soprattutto oggi, i necessari chiarimenti. Il ricordo ancora maledettamente vivido che ho delle cose, pensando ad esempio, a come fu affrontata la pandemia da Covid nella primavera del 2020, con il suo terribile strascico di morti, violenze, rivolte, non mi conforta né come cittadino né come chi ha speso nel mondo delle carceri un pezzo importante e significativo della propria esistenza, sempre sforzandomi di assicurare che ci fossero dei margini di miglioramento del sistema, per quanto, non poche volte, ne ho dovuto constatarne, al contrario, l’arretramento: un arretramento di civiltà, di sensibilità, di coerenza perfino giuridica, per quanto abbia sempre timore d’inoltrarmi in un campo che non è il mio, perché per me il diritto era carne e sangue, era il rispetto della parola data, era l’esempio e non i tomi, le pandette ed i codicilli. Certo, però, una cosa sento di doverla rappresentare ed è una constatazione, che certamente non mi renderà simpatico ma che ho comunque il dovere di dire perché, a mio modesto avviso, qualcosa non ha funzionato e non mi convincono le belle parole, le cerimonie pubbliche di accreditamento di quanto di grande e di bello si sia fatto, l’ammiccamento con le università o il plauso che pervenga da autorevoli esponenti del diritto, perché mi basta semplicemente guardare le cose così come si presentano, per farmi un a-tecnico banale giudizio: la figura, o meglio “l’apparato”, del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale non ha prodotto i risultati che in tanti per davvero speravamo, e non lo dico io, che sono nessuno, ma molto più efficacemente lo dimostrano i numeri, quei maledetti numeri che parlano di sovraffollamento, per un verso e, per l’altro, di insignificanti cifre di persone ammesse alle misure alternative alla detenzione, ove già ristrette, o che ci ricordano la quantità di suicidi, come anche il preoccupante crescere degli episodi delle aggressioni tra gli stessi detenuti e di quest’ultimi verso il personale penitenziario, ma anche la rituale litania sullo stato delle carceri, pietoso e vergognoso per una nazione civile che ami le persone, anzitutto gli operatori penitenziari, costretti a lavorare in condizioni sempre più rischiose ed insalubri, e così via. Paradossale: i suicidi sono statisticamente aumentati, così come le morti! I folli, scusate il gioco di parole, “affollano” le carceri e le celle, sì, preferisco chiamarle così, continuano ad essere luoghi indegni, dove tra la tazza, anzi il cesso, e la pentola che bolle per gli spaghetti, la distanza è tale che possono fare “petting”… Uhm, no, del sesso non parliamo, per favore o, meglio, parliamone soltanto per agitare, ancora una volta, l’illusione; bella tecnica quella di non offrire il pane agli affamati e di fare sognare le torte, bella davvero! Ma perché, prima di raccontare le favole e le grandi conquiste da farsi, non si realizzano le cose minime, ma davvero minime, che richiederebbero un impegno perfino modesto e, parola magica, “seriale”? Ma che ce ne facciamo dei rilevatori di pericolo, se poi il pericolo persiste, se non addirittura accresce! I garanti non dovrebbero svolgere questo ruolo? Mi chiedo, al riguardo, se si sia costruita una rete solida tra tutti i garanti territoriali sotto la prudente e saggia regia dell’Ufficio del Garante Nazionale; ehi! Oggi non sono pochi, insomma un garante non si nega a nessuno e sono una risorsa, al punto che la stessa polizia penitenziaria ne pretenderebbe uno. C’è stato, pertanto, un reale e concreto coordinamento tra la periferia ed il centro? Boh! Le cose che talvolta sento di stramacchio (perdonatemi, ma è un termine che a Napoli si usa e così rivelo le mie origini) mi dicono di no, ma sicuramente sono stupidi mormorii, perché poco ragionevole sarebbe stato rinunciare alla possibilità di costruire un sistema di relazioni tra tutto il vasto mondo dei garanti regionali e locali con quello nazionale, per ricercare soluzioni e proposte condivise, concrete, cantierabili, piuttosto che inventarsi quelle che, si sa bene, non potranno realizzarsi a breve e medio periodo, che è quello che a noi interessa, perché queste misure di tempo imminente sono piene di persone e di sofferenza, e poco interessa dire che tra venti anni le cose saranno migliorate. Dico vent’anni perché questo lasso temporale, a naso, credo che sia l’unità di riferimento per la realizzazione, ad esempio, di un nuovo carcere, dal momento in cui lo si pensi a quello in cui, semmai, addirittura con la cosiddetta consegna provvisoria perché ancora non perfettamente terminato, verrà messo a disposizione dell’amministrazione penitenziaria che sarà chiamata a trovare rimedi di fortuna. Dico bugie? Ebbene aspetterò di essere smentito con prove alla mano: vogliamo, solo per fare alcuni esempi, parlare di Rovigo, di Forlì, di Pordenone, di Bolzano, di Nola e dintorni, vogliamo parlare delle carceri sarde, oppure di altre regioni? Sono qua! E che dire dell’assistenza sanitaria in carcere che, francamente, andrebbe fortemente assicurata anche al personale penitenziario, visto com’è costretto ad operare? Perché non si dice chiaramente che è stato un fallimento la migrazione delle funzioni dal ministero della giustizia a quello della salute? Salute, ma di quale salute stiamo parlando!? Basterebbe andare a vedere, di soppiatto, senza pompa magna, e si scoprirebbe un vero mondo di dolore, di malattia e di disperazione. L’altro giorno, un caro amico, psicologo, sul quale sapevo di poter contare quando ero direttore, come si dice in gergo h24, ma che sosteneva la riforma basagliana all’interno delle carceri e, in particolare, per eliminare quella che veniva considerata, a mio avviso a torto, la bruttura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, mi confidava che la riforma era stata una sorta di catastrofe e che occorreva trovare soluzioni alternative, perché le Rems (Residenze per le misure di sicurezza rivolte alle persone internate con disagio psichiatrico) non si erano rivelate la risposta giusta. Ricordo come adesso quando, timidamente, invitavo ad un ripensamento, perché sarebbe stato necessario migliorare il sistema degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, acronimo Opg, investire davvero sugli stessi, sottoponendoli a maggiori rigorosi controlli, piuttosto che cancellarli dalla faccia della terra. L’amico mi diceva che occorreva, oggi, immaginare strutture diverse, gestite dal personale penitenziario e controllate dalla sua polizia, ma assistite dal servizio sanitario nazionale che doveva rispondere, sul piano medico, in termini univoci e non confusi, in tema di cure. Queste strutture, un po’ come le articolazioni di salute mentale presenti in alcuni istituti e oggetto di mille proteste da parte del personale penitenziario, dovevano essere realizzate all’interno delle carceri e sarebbe occorso anche prevedere la punibilità delle persone folli, trattandole come detenute. “Pazzesco”, c’era maggiore rispetto dei diritti delle persone malate di mente negli Opg! Lo so, è spesso difficile fare marcia indietro, soprattutto quando si è investito in termini politici, si sono fatte campagne elettorali, addirittura sono state costituite Commissioni Parlamentari Speciali d’inchiesta, ma poi, come sempre, la verità delle cose ha il proprio corso e viene a portarci il conto. Nel mentre, le carceri continuano ad essere senza docce in numero adeguato e funzionante, non poche volte in alcune realtà l’acqua potrebbe non essere potabile e mancano i bidet dove dei costretti, novelli, “Narciso” possano vedere riflesso il proprio sesso spento, neanche più degno di essere lavato. No, ufficio del garante, non mi hai convinto, altro mi sarei atteso, altro avrei voluto vedere. Le parole dotte e celebrative non mi interessano e non interessano neanche ai tanti operatori penitenziari che ogni giorno fanno, in condizioni estreme, il loro dovere verso lo Stato, verso la Comunità. *Presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste, presidente Onorario del CESP (Centro Europeo di Studi Penitenziari) di Roma Rita Bernardini nuovo Garante dei detenuti: una scelta di vera meritocrazia di Amedeo Laboccetta* Il Dubbio, 27 giugno 2023 Ho avuto l’onore, il privilegio e il piacere di conoscere politicamente Marco Pannella negli anni 80 a Napoli, quando insieme sedevamo nei banchi della storica Sala dei Baroni, al Maschio Angioino. Era l’epoca dei giganti. Il Consiglio comunale della terza città d’Italia si impegnava in confronti di altissimo livello. Si assisteva a cavallereschi duelli politici. Vinceva la civiltà del dialogo. Almirante, Pannella, Scotti, Di Donato, Valenzi e Chiaromonte, Giuseppe Galasso, Francesco Picardi, Francesco De Lorenzo: era una straordinaria palestra politica. E Pannella fu sempre tra i protagonisti. Ci si divideva profondamente e duramente soprattutto sul tema droga. E ancora oggi, con gli eredi radicali di Marco, è così. Alla morte di Pannella una donna forte, vera, coerente e coraggiosa ne ha raccolto il testimone: Rita Bernardini. Ho avuto modo di conoscerla e apprezzarla sul campo. Al fronte, nel corso della sedicesima legislatura alla Camera, dal 2008 al 2013, quando insieme ci battemmo, seppur con differenti ordini del giorno, per porre fine ad anni di sperpero del pubblico danaro. Provammo, lei portabandiera della comunità radicale, e io, orgoglioso di un nobile passato a destra e con lo sguardo ben rivolto al futuro, a bloccare tante operazioni opache. Lo facemmo con ostinazione, alla luce del sole. Soprattutto lei. Alla fine personalmente mi concentrai per l’abolizione di un Ente assolutamente inutile, la Fondazione Camera dei Deputati: inventato nel 2002 per dare un ruolo agli ex presidenti della Camera non rieletti. Un inutile strumento che nel corso del tempo ha bruciato svariate decine di milioni degli italiani. Vincemmo quella battaglia. Oggi che non ho più tessere di partito, ho aderito con entusiasmo e convinzione all’associazione Nessuno tocchi Caino di cui Rita Bernardini è la presidente. Un sodalizio che può vantare come presidenti d’onore eminenti giuristi quali Santi Consolo, Vincenzo Maiello, Tullio Padovani e Andrea Saccucci. Nessuno tocchi Caino ha saputo andare oltre le ideologie: un mondo che la solidarietà la pratica e non la predica. Unica associazione che, quotidianamente, dona il suo impegno civile nei gironi infernali delle carceri italiane. Da Nord a Sud. E Rita c’è. Sempre! Con la sua dolcezza, la sua umanità, la sua competenza. Nominarla Garante dei detenuti sarebbe un atto dovuto, per un Governo che crede nel merito, una scelta obbligata. Ecco perché occorre fare squadra attorno al ministro Carlo Nordio, impegnato in una riforma concreta e strutturale della giustizia, e il quale considera Rita Bernardini un tassello importante. Un interlocutore affidabile e credibile, che senza faziosità porta avanti le ragioni di una comunità spesso dimenticata. Nessun veto deve prevalere. Rita Bernardini va assolutamente insediata come Garante dei detenuti. Il tridente Bernardini, D’Elia, Zamparutti non è un fenomeno virtuale. *Già Deputato al Parlamento per il Popolo della Libertà e componente della commissione bicamerale Antimafia Una Giornata in difesa del reato di tortura (che non si tocca!) di Miriam Rossi unimondo.org, 27 giugno 2023 È la Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti a formulare il 26 giugno 1987, nel suo primo articolo, una definizione di cosa si intende per tortura. “Qualsiasi atto mediante il quale grave dolore o sofferenza, sia fisica che mentale, è intenzionalmente inflitta a una persona per scopi quali ottenere da lui o da terzi informazioni o una confessione”. O azioni volte a “punire per un atto che lui o una terza persona ha commesso o che si sospetta abbia commesso”. O infine atti per “intimidire e costringere lui o una terza persona, o per qualsiasi motivo basato su discriminazione di qualsiasi tipo”. L’elemento fondamentale è che tale dolore o sofferenza è inflitta da un pubblico ufficiale, o anche su istigazione o consenso dello stesso o di qualsiasi altra persona che agisce in veste ufficiale. Ed è la stessa Convenzione a fissare in calendario la Giornata mondiale contro la tortura, ricorsa ieri. La narrazione sul reato di tortura in Italia passa dalla caserma di Bolzaneto al G8 di Genova del 2001 ai casi di Federico Aldrovandi nel 2005 e di Stefano Cucchi nel 2009 passando per quelli eclatanti ma non ancora riconosciuti a livello giudiziario di Aldo Bianzino nel 2007, di Carmelo Castro nel 2009 e di Enrico Lombardo nel 2019, e giungendo al caso della questura di Verona buttato recentemente in pasto ai