È grazie a Cospito se abbiamo finalmente messo in discussione il 41 bis di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 26 giugno 2023 In seguito al suo digiuno, sulle prime pagine dei giornali e in prima serata televisiva, è riuscita a intrufolarsi, pur tra le retoriche securitarie e le manifestazioni di fedeltà alla tortura di Stato, l’idea che non si combatte il crimine tenendo in isolamento l’individuo per ventidue ore al giorno, facendogli vedere il figlio un’ora al mese. Volutamente scrivo queste righe prima dell’emissione della sentenza nei confronti di Alfredo Cospito, attesa per il 26 giugno, quella posta a concludere il processo di appello che lo vede imputato per strage. Ne scrivo ora perché ciò che della vicenda di Cospito merita attenzione non riguarda i delitti di cui egli si è reso responsabile e che, in modo raccapricciante, ha ritenuto di rivendicare, bensì le parole che ha pronunciato contro il regime carcerario del 41 bis. Il “caso” di Cospito non stava in quei delitti, ma in quelle parole. E quelle, non ostante la censura che se ne è fatta, rimangono e rimarranno a prescindere dall’entità della condanna. Rimangono e rimarranno a disonore di una società che si vede rinfacciata da una prigione la propria inciviltà. Sono parole che più e meglio di quelle di chiunque altro hanno simultaneamente denunciato l’infamia di quel sistema afflittivo e la responsabilità di una classe politica che, nella soggezione alle fazioni reazionarie del potere giudiziario, l’ha introdotto e ne ha mantenuto il vigore contro ogni ragione giuridica e civile. Per quanto detestabile fosse l’opera di rivendicazione dei delitti che ha commesso, è grazie alla sua iniziativa di protesta se sulle prime pagine dei giornali e in prima serata televisiva è riuscita a intrufolarsi, pur tra le retoriche sicuritarie e le manifestazioni di fedeltà alla tortura di Stato, l’idea che non si combatte il crimine tenendo in isolamento il criminale per ventidue ore al giorno, facendogli vedere il figlio un’ora al mese, concedendogli cronometrati minuti d’aria in spazi che riterremmo insufficienti per un tacchino o un maiale, affidando all’amministrazione carceraria la decisione sui libri e sulle musiche consentite perché c’è caso che un testo garantista gli faccia venire brutte idee e una musica neo melodica potrebbe infiammargli l’anima (non sono storie, è successo davvero). Per quanto non si possa concedere nulla ai suoi vagheggiamenti eversivi, è ancora in forza delle iniziative di digiuno di quel detenuto - ovviamente oggetto di dileggio quando le interrompeva per disperazione, o perché intravedeva qualche possibilità di riscontro - se si sono manifestate in faccia al Paese, oscene come mai prima, l’istanza forcaiola e l’impostazione aguzzina finalmente libere di rivendicare che è giusto far soffrire quei carcerati siccome essi hanno fatto soffrire gli altri. Senza Alfredo Cospito sarebbe mancata alle curve del linciaggio e della giustizia inquisitoria l’occasione per strillare che chi contesta il 41 bis sta dalla parte della mafia e dei terroristi, la menzogna adoperata per giustificare il crimine di Stato che piega l’indole criminale con la purificazione dei corpi murati vivi. Una menzogna cui in modo salutare tutti hanno potuto assistere, vedendola magari vincente nel prevalere dei talk show togati e dei democratici editoriali a forma di cappio, ma in realtà completamente indifesa davanti all’evidenza che no, chi vuole l’abolizione di quel sistema non sta dalla parte dei mafiosi e dei terroristi: sta dalla parte dello Stato di diritto. Ora - è bene intendersi - non si può dire che la militanza carceraria di Alfredo Cospito riscatta il suo passato delittuoso, né appunto le dichiarazioni con cui lo ha rivendicato. Ma si deve dire che una più chiara voce di civiltà sull’ignominia di quell’organizzazione carceraria, sulle leggi che la prevedono e sui provvedimenti che ne fanno attuazione, è venuta da lui, da un criminale. Per questo abbiamo detto quando esplose il suo caso, e per questo ripetiamo ora, prima della sentenza e a prescindere dalla giustizia che essa disporrà: “Con Cospito, e contro lo Stato del 41 bis”. Giustizia, il ddl Nordio fermo al Mef: mancano i soldi per 250 Gip di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2023 Sul carcere preventivo decideranno tre giudici, non più uno. “Mi auguro che l’approvazione della riforma in Parlamento avvenga in tempi rapidi”, diceva il Guardasigilli Carlo Nordio il 15 giugno scorso nella conferenza stampa post-Consiglio dei ministri in cui era stato approvato il disegno di legge sulla Giustizia in onore di Silvio Berlusconi. Peccato che siano passati esattamente dieci giorni e il testo del ddl che abroga l’abuso d’ufficio, limita il traffico di influenze, prevede una stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni e alcuni paletti sulla custodia cautelare sia sparito dai radar. Il testo non è ancora arrivato al Quirinale e quindi nemmeno in Parlamento per l’inizio dell’iter: si è incagliato da oltre una settimana al ministero dell’Economia dove non è ancora stato bollinato. Il motivo è che i tecnici della Ragioneria generale dello Stato stanno cercando ancora le coperture finanziarie sull’unica norma che le richiede: quella secondo cui da qui a due anni si dovrebbero assumere 250 giudici in grado di poter concretizzare gli obiettivi della riforma. L’articolo 2 del ddl Nordio, infatti, dispone che la custodia cautelare in carcere non sarà più ordinata da un un solo giudice per le indagini preliminari (Gip) ma da un collegio di tre magistrati. Questi, inoltre, dovranno avvertire l’indagato “almeno entro cinque giorni” per interrogarlo prima di disporre il carcere. È stata la norma più discussa nelle ultime settimane al ministero della Giustizia. Gli alleati di maggioranza avevano chiesto al ministro Nordio di prevedere un meccanismo di assunzioni per rafforzare gli organici e non creare “buchi” nei Tribunali. Questo, come spiega la scheda tecnica allegata al ddl, è dovuto anche alla “incompatibilità dei tre giudici nelle fasi successive del processo”. Così, all’articolo 4, è stata prevista l’assunzione di 250 giudici e la riforma entrerà in vigore tra due anni. Problema: l’assunzione di 250 magistrati richiede stanziamenti significativi. Oltre al concorso servono i soldi per gli stipendi dei nuovi assunti. In particolare, come si legge nella scheda tecnica al disegno di legge, il ministero dell’Economia dovrà trovare un milione e mezzo per celebrare il concorso nel 2024, mentre ne serviranno 20 a partire dal 2025, cioè quando i giudici diventeranno di ruolo. Una volta entrata a regime, la riforma arriverà a costare 35 milioni l’anno. Tanti soldi che devono essere stanziati adesso per “bollinare” il disegno di legge. Alla fine i fondi saranno trovati e questo stride con le vere esigenze della Giustizia italiana: i ritardi cronici nel processo penale e civile sono dovuti ai “buchi” negli organici e all’età media alta dei magistrati senza il dovuto ricambio. Tutti problemi che non vengono risolti proprio per “mancanza di soldi”. Per assumere 250 gip invece si troveranno. Ad ogni modo il testo si è fermato da dieci giorni al Tesoro. Poi dovrà arrivare al Quirinale per la firma del Presidente della Repubblica e successivamente essere trasmesso in Parlamento: secondo un funzionario di governo, se tutto va bene, questo dovrebbe avvenire a metà settimana. A 15 giorni dall’approvazione in Consiglio dei ministri. Lo slittamento avrà effetti anche sui tempi della discussione della riforma Nordio in Parlamento. Una volta che il governo avrà deciso da quale Camera partirà l’iter del disegno di legge, comincerà la corsa contro il tempo (molto complicata) per approvarlo in prima lettura entro la pausa estiva di agosto. Anche per questo c’è uno scontro nella maggioranza su quale delle due ali del Parlamento scegliere. Si era parlato della Camera ma, visto l’ingolfamento per i decreti da convertire, avrebbe avuto la meglio il Senato. Questa scelta non piace a Forza Italia che non vuole affidare il primo passaggio parlamentare alla leghista Giulia Bongiorno che vuole stoppare gli assalti di FI e renziani su trojan e intercettazioni. Si deciderà dopo un colloquio tra Nordio e il ministro per i Rapporti col Parlamento Ciriani. Ucciso e dimenticato: Bruno Caccia, il giudice senza giustizia di Luca Benecchi Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2023 Sono passati quarant’anni dall’omicidio del Procuratore Capo della Repubblica di Torino, unico magistrato nella storia italiana assassinato dalla ‘Ndrangheta al nord. Ma la verità è emersa solo in parte. Bruno Caccia fu assassinato il 26 giugno 1983 mentre portava a passeggio il proprio cane. Venne affiancato da una macchina con due uomini a bordo che spararono numerosi colpi di arma da fuoco. Sono passati quarant’anni da quella notte, e la memoria collettiva ha quasi perso le tracce di quel magistrato torinese che negli anni di piombo era stato protagonista di tanti processi