Il populismo riempie le carceri di Angela Stella L’Unità, 25 giugno 2023 L’ultima relazione del garante Mauro Palma. Il mandato, prorogato di due anni, è scaduto. Presto sarà nominato il nuovo Collegio. Il presidente Palma si appresta a congedarsi mentre al governo c’è un partito come la Lega, che ha spesso annunciato di voler cancellare la fi gura del Garante. E mentre Fratelli d’Italia parla di modificare il reato di tortura. Quest’anno Mauro Palma ha illustrato per l’ultima volta la sua “Relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale”, essendo il suo mandato di sette anni già scaduto. Lo ha fatto mentre al Governo c’è un partito, la Lega, che negli anni ha più volte annunciato di voler cancellare la fi gura del Garante. Proprio per questo si attende con ansia da parte degli addetti ai lavori di conoscere i nomi che andranno a sostituire l’attuale Collegio, considerato che, come ha detto Palma, “è avviata la procedura per indicare un nuovo Collegio che prenderà il nostro posto e che garantirà la continuità, pur nelle differenze che il carattere e le culture di ognuno di noi può porre, del cammino avviato; proprio perché non si tratta di esprimere una posizione politica, bensì di adempiere a una funzione di garanzia. La politica aiuta, coopera, ma non detta regole alle Istituzioni di garanzia”. Nella Relazione Palma non ha potuto non guardare all’insieme del settennato, vedere da dove si era partiti e cosa è cambiato fi no ad ora, a cominciare dalle presenze in carcere: “Nella prima Relazione al Parlamento di questo Collegio abbiamo riferito il dato di 54653 persone detenute, presenti al 31 dicembre 2016. Con un aumento nei due anni precedenti, quando il numero complessivo era sceso a un livello inferiore di circa 2000 unità a seguito dei provvedimenti adottati dopo la sentenza pilota della Corte di Strasburgo nel caso Torreggiani e altri v. Italia. Il dato ha avuto negli anni successivi un’oscillazione, considerando la diminuzione risultante da provvedimenti adottati nel periodo dell’emergenza pandemica e la successiva ripresa di una tendenza al rialzo, quantunque meno importante di quanto si potesse supporre. Al primo giugno di quest’anno - quindici giorni fa - le persone detenute in carcere sono 57230; includono 2504 donne, mentre ne includevano 2285 sette anni fa”. Due dati indicano mutamenti, sostiene Palma: “la percentuale delle persone straniere in carcere è diminuita dal 34 al 31,2%; particolarmente diminuita - e questo è un dato positivo - è la percentuale di coloro che sono in carcere senza alcuna condanna definitiva, passando dal 35,2 al 26,1% nel corso di questi anni”. Resta “alto - ed è andato aumentando - il numero di persone ristrette in carcere per scontare condanne molto brevi: 1551 persone sono oggi in carcere per scontare una pena - non un residuo di pena - inferiore a un anno, altre 2785 una pena tra uno e due anni. È evidente che una struttura complessa quale è quella carceraria non è in grado di predisporre per loro alcun progetto di rieducazione perché il tempo stesso di conoscenza e valutazione iniziale supera a volte la durata della detenzione prevista”. Poi è toccato analizzare il triste fenomeno dei suicidi in carcere: “Oggi, il numero di persone detenute che hanno scelto di togliersi la vita è già salito a 29 con in più altri 12 decessi per cause da accertare - alcuni dei quali attendibilmente classificabili in futuro come suicidi - mentre scorre la ventitreesima settimana dell’anno”. Il Garante nazionale ha condotto un’analisi dettagliata degli 85 suicidi dello scorso anno: “ne emerge un quadro di incidenza indubbia della tensione che soprattutto nel periodo recente pervade gli Istituti, ne emerge l’incidenza dell’affollamento dei luoghi e della sua ricaduta sulle condizioni materiali e sulla spersonalizzazione soggettiva; ma soprattutto emerge un quadro di fragilità individuali che interroga noi - la società esterna, anche più che l’Amministrazione penitenziaria”. Secondo il Garante “dobbiamo riflettere, infatti, come un discorso pubblico sbilanciato sul versante populista e applicato all’ambito penale abbia portato in anni recenti all’estensione dell’area del controllo penale, pur in presenza della