giornali con 5 poliziotti arrestati e 17 indagati anche per reati di lesioni, falso, omissioni di atti d’ufficio, peculato e abuso d’ufficio. In mezzo a questo percorso finalmente è giunto il riconoscimento da parte dell’Italia del reato di tortura con la sua introduzione nel 2017 nel codice penale (legge 110 del 14/07/2017), 28 anni dopo la ratifica della Convenzione del 1984 contro la tortura. Tuttavia, a detta di Amnesty International, la formulazione del reato non è conforme all’art. 1 della Convenzione ONU e risulta poco chiara, ovvero limitatamente applicabile; in ogni modo si è trattato di un notevole passo in avanti in quanto sino ad allora il silenzio del codice sulla tortura aveva costretto la giustizia a condannare tali atti camuffandoli da “reati generici”. Alcuni anni dopo, il 15 gennaio 2021, per la prima volta un agente della polizia penitenziaria di Ferrara è stato condannato per tortura su un uomo detenuto nel carcere estense (altri due colleghi, sempre accusati di percosse e torture, sono in attesa del processo con rito non abbreviato). Una decisione che ha indicato chiaramente come nessuno può dirsi superiore alla legge, anche, anzi soprattutto, se indossa una divisa e con tali gesti viene meno alla sua funzione di garante della legge. Da lì in poi le cose sembrano iniziare a cambiare: sulla base della ricostruzione del “XVII Rapporto sulle condizioni di detenzione. La tortura in carcere in Italia: la panoramica sui processi” dell’associazione Antigone, allo studio della procura ci sono diversi casi criminosi attualmente aperti e che riguardano presunti episodi di tortura avvenuti nelle carceri italiane, senza tante differenze tra nord e sud d’Italia. Il 17 febbraio 2021 il Tribunale di Siena ha condannato per tortura e lesioni aggravate 10 agenti di polizia penitenziaria che lavoravano nel carcere di San Gimignano e che, secondo le ricostruzioni, hanno picchiato brutalmente un detenuto tunisino. Tanto nel caso di Ferrara quanto in quello di San Gimignano gli inquirenti hanno posto tra gli imputati rispettivamente anche un’infermiera (accusata di falso e favoreggiamento) e un medico (per rifiuto di atti d’ufficio, per non aver visitato e refertato la vittima). Sotto accusa anche 25 agenti della casa circondariale di Torino per una decina di episodi di violenza brutale risalenti al 2017; al momento provvedimenti disciplinari sono stati adottati verso tutti gli agenti coinvolti e si è in attesa del processo al Direttore del carcere per favoreggiamento personale e omessa denuncia. A Palermo si indaga su un presunto episodio di maltrattamenti a seguito della dichiarazione spontanea di un detenuto nel 2020 che ha denunciato le violenze subito dopo l’arrivo in carcere: le indagini contro gli agenti per tortura e contro i medici per non aver accertato le lesioni è attualmente in corso. Una simile situazione viene denunciata da un detenuto nel carcere di Monza nel 2019, aggredito violentemente da diversi agenti della polizia penitenziaria nel corridoio della sezione dove era detenuto. Torture denunciate anche al carcere di Opera a Milano nel periodo pandemico del marzo 2020, dopo una rivolta interna portata avanti dai detenuti per tensioni collegate all’assenza di garanzie di protezione dinanzi all’epidemia di Covid-19 e per i quali gli stessi sono stati a loro volta condannati. E nello stesso periodo anche nel carcere di Melfi, come a Milano, per punizione per la protesta scoppiata il 9 marzo 2020: i detenuti sarebbero stati denudati, picchiati, insultati e messi in isolamento nonché, infine, trasferiti. Situazione analoga nel carcere di Pavia, con pestaggi e privazione del cibo per alcuni carcerati. Poche settimane, nell’aprile 2020, i video che mostrano pestaggi, detenuti inginocchiati e picchiati dai poliziotti nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere avrebbero scosso un’Italia in lockdown: 105 gli indagati tra agenti, funzionari e medici. Un caso analogo a quello più attuale di Verona di poche settimane fa, le cui immagini risultano di assoluta chiara decifrazione. In attesa che la magistratura faccia il suo ricorso e alla luce del triste decalogo di violenze denunciate ci si domanda con quale ratio il ministro Nordio punti a far approvare dei “ritocchi tecnici” al reato: non si possono che condividere le preoccupazioni di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, collegate al lungo percorso di approvazione del reato di tortura, fortemente osteggiato proprio dai membri dell’attuale governo italiano. Noury ricorda come la stessa presidente Meloni scrisse un tweet nel 2018, poi cancellato, che riportava “Il reato di tortura impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”. E anche “Difendiamo chi ci difende” e ancora “Siamo sempre dalla parte delle forze dell’ordine”. Quale concezione dello stato di diritto ha in mente il governo Meloni? Il silenzio dinanzi al caso eclatante della questura di Verona è quasi profetico. Ogni modifica alla legge sulla tortura sarebbe uno sfregio allo Stato di diritto di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2023 Oggi è la giornata dedicata dalle Nazioni Unite alle vittime di tortura. L’articolo 13 della nostra Costituzione afferma che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Una norma che non lascia spazio a dubbi, interpretazioni, mistificazioni: la tortura deve essere punita. Ed è la sola volta nell’intero testo della Carta Costituzionale che viene usato il concetto di punizione. Ci sono voluti 69 anni per adeguare la legislazione penale italiana al volere dei costituenti, arrivati a quelle conclusioni dopo avere vissuto in prima persona le violenze e le torture nelle prigioni del regime fascista. Solo nel 2017 è stata infatti approvata la legge che ha introdotto il crimine di tortura nel codice penale italiano permettendo di perseguire i presunti torturatori. Oggi la maggioranza che ci governa vorrebbe abrogare quella legge o modificarla, così bloccando i processi in corso. Il reato di tortura non si tocca! Ma in Parlamento si discute per la sua abrogazione Processi nei quali si giudicano comportamenti che riassumo virgolettando alcuni estratti dai documenti ufficiali: “entrava nella sua cella e, dopo avergli chiesto se avesse voluto farsi una doccia, lo aggrediva colpendolo con violenti schiaffi in faccia e sul collo, contestualmente insultandolo chiamandolo ‘Merda’”; “una violenza cieca ai danni di detenuti (…) che veniva esercitata addirittura su uomini immobilizzati, o affetti da patologie ed aiutati negli spostamenti da altri detenuti, e addirittura non deambulanti, e perciò costretti su una sedia a rotelle”; “dopo aver condotto in infermeria un detenuto, gli sputavano addosso mentre uno di loro pronunciava la frase “figlio di puttana, ti devi impiccare”, e lo colpivano con violenti pugni al volto a seguito dei quali l’uomo perderà un dente incisivo superiore”; “costretti senza cibo, e, per 5 giorni, senza biancheria da letto e da bagno, senza ricambio di biancheria personale, senza possibilità di fare colloqui con i familiari; tant’è che alcuni detenuti indossavano ancora la maglietta sporca di sangue, e, per il freddo patito di notte, per la mancanza di coperte e di indumenti, erano stati costretti a dormire abbracciati”; “oltre alle violenze, venivano imposte umiliazioni degradanti - far bere l’acqua prelevata dal water, sputi, ecc. -, che inducevano nei detenuti reazioni emotive particolarmente intense, come il pianto, il tremore, lo svenimento, l’incontinenza urinaria”. Ogni modifica o cancellazione della legge sarebbe una mortificazione per le vittime di tortura, uno sfregio allo Stato di diritto, una volgare presa in giro dei valori costituzionali. “La tortura è detenere un corpo e poterne approfittare. È un sequestro del corpo di una persona per abusarne. È molto peggio del reato di lesioni”, spiegò Erri de Luca a sostegno della campagna di Antigone per giungere all’approvazione della legge. Fu Cesare Beccaria nel lontano 1764 a definire la tortura una crudeltà da bandire. È assurdo anche solo che si apra un dibattito sulla possibile abrogazione del reato di tortura. È assurdo penalizzare chi organizza un rave party e lasciare impunito un torturatore. Cosa distinguerebbe da un’autocrazia, da una delle tante finte democrazie che popolano il pianeta? Sarebbe importante che tutti facessero sentire la propria voce, a partire dai tantissimi poliziotti che lavorano per la legalità e nella legalità. Abbiamo bisogno di loro, così come della voce di chi arriva ai grandi mezzi di comunicazione e di chi intende esercitare il mandato parlamentare nel nome della Costituzione. *Coordinatrice Associazione Antigone Sconto di pena per Cospito: l’anarchico evita l’ergastolo di Valentina Stella Il Dubbio, 27 giugno 2023 I giudici torinesi, chiamati solo a rideterminare la pena, si sono mossi nel solco della decisione della Corte costituzionale. Riconosciuta l’attenuante della lieve entità. Ventitrè anni per Alfredo Cospito, diciassette anni e nove mesi a Anna Beniamino: questa la pena inflitta ai due anarchici dalla Corte di Assise di Appello di Torino dopo circa cinque ore di Camera di Consiglio. L’accusa aveva chiesto l’ergastolo e isolamento diurno di dodici mesi per lui e 27 anni e un mese per lei. Dunque i giudici torinesi, chiamati solo a rideterminare la pena, si sono mossi nel solco della decisione della Corte costituzionale. Ricordiamo infatti che il processo era stato sospeso a dicembre in quanto la Corte aveva chiesto, su input della difesa di Cospito, che la Consulta si pronunciasse sul quarto comma dell’articolo 69 cp “nella parte in cui vieta al giudice di considerare eventuali circostanze attenuanti come prevalenti sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., nei casi in cui il reato è punito con la pena edittale dell’ergastolo”. La Corte costituzionale aveva dichiarato incostituzionale questa parte, aprendo la via per uno sconto di pena a Alfredo Cospito. E così è stato. Gli imputati erano accusati di strage politica per l’attentato, nel 2006, all’ex scuola allievi carabinieri di Fossano. Nel processo d’appello entrambi erano stati accusati di strage “semplice”, e furono condannati rispettivamente a 20 e 16 anni di carcere. Poi la Cassazione, su richiesta della Procura generale di Torino, aveva riqualificato quel fatto in “strage politica”. Si era poi tornati in Appello per la ridefinizione della pena e da lì il passaggio in Consulta. Entrambi gli imputati erano in video collegamento rispettivamente dalle carceri di Sassari e Rebibbia in cui sono reclusi. Riconosciuta a tutti e due pertanto l’attenuante della lieve entità: non ci furono morti e feriti. Nessuno si fece male. L’udienza si era aperta con le repliche della procura generale e Cospito aveva chiesto al termine di poter rendere dichiarazioni spontanee. Intanto, fuori dal Palagiustizia era presente un presidio di una decina di anarchici che avevano steso lo striscione “Solidarietà con Anna e Alfredo”. Altrettanti erano presenti in aula. “In vent’anni di attentati di sigle anarchiche non c’è mai stato un morto. Chiaramente erano tutti attentati dimostrativi. Questo è solo un processo alle idee”, aveva detto Cospito. “Gli anarchici - aveva aggiunto - non fanno stragi indiscriminate, non siamo lo Stato. In questo processo sono evidenti accanimento e stranezze, quando è successo l’attentato nessuno gli ha dato importanza. Poi la Cassazione ha trasformato una strage semplice in strage politica”. E ancora: “Non c’è nessuna certezza che chi ha fatto quell’attentato voleva uccidere, non ci si può affidare a perizie fatte dopo. Non c’è nessuna prova che io e Anna abbiamo piazzato gli ordigni a Fossano”. L’accusa aveva chiesto invece il fine pena mai per Cospito: “Non merita sconti”, aveva detto in particolare il pg Saluzzo, sottolineando che se l’attentato a Fossano non ebbe “l’effetto voluto, che era colpire un numero indeterminato di carabinieri, fu solo per un caso”. “La Corte costituzionale - aveva aggiunto - ha aperto la strada alla possibilità di bilanciare attenuanti e aggravanti anche per il reato di strage politica. Ma nessuno di noi è obbligato a praticare sconti che non siano dovuti. E Cospito non merita nulla”. Questa decisione non avrà però conseguenze sul regime detentivo a cui è sottoposto attualmente Cospito, ossia il 41 bis. A caldo abbiamo raccolto il commento del suo avvocato Flavio Rossi Albertini: “Ci sarebbero molte considerazioni da fare su questo processo e sul fatto ad esempio che potremmo dire che si è guardato più al profilo di chi ha commesso il reato che il reato stesso; siamo nel campo del “delitto