contro le Brigate Rosse. Difficile che qualcuno ne abbia un ricordo e ne restituisca i meriti. Sembra una di quelle storie che la Repubblica ha dimenticato e sepolto sotto migliaia di pagine di atti di processuali. Atti che non hanno mai spiegato il perché di quello che è accaduto. Nato a Cuneo il 16 novembre del 1917, Bruno Caccia fu nominato procuratore capo della Repubblica nel 1980. Secondo alcuni è morto perché era un uomo integerrimo, incorruttibile. Per il suo amico di sempre, il giudice Mauro Vaudano, fu ammazzato per quello che aveva fatto, per le inchieste che seguiva. Per altri ha invece semplicemente pagato per uno sgarbo fatto alla persona sbagliata. Depistaggi e lotta al terrorismo - A suo figlio, poche ore prima dell’assassinio, confidò: “Sta per succedere qualcosa di grosso”. Nessuno ha potuto capire a cosa si riferisse. Una cosa è certa, già pochi secondi dopo l’esecuzione sono cominciati i depistaggi. Uomo di destra, discuteva spesso con Gian Carlo Caselli e difendeva il ruolo del magistrato come presidio costituzionale super partes. Insieme, si può ben dire, hanno avuto il merito storico di portare il primo grande colpo dello Stato al terrorismo rosso. Sin da subito le indagini degli inquirenti presero la pista delle Brigate Rosse: appena mezz’ora dopo l’agguato, un uomo chiamò il centralino del quotidiano La Stampa: “Non capisco, stavo dormendo, è squillato il telefono. Un tale mi ha detto di avvertirvi subito e di dirvi che loro, le Brigate Rosse, hanno ucciso il dott. Bruno Caccia”. La ricerca di un movente credibile - Tuttavia quindici giorni dopo l’omicidio, l’11 luglio 1983, le Brigate Rosse negarono ufficialmente di essere autrici del delitto: “Con la morte di Bruno Caccia noi non c’entriamo - dichiarò il brigatista Francesco Piccioni leggendo un comunicato nell’aula del carcere Le Vallette -. Questo è un omicidio a cui purtroppo siamo estranei”. In effetti così è stato. Se un mandante credibile non è mai stato individuato, le sentenze dei tribunali non hanno trovato neppure un movente vagamente credibile. C’è però il nome di chi ha sparato, Rocco Schirripa. Lo avrebbe fatto su indicazione di Domenico Belfiore, esponente della criminalità calabrese che in quei tempi aveva già messo radici profonde nel Nord Italia. Erano gli anni in cui dilagavano i sequestri di persona. In giro c’erano un sacco di soldi da ripulire. La parola ‘Ndrangheta non era ancora così conosciuta e si può dire che proprio grazie al processo Caccia conquistò per la prima volta i titoli di quotidiani e telegiornali italiani. Nel podcast prodotto dal Sole 24 ore e da Radio 24 dal titolo: “Ucciso e dimenticato. La figlia del giudice Bruno Caccia racconta 40 anni senza giustizia”, Paola Caccia racconta come è cambiata la sua vita dal quel giorno. Racconta chi era suo padre, i sospetti e le piste investigative mai seriamente seguite. Ma anche come è riuscita a fare i conti con un dolore così grande. Come ha trovato la sua via di uscita. “Perché io non so niente di cosa è successo per ammazzarlo - ricostruisce nel podcast - ma so quello che è successo dopo. Vedendo quello che è successo dopo, ho capito che in tanti devono nascondere qualcosa di grosso. Perché se no per quarant’anni se ne sarebbe potuto parlare. Invece non se ne è potuto parlare. Ed è ancora così, perché purtroppo per questo io rompo ancora delle amicizie. C’è qualcosa di indicibile”. Il sacrificio dei giudici Bruno Caccia e Mario Amato ha restituito lo Stato alla gente di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2023 Tra il 1980 e il 1983 l’aria in Italia puzzava di polvere da sparo. Il livello di violenza politica con finalità terroristiche era ancora altissimo: sparavano tutti, i rossi, i neri, i mafiosi. A volte adoperando armi tanto simili da apparire proprio le stesse, ma in contesti ritenuti così distanti tra loro da far sembrare la coincidenza del tutto impossibile. Il 23 giugno del 1980 (anno terribile!), a Roma veniva assassinato il giudice Mario Amato. Ad assassinarlo un commando di NAR, benedetto dai soliti Fioravanti e Mambro. A sparare un colpo alla nuca del magistrato che stava aspettando il pullman per andare al lavoro fu Cavallini, a guidare la moto il complice Ciavardini. Sì, proprio lui, quel Luigi Ciavardini ricomparso in una fotografia che lo ritrae insieme all’on. Chiara Colosimo, attualmente presidente della Commissione parlamentare antimafia. Una fotografia che ha provocato la giusta ribellione di molti familiari delle vittime delle stragi, che proprio non possono perdonare alla Colosimo un atteggiamento così confidenziale da sembrare sintomatico o di grave ignoranza, o di ancor più grave compiacenza. Entrambe colpe comunque inescusabili in chi sieda su quella poltrona. Il giudice Amato a Roma stava indagando sull’eversione nera e la scia di sangue che aveva lasciato e in quella scia c’era anche il sangue del suo predecessore, il giudice Occorsio, ammazzato qualche anno prima dal camerata Concutelli, comandante di Ordine Nuovo. Il giudice Amato poco prima di essere ucciso era stato sentito dal Csm, dove aveva rappresentato non soltanto la pericolosità dell’eversione nera, ma anche la sua pervasività e i collegamenti con ambienti istituzionali importanti. Al Csm Amato denunciò pure la solitudine assoluta nella quale era costretto a muoversi, l’inadeguatezza dei mezzi, l’assenza di una seria azione da parte della Procura nel suo complesso. Soltanto nel 1981 la scoperta degli elenchi a Castiglion Fibocchi farà esplodere il bubbone piduista e si comincerà ad avere la misura della penetrazione di questa organizzazione criminale anti democratica nelle articolazioni dello Stato, Csm compreso. Due anni più tardi, a Torino, la notte del voto per le politiche del 1983, il 26 giugno, un commando di mafiosi ‘ndranghetisti colpiva a morte il Giudice Bruno Caccia, Procuratore della Repubblica, che aveva dato un impulso determinante all’azione penale sia contro il terrorismo rosso sia contro il crimine dei colletti bianchi, anche di stellette guarniti, come nel caso dello “scandalo petroli”. Probabilmente Caccia, visto il ruolo apicale ricoperto, non si sentì mai così solo come fu il giudice Amato, ma di certo dovette sentirsi in alcuni momenti quasi un alieno, considerato il tasso significativo di connivenze esistenti allora a Torino tra ambienti criminali e pezzi di istituzioni. Sicuramente un corpo estraneo che andava eliminato. L’omicidio di Bruno Caccia, nonostante gli sforzi titanici di investigatori, magistrati, avvocati e famigliari, viene attribuito processualmente solo alla ‘ndrangheta, in fortissima ascesa in quel periodo, dopo che la scena criminale era stata dominata dai mafiosi catanesi. Una conclusione che, pur rappresentando senz’altro una verità, è molto probabilmente soltanto un pezzo di verità, stante che l’analisi del contesto di quegli anni restituisce costantemente un intreccio perverso tra ambienti criminali mafiosi e terroristici ed ambienti massonici e istituzionali, intrecci in vario modo riconducibili alla strategia antidemocratica che puntava al mantenimento dello status quo. Caccia in questo senso farebbe due volte eccezione: unico magistrato assassinato dalla mafia nel nord Italia e unico ad essere ucciso, inaudita altera parte, soltanto dalla mafia, indispettita dalla sua intransigenza. Mi chiedo che valore abbiano ancora queste memorie oggi. Gian Carlo Caselli in una recente intervista concessa ad Elisa Chiari per Famiglia Cristiana, commentando i gravi fatti di Verona, mi ha offerto pur indirettamente una risposta: il sacrificio della vita di persone come Mario Amato o Bruno Caccia ha contribuito ad alimentare la credibilità dello Stato e quindi a salvare la democrazia: “Hanno compiuto una missione storica, restituire lo Stato alla gente”. Verrebbe da sottoscrivere questa riflessione, attribuendo a questa “missione storica” anche il merito di una sostanziale vittoria: la democrazia italiana in effetti ha tenuto, ha superato quelle prove terribili, sgominando tanto le organizzazioni terroristiche rosse quanto quelle nere, scoperchiando il pentolone mefitico della Loggia massonica Propaganda due, contrastando efficacemente le mafie e in particolare azzerando la Cosa Nostra guidata dai corleonesi. Insomma: il sacrificio di tanti servitori dello Stato avrebbe scatenato una forza inarrestabile tanto nelle istituzioni quanto nella società civile che ha saputo produrre il cambiamento. E in effetti dal 1994 la violenza politica sembra relegata ad episodi non rappresentativi di un ritorno al passato, anche se pur sempre drammatici e dolorosi (come gli omicidi D’Antona, Biagi, Petri). Mi verrebbe… se non fosse per una spiacevole sensazione. E cioè la sensazione che a pacificare il Paese dopo quei decenni di sangue e terrore non sia stata soltanto la capacità civica di reagire, ma anche una formidabile capacità camaleontica delle articolazioni più dotate di quegli intrecci, che hanno saputo chinare la testa, come giunchi al passare della tempesta, restando pronti a rialzarla alla prima occasione. Anche per questo resta grave, tra gli altri segni, quella fotografia che ritrae l’attuale presidente della Commissione parlamentare antimafia a braccetto e sorridente con chi, quella mattina del 23 giugno 1980, contribuiva a togliere la vita ad un bravo giudice, senza nemmeno guardarlo in faccia. *Attivista antimafia ed ex deputato Pd Taranto. Cufone si è suicidato: nessun dubbio della procura di Arcangelo Badolati Gazzetta del Sud, 26 giugno 2023 Francesco Cufone si è tolto la vita. Sulla fine del trentatreenne di Corigliano Rossano non ci sono dubbi: l’esame autoptico avrebbe escluso la presenza di segni di violenza sul corpo del detenuto trovato cadavere nella cella del carcere di Taranto dov’era recluso. L’uomo aveva reso dichiarazioni ai pubblici ministeri antimafia sui retroscena dell’omicidio di Pasquale Aquino compiuto da due killer in sella a biciclette lo scorso anno. Cufone aveva chiesto di essere interrogato in due diverse occasioni e i verbali con le sue dichiarazioni erano stati depositati agli atti d’inchiesta in occasione della formale chiusura delle indagini preliminari, diventando pubbliche. Il trentatreenne aveva poi sollecitato un nuovo interrogatorio durante il quale aveva sostanzialmente ritrattato tutto: il giorno dopo aver reso la ritrattazione, s’è impiccato. I magistrati della procura di Taranto hanno ricostruito le ultime ore di vita del detenuto calabrese attraverso l’acquisizione delle testimonianze rese dal personale della polizia penitenziaria e dei reclusi che si trovavano nello stesso braccio carcerario. La mattina in cui si è ucciso, Cufone avrebbe fatto una telefonata a un congiunto ma sui contenuti del colloquio non si conoscono particolari. Roma. Maxi rissa a Regina Coeli, scontro fra decine di detenuti di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 26 giugno 2023 Ad affrontarsi dopo giorni ad alta tensione sono stati i detenuti della III e della VI sezione. Sale la tensione nel carcere di Regina Coeli dopo che da mesi i sindacati della polizia penitenziaria denunciano aggressioni agli agenti, alcuni dei quali ricoverati in ospedale con parecchi giorni di prognosi. Domenica mattina una settantina di reclusi della III sezione si sono scontrati con altrettanti reclusi della VI usando anche armi improprie. Alla fine non è chiaro il bilancio dei feriti, ma l’intervento dei poliziotti, nessuno dei quali è dovuto ricorrere alle cure mediche, ha consentito di far rientrare i reclusi nelle loro celle senza ulteriori incidenti. “Nella mattina, dopo che ieri si erano avvertiti segni di tensione tra i detenuti ristretti nelle Sezioni III e VI, è scoppiato il finimondo - spiega Maurizio Somma, segretario nazionale per il Lazio del Sappe. Ieri i detenuti della III, tutti a torso nudo, non volevano rientrare nelle celle e solamente l’abilità persuasiva di un sovrintendente della polizia penitenziaria ha smorzato sul nasce l’alta tensione. Stamane, con la scusa di recarsi alla Santa Messa, che si teneva nella rotonda, i detenuti della III Sezione, complice anche il fatto che i Reparti sono completamente aperti per la folle scelta della vigilanza dinamica, sono partiti in massa, almeno una settantina, armati con bastoni e spranghe ricavate dagli oggetti presenti nelle celle, per aggredire i ristretti ospitati nella VI Sezione. Poteva essere una carneficina, tenuto conto che s’erano solo tre poliziotti lì in servizio che comunque hanno fatto veramente l’impossibile per tentare di fronteggiare i rivoltosi”. “I pochi detenuti del VI - sottolinea ancora il sindacalista - hanno chiamato i rinforzi ed un’altra sessantina di ristretti del loro Padiglione è accorso: i detenuti si sono picchiati violentemente, anche con le sedie di legno predisposte per seguire la Santa Messa, dando vita ad una maga rissa. Per fortuna, nessun poliziotto è rimasto coinvolto, contuso o ferito. Poi, con molte difficoltà, si è riusciti a separare e dividere i detenuti. Un lavoro, immane, per i poliziotti in servizio”. Somma denuncia ancora che “la cosa più grave che emerge da questa ennesima rissa è che nulla l’amministrazione riesce a porre in essere per eliminare queste lotte tra bande in cui potrebbe anche avere epiloghi peggiori. Ormai questi “giochi di potere” sono all’ordine del giorno, alla pari di luoghi malfamati come le banlieue francesi dove vige la legge della giungla. Tale situazione di immobilismo da parte dell’amministrazione penitenziaria sta mettendo a dura prova il lavoro della Penitenziaria, tanto che come Sappe e stiamo decidendo di dare vita a breve ad eclatanti azioni di protesta per manifestare il proprio disagio lavorativo”. Per Donato Capece, segretario generale del Sappe, “così non si può andare più avanti: è uno stillicidio continuo e quotidiano. In pratica, ogni giorno nelle carceri italiani succede qualcosa, ed è quasi diventato ordinario denunciare quel che accade tra le sbarre. Le carceri sono un colabrodo per le precise responsabilità di ha creduto che allargare a dismisura le maglie del trattamento a discapito della sicurezza interna ed in danno delle donne e degli uomini della Penitenziaria. Importante è però evidenziare che solamente l’intervento del personale è riuscito a riportare la calma a Regina Coeli. Diversi ristretti sono rimasti feriti e, fortunatamente, nessun agente ha riportato danni malgrado l’intervento sia avvenuto in un clima di guerriglia. Ovviamente tutto ciò si è potuto verificare grazie al regime “aperto” e solamente la prontezza e professionalità del personale intervenuto ha evitato un epilogo ben più drammatico”. “Ma ora - concludono dal sindacato - bisogna cambiare: basta vigilanza dinamica, regime e celle aperte in maniera indiscriminata. Servono punizioni efficaci a chi in carcere commette questi gravi atti di violenza. Tutto ciò si è potuto verificare grazie al regime “aperto” e solamente la prontezza e professionalità del personale intervenuto ha evitato un epilogo ben più drammatico”. Oristano. La Garante: “Saranno ridotte le videochiamate, passo indietro rispetto al periodo Covid” linkoristano.it, 26 giugno 2023 Irene Testa rende noti i dati aggiornati dell’istituto penitenziario oristanese. Saranno ridotte anche nel carcere di Massama le videochiamate tra i detenuti e i propri familiari. Così come le telefonate. Anche qui, dando seguito a una circolare del Dap, saranno preferiti i colloqui in presenza. Una scelta che viene contestata dalla Garante dei detenuti della Regione Sardegna, Irene Testa, che ieri ha visitato la struttura dell’Oristanese. “Una cosa non dovrebbe però escludere l’altra”, ha detto Testa. “Se nell’emergenza Covid si sono fatti passi avanti, oggi si rischia di tornare indietro”. “Nel carcere risultano presenti 255 detenuti di cui 93 lavoranti, 57 a rotazione”, informa la garante. “114 è il numero dei detenuti che studiano, in particolare Ragioneria e Artistico, 14 sono gli studenti universitari”. Non mancano le attività trattamentali. Le elenca la stessa Irene Testa: “Corso scacchi, Canto corale, Giardino sensoriale, Corso edilizia, Corso teatro, Corso lettura e Corso di joga”. “Anche qui come nelle altre strutture dell’isola”, conclude la garante dei detenuti della Regione Sardegna, “sono presenti detenuti con disagi psichici”. Avellino. La relazione annuale del Garante provinciale dei detenuti Carlo Mele corriereirpinia.it, 26 giugno 2023 Il 30 giugno alle ore 15,00, presso la Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, sarà presentata la relazione annuale del Garante Provinciale delle persone private della libertà personale, Carlo Mele. L’iniziativa, per la prima volta organizzata all’interno di un istituto penitenziario, sarà l’occasione per un confronto, alla presenza dei detenuti, delle autorità civili e religiose, dei diversi operatori penitenziari: educativa, sociale, militare e sanitaria, sulla funzione del garante e sulle diverse problematiche che hanno interessato le carceri irpine nel periodo dello scorso anno. Interverranno il Garante Provinciale delle persone private della libertà personale - Carlo Mele, il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Lucia Castellano, il Presidente della Provincia Rizieri Buonopane, il Vescovo della Diocesi di San Angelo dei L. - Conza - Nusco - Bisaccia, nonché referente regionale della Pastorale carceraria, Mons. Pasquale Cascio, la responsabile dell’Osservatorio carcere Campania UCPI, Giovanna Perna. È previsto l’intervento di un ospite della Casa. Carlo Mele ringrazia la direttrice della Casa di reclusione, Marianna Adanti, per la disponibilità e l’accoglienza. Prato. Un ciclo di seminari per gli studenti detenuti presso la Casa circondariale La Dogaia unifi.it, 26 giugno 2023 Prosegue l’impegno dell’Ateneo a favore degli studenti detenuti. Presso la casa circondariale La Dogaia di Prato è al via un ciclo di otto seminari tenuti da docenti Unifi provenienti da diversi settori disciplinari. Il primo appuntamento è venerdì 30 giugno. Marco Bontempi del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali terrà una lezione dal titolo “Dentro e fuori lo stigma: una lettura sociologica”; martedì 18 luglio Massimo Gulisano del Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica parlerà de “L’anatomia tra passato e futuro”. Il 5 settembre si parlerà di “Impresa sociale e impresa di comunità” con Pier Angelo Mori del Dipartimento di Scienze per l’Economia e l’Impresa; il 26 settembre sarà la volta di Irene Stolzi del Dipartimento di Scienze Giuridiche che affronterà il tema “La cittadinanza democratica: radici e prospettive”. “L’Impero romano e i barbari” è il titolo del seminario a cura di Giovanni Alberto Cecconi del Dipartimento di Lettere e Filosofia - Dilef in programma il 17 ottobre. L’attenzione si sposterà sulle tematiche ambientali nelle due occasioni successive grazie agli interventi di altrettanti docenti del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agrarie, Alimentari, Ambientali e Forestali: il 24 ottobre Maria Teresa Ceccherini terrà il seminario dal titolo “Il suolo, molti ne parlano, pochi lo conoscono” e il 14 novembre Daniele Penna parlerà di “Acqua, bosco e siccità”. Conclude la serie di incontri, il 19 dicembre, Maria Paola Monaco delegata della rettrice all’Inclusione e alla Diversità, che affronterà il tema “Lavoro e diritti”. Attualmente sono 28 gli studenti detenuti a Prato iscritti all’unità fiorentina del Polo Universitario Penitenziario. Genova. Plastic Free Day con Seconda Chance: detenuti e volontari ripuliscono i Righi genovaquotidiana.com, 26 giugno 2023 Alcuni detenuti del carcere di Marassi hanno partecipato all’iniziativa organizzata in cinque città. Nella nostra è stata ripulita l’area attorno al capolinea della funicolare del Righi. Grande successo del “Plastic Free day che ha visto alcuni detenuti del carcere di Marassi impegnati a ripulire una porzione del Parco del Peralto, Accompagnati dai volontari di Crivop, e col patrocinio di Seconda Chance, i detenuti in permesso premio al termine della sessione di lavorio sono stati accompagnati al Galata Museo del Mare e della Navigazione dove sono stati accolti e accompagnati in una lunga e interessante visita prima di essere ricondotti in carcere. Cinque città sono state lo scenario del nuovo appuntamento contro il degrado ambientale organizzato da “Seconda Chance”, associazione del terzo settore che fa da ponte tra carceri e aziende per creare opportunità di reinserimento, e “Plastic Free”, onlus impegnata dal 2019 nel contrastare l’inquinamento da plastica. Protagonisti sono stati i detenuti provenienti dalle carceri di Genova, Reggio Emilia, Firenze, Secondigliano e Cagliari impegnati stamattina nelle operazioni di bonifica delle aree degradate. Con loro, i tanti volontari dell’associazione ambientalista che li hanno guidati nella raccolta di plastica, rifiuti e mozziconi di sigarette. Inclusione, rieducazione, rispetto dell’ambiente e della legalità sono le parole chiave della partnership che ha già coinvolto quasi 50 detenuti nelle giornate ecologiche a Bologna, Priverno (Latina) e Palmi (Reggio Calabria). Acireale (Ct). “Sotto il vulcano”, reportage dal carcere minorile rai.it, 26 giugno 2023 La fortunata serie tv “Mare Fuori” ha esplorato con il linguaggio della finzione il mondo della devianza giovanile ambientando il suo racconto in un carcere minorile. Ma è possibile il recupero dei minorenni che hanno commesso reati? “Speciale Tg1”, in onda domenica 25 giugno alle 23.30 su Rai 1, è entrato nell’Ipm di Acireale, una struttura carceraria dove direttrice e comandante della polizia penitenziaria fanno il possibile - proprio come in Mare Fuori - per rispettare il principio costituzionale della pena finalizzata al recupero del detenuto. Il contesto in cui si muove il reportage è quello di Catania, la città “Sotto il vulcano” dove un adolescente su quattro non rispetta gli obblighi scolastici e formativi. Povertà educativa e devianza giovanile marciano di pari passo perché alle pendici dell’Etna la dispersione scolastica si concentra in particolar modo nelle aree controllate dalla criminalità organizzata dove gli adolescenti a spasso diventano manovalanza per pratiche illecite, in particolar modo spaccio di stupefacenti. Il reportage di Alessandro Gaeta per Speciale Tg1 racconta la storia di Giuseppe che ha trascorso un periodo di detenzione nell’Istituto Penale Minorile di Acireale e quella di Siria coinvolta dai genitori in un traffico di stupefacenti che su ordine del giudice è stata collocata in casa-famiglia. Grazie all’attivismo del presidente del Tribunale per i Minorenni, Catania è in prima linea nel contrasto a devianza e dispersione scolastica. Presso la Prefettura è stato attivato un Osservatorio a cui partecipano, tra gli altri, operatori del diritto e delle forze dell’ordine e i sociologi dell’Università di Catania. Purtroppo, la città etnea è diventata anche incubatrice di fenomeni di subcultura mafiosa come quella del cantante trap Niko Pandetta, nipote di un boss al 41 bis e adesso anche lui in carcere che con i suoi brani - visualizzati su internet da decine di milioni di utenti - esalta le attività criminali e sbeffeggia le forze dell’ordine. Il reportage “Sotto il vulcano” è di Alessandro Gaeta, montaggio di Marco Di Luise. Ricerche Giovanna Crispino. Gorizia. Ritorna il teatro in carcere, lo spettacolo ricordo di Roveredo di Timothy Dissegna ilgoriziano.it, 26 giugno 2023 Questa sera l’incontro con lo staff del carcere al Trgovski dom per conoscere la realtà da dentro. Giovedì lo spettacolo dei detenuti. Ritorna l’esperienza del teatro in carcere a Gorizia con Fierascena, che per il quarto anno organizza il festival di teatro e arte “Se io fossi Caino”. Un programma che partirà domani, lunedì 26 giugno, con l’unico incontro aperto liberamente al pubblico alle 18.30 in Trgovski dom. Ospite della serata sarà l’intero staff della casa circondariale di via Barzellini, con il titolo “Atti creativi-pensare il carcere oggi e domani”: il pubblico potrà dialogare con chi si occupa della macchina sociale e organizzativa. Ci saranno così Alberto Quagliotto, direttore della Casa circondariale; Guido Tipaldi, comandate della polizia penitenziaria; Margherita Venturoli, funzionario della professionalità giuridico-pedagogica; Fausta Favotti dell’Ufficio esecuzione penale esterna e Giacomo Coppola, psicologo e psicoteraputa in servizio presso la struttura. “Dopo quattro edizioni - spiega la direttrice artistica dalla kermesse Elisa Menon - abbiamo deciso di passare da un’informazione teorica a una più specifica, proprio sul carcere di Gorizia”. Una scelta di approfondire fatta anche in vista dei lavori che si faranno con la vicina ex scuola Pitteri e in ottica 2025, perché anche dentro la struttura si fa cultura. “Voglia che lo scambio sia efficace, non un qualcosa di generale” rimarca la direttrice. Altra novità sarà una due giorni di lezioni con sette persone che vengono dal mondo della formazione o del teatro, per insegnare loro come rapportarsi in questo mondo e con chi lo vive: “Sappiamo che c’è un pregiudizio o timore verso i carcerati ed ex ma non giudichiamo”. L’obiettivo è aiutare le persone ad andare oltre. Così come vuole fare lo spettacolo che sarà al centro della giornata di giovedì. Questa volta, ci saranno i testi di Pino Roveredo: lo scrittore triestino, scomparso lo scorso gennaio, era molto legato alla comunità carceraria essendo stato garante dei diritti dei detenuti nonché lui stesso in carcere. Chi ha preso parte al progetto, quindi, salirà sul palco giovedì alle 16 all’interno di via Barzellini: la regia sarà curata da Elisa Menon, anche lei in scena, insieme a Giulia Possamai e ai detenuti. Iscrizioni sold out. Ancora qui, venerdì alle 14.30 ci sarà “Cinema contro il muro”: gioco di parole per indicare una proiezione cinematografica aperta ai detenuti e al pubblico esterno. Il film prescelto per l’evento realizzato in collaborazione con il Kinemax di Gorizia è “Il Re di Staten Island”, commedia comica e profonda che racconta la storia di un giovane uomo alle prese con il trauma della perdita del padre e con la necessità di crescere e trovare la propria strada. Ridere insieme dunque e riflettere, per superare quello stesso muro sul quale la pellicola viene proiettata e condividere un’esperienza. Rimani sempre aggiornato sulle ultime notizie dal Territorio, iscriviti al nostro canale Telegram, seguici su Facebook o su Instagram! Per segnalazioni (anche Whatsapp e Telegram) la redazione de Il Goriziano è contattabile al +39 328 663 0311. La Costituzione da “completare” di Andrea Manzella Corriere della Sera, 26 giugno 2023 La questione della nostra forma di governo è stata lasciata dichiaratamente aperta dal 1948. Chiuderla significherebbe completare, piuttosto che riformare la Costituzione. Se, dopo 75 anni, è possibile riprendere il lavoro della Costituente, è perché l’arco parlamentare sembra finalmente coincidere con l’arco costituzionale, nella cornice dell’ordinamento europeo. “Completare” vuol dire innovare: ma lungo il tracciato d’allora che fu di sostanza e controllo parlamentare. Stabilità ed efficacia del governo devono perciò seguire senza strappi quella corsia. Fin dalle origini sappiamo che la posizione del presidente del Consiglio, per quanto ampia sia la sua maggioranza (e per quanto decisivi siano i suoi poteri, nel frattempo acquisiti nel sistema euro-nazionale) non è garantita da una base costituzionale contro le “degenerazioni” della politica di corto respiro. Restando nel sistema parlamentare, questa garanzia può costruirsi scrivendo in Costituzione che chi presiede il governo e ne indirizza l’azione debba essere eletto dal Parlamento a Camere riunite. Con il conseguente meccanismo della sfiducia costruttiva che, da un lato, è premessa di durata per i programmi di governo; dall’altro, assicura al Parlamento uno strumento non meramente demolitorio ma capace di dar vita, in caso di irreversibile crisi, a un’altra maggioranza. Una integrazione costituzionale, dunque, per favorire un “governo di legislatura”: coerente con i nostri impegni pluriennali europei. Si potrebbe far meglio con un “tipo di governo” a elezione diretta? No. I Costituenti esclusero esplicitamente il presidenzialismo con la motivazione che non avrebbe “risposto alle condizioni della società italiana”. Fu un criterio oggettivo, non ideologico. Prevalse la convinzione che l’elezione diretta del vertice del governo in una società politicamente frammentata - e in più divaricata dalla questione comunista - avrebbe provocato una irrimediabile frattura di legittimazione. Tutto è cambiato da allora, ma non il metodo di realismo politico da seguire nella scelta della forma di governo. Oggi le “condizioni” sociali a cui fattualmente guardare sono quelle di una società di individui isolati di massa. Una società sostanzialmente indifesa di fronte al populismo digitale, invadente secondo logiche avverse ai principi del pluralismo. Sarebbe fuori dal nostro tempo tapparsi nel recinto giuridico-formale, chiudendo gli occhi di fronte a minacce che segnano la fine delle illusioni sugli strumenti di democrazia diretta. La loro sostenibilità politica diminuisce fatalmente mano a mano che crescono le evidenze sulla vulnerabilità di una società atomizzata: nel gran vuoto della mediazione partitica di base. Non ci sarebbe quindi solo la scomposizione di un equilibrio costituzionale consolidato: quello che trova il suo ancoraggio nel ruolo del presidente della Repubblica, un ruolo non fatto esclusivamente di norme scritte. Il cuneo dell’elezione diretta, sia essa del vertice dello Stato sia essa del presidente del Consiglio, porterebbe nel cuore della nostra convivenza politica tutti i rischi sociali - anzi, già i guasti - cui la ragione del mondo sta cercando affannosamente di far fronte. Le incertezze della realtà richiedono semmai rimedi che vadano in senso opposto, cioè innovazioni nella rappresentatività, nella intermediazione, nei contrappesi, nelle “riserve” di minoranza: insomma, una aggiornata necessità di parlamentarismo. Il compito primario del costituzionalismo attuale è nella costruzione di argini contro i crescenti poteri di manipolazione dell’opinione pubblica. E questo compito non è in contrasto, ma complementare all’altro - irrinunciabile - di rafforzare l’azione di governo. Droghe. “La morte, poi la rinascita. Ma non sai mai se ce l’hai fatta davvero” di Luigi Alfonso vita.it, 26 giugno 2023 Antonio era dipendente dall’eroina. Ci racconta la sua storia: come aveva cominciato, come è riuscito a venirne fuori sino a rifarsi una vita. Oggi ha una bella famiglia e un lavoro, e cerca di far apprendere al figlio un corretto stile di vita. “È cambiato il mondo, ora puoi acquistare la droga su Internet. Ma non fatevi ingannare: se ne parla di meno sui giornali ma il fenomeno è in continua espansione. Le carceri sono piene di detenuti con reati legati allo spaccio” “Ogni tanto riaffiorano i ricordi. La ricerca spasmodica della droga, e prima ancora dei soldi per assicurarmi la dose giornaliera. L’abbruttimento che aveva comportato la dipendenza, poi la paura di non farcela e finalmente una luce, quella di una comunità tra le più consolidate in Sardegna. Lì è iniziata la mia risalita. Oggi sono un uomo diverso, ho messo su famiglia, ho un lavoro e sono sereno. Ma non mi sento del tutto libero, al sicuro: so bene che basta poco per ricadere in tentazione. Faccio gli scongiuri e spero di non cascarci mai più”. Antonio ha 44 anni. Originario di un paesino del Sulcis Iglesiente, vive a Cagliari. Ha avuto seri problemi di dipendenza tra i 16 e i 26 anni. Si concede alla nostra richiesta di intervista nella speranza che possa aiutare qualche giovane a uscirne sinché è in tempo. “Quando torno indietro nel tempo con i ricordi, provo un senso di paura e di fallimento”, racconta. “Ma anche la grande voglia di rinascere a vita nuova dopo aver toccato il fondo. In quegli anni assumevo soprattutto eroina, che davvero ti abbruttiva. Rispetto agli anni ‘70 e ‘80 c’era già una scelta più ampia, circolavano eroina, cocaina, hashish, marijuana, acidi, Lsd. Negli ultimi vent’anni le sostanze si sono moltiplicate: oggi trovi di tutto e dappertutto. C’è anche una maggiore diffusione nel territorio. Questo ha modificato pure l’iter di approccio alle sostanze e tutto ciò che ruota attorno a questo mondo. I ragazzi, le persone stesse che ne fanno uso, sono differenti: intanto si è abbassata l’età media di accesso alle droghe, e le dipendenze si sono allargate ad altri ambiti: giochi d’azzardo, alcolismo, videogiochi domestici. Ma c’è un altro aspetto che preoccupa: ora i dipendenti con problemi psichiatrici sono almeno l’80 per cento. Non che prima non ci fossero, ma i casi di doppia diagnosi sono molto più presenti che in passato”. “Io avevo cominciato un po’ a causa dei disagi legati alla mia famiglia e un po’ perché, con alcuni miei amici adolescenti, avevo seguito un gruppo di tossici più anziani, che avevano cominciato a farsi negli anni Ottanta. Ci sono cascati in tanti. Poi a 26 anni ho iniziato un percorso in una comunità di Casa Emmaus, durato poco meno di due anni. Sono entrato da sconfitto. Non posso dire di essere uscito da vincente, perché sarebbe eccessivo, però certamente con maggiore consapevolezza dei miei limiti e delle mie capacità. Questo sì. E ho scoperto una forza di volontà che prima reprimevo sempre, o la sostituivo con la droga. Sentivo la voglia di dimostrare a me stesso che potevo essere altro”. “Ai miei tempi dovevi per forza spostarti per andare nelle piazze di spaccio. Abitavo in un paese, dunque dovevo recarmi in città perché da noi non si trovava facilmente la droga, c’era un controllo sociale molto stretto. Adesso invece c’è Internet: conosco una persona, la cui dipendenza è nata nel periodo del Covid attraverso la rete, e con modiche cifre. Non deve neppure uscire di casa…”. “È cambiato il mondo, non solo quello delle dipendenze”, sottolinea Antonio. “Oggi non sarebbe possibile rubare un’autoradio da una vettura, perché non sono più estraibili, ma forse non si avverte neppure tale necessità. Ti puoi fare un po’ di soldi molto più facilmente. E i reati non mi sembrano diminuiti. Forse è soltanto cambiata un po’ la tipologia. Questo magari alla gente comune, distratta da altro, può far credere che il problema sia meno grave. Va poi detto che una dose di eroina o di crack costa dai 5 ai 10 euro, un tempo in proporzione occorreva molto di più (in certe zone si arrivava a sfiorare le 100mila lire). Ma i tribunali sono pieni di processi per reati legati in qualche modo al mondo delle dipendenze e dello spaccio. E anche le carceri ospitano tantissimi detenuti con problemi di dipendenze, spesso con reati legati a violenze in contesti familiari: quando devi procurarti i soldi, puoi perdere completamente la testa”. Antonio tira un lungo respiro, poi fa una riflessione: “In passato, diciamo sino a una decina di anni fa, se ne parlava di più. Oggi c’è una percezione distorta perché sui giornali compaiono poche notizie legate allo spaccio, ai furti commessi da persone con dipendenze. Non vorrei che si stesse abbassando la guardia. Si parla di altro, ed è un pericolo. Perché i nostri figli vivono nelle nostre case, eppure hanno disturbi alimentari o legati all’uso distorto dei videogiochi. La socialità è cambiata in peggio. Un tempo eravamo diversi: per forza di cose dovevo uscire, anche solo per cercare la dose. Insomma, ero costretto a stare in mezzo alla gente. Ora vedo molti adolescenti che passano intere giornate rinchiusi a casa, ipnotizzati da cellulari o videogiochi”. “Ho un figlio piccolo, non so ancora se quando sarà adolescente gli racconterò la mia vicenda. Ma ho già iniziato a indirizzarlo verso un certo stile di vita e di comportamento. Da genitore sto cercando di avere con lui un atteggiamento diverso rispetto a quello che avevano avuto mio padre e mia madre con me: parlo di disponibilità, dialogo, attenzioni, affettuosità. Mi ritaglio spesso momenti tutti per noi. Quando ero bambino era