d’autore”“. Tuttavia, “siamo assolutamente soddisfatti, avevamo timore che potesse andare molto, molto peggio, anche se la pena resta sproporzionata. I giudici hanno ritenuto di attestarsi e sostanzialmente marcare l’alveo su cui si era già inserita la Corte d’Assise e d’Appello il 5 dicembre scorso allorché inviò la questione di legittimità costituzionale alla Corte Costituzionale, per cui siamo soddisfatti per il buon esito. Anche alla luce del tenore delle requisitorie che sono state compiute nelle ultime due udienze è senz’altro un buon risultato”, ha concluso Flavio Rossi Albertini. Perché la Corte non ha condannato l’anarchico Cospito all’ergastolo di Irene Famà La Stampa, 27 giugno 2023 Dopo una lunga battaglia, ieri la sentenza: 23 anni al teorico della Fai-Fri e 17 anni e 9 mesi ad Anna Beniamino. La procura generale di Torino aveva chiesto il fine pena mai. Niente ergastolo. Per l’attentato all’ex scuola carabinieri di Fossano, nel Cuneese, l’anarchico Alfredo Cospito è stato condannato a 23 anni di carcere. E Anna Beniamino, ex compagna nella vita e da sempre accanto a lui nella lotta allo Stato, a 17 anni e 9 mesi. Così ha deciso ieri la Corte d’assise d’appello di Torino chiamata a rideterminare la pena, dopo che la Cassazione, nel luglio 2022, aveva riqualificato il reato in strage politica. E per la strage, c’è un’unica condanna prevista: l’ergastolo. I giudici hanno applicato l’attenuante del fatto lieve. “Non ci sono stati morti e anche i danni furono minimi”, hanno sottolineato gli avvocati difensori Flavio Rossi Albertini e Gianluca Vitale. “Questa è una sentenza che ristabilisce l’equilibrio e la ragionevolezza”. Cosa è successo - Il centro della complessa discussione giuridica sul caso Cospito è questo qui. Il contesto è il maxi processo Scripta Manent, nato da un’inchiesta della Digos per le attività dell’organizzazione terroristica Fai-Fri (Federazione anarchica informale-Fronte rivoluzionario internazionale). Plichi esplosivi, attentati incendiari in tutta Italia, dal 2005 al 2011. Dopo una condanna in primo e secondo grado a 20 anni per Cospito e a 17 per Beniamino, a inizio luglio 2022 la Cassazione riqualifica il reato in strage politica. Cospito, già in carcere a scontare condanne diventate ormai definitive, tra cui quella per la gambizzazione del manager dell’Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi, insieme ad Anna Beniamino, torna sul banco degli imputati davanti alla Corte d’assise d’appello di Torino per quegli ordigni: una trappola fallita per mera casualità. “Quella fu un’azione massicciamente distruttiva” e se non fosse stato per una serie di circostanze “noi oggi conteremmo i morti”, dice in aula il procuratore generale Francesco Saluzzo. E ancora: “Fossano non fu un fatto lieve. L’aggressione allo Stato non si misura sui danni, ma sul disegno, sugli scopi dell’organizzazione, sui mezzi che vengono utilizzati”. Due ordigni temporizzati, pieni di bulloni, programmati per esplodere nella notte del 2 giugno 2006, a distanza di qualche minuto uno dall’altro per richiamare sul posto le forze dell’ordine e colpirle. “Il nostro modo per festeggiare la nascita dell’infame repubblica italiana e l’altrettanto infame anniversario dell’arma dei carabinieri” recitavano i volantini di rivendicazione. Cospito: “Non c’è alcuna prova della nostra colpevolezza” - Cospito, in videocollegamento dal carcere, ha negato il suo coinvolgimento: “Non c’è alcuna prova che abbiamo piazzato noi quegli ordigni”. Detenuto a Sassari in regime di carcere duro perché dietro le sbarre avrebbe continuato a incitare i compagni all’azione, dal 20 ottobre al 19 aprile ha portato avanti uno sciopero della fame contro il 41bis e il sistema carcerario. Ha interrotto la protesta dopo che la Corte costituzionale ha fatto cadere la norma che vincolava la Corte d’assise d’appello di Torino a condannarlo all’ergastolo. E il teorico della Fai, 56 anni, è la seconda volta che vince la sua battaglia davanti alla Corte costituzionale. Renitente alla leva, si era rivolto alla corte per ottenere l’incostituzionalità degli arresti ripetuti di chi si sottraeva alla naia. Personaggio aspramente contestato anche all’interno del mondo anarchico, con la sua protesta era riuscito a ricompattare la galassia anarchica. Che aveva lanciato una mobilitazione internazionale in Italia e nel resto del mondo con attentati e danneggiamenti a simboli e rappresentanti dello Stato. E oltre alla procura di Bologna, dove è stato aperto un fascicolo per associazione sovversiva con una mezza dozzina di indagati, si è mossa quella di Milano, che in relazione ad episodi avvenuti lo scorso 11 febbraio ha ottenuto sei misure restrittive (fra divieti e obblighi di dimora). Ieri, a Palazzo di Giustizia a Torino, in solidarietà, erano appena una ventina. Lezioni preventive sul 41-bis di Claudio Cerasa Il Foglio, 27 giugno 2023 Perché la nuova condanna di Cospito non c’entra nulla con il carcere duro. La Corte d’assise d’appello di Torino ha ricalcolato in 23 anni la condanna per l’anarchico Alfredo Cospito nell’ambito del processo per l’attentato alla scuola allievi Carabinieri di Fossano (Cuneo) del 2 giugno 2006. In primo grado e in Appello era stato condannato a 20 anni. Per Anna Beniamino, compagna dell’anarchico, la Corte ha ricalcolato la pena in 17 anni e 9 mesi (in primo grado e in Appello era stata condannata a 17 anni). L’accusa aveva chiesto l’ergastolo con isolamento diurno per 12 mesi per Cospito e 27 anni e 1 mese per Beniamino. A entrambi gli imputati sono state riconosciute due attenuanti: le generiche e quella della lieve entità. I giudici della Corte d’appello hanno dunque seguito la strada tracciata dalla Corte costituzionale, che aveva giudicato incostituzionale la norma del codice penale che, per i reati puniti con l’ergastolo e in caso di recidiva, impedisce di considerare l’applicazione di un’attenuante. I magistrati hanno ritenuto che, non avendo l’attentato prodotto morti né feriti, il giudizio per un’accusa così grave (“strage politica”) dovesse tenere conto almeno delle attenuanti. I legali di Cospito si sono detti soddisfatti della pronuncia, ma l’anarchico resta comunque sottoposto al regime di 41-bis nel carcere di Sassari. Per quanto, infatti, Cospito abbia cercato con le sue iniziative - in particolare il lungo sciopero della fame - di legare la sua vicenda giudiziaria alla questione del regime di carcere duro, la sentenza di ieri ci ricorda che una cosa sono le condanne per gravi reati e un’altra sono le modalità di detenzione (in questo caso il 41-bis). In questo caso, infatti, il 41-bis è stato applicato soprattutto alla luce della capacità di Cospito di veicolare messaggi all’esterno, ritenuti dai magistrati di sorveglianza dei veri e propri inviti a compiere atti terroristici. Il giudizio in questo campo non è mai definitivo, dunque non è da escludere che in futuro, alla luce di nuovi elementi, il regime di carcere duro possa essere annullato. Commissione europea: ecco come ridurre l’arretrato giudiziario di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 giugno 2023 L’articolo 6 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo afferma che “ogni individuo ha diritto a un processo equo e pubblico entro un termine ragionevole”. Un diritto che è violato in diversi Paesi d’Europa, tra i quali non manca il nostro Paese. Per questo motivo, la Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (CEPEJ) ha recentemente adottato un nuovo strumento per aiutare i Paesi a ridurre l’arretrato giudiziario Il concetto di “arretrato” si riferisce alle cause pendenti presso il tribunale interessato che non sono state risolte entro un termine stabilito. L’accumulo di cause pendenti deriva da varie questioni, come un quadro giuridico inadeguato, risorse insufficienti del tribunale per gestire i casi in arrivo, carenze nelle pratiche di gestione delle cause, ecc. Questa situazione è problematica perché comporta notevoli ritardi nei processi, aumenta i costi dei procedimenti legali, contribuisce all’incertezza giuridica e ha un impatto negativo sulla percezione e sulla fiducia del pubblico nei sistemi giudiziari. Il documento elaborato dalla CEPEJ è destinato alle autorità statali e giudiziarie e ai tribunali come strumento per ridurre gli arretrati e prevenire la loro ricomparsa. Esso illustra una metodologia passo dopo passo per lo sviluppo di strategie volte alla riduzione degli arretrati. Identificando le aree in cui si accumulano gli arretrati, comprensione delle cause sottostanti e proponendo misure per affrontare gli arretrati nei diversi livelli dei sistemi giudiziari, questo strumento offre approcci adattabili alle specifiche circostanze di un sistema giudiziario, anziché un insieme fisso di soluzioni. Per garantire l’efficace attuazione di questo strumento, si consiglia di avvalersi della competenza della CEPEJ e dei suoi esperti al fine di apportare gli aggiustamenti necessari e creare soluzioni concrete su misura per le specifiche esigenze di un sistema giudiziario. La sua attuazione richiederà anche una stretta collaborazione con i tribunali e le istituzioni giudiziarie per generare, testare e applicare soluzioni ai problemi identificati sia a livello di sistema che locale. Infine, nel documento viene sottolineato che tale strumento è destinato a evolversi sulla base delle esperienze acquisite dalla sua attuazione pratica, rendendolo una risorsa dinamica che sarà aggiornata di conseguenza. Riduzione e prevenzione degli arretrati - L’esistenza di un arretrato indica di solito che i tribunali affrontano sfide legate alla loro efficienza e che il diritto a un processo equo entro un termine ragionevole potrebbe essere compromesso. Per questo motivo, si esorta le autorità a affrontare l’arretrato esistente e prevenire l’ulteriore accumulo di casi di lunga durata. Tuttavia, è importante sottolineare che combattere l’arretrato non dovrebbe comportare una diminuzione della qualità delle decisioni giudiziarie e dei servizi offerti agli utenti dei tribunali. Nel documento vengono evidenziati due prerequisiti fondamentali per raggiungere una riduzione e prevenzione efficace degli arretrati. In primo luogo, è necessario riconoscere che esiste un problema che richiede attenzione. In secondo luogo, le autorità devono giungere a un accordo completo per risolvere la questione dell’arretrato, dimostrando il loro impegno a livello più alto. A queste condizioni dovrebbe seguire lo sviluppo graduale di una strategia che guidi l’intero processo. È indispensabile allocare risorse sufficienti e concedere il tempo necessario per ottenere il coinvolgimento di tutte le parti interessate. Secondo la Commissione europea il processo dovrebbe includere la designazione di un’istituzione di riferimento responsabile delle attività legate alla riduzione dell’arretrato. Questa istituzione può essere un organismo esistente, come il Consiglio Superiore della Magistratura, la Corte Suprema o il ministero di Giustizia, oppure un organismo di riduzione degli arretrati appositamente creato, come un gruppo di lavoro ad hoc o un comitato di riduzione degli arretrati. L’istituzione designata dovrebbe sovrintendere l’intero processo, a partire dall’analisi e dall’individuazione dell’ambito del problema, passando per la definizione degli obiettivi e delle misure per ridurre l’arretrato, fino alla creazione di meccanismi di monitoraggio e al garantire la sostenibilità per prevenire futuri accumuli di arretrato. Inoltre, dovrebbe essere responsabile del coordinamento, dell’attuazione e del monitoraggio delle attività di riduzione dell’arretrato a livello centrale, oltre a facilitare una comunicazione efficace con gli utenti dei tribunali e il pubblico. Questa istituzione potrebbe essere affiancata da squadre di riduzione dell’arretrato composte da giudici, dirigenti dei tribunali e/o personale dei tribunali non giudicante istituite a livello locale. I quattro punti da compiere - La Commissione consiglia un primo step. Identificare l’entità degli arretrati tramite una raccolta e analisi di dati statistici specifici e indicatori nella diagnosi della situazione. È importante però condurre un’analisi parallela del funzionamento dei sistemi giudiziari. L’analisi legale e operativa aiuta a identificare le carenze sistemiche. Pertanto, si consiglia di combinare metodologie per l’identificazione dei potenziali problemi legati agli arretrati utilizzando una metodologia basata sui dati (basata esclusivamente sulla ricerca e l’analisi dei dati statistici) con il Metodo Delphi (noto anche come metodo del ‘ Pannello di Esperti’). Questa combinazione assicurerebbe