impensabile, perché le generazioni precedenti erano state educate in maniera più rigida. Con questo non mi sento di colpevolizzare i miei genitori, in fondo i miei nonni erano figli della guerra e hanno vissuto situazioni davvero difficili, perciò con i figli sono stati piuttosto severi. Erano tempi molto diversi. Ogni generazione ha i suoi problemi. Ma nel mio piccolo cerco almeno di essere un genitore diverso. Non dico migliore, semplicemente diverso. Spero che basti”. Dopo la marcia su Mosca serve un’idea per la pace di Paolo Mieli Corriere della Sera, 26 giugno 2023 Nei fatti la Nato ha smentito la teoria che la dava per disponibile a qualsiasi avventura pur di liberarsi di Putin. Ha cominciato lui la guerra, sarà lui a dover fare retromarcia. Qualcosa è cambiato con il tentativo golpista fallito di Evgenij Prigozhin. Radicalmente. Il despota Putin esce dalla prova apparentemente indebolito. Ma, almeno fino ad adesso, il suo sistema ha retto. Certo quelle immagini dei cittadini e dei militari di Rostov che solidarizzano con i rivoltosi della Wagner, accogliendoli e salutandoli tra abbracci e applausi, resteranno impresse nella memoria. Così come la foto di Prigozhin in amichevole conversazione con il viceministro russo della Difesa, cioè il numero due di quello Shoigu di cui il ribelle chiede da settimane la rimozione. E anche quelle della mancata resistenza alle truppe catilinarie che hanno “marciato” per centinaia di chilometri in direzione di Mosca con il dichiarato intento di espugnare il Cremlino. Fa davvero impressione il fatto che pochi giorni fa il Premio Nobel per la pace, Dmitrij Muratov, direttore di Novaja Gazeta, intervenendo al Global Media Forum di Bonn, sia stato in grado di prevedere quel che sarebbe accaduto. Pensava però, Muratov, che il colpo di Stato sarebbe avvenuto con l’instaurazione di un “nuovo tipo di giunta militare” ma “senza il rovesciamento del presidente in carica”. Un colpo di Stato “senza cambio di potere”. Vale a dire con il consenso di Putin. Invece quel consenso è mancato e l’iniziativa di Prigozhin è naufragata. Sorprendentemente il mondo intero, anche la parte che si dichiara nemica di Putin, ha assistito quasi con sollievo alla composizione (momentanea?) della crisi. Poche ore sono bastate a far decidere che lo statu quo era preferibile al trionfo di un sanguinoso avventuriero. Nonostante quell’avventuriero avesse concesso agli avversari dell’autocrate il riconoscimento che le motivazioni dell’attacco di un anno e quattro mesi fa all’Ucraina (la Nato che si predisponeva ad una “folle aggressione” alla Russia) erano nient’altro che “pretesti fasulli”, “inganni per l’opinione pubblica”. Un’ammissione rilevante da parte non già di un sodale di Navalny ma dell’uomo che per nove mesi ha combattuto la battaglia di Bakhmut ed evidentemente si è fatto un’idea del perché lui stesso era lì in Ucraina a guerreggiare. Ma nessun Paese della Nato, neanche i baltici e la Polonia, ha speso una parola a favore dell’iniziativa prigozhiniana. Tantomeno gli Stati Uniti, i quali hanno praticamente ammesso di essere stati a conoscenza da giorni delle intenzioni del ribelle. Nei fatti la Nato ha smentito la teoria che la dava per disponibile a qualsiasi avventura pur di liberarsi di Putin. E ha confermato che le armi a Zelensky sono state consegnate e a maggior ragione verranno date in futuro solo per consentire all’Ucraina di difendersi. Nient’altro. Putin ha cominciato questa guerra, sarà lui a dover fare marcia indietro per imboccare la via della pace. Curiosamente anche in questa occasione l’uomo forte del Cremlino ha evocato il 1917 e ha ribadito implicitamente il proprio disprezzo per Lenin e di considerarsi erede dello zar Nicola II piuttosto che, almeno in parte, di Stalin. Quel cenno al ‘17 contiene molte implicazioni. Nell’agosto di quell’anno (l’anno delle due rivoluzioni russe, quella di febbraio e quella di ottobre) il generale Kornilov tentò un colpo di Stato. Il momento era assai delicato dal momento che era in corso la Prima guerra mondiale in cui la Russia era schierata, nella Triplice intesa, al fianco di Francia e Inghilterra. Lavr Georgievic Kornilov, favorevole in primavera alla destituzione dello zar Nicola II, era stato nominato Comandante supremo delle forze armate. Chiedeva già ai primi di agosto leggi più dure, si allarmò quando i tedeschi occuparono Riga e, a quel punto, provò a conquistare tutto il potere al fine di riprendere energicamente la guerra contro la Germania. Il capo del governo Kerenskij decise a quel punto di destituirlo e per riuscire nell’intento fu costretto ad aprire ai bolscevichi di Lenin. Kornilov si rifugiò nella regione del Don dove diede vita alla prima Armata Bianca controrivoluzionaria. Trascorsero poche settimane e Lenin seppe approfittare di quel momento di destabilizzazione per disfarsi di Kerenskij (la “rivoluzione di ottobre”); il 3 marzo 1918 la Russia di Lenin firmò con gli Imperi centrali il trattato di Brest-Litovsk, e il 13 aprile riuscì a far uccidere Kornilov. Francia, Inghilterra avevano appoggiato Kornilov e questo, nei fatti, indebolì il capo delle forze armate agli occhi dei suoi connazionali. I quali in gran parte volevano farla finita con una guerra ormai - checché ne dica adesso Putin - irrimediabilmente persa (quantomeno per quel che riguardava la Russia). Ma soprattutto ritennero di aver individuato in Kornilov un “agente al servizio di interessi stranieri”. E - eccezion fatta per una parte della destra più reazionaria - non lo sostennero. L’orgoglio nazionalista prevalse su ogni altra considerazione e avvantaggiò i bolscevichi. Stavolta gli occidentali non hanno ripetuto l’errore. Nonostante alcuni liberali russi avessero inneggiato a Prigozhin fin dal mattino di sabato (“uno degli spettacoli più imbarazzanti di una giornata surreale”, ha scritto sulla Stampa Anna Zafesova, pur simpatizzando per i dissidenti), gli alleati di Zelenskij non hanno pronunciato una sola parola che tradisse simpatia per la marcia wagneriana su Mosca. Lo stesso esercito ucraino ha deciso di non impegnarsi in imprese militari che profittassero del disorientamento prodottosi tra le truppe nemiche. Si sono addirittura diffuse notizie - non smentite - su contatti tra i servizi segreti occidentali (preavvertiti dell’”intentona”) e quelli russi: il tutto finalizzato ad evitare che la Russia precipitasse nel caos. Il giorno forse non lontano in cui si raggiungerà un’intesa di pace saremo costretti a scoprire che la pietra fondamentale per quell’accordo è stata posta sabato 24 giugno 2023. I tentacoli della Wagner: la Compagnia non ha più un futuro in Russia di Francesca Mannocchi La Stampa, 26 giugno 2023 Ma lo Zar indebolito deve concederle nuovi spazi. Così continuerà a devastare gli Stati africani. Che il capo mercenario di Wagner Yevgeniy Prigozhin stesse pianificando un piano contro i vertici della difesa russa era noto all’intelligenze statunitense da alcune settimane secondo quanto riportava ieri il Washington Post. Particolari cominciano a emergere il giorno dopo l’azione di ieri, la presa senza feriti e resistenza di Rostov, la marcia su Voronezh, la risposta di Putin mentre gli uomini e i mezzi della milizia Wagner marciavano verso Mosca, prima della (ancora oscura) trattativa apparentemente mediata dal leader bielurusso Lukashenko, e il passo indietro di Prigozhin. Non erano certi tempi e modi - dicono sotto anonimato funzionari dei servizi segreti al giornale americano - ma era chiaro che il leader della Wagner stesse per rendere ancor più plateale il braccio di ferro avviato da mesi contro il Ministro della Difesa Shoigu e il capo dello stato maggiore Gerasimov. Quello che due giorni fa, in uno dei numerosi video pubblicati sui canali Telegram legati al gruppo, Prigozhin aveva definito come “l’inizio della guerra civile” è diventato in meno di 24 ore il segno della fragilità della tenuta del potere di Putin e un punto interrogativo sulle sorti del gruppo che si è titolato l’unica vittoria insieme significativa e simbolica degli ultimi mesi di guerra, la battaglia di Bakhmut. Nelle settimane di aspre battaglie, costate centinaia di vittime a russi e ucraini, Prighozin aveva reso la piccola città del Donbass, un tempo abitata da 70 mila persone e oggi ridotta a macerie disabitate, la parte per il tutto della sua scalata opposizione ai vertici militari. Voleva dimostrare di saper mietere conquiste, lente certo ma costanti, nell’unico fronte dove l’esercito di Kyiv non stava recuperando terreno. Dopo la straordinaria controffensiva del settembre scorso, per Prigozhin prendere Bakhmut, significava dire che i suoi uomini galeotti, mercenari, riuscivano dove l’esercito regolare stava fallendo. E riuscendoci avrebbe potuto alzare la posta in gioco di una guerra di potere che si muove intorno alla tenuta del capo. Prigozhin ha sostenuto di aver perso 20 mila uomini nei mesi di battaglia per Bakhmut, numeri altissimi, impossibili da verificare, ma che gli analisti militari ritengono verosimili. Era