una comprensione completa e accurata della situazione. Mentre la metodologia basata sui dati fornisce informazioni oggettive, il ‘ Metodo Delphi’ fornisce una visione più soggettiva e basata sull’esperienza delle prestazioni giornaliere del tribunale e delle eventuali potenziali debolezze. Dopo aver identificato gli arretrati e analizzato le cause, il secondo passo prevede lo sviluppo di una strategia per affrontare efficacemente gli arretrati. Il documento fa esempi attraverso delle tabelle. Quando tutti i passaggi indicati sono stati compiuti (identificazione del problema, elaborazione della strategia e monitoraggio della sua implementazione), l’ente responsabile dovrebbe condurre l’analisi finale dei risultati ottenuti al termine del periodo di implementazione della strategia. Se persiste un significativo numero di casi in arretrato, l’ente responsabile dovrebbe effettuare un’analisi dei problemi e elaborare una nuova strategia, ripetendo quindi la metodologia passo dopo passo (analisi - misure monitoraggio). Ricordiamo che lo scopo principale del documento elaborato dalla Cepej è fornire indicazioni generali su come identificare il problema in un determinato sistema giudiziario e fornire esempi che possano ispirare azioni volte a risolvere gli arretrati e a prevenire i ritardi procedurali negli Stati membri. Sulla base delle esperienze acquisite con la sua applicazione pratica, questo strumento è destinato a evolversi, trasformandosi in una risorsa dinamica che verrà aggiornata di conseguenza. La strage di Ustica non si dimentica di Daria Bonfietti* Il Manifesto, 27 giugno 2023 Non dimenticare Ustica vuol dire intanto ricordare che il 27 giugno 1980 in una serata d’estate, improvvisamente, nel mezzo di un volo regolare tra Bologna e Palermo, si perdono i collegamenti con un aereo civile, DC9 Itavia, e dopo una nottata di grande ansia e tensione si deve prendere atto che l’aereo si è inabissato tra Ponza e Ustica nella fossa del Tirreno portando a morte tutti gli 81 passeggeri. Oggi dobbiamo affermare che tutto era chiaro da subito, nell’immediatezza dell’evento: ce lo dicono - colpevolmente ascoltati soltanto con anni di ritardo - i dialoghi degli addetti ai radar pieni di allarme per la presenza di aerei militari minacciosamente razzolanti attorno al DC9, la ricerca di una portaerei come base possibile di tanti voli. Abbiamo sentito la drammaticità delle ricerche di aiuto, perfino all’Ambasciata americana. Abbiamo rinvenuto un tracciato con la presenza di una evidente manovra d’attacco e poi abbiamo clamorosa distruzione di prove in tutti i siti militari - si sono perfino occultate le primissime segnalazioni che parlavano di un episodio traumatico esplosivo in cielo. Tutto è stato nascosto per dire che il DC9 era caduto senza motivo, in un cielo sgombro e quindi privo di ogni insidia, per un cedimento strutturale. E per di più si è portato al fallimento la compagnia Itavia. E oggi chiediamoci ancora perché. La risposta è una sola: non si doveva assolutamente indagare su quello che era accaduto in cielo, in un cielo che si sosteneva vuoto: l’incidente doveva essere senza motivo, un cedimento strutturale appunto e da qui tutte le menzogne e perfino il fallimento Itavia. Tutto per coprire quella evidentemente inconfessabile verità! E allora siamo ancora qui per chiederla la verità fino in fondo. E alla Magistratura anche quest’anno, come ho cercato di fare tante volte in questi anni, diciamo che da troppo tempo aspettiamo le conclusioni di una inchiesta che la Procura della Repubblica di Roma ha aperto nel 2008, dopo che il Presidente Cossiga aveva dichiarato sotto giuramento che il DC9 Itavia è stato abbattuto da francesi che volevano colpire Gheddafi. È chiaro che si deve indagare su una “trama indicibile” che vede oggettivamente coinvolti oltre all’Italia, Francia Usa e Libia. Ma dobbiamo sapere la verità. E dobbiamo anche eventualmente sapere le difficoltà dell’indagine, soprattutto se siano state reticenti o negative le collaborazioni di Stati amici e alleati. Siamo determinati nel chiedere la definitiva verità senza lasciarci sviare dai depistaggi e dalle provocazioni di chi per sostenere l’ipotesi bomba prima ricicla perizie già rigettate dalla Magistratura e ora parla di documentazioni significative senza segnalare che proprio all’atto della “pubblicazione” sono stati definiti, da Presidenza del Consiglio e Magistratura, atti che non riguardano la strage di Ustica, la cui valutazione è utile più ad escludere piste, che ad accertare una determinata verità. Non dimenticare vuol dire oggi sforzarsi per fare storia e memoria, e l’associazione continua nel suo impegno attorno al Museo per la memoria di Ustica. Realtà viva per visitatori e didattica, impreziosita dall’istallazione di Christian Boltanski. Ma sul percorso per storia e Memoria bisogna chiamare in causa criticamente il nuovo Governo Meloni: intanto non si dà corso al Protocollo con il Miur per la collaborazione nelle scuole con le Associazioni delle Vittime del Terrorismo. E quindi per quest’anno scolastico non ci sono state presenze di scuole alle iniziative di memoria attorno al Museo. Al momento non ci sono notizie di fondi per il proseguimento delle digitalizzazioni degli atti dei processi di rilevanza storica (per Ustica siamo proprio in corso d’opera). Questo è comunque un ostacolo alla ricerca storica in generale. In più proprio nel rinnovare il Comitato per l’attuazione della direttiva Renzi-Draghi è stata chiamata a partecipare inopinatamente una associazione, senza credenziali, nota soprattutto per sostenere la testi depistante della bomba. È questo non è accettabile istituzionalmente perché con scelte tecniche ufficiali non si può “strizzare l’occhio” a tesi “amiche”. Al Governo Meloni avevo chiesto nei fatti correttezza e attenzione, mi pare che le risposte siano completamente negative e inaccettabili. Con la volontà di continuare nell’impegno per non dimenticare e per operare per Memoria e Storia saremo in Palazzo d’Accursio a Bologna, con il sindaco Lepore e le rappresentanze degli Enti locali e delle Istituzioni e poi per svariati appuntamenti attorno al Museo, dal 27 giugno al 10 agosto. *Presidente Associazione parenti vittime della strage di Ustica Legittima difesa per il detenuto che ferisce gli agenti per ribellarsi al pestaggio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2023 Non è un reato, ma rientra nella legittima difesa, la ribellione del detenuto che ferisce tre agenti carcerari per ribellarsi al pestaggio. E non importa se la “punizione” da parte degli agenti di custodia era scattata per un’offesa subìta proprio da una guardia. La Cassazione respinge il ricorso dei tre agenti contro la sentenza con la quale la Corte d’Appello aveva assolto il detenuto dal reato di lesioni, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Il ricorso dei tre, intervenuti nel processo nella doppia veste di imputati e parti civili, era teso anche, e soprattutto, ad ottenere dai giudici di legittimità un’assoluzione nel merito dai reati loro contestati ma dichiarati prescritti già in primo grado: concorso in abuso di mezzi di correzione, abuso di autorità e lesioni aggravate. I ricorrenti ritenevano di aver diritto ad un’assoluzione piena, perché lo “scontro” con il detenuto, era avvenuto mentre stavano “compiendo un atto del proprio ufficio, vale a dire la contestazione disciplinare a (omissis) per le frasi irrispettose pronunciate, quando sarebbero stati aggrediti dal detenuto ed avrebbero, quindi reagito, per legittima difesa e riportare l’ordine”. L’offesa e la violenta ritorsione - Questa la versione dei ricorrenti che contestavano la credibilità data invece dai giudici al racconto del carcerato, a loro avviso resa inverosimile anche dalla gravità delle lesioni che avevano riportato. Anche per la Suprema corte è però preferibile la narrazione del detenuto. E questo sulla base dei dati emersi nel processo, oltre che per chiare ragioni logiche. Il detenuto aveva ammesso l’offesa all’agente, per la quale si era subito scusato temendo conseguenze disciplinari. Conseguenze che erano state invece ben più pesanti. L’insulto, avevano scritto i giudici di merito, aveva scatenato una terribile punizione fisica “inflittagli in una stanza appartata, in cui era stato denudato e aggredito dagli imputati; la sua istintiva difesa, poi, aveva causato anche un accanimento del pestaggio nei suoi confronti”. Le testimonianze e i referti medici - A descrivere le pietose condizioni in cui si trovava la vittima “la faccia come un pallone e maschera di sangue” era stata la psicologa, che si era coperta il volto nel vederlo, e aveva chiesto di metterlo in isolamento temendo per la sua incolumità, anche a causa dello stato confusionale. C’era poi la testimonianza del compagno di cella. Per finire, c’erano le certificazioni mediche della casa circondariale in cui il detenuto era stato trasferito - dal carcere in cui si trovava - una settimana dopo i fatti, dalle quali risultavano “lesioni talmente gravi e diffuse su tutto il corpo, dalla regione facciale all’emitorace sinistro, agli arti, con emorragie agli occhi, da riscontrare perfettamente le dichiarazioni del detenuto circa il vero e proprio pestaggio subìto”. Quanto alle ferite provocate agli agenti queste si spiegano con “la potenza fisica della vittima abusata, che proprio perché peculiare, è riuscita a ribellarsi al pestaggio ritorsivo, provocando a sua volta lesioni ai tre agenti aggressori”. Il concorso dei reati contestati agli agenti - Su queste basi la Cassazione esclude la possibilità di assolvere nel merito i ricorrenti che avevano già beneficiato della prescrizione che aveva impedito, già dal primo grado, di procedere nei loro confronti. La Suprema corte conferma l’impianto accusatorio sia per l’abuso di autorità, che scatta a causa “delle condotte vessatorie perpetrate da agenti di polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti, le quali aggravino le condizioni della carcerazione, sottoponendoli a misure di rigore non consentite dalla legge e vessazioni, di guisa che la sfera di libertà personale del soggetto passivo subisca un’ulteriore restrizione, oltre quella legale, che è insita nella detenzione stessa”. Il reato di lesioni concorre poi con l’abuso di autorità quando “gli atti di violenza fisica incidano sulla sfera di libertà personale del soggetto passivo determinandone una limitazione aggiuntiva rispetto a quella consentita”. Un quadro nel quale rientra la descrizione del fatto, con le “misure di rigore” messe in atto in una cella di isolamento con calci e pugni in varie parti del corpo. La ricostruzione porta i giudici ad escludere “qualsiasi possibilità di rilevare cause di proscioglimento”. Non c’è dubbio, per la Cassazione, che la violenza subìta abbia aggravato “le condizioni di restrizioni già connaturate allo stato detentivo, obbligando la vittima a subire una quota maggiore di coercizione della propria libertà”. Il no all’archiviazione del caso Lombardo - Di oggi anche la notizia che la Cassazione ha accolto il ricorso contro l’archiviazione del caso Enrico Lombardo, il 42enne morto nel 2019 durante un fermo nel Messinese. La Suprema Corte ha disposto che gli atti tornino al tribunale di Messina dove il giudice monocratico dovrà fissare un’udienza nella quale si discuterà della seconda richiesta di archiviazione e verrà presa una decisione in merito. La famiglia dell’uomo, tramite l’avvocato Pietro Pollicino, aveva fatto ricorso contro l’archiviazione del caso e venerdì scorso, in piazza Cavour, a Roma, mentre i giudici della quinta sezione penale discutevano del caso, si è tenuto un sit-in al quale hanno partecipato, tra l’altro, le associazioni A Buon Diritto e Amnesty International. Il 42enne Enrico Lombardo viveva a Spadafora, frazione di 5mila abitanti vicino a Messina ed è morto nella notte tra il 26 e il 27 ottobre del 2019, durante un fermo dei carabinieri. Toscana. Tre milioni di euro per favorire l’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro italy24.press, 27 giugno 2023 Con le risorse del FSE+, due bandi per corsi di formazione rivolti a persone, maggiorenni e minori, ristrette nelle carceri toscane. E di oltre 3 milioni di euro la figura di Fondo sociale europeo 21/27 Per finanziare corsi di formazione rivolti ai detenuti, anche minorenni, negli istituti penitenziari toscani. È la dotazione finanziaria di due bandi regionali rivolti ad enti di formazione accreditati e imprese attive nel territorio regionale. Per i progetti dedicati agli adulti sono stati stanziati 2 milioni e 126mila euro, mentre per quelli dedicati agli