diventata una battaglia non più territoriale ma il terreno su cui giocare pesi e contrappesi, possibili alleati e detrattori di una lotta di potere interna alla Federazione Russa. Bakhmut era, cioè, la prova generale del futuro della guerra. Le tappe - Nei mesi della battaglia di Bakhmut, Prigozhin ha più volte lanciato anatemi contro i vertici della Difesa, lamentano che non inviassero gli equipaggiamenti e le munizioni necessarie e per questo aveva minacciato di ritirare del tutto i suoi uomini dal campo di battaglia, talvolta diffondendo video in cui mostrava i corpi dei mercenari morti, accatastati a terra alle sue spalle. Il dieci giugno scorso il presidente Putin ha chiesto alle forze autonome come la milizia Wagner - una ventina in Russia - di firmare un contratto che dal primo luglio le avrebbe poste di fatto sotto il controllo del Ministero della Difesa. La versione ufficiale era garantire ai mercenari gli stessi diritti e gli stessi benefici dei soldati regolari, assistenza pensionistica e sanitaria, ma era evidente che l’effetto sarebbe stato quello di commissariare le unità che sfuggivano al controllo di Shoigu e Gerasimov. Condizione inaccettabile per Prighozin che dei due era nemico giurato e che li aveva descritti come “nonni incapaci di ottenere vittorie in battaglia e padri di figli corrotti e inabili al fronte”: “Nessun combattente della Wagner è percorrerà di nuovo la via della vergogna. Perciò nessuno firmerà accordi” aveva detto, rispondendo agli ordini dei vertici militari. L’ipotesi che la sua milizia diventasse vassalla dei suoi avversari era inaccettabile, Prigozhin ha capito che stava per essere messo all’angolo. E un uomo sanguinario e ambizioso che sta per essere isolato, cioè che sa che può perdere tutto da un momento all’altro, diventa un uomo ancora più pericoloso. È lì che, probabilmente, ha cominciato a pianificare la sua azione militare, ambendo e sperando di ottenere la testa di Shoigu, e coincide che l’acquisizione delle informazioni da parte dell’intelligence americana. Gli scenari africani - Prigozhin è una creatura di Putin. Gli è stato permesso di reclutare galeotti, è stato l’uomo dei giochi sporchi, dalle interferenze nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016 con la sua cosiddetta struttura di troll alle guerre per procura combattute in Siria e in Africa. La Wagner faceva il lavoro sporco, Putin se ne lavava le mani perché ufficialmente non erano membri delle forze di sicurezza ufficiali. Oggi che Prigozhin ha negoziato attraverso la mediazione del presidente bielorusso Alexander Lukashenko e si avvia sulla strada dell’esilio resta l’istantanea della debolezza del capo e le domande aperte proprio sugli scenari internazionali in cui la Wagner ha preso piede per conto di Putin. Dal 2017 il gruppo - anzi, la vasta rete di imprese e gruppi mercenari che lo compone - agisce in diversi paesi africani, Repubblica Centrafricana, Mali, Mozambico, Sudan, Libia. Si stima a cinquemila il numero degli uomini di Prigozhin che operano nel continente africano. Con una mano offrono supporto militare, di sicurezza e di propaganda, con l’altra espande l’influenza di Mosca, promuovono gli interessi di politiche estera in Africa, facendo il lavoro sporco. Come macchiarsi di torture, esecuzioni extragiudiziali, è il caso dell’offensiva in Libia del 2019, dove le truppe Wagner a supporto del generale Haftar si sono macchiati di crimini di guerra di cui il Cremlino può non rispondere perché ufficialmente le truppe non dipendono dal ministero della Difesa. In cambio dei servizi offerti, hanno ottenuto in questi anni finanziamenti e concessione di risorse, tra cui miniere d’oro e diamanti, terre rare, uranio, litio, che hanno reso gli almeno tredici paesi in cui operano, il bancomat delle azioni militari del gruppo. Se è probabile che il gruppo Wagner venga smantellato in Russia, rimane da capire cosa sarà e come verrà gestita l’influenza che la milizia ha maturato in Africa. Putin ha tutto l’interessa a mantenere il controllo delle risorse guadagnate e mantenere salda l’influenza sui regimi e i governi che gli uomini di Prigozhin hanno sostenuto, resta da capire, però, a chi dovranno rispondere questi uomini e se lo faranno. La vulnerabilità di Putin, a 48 ore dall’entrata di Prigozhin a Rostov, è rappresentata da un uomo che è stato una sua emanazione, una sua creazione, il braccio armato del lavoro sporco in Russia e negli scenari internazionali in cui il presidente russo aveva ambizioni economiche e geopolitiche e su cui ha dimostrato di non avere controllo. L’immagine della colonna di mezzi che muove verso Mosca, percorrendo centinaia di chilometri incontrastata, resta una macchia nella tenuta del potere del capo. Quanto questa macchia si allargherà, e a quale prezzo interno e esterno sia sul fronte ucraino che su quello internazionale saranno le prossime settimane a rivelarlo e potrebbe essere di non facile gestione per lo zar sempre più debole. Pakistan. Le difficoltà degli afghani che cercano protezione, tra vessazioni e arresti arbitrari La Repubblica, 26 giugno 2023 Amnesty International denuncia l’atteggiamento di ostilità del governo pakistano nei confronti dei rifugiati afghani. Il ritorno al potere dei talebani nell’agosto 2021 ha spinto molti afghani a fuggire dal proprio paese per cercare protezione nel vicino Pakistan, dove però hanno trovato un’accoglienza tutt’altro che cordiale. Tra detenzioni illegittime e minacce di espulsione, gli afghani anche a Islamabad sono in pericolo. Le procedure per la registrazione richiedono molto tempo, i migranti possono restare nel Paese solo se in possesso della cosiddetta carta “PoR” - Proof of Registration - ma la gran parte degli afghani non riesce ad avere il permesso in tempi congrui, per cui molti di essi entrano regolarmente in Pakistan ma nell’attesa il visto scade e si ritrovano nel circolo vizioso della clandestinità. “È preoccupante che la situazione dei rifugiati afghani in Pakistan non riceva la dovuta attenzione internazionale. Non potendo tornare a casa o rimanere in Pakistan, si trovano in una situazione senza scampo. Il loro status giuridico ambiguo e le difficili procedure per l’asilo o il trasferimento in paesi terzi li hanno resi ancora più vulnerabili”, spiega Dinushika Dissanayake, vicedirettore regionale di Amnesty International per l’Asia meridionale. “Le nostre vite in Pakistan non sono vite”. Hussain, un ex dipendente del ministero dell’Interno in Afghanistan, nel 2022 è scappato con la sua famiglia in Pakistan, dove ha subito vessazioni di ogni tipo. Nel febbraio 2023 la polizia ha saccheggiato la sua casa a Islamabad, insieme ad altre abitazioni di famiglie afghane nello stesso quartiere. Hussain è stato ammanettato e portato alla stazione di polizia per l’interrogatorio. “Ci hanno preso passaporti e portafogli e ci hanno perquisito più volte. Hanno arrestato anche tanti di noi che avevano visti validi e si trovavano legalmente nel Paese”, ha detto. La mattina seguente è stato rilasciato dopo aver pagato una multa di 30 mila rupie, poco più di 90 euro. Cinque altri detenuti afgani intervistati da Amnesty International hanno vissuto incidenti simili e tutti sono stati costretti a pagare multe. “Le nostre vite in Pakistan non sono affatto vite”, ha raccontato Hussain. Vittime anche della burocrazia. Questi casi rappresentano solo un piccolo numero degli afghani che hanno chiesto asilo in Pakistan con l’obiettivo di costruirsi una nuova vita oppure trasferirsi in un paese terzo. Le minacce e le molestie che hanno subito sono state amplificate dai ritardi delle procedure di ricollocazione in paesi terzi e dai visti scaduti: un insieme di cause che li rende legalmente vulnerabili. I paesi che hanno offerto programmi di ricollocazione agli afghani perseguitati dai talebani sono gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito e la Germania. Ma attualmente questi stati non rilasciano visti in Afghanistan, anche perché non hanno rappresentanze diplomatiche. Rilasciare i permessi di soggiorno in Pakistan è una procedura lunga e complessa. Nell’ottobre 2022, per esempio, la Germania ha lanciato un programma per mettere in salvo circa mille afghani al mese, scelti tra coloro i quali erano a rischio di persecuzione in patria. Ma a giugno 2023 - scrive Amnesty citando fonti giornalistiche - in Germania non è arrivato neanche un afghano e molti di quelli ammessi al programma sono in Pakistan nell’attesa di ricevere il visto. Le tangenti. Gli afghani privi di documenti non possono lavorare per cui spesso finiscono nelle maglie delle attività al nero e dello sfruttamento. Senza una carta PoR o un visto non possono comprare schede SIM per i cellulari o aprire conti bancari, il che impedisce loro di ricevere denaro dai parenti. “Se non hai un visto non puoi neanche aspirare a un contratto di locazione legale, quindi per affittarci casa ci chiedono le tangenti”, racconta ancora Hussain. I rifugiati afghani detenuti, di recente, hanno detto di non avere avuto alcuna protezione legale durante la custodia della polizia. Tra le altre difficoltà che vivono sulla loro pelle c’è quella di non potere accedere all’assistenza sanitaria e all’istruzione per i propri figli: alcune scuole si rifiutano di accogliere i ragazzi afghani a causa dell’ambiguità loro status legale. Le donne e le ragazze in più subiscono la discriminazione di genere. Persecuzioni ovunque. “Gli afghani sono stati prima puniti dai talebani e ora sono penalizzati da complicati processi di registrazione, di asilo e di rilascio dei visti. La comunità internazionale non è riuscita a fornire una protezione adeguata a coloro che fuggono dalle persecuzioni in Afghanistan, in netto contrasto con le promesse iniziali fatte”, dice Dinushika Dissanayake. Secondo l’UNHCR in Pakistan ci sono più di 3,7 milioni di afghani, fuggiti dal Paese per ragioni sia economiche che politiche. Solo 1,4 milioni di essi è formalmente registrato. Honduras. 