utenti della giustizia minorile circa 1 milione di euro. Gli avvisi fanno parte dei due accordi siglati poche settimane fa tra le pubbliche amministrazioni, tra cui la Soprintendenza regionale dell’Amministrazione penitenziaria tosco-umbra (Prap) e il Centro Giustizia minorile per la Toscana e l’Umbria (Cgm), per l’ingresso o il rientro il mondo del lavoro. “I corsi, sia di gruppo che individualizzati, consentiranno di acquisire gratuitamente quelle competenze per facilitare l’inserimento o il reinserimento nel mondo del lavoro, favorendo un effettivo inserimento sociale e contrastando la povertà, l’esclusione e il rischio di recidiva”, spiega l’assessore alla formazione e lavoro Alessandra Nardini. “In questi anni - prosegue - la Regione ha attivato diversi percorsi formativi per l’inserimento o il reinserimento lavorativo dei detenuti perché crediamo fermamente, come ci dice la nostra Costituzione, che il lavoro è un diritto e deve esserlo per ogni persona. Ora vogliamo rafforzare e rendere strutturale il nostro impegno. Il lavoro è dignità e nessuno, nessuno, deve essere escluso”. Sarà possibile presentare domanda di finanziamento entro le ore 13 del 15 settembre, attraverso il Sistema Informativo FSE. I bandi - promossi nell’ambito di GiovaniSì, il progetto della Regione Toscana per l’autonomia dei giovani - sono disponibili online alle pagine web https://www.regione.toscana.it/pr-fse-2021-2027 e www. youthsi.it. Sarà garantito il finanziamento di un progetto destinato ai detenuti maggiorenni per ogni carcere della regione e di un progetto destinato agli utenti della giustizia minorile per ogni ambito provinciale. Bologna. Fare impresa in carcere è possibile di Riccardo Platone radiocittafujiko.it, 27 giugno 2023 Il 23 giugno si è tenuto al Mast Auditorium di Bologna la presentazione del volume “La fabbrica in carcere e il lavoro all’esterno: uno studio di caso su Fare Impresa in Dozza” di Valerio Pascali e Alvise Sbraccia. Di seguito il comunicato stampa con il resoconto dell’evento. Marchesini Group SpA, Alberto Vacchi - IMA SpA), Andrea Moschetti di FAAC SpA, (l’impresa che dal 2019 sostiene il progetto), anche gli autori della ricerca, i formatori della Fondazione Aldini Valeriani, i tutor, alcuni dipendenti, i manager e il personale delle aziende che hanno accolto gli ex lavoratori FID. Numerose le autorità e personalità presenti: il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, il Sindaco di Bologna Matteo Lepore, l’Assessore regionale allo sviluppo economico e green economy, lavoro, formazione e relazioni internazionali Vincenzo Colla, il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Gloria Manzelli, la Direttrice del carcere di Bologna ‘Dozza’ Rosa Alba Casella e numerosi rappresentati di istituzioni politiche e giudiziarie nazionali e locali. Tra i relatori, Flavia Filippi, giornalista e fondatrice di Seconda Chance, Associazione finalizzata al reinserimento di detenuti ed ex detenuti nel mondo del lavoro. Moderatore Antonella Cortese, giornalista, coordinatrice e caporedattrice di Liberi Dentro-Eduradio & TV. L’evento è stato dedicato a Flavia Franzoni Prodi, già consigliere di Amministrazione FID e “un punto di riferimento costante della nostra Impresa sociale” - ha ricordato Maurizio Marchesini “la sua partecipazione - ha aggiunto - ha sempre rappresentato il momento in cui, passando dalla progettualità all’operatività, si valutavano risvolti concreti delle iniziative che ci apprestavamo ad avviare.” Il Sottosegretario Ostellari si è soffermato sulla forte connessione tra lavoro, recidiva e sicurezza. “Il lavoro - ha affermato - è lo strumento che meglio di tutti riesce a dare la seconda chance. Non è un discorso buonista, ma stiamo parlando di dati: il 98% delle persone che aderiscono ad un percorso trattamentale attraverso il lavoro, quando esce dal carcere, esce anche dal circuito criminale. In questo modo raggiungiamo tre obiettivi: il primo è quello di seguire i principi della nostra Costituzione rieducando un condannato ad avere la possibilità di scegliere una via più sana; il secondo, è a vantaggio del carcere, dove scegliere la via trattamentale migliora le condizioni di permanenza; il terzo è il futuro della nostra comunità, perché se è vero che il 98% delle persone che escono sono migliori, significa che insieme stiamo investendo sul futuro della nostra comunità.” Ha poi concluso parlando dell’Accordo internazionale tra Il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Gloria Manzelli ha lanciato un appello agli imprenditori a visitare le carceri e ad offrire lavoro alle persone in stato di detenzione e ha affrontato il tema dello spazio negli istituti di pena, soprattutto quelli di più vecchia costruzione. “La ricerca pubblicata nel volume La fabbrica in carcere e il lavoro all’esterno: uno studio di caso su Fare Impresa in Dozza” hanno spiegato gli autori “aveva l’obiettivo di mettere a confronto gli sguardi degli attori sociali coinvolti nel progetto FID, con riferimento alle fasi di cui esso si compone: dalle procedure di selezione a quelle formative, dalla pratica lavorativa alla transizione verso l’esterno (a fine pena o in misura alternativa alla detenzione). […] Lo studio ha evidenziato che FID si propone come modello di inclusione socio-lavorativa funzionale e solido, con prospettive senz’altro migliorabili di integrazione con la rete di servizi di supporto coinvolti nelle delicate fasi del re-entry. In chiave valutativa, i nodi fondamentali appaiono quelli delle riproducibilità del modello su base locale, eventualmente da intendersi per i suoi margini di estensione (maggior numero di detenuti da coinvolgere, con la pregnanza simbolica che potrebbe derivare dalla partecipazione di detenute donne), e della replicabilità del modello in altri contesti (a livello regionale e nazionale)”. Nel suo videomessaggio, il Governatore Bonaccini esprime soddisfazione per un progetto di alto valore sociale che “fa molto Emilia Romagna”. “Ci impegneremo - afferma il Presidente della Regione - per strutturare ancora di più è meglio quello che la regione Emilia-Romagna può fare per supportare e sostenere gli imprenditori e gli operatori sociali che lavorano nel campo del reinserimento dei detenuti”. Lo stesso messaggio è stato trasferito al vasto pubblico dall’Assessore Colla che ha tratteggiato la genesi del progetto FID, sin dalle sue prime mosse nel 2012. L’assessore regionale ha sottolineato anche il tema dell’importanza dell’inclusione sociale, quale strumento di una convivenza più sicura e più giusta. Nei saluti conclusivi, il Presidente di FID Maurizio Marchesini ha delineato il programma futuro dell’impresa in carcere: “ora ci occuperemo di sciogliere i ‘nodi’ della seconda chance” ha affermato “moltiplicheremo le occasioni di collocamento dei nostri lavoratori FID, solleciteremo gli amministratori perché intervengano sul tema abitazione e sulla rete dei servizi, aumenteremo le occasioni di contatto con il mondo associativo presente sul territorio per favorire relazioni positive, promuoveremo percorsi di sostegno e di orientamento per bilanciare il comprensibile disorientamento di fronte alla riconquistata autonomia materiale, sociale e relazionale degli ex detenuti e ci adopereremo perché la società civile possa superare le barriere pregiudiziali che rinforzano il diffuso immaginario del carcere come luogo di esclusione e mera afflizione”. Sassari. La Garante dei detenuti in visita a Bancali: “Condizioni disastrose” ansa.it, 27 giugno 2023 “A Bancali le condizioni del carcere sono disastrose, e nel silenzio delle istituzioni”. E’ il commento della garante regionale per i detenuti, Irene Testa, che ha effettuato ieri un sopralluogo nel carcere sassarese. “Ci sono 17 detenuti in terapia antidepressiva, 66 in terapia con ansiolitici, 55 in terapia neuro antidepressiva, 10 in terapia con fiale e 18 tossicodipendenti in terapia sostitutiva. E tanti altri senza patologia conclamata ma con tratti disturbanti - racconta la garante - E poi esci dal carcere e pensi alle situazioni più gravi. Al detenuto che dice di aver scoperto le piramidi ma in carcere nessuno gli crede o il detenuto autolesionista che mi mostra i segni nelle braccia e nel petto completamente affettato. E poi ancora un altro che non sa che fine ha fatto il cane dopo il suo arresto e mi chiede di chiamare il padre per recuperare il cane dal canile”. “Di soggetti con personalità borderline e bipolari sono piene le celle. E un pensiero va oggi al personale, al direttore, a coloro che lavorano in queste condizioni - sottolinea Irene Testa - E fa rabbia l’indifferenza delle istituzioni ad ogni livello - prosegue la garante - che non garantiscono né il diritto alla salute di chi sconta una pena né condizioni di lavoro dignitose al personale costretto ad occuparsi di gestire condizioni estreme, difficili, a volte impossibili. Il Governo, il Ministro della giustizia devono affrontare con urgenza il problema dei malati psichiatrici in carcere. Si devono individuare strutture filtro che non siano carceri. Non serve a niente e a nessuno tenere questi malati nelle celle. Occorrono cure e strutture dedicate”. “In ultimo ma non meno grave è la questione del 41 bis. A Sassari - conclude la garante - sono 92 i detenuti in 41 bis e sul numero delle presenze occorrerà fare un serio ragionamento. Non si può avere la pretesa che la Sardegna diventi il luogo dove scaricare tutte le problematiche della penisola”. Milano. “Arresto illegale, pugni e falso”: il giudice condanna due poliziotti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 giugno 2023 I fermati, all’inizio puniti con sei mesi di condanna, ora risarciti con 11.000 euro. Pugni e manganelli immotivati come il loro arresto la notte tra l’8 e il 9 dicembre 2019 (la raccontavano così due peruviani), o due agenti aggrediti in un controllo nel giardino pubblico di piazza Gobetti (la raccontavano così i due poliziotti del commissariato Lambrate): ora, per questa vicenda in parte ripresa con il cellulare da un’amica dei due in un video trasmesso da “Le Iene”, dopo che nel luglio 2022 la Corte d’Appello aveva ribaltato l’iniziale condanna a 6 mesi e assolto dalla resistenza a pubblico ufficiale i due peruviani, ora si ribaltano i ruoli anche per i due poliziotti. E la giudice Ombretta Malatesta, su richiesta del pm Cristiana Roveda, li condanna - a 2 anni, e a 1 anno e 10 mesi - per “arresto illegale” di uno dei due peruviani; “lesioni” consistite nel fatto che, mentre un poliziotto dava a uno dei peruviani un violento spintone e poi quattro pugni a martello sul corpo al grido di “hai rotto il c…”, l’altro agente gli dava tre manganellate; e “falso ideologico” laddove nei verbali attestavano che “altri due cittadini presumibilmente sudamericani si aggiungevano ai tre che stavano giá aggredendo e ferendo gli operanti”, che “gli altri tre soggetti che erano con loro riuscivano a darsi alla fuga disperdendosi in direzioni opposte”, e che i due arrestati “non fornivano alcun difensore di fiducia” e anzi, “avvisati della facoltà di avvisare familiari o persone di fiducia, non manifestavano tale informazione”. Il nuovo legale di fiducia dei peruviani subentrato a quello d’ufficio, Rocco Paradisi, che per le parti civili ottiene 8.000 e 3.000 euro di danni non patrimoniali, e 5.000 euro di spese legali, lamenta tuttavia l’altro segmento di sentenza che - oltre a concedere agli imputati difesi dall’avvocato Fulvio Pellegrino attenuanti generiche, pena sospesa e non menzione - li ha assolti dall’arresto illegale limitatamente al secondo dei peruviani “perché il fatto non sussiste”; dalle lesioni limitatamente all’altro dei due “per non aver commesso il fatto”; dal falso nel verbale di perquisizione “perché il fatto non sussiste”; e da altre frasi negli atti “perché il fatto non costituisce reato”. “Dopo essere stato felice per l’assoluzione in Appello dei due peruviani accusati falsamente di resistenza a pubblico ufficiale solo per aver urinato per strada (questa è la verità), ora questo dispositivo mi lascia soddisfatto solo a metà”, commenta sino a ritenere che “ancora una volta il pregiudizio abbia avuto la meglio sulla verità”. Padova. Coppa Disciplina a Pallalpiede, la squadra dei detenuti del Due Palazzi lapiazzaweb.it, 27 giugno 2023 Per la settima volta la Coppa Disciplina. Un riconoscimento che va a premiare il comportamento di chi è sceso in campo, con sportività e lealtà. Pallalpiede, la squadra dei detenuti del Due Palazzi, ha vinto il premio disciplina, che viene dato alla squadra che colleziona meno cartellini, tra gialli e rossi, in una stagione. Alla consegna