46 donne morte bruciate in un carcere in rivolta La Repubblica, 26 giugno 2023 È il quarto incidente mortale di massa del 2023 nelle carceri, il primo in un reclusorio femminile. Il dossier dell’ONG “Progettomondo”. La rivolta nel carcere di Támara, in Honduras, dove 46 donne sono morte durante gli scontri violentissimi fra le bande criminali “Barrio 18” e “Mara Salvatrucha”. La maggior parte delle detenute sono morte bruciate in un incendio e altre per ferite d’arma da fuoco. Il presidente Xiomara Castro ha licenziato il ministro della sicurezza, accusando le autorità carcerarie di “acquiescenza” nel corso dei disordini, attribuiti alle bande criminali, con numerosi referenti nelle prigioni del Paese centroamericano. Pamela Ruiz, esperta di una ONG transnazionale che svolge attività di ricerca in materia di conflitti violenti, Crisis Group, ha detto che è stato il quarto incidente di massa nelle carceri honduregne del 2003, ma il primo in un penitenziario femminile. Il tasso di omicidi più alto al mondo. Il presidente Castro ha ripristinato il controllo militare nei penitenziari, facendo un passo indietro rispetto alle promesse di mettere la polizia civile a capo del sistema penale. L’Honduras, in generale, è considerato un paese assai pericoloso e il tasso di omicidi è uno dei più elevati del mondo. La criminalità è legata all’azione delle ‘madras’, bande armate che gestiscono e controllano il traffico di stupefacenti e quello delle estorsioni di denaro. Gli attacchi a mano armata prendono di mira principalmente gli honduregni. Un aumento delle morti in carcere del 950%. Il sistema carcerario, com’è prevedibile del resto, non fa che riflettere il clima di diffusa violenza che c’è nella società. Le condizioni di sovraffollamento sono schiaccianti, raggiungendo tra il 250 e il 300%. Secondo un dossier dell’ONG Progettomondo, in Honduras il 2021 è stato uno degli anni più violenti, con un aumento del 950% delle morti violente nelle carceri rispetto agli anni precedenti e 38 assassinati, di cui 16 in centri per adolescenti. Progettomondo è attivo nel Paese con percorsi per il monitoraggio dei Diritti Umani e il contrasto alla tortura nelle carceri in Honduras e quest’anno - con la formula dei Corpi Civili di Pace - propone l’esperienza sul tema della giustizia sociale a quattro giovani maggiorenni che non abbiamo superato i 28 anni alla data di presentazione della domanda del prossimo 30 giugno. Alcuni indicatori. Ecco alcuni dati che rappresentano schematicamente la situazione nelle carceri del paese centroamericano: 1) - Appena il 5% di adolescenti che commettono reati minori in Honduras hanno accesso a mezzi extra-giudiziali e misure alternative alla reclusione 2) - Si sono verificati 38 di casi di morte in carcere in un anno, relativi agli episodi di violenza intra-carcere o di Stato. 3) - 53 organizzazioni della società civile fanno parte della Coalizione contro l’Impunità. 4) - Non esistono protocolli e norme per la ricezione di denunce elaborati e approvati. 5) - Non esistono curriculum didattici per la formazione sui diritti umani, sulla ricezione di denunce, attenzione ai casi di tortura convalidati con gli operatori di giustizia. 6) - Non esistono misure socio-educative alternative alla privazione della libertà con un servizio di accompagnamento strutturato. Congo. Tra i paria senza libertà e senza dignità di Padre Giovanni Pross* L’Unità, 26 giugno 2023 All’entrata del carcere di Kisangani, tra la prima e la seconda porta, alcune donne con qualche rametto di foglie di manioca, un po’ di arachidi, una stuoia, qualche pastiglia contro la malaria, un bicchiere di farina di manioca, stanno barattando con il personale di guardia il permesso di entrare. Immaginiamo un campo da calcio, con un hangar al centro per incontri e cerimonie religiose, o semplicemente per ripararsi dalla pioggia. I dormitori sono sei. Ci sono poi tre ambienti più chic, abitati da detenuti che si possono permettere di pagare il locale. Questi sono detti “evoluti”, mentre chi è più povero e si accontenta del dormitorio è chiamato “immondezzaio”. Cibo e medicine non esistono. Tutto viene da fuori, dalla famiglia, se ne ha la possibilità, o da gruppi di diverse Chiese. Questo non impedisce di vedere tanta solidarietà con chi non ha visite. Il destino di ognuno è legato a quanto la famiglia riesce a pagare perché un magistrato prenda in mano il tuo dossier. Tutti sono in attesa di giudizio. Coloro che sono condannati a molti anni di reclusione, vengono trasferiti in un altro carcere, Osio, a 15 km dalla città alla riva sinistra del fiume Congo. Ogni detenuto ha una cella con un letto in cemento (piccolo miglioramento in rapporto alla prigione centrale di Kisangani dove si dorme sul pavimento). Qui, i meno pericolosi possono uscire e lavorare un campo per un minimo di mais, di manioca, di olio di palma, per non morire di fame. Il serbatoio per l’acqua è ormai riempito di tanta sporcizia e l’acqua può venire solo dal rigagnolo che passa a qualche centinaio di metri dal carcere. Persone del villaggio o qualche detenuto più libero, possono prendere dell’acqua in taniche di plastica. Eppure, quando ogni quindici giorni passavo per portare qualcosa come il sapone, un sacco di fagioli e di riso e qualche medicina, trovavo sempre tanta riconoscenza. Trovavo lettere da portare alle famiglie e tante suppliche per avere il modo di accelerare l’uscita. Le celle sono 100. C’è poi una cella di punizione per coloro che tentano la fuga o creano disordine. Il personale del carcere non è pagato, e così gli agenti sfruttano le visite dei parenti per pagarsi il servizio. La disciplina all’interno è in mano ai banditi più temuti. In questo modo il personale non è coinvolto direttamente in situazioni di guerriglia interna. Molti sono i tentativi di fuga, quasi tutti finiscono male, perché all’interno ci sono elementi che prevengono il direttore su ciò che si trama. L’igiene lascia molto a desiderare. Fortunatamente il comitato della Croce Rossa Internazionale e Medici senza frontiere intervengono per trovare delle soluzioni a questo problema. Durante l’epidemia di colera, o quando qualcuno stava per morire con la quasi certezza che avesse l’AIDS, la direzione del carcere non permetteva ai detenuti ammalati di essere trasferiti all’ospedale generale. Questo, perché nessuna guardia carceraria era disposta ad andare all’ospedale con l’ammalato. Se infatti questo scappava, la colpa ricadeva unicamente su chi era stato messo di guardia. Il carcere (oltre alle donne e ai minori alloggiati dietro il carcere stesso) accoglie anche militari in attesa di giudizio, perché la cella del carcere militare è troppo piccola. Questo rende ancora più problematica la vita dei civili. Una piaga, che sembra tuttavia sempre meno presente, è costituita dal modo brutale e inumano di trasportare i detenuti da carceri di città lontane al carcere di Kisangani, capoluogo di regione. Con dei tondini per cemento da dieci legano i due piedi e le due mani così da impedire la fuga. Su dei camion e con strade impossibili, sono trasportati per più di 500 km. Il ferro logora e penetra nella carne dove i piedi e le mani sono serrati. All’arrivo a Kisangani si vedono solchi alle caviglie. Siccome il carcere non è dotato di mezzi per liberare questi poveracci, col permesso del direttore portavo il detenuto presso un meccanico per poter tagliare il ferro con la mola a disco. In RDC è ancora vigente la pena capitale, ma fortunatamente le ultime esecuzioni risalgono agli anni ‘70. Va detto che in ogni centro importante ci sono prigioni che ospitano la gente del posto. Il numero di carcerati aumenta velocemente. Anche qui, la vita e la salute degli ospiti dipendono da diverse Chiese, in particolare da quella cattolica, perché le missioni si trovano anche all’interno della foresta. In RDC il carcere è un mondo a parte, con le sue regole, la sua violenza, la sua gerarchia, ma anche con una certa solidarietà. È comunque certo che all’uscita il detenuto non è migliore di quando è entrato. *Già missionario dehoniano in Congo