del trofeo a Mestre c’erano anche dei calciatori in permesso speciale, insieme alla presidente Lara Mottarlini, il dirigente Andrea Zangirolami e mister Fernando Badon. È stato il presidente della Figc Veneto a consegnare il trofeo alla squadra. La squadra - La squadra si chiama Pallalpiede e ha ripreso a giocare dopo due anni di stop imposti dal Covid19. Continua così la sua avventura, forte della conquista per tre anni consecutivi della Coppa Disciplina come squadra più corretta tra tutte le compagini di Terza Categoria padovana. Un progetto che da nove anni è attivo sul territorio grazie al supporto delle principali istituzioni - il Comune di Padova, la Direzione del Carcere “Due Palazzi” di Padova, la FIGC LND Comitato Regionale Veneto - degli sponsor come CMP e dei partner tecnici Macron e Fisioelan. L’ASD Polisportiva Pallalpiede è nata con l’obiettivo di promuovere lo sport come strumento rieducativo e di aggregazione sociale, tramite l’utilizzo del linguaggio internazionale e condiviso del calcio. L’idea del progetto è nata dalla volontà di creare un percorso di formazione all’interno del contesto carcerario per veicolare la promozione di stili di vita e di buone pratiche attraverso lo sport e l’attività motoria, che diventano in tal modo la base di un processo rieducativo volto a trasmettere ai detenuti i valori della solidarietà, della lealtà e del rispetto dell’altro. Attraverso lo sport quale linguaggio comune e unificante, il progetto è stato in grado di far nascere all’interno della Casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova una squadra di calcio di terza categoria, fuori classifica sì, ma formata da giocatori pronti a vincere, ognuno e insieme, il campionato della lealtà, dei valori e della condivisione sportiva. Alessandria. Cena in carcere con i piatti preparati da ex concorrenti di Masterchef di Adelia Pantano La Stampa, 27 giugno 2023 Sabato sera 24 giugno al luppoleto del carcere di San Michele di Alessandria l’evento “be(e) free”: in 400 si sono seduti ai tavoli. Immaginate di andare a cena, un sabato sera di inizio estate, tra i filari di un luppoleto e di essere tra le mura di un carcere. Abbandonate il telefono all’entrata, vi sedete e vi godete il servizio dei piatti. Preparazioni non qualunque ma “da masterchef”. Qualcuno ha già provato quell’emozione sabato sera, nel carcere di San Michele, ad Alessandria. In 400 hanno scoperto i “buoni frutti del carcere” serviti dai detenuti. Dopo il successo della prima edizione, anche quest’anno l’associazione carceraria “Idee in fuga”, che ad Alessandria si occupa e preoccupa di dare una nuova vita ai detenuti credendo fortemente nella loro possibilità di riscatto, ha organizzato la cena nel luppoleto del San Michele. Nome dell’evento “Be(e) free”, per essere liberi di realizzare una comunità miracolosa come quella creata dalle api. Al centro della cena i frutti del carcere, quelli che vengono coltivati nei terreni proprio dai detenuti. Gli stessi detenuti che sabato hanno servito ai tavoli i commensali. A cucinare le materie prime degli ospiti d’eccezione: i quattro chef di Masterchef Italia 2022 Lia Valetti, Mime Kataniwa, Bruno Tanzi e Pietro Adragna. Decine di tavoli tra il verde da cui nasce il luppolo, immersi tra le luci di lunghi tendoni quasi come in un mondo completamente estraneo dalla città: un’atmosfera che ha coinvolto tutti, commensali, detenuti e pure gli chef. “Entrare qui dentro - raccontano gli ex concorrenti del talent - è una continua emozione. Abbiamo avuto il magone ad attraversare quel cancello ma siamo rimasti sorpresi dell’eccellenza che abbiamo trovato. Abbiamo lavorato con tutti alla pari, eravamo una squadra ben assortita”. Chi ha avuto la fortuna di sedere tra quei tavoli ha visto anche il buono che c’è tra le mura del carcere. A servire i tavoli c’erano alcuni ragazzi che frequentano i corsi di formazione professionale dell’Enaip e otto detenuti che stanno scontando la loro pena e con “Idee in fuga” hanno deciso di imparare un mestiere per avere poi una seconda possibilità una volta tornati in libertà. Come Fulvio Buoncristiani che solo lo scorso anno, alla prima cena, era lì come detenuto e sabato ci è ritornato da uomo libero: prima alla cassa per registrare gli ospiti e poi a servire ai tavoli. “Al primo colloquio con l’associazione avevo detto di “no”. Avevo pensato di andare in Spagna una volta uscito da qua”, racconta. Poi è scattato qualcosa. “Mi sono reso conto - spiega - di avere tre scelte: continuare a essere un criminale, impazzire qui dentro o essere consapevole di quello che avevo fatto e riprendere in mano la mia vita”. E l’ha fatto. Ora lavora nel negozio “Fuga di Sapori”, punto vendita dei prodotti del carcere. “Avere avuto così tante persone significa avere la stima di tanti. La nostra sfida è creare sul territorio una rete virtuosa di microfiliere in cui lo scambio e la collaborazione arricchiscono il sistema penitenziario e la collettività”, ha commentato a fine serata Carmine Falanga, presidente di “Idee in fuga”. L’iniziativa ha avuto il patrocinio del Comune, dei Lions Club di Alessandria e soprattutto del Ministero attraverso la direttrice del carcere, Maria Isabella De Gennaro, arrivata poco più di un mese da qui in città. “Moralizzare” per procura. Storia dell’illusione giudiziaria italiana di Giovanni Belardelli Il Foglio, 27 giugno 2023 Rileggere “Il potere dei giudici” di Alessandro Pizzorno per capire la centralità delle norme giuridiche nelle società moderne. Così il “controllo della virtù” da parte della magistratura ha cambiato la storia del Paese. Nelle rievocazioni successive alla morte di Berlusconi hanno naturalmente avuto molto spazio le sue vicende giudiziarie, e dunque quell’espansione del potere della magistratura rispetto alla politica che ha caratterizzato l’ultimo trentennio italiano. È forse rimasto in ombra che il fenomeno della “giuridicizzazione della politica”, come è stato chiamato, è iniziato prima del 1994 e non ha caratterizzato soltanto l’Italia: è del 1995 un corposo volume intitolato “The Global Expansion of Judicial Power” (a cura di C. N. Tate e T. Vallinder, New York University Press), che nasceva da un convegno tenutosi in Italia nel 1992 (quasi un segno del destino, si direbbe col senno di poi) che si occupava di vari stati, europei e non. Soprattutto, però, non va dimenticato come il fenomeno di cui si sta dicendo corrispondesse, in Italia e nelle principali democrazie occidentali, a trasformazioni sociali e culturali profonde. Tra esse va ricordata in primo luogo la “resa delle autorità sociali alla legge”, come la definì Alessandro Pizzorno in un libretto del 1998 (“Il potere dei giudici”, Laterza) che andava decisamente contro l’orientamento prevalente nell’opinione pubblica post Tangentopoli e forse per questo non venne più ristampato. Nei paesi occidentali, vi si spiegava, erano a lungo esistite delle autorità sociali - insegnanti, medici, genitori ecc. - capaci di emanare delle norme e di farle rispettare. Il normale funzionamento della vita sociale era regolato in larga misura da questo meccanismo e il ricorso alla magistratura avveniva soltanto in casi particolari e non per le piccole controversie. Ebbene, spiegava Pizzorno, il quadro era poi radicalmente cambiato (e questa, si può aggiungere, era probabilmente una conseguenza inevitabile della democratizzazione delle nostre società, sempre meno disponibili a riconoscere le autorità tradizionali); per conseguenza si era verificata una sempre maggiore centralità delle norme giuridiche rispetto ad altri tipi di norme e regole: “Coloro che usavano essere soggetti alle varie autorità sociali e osservarne le norme […] sono ora in grado di citare in giudizio quella particolare autorità sociale, o decisione di essa, che lede i loro interessi, e lo fanno di più in più frequentemente”. Certi ricorsi al Tar di cui leggiamo ormai regolarmente, portati avanti da qualche genitore per difendere il figlio da una bocciatura o perfino dalle conseguenze di un’aggressione all’insegnante, rientrano perfettamente in questo fenomeno. In sostanza, l’estensione del potere giudiziario ad ambiti sempre maggiori della vita collettiva nasceva anche da una domanda di intervento che saliva dalla società. A essa si aggiungeva, soprattutto in Italia, una ulteriore richiesta di intervento di fronte a fenomeni di particolare allarme sociale, in primo luogo il terrorismo. A partire dagli anni Settanta la magistratura fu incaricata - dal mondo politico e dall’opinione pubblica - non soltanto di pronunciarsi sul singolo reato, accertando le responsabilità formulate a carico di ogni singolo imputato, bensì di affrontare e risolvere alla radice il problema del terrorismo (nasceva quello che Luciano Violante ha definito il “giudice di scopo”). Qualcosa di analogo si verificò nel caso di un altro fenomeno che destava diffuse preoccupazioni nel paese: la mafia. Come si capisce, il numero enorme di magistrati assassinati dalle organizzazioni terroristiche o dalla criminalità organizzata doveva accrescere il prestigio e il credito della magistratura, e il contemporaneo affidarsi a essa da parte della società con la richiesta di risolvere problemi che la politica sembrava incapace di affrontare sul serio. Ma anche la lotta alla corruzione vide crescere nel paese la richiesta di un intervento risolutivo della magistratura. Di fronte ad alcuni scandali degli anni Ottanta, e poi ancor più negli anni Novanta, l’opinione pubblica - se non tutta, una parte largamente maggioritaria - chiedeva al singolo magistrato, anzitutto della pubblica accusa, non tanto di pronunciarsi in relazione ai responsabili del singolo reato, ma di accertare se un reato fosse stato o meno commesso. Al potere giudiziario veniva assegnato - è ancora Pizzorno a usare l’espressione - il “controllo della virtù”, un controllo da esercitare in primo luogo sui politici ma anche sulla società nel suo complesso, con l’attiva collaborazione di gran parte della stampa. Certi comportamenti - l’arresto di un indagato per convincerlo a confessare, le intercettazioni “a strascico” finalizzate a scoprire nuovi reati, la pubblicazione sulla stampa di conversazioni penalmente non rilevanti ma utili a svelare comportamenti e costumi dei potenti - saranno pure da censurare (lo sono, eccome) ma risultavano e risultano perfettamente coerenti con la richiesta di moralizzazione che l’opinione pubblica ha incautamente rivolto alla magistratura. Aver pensato che un paese si potesse “moralizzare” per procura (nel doppio significato di affidare tale opera ad altri e di servirsi delle procure) era evidentemente illusorio. Ma è anche da questo tipo di richieste che origina l’”espansione del potere giudiziario” che ha caratterizzato gli ultimi decenni di storia italiana, prima ancora che si verificasse quell’entrata in politica di Berlusconi che - come è universalmente noto - doveva molto accentuare il fenomeno. Ti racconto il volontariato, la battaglia dei giovani contro le mafie e per i diritti di Paola D’Amico Corriere della Sera, 27 giugno 2023 Dal Piemonte alla Campania iniziative coordinate dal Csv per coinvolgere le nuove generazioni. L’antidoto all’indifferenza è il “fare”: a Cuneo organizzato un Salone per spiegare l’associazionismo. Giovani che parlano con altri giovani. È questo il miglior antidoto alla crisi del volontariato certificata dagli ultimi dati Istat alla base di molti progetti in corso nel nostro Paese, dal Nord al Sud. Lo stanno sperimentando per esempio a Cuneo, dove studenti neppure ventenni assieme al Csv locale (www.csvcuneo.it) hanno dato vita per il secondo anno consecutivo al “Salone del Volontariato”, rivestendo il ruolo di Ciceroni per far conoscere l’associazionismo locale. Oppure nella città metropolitana di Napoli grazie alla onlus “Sottoterra” (www.sottoterra.org), dove il protagonismo dei giovani attivisti è anche antidoto contro la cultura camorristica. Ed è così che, tornando in Piemonte, la sedicenne Anna Vignale a Mango, borgo sulle colline cuneensi noto per la produzione del vino Moscato, ha incontrato Gisella Alessandria, che di anni ne ha 69 ed è stata tra i promotori della associazione “Manganum”. Questa realtà fra le altre cose promuove il proprio territorio prendendosene cura e tiene vive le tradizioni e attraverso la cultura, il teatro e la musica; inoltre è riuscita nell’intento di integrare la popolazione immigrata: “Siamo nel regno dei vigneti, abbiamo moltissimi stranieri che prestano la loro mano d’opera, sono presenti 27 etnie, e oggi - racconta Gisella Alessandria - chi assiste alla nostra festa medievale e vede i piccoli tamburini e bambine e bambini sfilare in costume ne ha una prova”. Anna Vignale, arrivata qui da Alba dove vive e studia nell’ambito di uno scambio scuola-lavoro, ha conosciuto Manganum con l’obiettivo di rappresentarla al Salone del volontariato: “Questa estate tornerò a Mango come volontaria. So - dice - che è un impegno, vuole dire rinunciare ad altri passatempi meno impegnativi. Ma la passione di Gisella e i progetti di Manganum sono davvero coinvolgenti”. Tra i protagonisti e ideatori del Salone c’è Eliana Davila, 20 anni, che è anche una delle anime di “Wild Life Protection”, onlus di giovani che si occupa di ambiente: “L’evento ci ha permesso di entrare nelle scuole, far diventare protagonisti migliaia di ragazze e ragazzi - precisa - e molte realtà associative. Per la seconda edizione oltre che ad Alba, Cuneo e Brà siamo stati anche a Mondovì”. Massimo Maria Macagno, presidente del Csv Cuneo, conferma: “Volontariato e giovani è un binomio imprescindibile per dare una risposta alle tante fragilità della comunità. Lo abbiamo visto nel percorso di preparazione del Salone e nel suo svolgimento”. “Sottoterra” - In Campania, a Frattamaggiore (Na) c’è un progetto di scambio scuola-volontariato che è già arrivato alla sedicesima edizione e ha coinvolto anche quest’anno oltre 46 istituti scolastici e migliaia di ragazze e ragazzi. Lo raccontano con orgoglio Angelica Argentiere, 36 anni, che lavora come mediatrice interculturale ed è volontaria di “Sottoterra” da quando la onlus è nata, nel 2010, ma anche Ilaria Tremante e Salvatore Galdieri, laureandi rispettivamente in ingegneria aereospaziale e giurisprudenza che hanno conosciuto “Sottoterra” e il suo lavoro contro le mafie quando erano liceali: “Era il 2014 e io un adolescente, eppure è bastato - dice Salvatore - un campo estivo di otto giorni, ospiti di una villa confiscata alla mafia per capire quanto fosse costruttivo il lavoro del volontariato. Che da allora non ho più lasciato”. Droghe. Record di tossicodipendenti in carcere La Repubblica, 27 giugno 2023 I dati drammatici del “Libro bianco”: il 40,7% di chi entra in istituto fa uso di stupefacenti, un anno fa era il 30%. Il Libro bianco sulle droghe quest’anno ha come titolo: “La traversata del deserto”. Il libro bianco è un rapporto indipendente sul mondo del consumo, della tossicodipendenza e del narcotraffico che viene presentato ogni anno il 26 giugno, Giornata mondiale contro le droghe. Vengono analizzati gli effetti del Testo Unico sugli stupefacenti sul sistema penale, sui servizi, sulla salute delle persone che usano sostanze e sulla società. Il report è promosso, tra gli altri da Forum Droghe, Antigone, Cgil, Associazione Luca Coscioni. Droghe e carcere - Quest’anno il Libro Bianco pone grande attenzione al tema delle presenze in carcere per effetto della legge sulle droghe, una situazione oggi ormai intollerabile. Le soluzioni adombrate da esponenti governativi, come il sottosegretario Delmastro, appaiono un brusco ritorno al passato. Un ritorno a quelle comunità chiuse che si configurano più come detenzione appaltata al privato sociale che come reale risorsa alternativa per la risocializzazione e la salvaguardia della salute fisica e mentale della persona che fa uso di sostanze e si trova in carcere. Droghe e repressione - Dopo 32 anni di applicazione del Testo Unico sulle droghe Jervolino-Vassalli, i devastanti effetti penali (dell’articolo 73 in particolare, su produzione e detenzione di sostanze stupefacenti) sono sotto gli occhi di tutti. La legge sulle droghe continua a essere il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri. Basti pensare che in assenza di detenuti per articolo 73. o di quelli dichiarati tossicodipendenti, non vi sarebbe il problema del sovraffollamento carcerario, come indicato dalle simulazioni prodotte. Alcuni dati: 9.961 dei 38.125 ingressi in carcere nel 2022 sono stati causati dall’articolo 73 del testo unico, detenzione a fini di spaccio. Si tratta del 26,1% degli ingressi (era il 28,3% nel 2021). Sui 56.196 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2022 ben 12.147 lo erano a causa del solo articolo 73 del Testo unico. Altri 6.126 in associazione con l’articolo 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope). Si tratta del 34,3% del totale. Sostanzialmente il doppio della media europea (18%) e molto di più di quella mondiale (22%). Il 40% di chi è entra è tossicodipendente - Diventano catastrofici i dati sugli ingressi e le presenze di detenuti definiti “tossicodipendenti”: lo sono il 40,7% di coloro che entrano in carcere, mentre al 31/12/2022 erano presenti nelle carceri italiane 16.845 detenuti “certificati”, il 30% del totale (+10% sul 2021). Questa presenza record (dal 2006 ad oggi) è alimentata dal continuo ingresso in carcere di persone “tossicodipendenti”, che dopo i due anni di pandemia ha ripreso ad aumentare (+ 18,4% rispetto al 2021). La giustizia - I dati, fermi al 2021, raccontano un paese in cui le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione dell’articolo 73 e 74 sono rispettivamente 186.517 e 45.142. Da notare come secondo i dati assestati della relazione governativa 2020, 7 procedimenti su 10 per droghe termina con una condanna, confermando i dati presentati nelle precedenti edizioni di questo Libro Bianco. Segnalazioni e sanzioni - Si può però affermare che dal 2020 in poi, il numero di persone segnalate rimarrebbe piuttosto stabile, aggirandosi da tre anni sopra le 30mila. Il 38% delle segnalazioni finisce con una sanzione amministrativa, le più comuni la sospensione della patente (o il divieto di conseguirla) e del passaporto. Questo anche in assenza di un qualsiasi comportamento pericoloso messo in atto dalla persona sanzionata. La repressione si abbatte sui minori: più 33% quelli segnalati che entrano così in un percorso sanzionatorio stigmatizzante e alla fine dei conti desocializzante. Il 97,4% dei minori è segnalato per cannabis. Segnalazioni non terapeutiche - Risulta irrilevante la vocazione “terapeutica” della segnalazione al prefetto: solo 215 sono state sollecitate a presentare un programma di trattamento socio-sanitario; nel 2007 erano 3.008. Anche gli inviti a presentarsi al Serd sono in diminuzione (4.265). La repressione colpisce principalmente persone che usano cannabis (75,4%), seguono a distanza cocaina (18,1%) e eroina (4,2%) e, in maniera irrilevante, le altre sostanze. Dal 1990 oltre un milione di persone sono state segnalate per possesso di derivati della cannabis. Il report è curato anche da La Società della Ragione, Cgil, Cnca, Arci, Llila e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Gruppo Abele, Itardd ed Itanpud. Viene diffuso nell’ambito della campagna internazionale di mobilitazione “Support! don’t Punish” che chiede politiche sulle droghe rispettose dei diritti umani e delle evidenze scientifiche e che quest’anno coinvolgerà oltre 250 città in circa 100 paesi. Droghe. Meloni contestata alla Giornata contro la droga. E sbotta: “Non mi lascio intimidire” di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 27 giugno 2023 L’onorevole Riccardo Magi con un cartello antiproibizionista mentre parla la presidente del Consiglio, che replica: “Quello che accade con la droga tollerato e banalizzato, come se fosse una forma di libertà”. La premier Giorgia Meloni è diretta e decisa: “Le droghe fanno male tutte, non c’è differenza tra droghe pesanti e leggere”. Riccardo Magi, presidente +Europa, la contesta con veemenza. “Cannabis: se non ci pensa lo Stato, ci pensa la mafia”, il cartello esposto con un blitz nella saletta della Camera, lì dove lunedì c’è stato il convegno sulle droghe in occasione della giornata mondiale con la lotta agli stupefacenti. Ma la presidente del Consiglio ribatte prontamente: “Non mi farò intimidire, io so esattamente cosa sto facendo”. E ancora rivolta a Magi: “Lei dovrebbe ricordarsi che è grazie alle politiche che avete fatto se ci siamo ridotti così, guardi questi ragazzi. Avete organizzato per anni convegni che nessuno si è mai permesso di bloccare. Dovete accettare che c’è un altro governo eletto dagli italiani per fare esattamente quello che stiamo facendo”. I commessi sono intervenuti per togliere il cartello e Magi ha lasciato l’auletta del convegno. “Dire che ci sono droghe che possono essere usate è un inganno - è l’idea espressa dalla premier. . In uno spinello di oggi c’è una quantità di principio attivo enormemente più grande di quanto ce n’era in quelli di qualche decennio fa. Si può definire leggera qualcosa che ha il 78% del principio attivo?”. “Tutta la narrazione”, ha proseguito la presidente del Consiglio, “va in una direzione: film, serie televisive. Il messaggio è che la droga è anticonformista, non fa male, fa bene. Ci sono serie che raccontano le gesta di uno spacciatore sulle stesse piattaforme che facevano i documentari contro Vincenzo Muccioli”. Quello del governo contro la droga, ha detto ancora Meloni, “non vuol esser un approccio paternalistico, lo stato etico non c’entra niente. C’entra la responsabilità delle istituzioni, c’entra la solidarietà, la responsabilità di fare cose difficili se sono giuste, di andare contro corrente. Se non cambiamo l’approccio, tutte le leggi e i fondi non basteranno, serve un’altra narrazione sul piano educativo e culturale. È finita la stagione dell’indifferenza, del massimo, del disinteresse sulla droga”. Droghe. Magi: “Ipocrisia e fake news messinscena dell’esecutivo. Il proibizionismo ha fallito” di Giovanna Casadio La Repubblica, 27 giugno 2023 Il segretario di +Europa: “Nel mondo, dagli Usa alla Germania comincia una fase di antiproibizionismo. La destra italiana va in direzione opposta”. “A noi antiproibizionisti nessuno mette il bavaglio. Se l’interesse dello Stato è tutelare la salute dei cittadini e combattere efficacemente il traffico illegale, la via non è quella che vuole la destra che fa show e politiche sbagliate”. Riccardo Magi, segretario di +Europa, è reduce dallo scontro con Giorgia Meloni sulle droghe. Magi, si è presentato al convegno nell’auletta della Camera, mentre la premier Meloni parlava di lotta alla droga, con il cartello antiproibizionista “Cannabis, se non ci pensa lo Stato, ci pensa la mafia”. È scoppiata la bagarre... “Io ho assistito a due ore di kermesse governativa all’insegna dell’ipocrisia, delle fake news e dei sentimenti mielosi. Un appuntamento pop con tanti personaggi da Max Giusti al ct Roberto Mancini, e alla fine con gli interventi del sottosegretario Alfredo Mantovano, portabandiera del proibizionismo, e della premier Meloni. Davanti a un problema così serio, che va affrontato per quello che è, e cioè una grande questione sociale, contano i dati di realtà”. Quali sono i dati di realtà? “Il proibizionismo ha fallito. Ha riempito le carceri di detenuti per violazione della legge sulle droghe (sono il 34%, il doppio della media europea), ma i consumi continuano ad aumentare. Il mio cartello denunciava questo: se lo Stato insiste sui binari proibizionisti, addirittura volendo inasprire le pene, nei fatti è un alleato delle mafie”. Meloni l’ha accusata di volerla intimidire e ha ribadito che non si fa intimidire da nessuno... “lo sono un non violento e il mio obiettivo non è certo quello di intimidire qualcuno”. Però alla denuncia della premier sulle cattive politiche e pratiche antiproibizioniste, invitandola inoltre a guardare i risultati su ragazzi, lei cosa risponde? “Che è gravissimo l’uso della sofferenza e delle storie dei ragazzi. Quando, senza nessuna vergogna, si ripete che la cannabis è il primo passo verso l’uso di droghe pesanti, non si guardano neppure i numeri. Sono 6 milioni i consumatori di cannabis: quante nuove dipendenze da droghe pesanti dovremmo avere ogni anno, se quell’affermazione fosse vera? E’ come dire che coloro che hanno problemi di alcolismo, hanno iniziato con un bicchiere di vino, e allora si proibisca il vino”. Non è più stagione di antiproibizionismo? “Al contrario. In tutto il mondo, dagli Stati Uniti, al Canada alla Germania stessa, sta cominciando una fase storica di anti proibizionismo. In Germania il governo sta preparando una riforma per la legalizzazione della cannabis. È la destra italiana ad andare in direzione opposta”. Darete battaglia in Parlamento e nel Paese? “È necessaria prima di tutto una operazione verità: serve raccontare all’opinione pubblica quanta retorica e propaganda c’è nell’azione del governo. Pensiamo poi a referendum abrogativi di una parte delle norme sulle droghe e a leggi di iniziativa popolare. Per i referendum ci sono state difficoltà tecnico-giuridiche già due anni fa, che hanno visto la bocciatura dei quesiti da parte della Consulta. Inoltre alle Camere ci sono la legge che legalizza il commercio di cannabis e quella che depenalizza la coltivazione domestica di 4 piantine che si è fermata in aula nella passata legislatura per la caduta del governo Draghi”. Droghe. Coscioni: “Liberalizzare è il contrario di legalizzare” di Maria Berlinguer La Stampa, 27 giugno 2023 La vedova di Luca: “L’utilizzo di alcuni termini serve soltanto alla manipolazione delle persone”. Giorgia Meloni nella giornata mondiale contro le droghe ha attaccato a muso duro l’antiproibizionismo e ha redarguito +Europa e Riccardo Magi che ha esposto un cartello con “Se non ci pensa lo Stato ci pensa la mafia” con un “non ci faremo intimidire”. Parole respinte al mittente da Maria Antonietta Farina Coscioni, presidente Istituto Luca Coscioni e membro di Segreteria del Partito Radicale. Meloni dice “io non mi faccio intimidire”. Era questo lo scopo di Magi? “Non m’interessa qui, ora, dare una valutazione di quanto si sia sentita minacciata. A me interessano i dati e soprattutto i risultati da sempre evidenziati dal Partito Radicale. Dovrebbero interessare anche la presidente del Consiglio. Della “guerra alla droga”, le consiglierei di leggere il premio Nobel per l’economia Gary Becker che assieme al collega Kevin Murphy, ha scritto per il “Wall Street Journal” un piccolo saggio dove dimostra come gli esiti di questa guerra siano fallimentari e controproducenti. E inoltre rileggere quanto scriveva il premio Nobel Milton Friedman”. La premier ha detto che i risultati delle vostre battaglie li abbiamo sotto gli occhi, la situazione delle droghe è fuori controllo. È così? “Si potrebbe “incominciare” dal significato stesso della parola “droga”, come questo termine viene utilizzato. La parola è seria, le approssimazioni sono sempre da evitare. Ci si addentra in un terreno che è anche medico-scientifico, da tempo studiato. Cito solo due nomi: quello di un amico da tempo scomparso, i cui libri meritano ancora di essere letti, Giancarlo Arnao, e lo psichiatra Thomas Szasz. Letture da affiancare a uno studio prezioso, “Il governo della paura”, di Jonathan Simon, che esamina come la percezione della centralità del crimine nella vita sociale contribuisca a ridefinire i poteri del governo, il ruolo della famiglia e della scuola, la posizione dell’individuo nella società”. Le droghe fanno tutte male senza distinzioni. E l’alcol e il tabacco? “Prendiamo appunto il termine “dipendenza da sostanze”. Nell’accezione comune, viene associata a cocaina, eroina, droghe chimiche. Non ci viene davvero in mente che si possa essere tossico-dipendenti da alcol, da tabacco È “parola”, in questo specifico caso, associata a mancanza di conoscenza. Siamo quotidianamente bombardati da dati relativi ai danni che può provocare l’abuso di sostanze come cocaina ed eroina. Dei danni provocati dall’alcolismo se ne parla, sì, ma solo quando qualcuno si mette alla guida di un’auto e investe pedoni o altri automobilisti provocando disastri. Sui danni che possono provocare altre sostanze se assunte in dosi e quantità massicce si preferisce sorvolare”. Meloni dice: “Serve un’altra narrazione sul piano educativo e culturale. Basta con le serie tv che raccontano come un eroe uno spacciatore”... “È necessario prestare molta attenzione all’uso di certe parole, alla loro manipolazione. Dietro l’uso e la manipolazione di questo o quell’altro termine ci sono precise volontà politiche. Ci sono “fatti” concreti, che comportano scelte e conseguenze rilevanti. Va denunciata la grande confusione che si fa nell’uso dei termini “legalizzazione” e “liberalizzazione”. E poco importa se lo si fa per dolo o per colpa. Fatto è che si tende a equiparare i due termini, come se fossero “interscambiabili”. Sono al contrario due concetti diametralmente opposti. La liberalizzazione è connaturata con il regime proibizionista, nel senso che tutti sappiamo come la disponibilità di sostanze stupefacenti sia sostanzialmente “libera”, “incontrollata”, proprio perché il proibizionismo non “controlla”. È una grida manzoniana, retorica, inefficace, dannosa, perfino. “Legalizzazione” invece presuppone un regime di regole che si prefiggono appunto di “normare” una situazione, la “governano”. Droghe. Muccioli: “Condivido la stretta di Meloni, ma a patto che ci sia rieducazione” di Filippo Fiorini La Stampa, 27 giugno 2023 Il figlio del fondatore di San Patrignano: “Le serie Tv trasformano i disvalori in falsi modelli di successo”. Andrea Muccioli, 59 anni, figlio di Vincenzo Muccioli, cresciuto a San Patrignano, un nome che lo lega alla prima, più importante, amata oppure odiata, comunità di recupero per tossicodipendenti in Italia, un posto per cui si è speso e da cui si è allontanato definitivamente nel 2011, non ha visto il siparietto di ieri tra Meloni e Magi a Montecitorio. Come educatore, era “al lavoro” mentre la presidente del Consiglio annunciava una stretta nelle politiche contro gli stupefacenti dicendo “basta al lassismo” e l’onorevole di +Europa la contestava con un cartello antiproibizionista, con scritto: “Cannabis, se non ci pensa lo Stato, ci pensa la mafia”. Tuttavia, ha “sempre ben presente che il 26 giugno è la giornata mondiale contro le droghe”, si trova “fondamentalmente d’accordo” con quanto detto dalla premier, ma con un distinguo: “proibire, ok, ma anche rieducare. Sennò - spiega - è solo una foglia di fico per nascondere ciò che non vogliamo vedere”. Giorgia Meloni ha condannato l’uso di qualsiasi droga, le serie Tv che celebrano queste e chi le spaccia, poi, ha annunciato una stretta proibizionista. È d’accordo? “Su un piano di fondo, sì. Fare un’apologia di persone che devono il loro fascino e il loro successo al fatto di essere spacciatori, violenti o trafficanti di armi, non mi sembra un grande strumento educativo. Considerato il mondo in cui siamo, dove famiglia e scuola fanno già molta fatica ad educare, certo non per colpa dei ragazzi, ma per carenze del sistema. Dopodiché, dico anche che la proibizione non basta. Dopo una giusta sanzione, deve esserci una rieducazione, dove si viene accompagnati, instradati e motivati. Attualmente è molto carente. Sennò, il proibizionismo è solo una foglia di fico che copre ciò che non vogliamo vedere”. Non crede che l’arte descriva la realtà, piuttosto che crearla? Cioè, è sicuro che sia la serie Tv a indurre il giovane e non il contrario? “Non ho detto che le serie inducono il giovane, ma che non lo aiutano a rendersi conto del disvalore sociale, umano e morale dei fatti che narrano, nel momento in cui sono celebrati come qualcosa di positivo. Autori e produttori scelgono di dare un’immagine positiva dei criminali, perché sanno benissimo che il tessuto educativo della società è impalpabile, rovinato o addirittura inesistente. Da qui, i giovani sono più portati a perseguire vie di successo che abbiano come miraggio i soldi, le donne i viaggi e le belle macchine, più che a considerare il percorso necessario ad arrivarci. Il percorso è relativo ed è proprio questo relativismo morale che ci dovrebbe preoccupare”. E se dalla fiction si passa al documentario, come nella serie Sanpa, la critica resta? “Non solo resta, ma prende corpo e diventa sostanziale. Ho denunciato la rete e gli autori. Ora, mi aspetto giustizia nelle aule di tribunale”. Che cosa contesta? “Che in nessun modo, da nessuna testimonianza diretta, da nessuna prova di nessun tipo e da nessuna esperienza umana vissuta (e ho vissuto al fianco di mio padre per tutta la sua vita), risulta né che sia morto di Aids, né che sia stato omosessuale, né che fosse misogino. Certo, sono suo figlio ed è normale che ne difenda l’onorabilità e poi, certo, non c’è nulla di male nell’essere omosessuale, ma chiunque ami il giusto e il pulito, non può che indignarsi vedendolo accusato di utilizzare il suo ascendente nei confronti di ragazzi che aveva preso la responsabilità di salvare. Sarebbe criminale ed è molto grave”. Tornando alle droghe, se fossero legali e ci fosse una buona educazione sulle conseguenze, l’uso non rientrerebbe nel libero arbitrio? “Non è lo stesso. Se fumo 20 sigarette al giorno, non induco in me stesso un’alterazione psichica. Non mi sballo, per capirci. Se fumo una canna col 25% di Thc, tiro di coca, sniffo dell’eroina o prendo delle pasticche, mi provoco uno sballo e metto in pericolo me stesso e gli altri. Non riesco proprio a vederlo come un fatto positivo, mi dispiace”. Honduras. Dietro le sbarre un dramma femminile di Felipe Herrera-Espaliat L’Osservatore Romano, 27 giugno 2023 La violenta morte di 46 donne in un carcere dell’Honduras lo scorso martedì ha causato profondo dolore non sono alle loro famiglie, ma anche a Papa Francesco, che ha pregato per loro nell’Angelus domenicale. Alla stessa ora, anche le detenute del centro penitenziario femminile di Santiago del Cile hanno pregato per il loro riposo eterno. In un gesto di solidarietà, hanno acceso 46 candele nella loro cappella e hanno interceduto per le tante donne che, in Honduras, in Cile e nel resto dell’America Latina, muoiono come conseguenza della violenza nelle carceri o poco dopo esserne uscite. La preghiera è stata presieduta da suor Nelly León, religiosa del Buon Pastore e nota leader della pastorale carceraria femminile nel continente. Nei suoi oltre trent’anni da consacrata, ha visto la mancanza di dignità di cui sono vittime le donne private della libertà. È quanto ha spiegato a Papa Francesco durante la sua visita a quel carcere in Cile nel 2018, e oggi torna ad alzare la voce chiedendo un sistema penitenziario che consideri l’essenza femminile al momento di costruire centri di detenzione e che venga applicata la giustizia. Qual è la situazione dei centri di detenzione femminili in America Latina? In generale, sono in uno stato molto precario, al punto da far sentire che la pena, oltre alla privazione della libertà, è vivere in condizioni disumane. Tra l’altro, le carceri femminili sono state pensate per gli uomini e solo dopo sono state adattate alle donne. Non conosco centri di detenzione concepiti pensando alle donne. Quali sono i diritti delle donne lesi viste le condizioni carcerarie? Che cosa accade a quelle incinte? La prima violazione avviene nei tribunali, perché non guardano alle persone individualmente, ma come parte di un collettivo, senza vedere le loro storie di emarginazione, dove si trovano solitamente le cause del loro comportamento errato. Poi raramente si discerne dove ogni donna si potrebbe riabilitare meglio e non danneggiarsi di più. Inoltre la privazione della libertà implica una perdita totale di autonomia, perché dentro il carcere bisogna chiedere il permesso per tutto, e qualsiasi errore viene associato a una pena. Non c’è spazio per commettere errori. Riguardo alle donne incinte, il Cile ha aderito alla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, e per questo i bambini e le loro madri stanno in luoghi protetti, ma sempre all’interno del carcere. Stiamo tuttavia promuovendo una legge che consenta che una donna con un bambino piccolo non sconti la sua pena in un centro di detenzione. Purtroppo vediamo qui come la prima parola che un bambino impara non è mamma o papà, ma “cabo”, che è il nome delle guardie carcerarie. Quali fattori intervengono perché avvenga una tragedia come quella dell’Honduras? Purtroppo nelle carceri si riproducono i conflitti delle periferie delle grandi città. Quando i membri delle bande rivali di quartieri emarginati vengono mandati in prigione, lì si riorganizzano e agiscono in modo violento, e i sistemi penitenziari non sono in grado di controllare tutto questo. Così iniziano a nascere ostilità, scontri tra le bande, e accadono quelle risse che, come abbiamo visto in Honduras, sfuggono a ogni controllo. Se non c’è segmentazione della popolazione carceraria, non si riesce a isolare quelle bande, e così accadono queste grandi tragedie. Che cosa occorre fare per umanizzare i centri penitenziari femminili? Bisogna passare da una giustizia punitiva a una giustizia riparativa, che miri alla riabilitazione della persona. Inoltre i centri penitenziari devono essere più accoglienti, con spazi dignitosi per una convivenza fraterna. Noi donne abbiamo un modo d’essere, di pensare e di sentire diverso da quello degli uomini, e abbiamo bisogni diversi, che spesso non vengono soddisfatti. Oltre a ciò, è necessario che le detenute possano avere accesso a un accompagnamento pastorale, perché guardino nel proprio cuore e possano capire che cosa è successo nella loro vita che le ha portate a finire in carcere, e da lì incominciare a rialzarsi.