riduzione numerica dei reati più gravi”. Infatti gli omicidi volontari, per esempio, sono diminuiti nello stesso periodo del 25 percento, l’associazione mafiosa del 36 percento, le rapine del 33 percento”. Palma non ha mancato di soffermarsi anche sul tentativo di Fratelli d’Italia di voler indebolire se non proprio abolire il reato di tortura: “Certamente ogni tentativo di riportare tale gravissimo crimine compiuto da chi ha la responsabilità di persone affidate dalla collettività per l’esercizio di quella terribile potestà che è la privazione della libertà personale, a semplice aggravante di comuni reati di abuso o violenza non corrisponderebbe a quella civiltà giuridica che da Verri, Beccaria ai giorni nostri è carattere del nostro Paese”. Il Garante ha ricordato la ‘mattanza’ avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e le tre raccomandazione fatte per evitare il ripetersi di certi episodi: “la prima: la notifica riservata preventiva al Garante delle perquisizioni straordinarie generali - di un intera sezione, reparto o istituto - che si siano programmate; la seconda: l’estensione del sistema di videosorveglianza in tutti gli Istituti e del mantenimento delle immagini per un tempo compatibile con l’indagine di eventuali episodi successivamente riportati; la terza: la effettiva identificabilità degli strumenti di equipaggiamento indossati in situazione di particolare gravità in modo tale da permettere una completa indagine di possibili comportamenti perseguibili penalmente. Troppe archiviazioni si registrano in questi casi per l’impossibilità di identificare l’autore, laddove il doveroso e necessario equipaggiamento è divenuto, nei fatti, una sorta di camuffamento. La prima raccomandazione ha avuto una risposta immediatamente positiva da parte dell’Amministrazione; pure la seconda è stata positivamente accolta anche se tuttora è in corso, lento, di attuazione; la terza non è stata accolta”. Nel suo discorso si è soffermato anche sulla modifica della norma relativa all’ergastolo ostativo e sul 41 bis: in merito al primo “sarà la sua evoluzione in sede giurisprudenziale a chiarire l’effettività della risposta a quell’imperativo di impossibilità di una pena che non lasci margine effettivo e praticabile alla speranza”. Riguardo al secondo “è tempo di aprire un chiaro confronto sul regime speciale: sulla sua funzione necessaria per l’interruzione di connessioni, collegamenti e ordini tra le varie organizzazioni criminali, ma anche sulle sue regole, sulla sua attuale estensione numerica, sulla durata troppo spesso illimitata, che si perpetua non di rado fi no all’ultimo giorno di detenzione in caso di pene temporanee”. Un capitolo della Relazione è stato dedicato alla privazione della libertà dei migranti. “Credo - ha detto Palma - sia giunto anche il momento per l’Europa di interrogarsi su quella definizione di “immigrazione economica” che, svincolata dai contesti che determinano l’economia, finisce col respingere coloro che sono vittime di modelli di mercato di cui l’Europa stessa porta responsabilità. Solo il rischio di introduzione di elementi di criminalità rimane il parametro equo per una politica difensiva”. Un altro capitolo è stato incentrato sulla custodia delle Forze di Polizia: non si può evitare “di porre interrogativi sullo sconcerto che atti giudiziari, immagini, conversazioni intercettate pongono con forza, di tanto in tanto, relativamente a Corpi di Polizia diversi. E che di nuovo si sono riproposti in questi giorni. Non vi è alcuna necessità per il Garante nazionale tornare a sottolineare che tali gravissimi casi non sono rappresentativi della cultura generale delle Forze di Polizia del nostro Paese: tutti noi siamo consapevoli del livello di democrazia e della professionalità raggiunti in particolare in anni recenti. Tuttavia, sono indicativi di una cultura, non leggibile con il paradigma autoconsolatorio delle “mele marce”; una cultura che oggi alberga, minoritaria, ma esistente, in settori di operatori di Polizia, che percepiscono la persona fermata, arrestata o comunque detenuta, come nemico da sconfiggere e non come autore di reato a cui viene inflitta quella sanzione che la legge prevede e dei cui diritti si è responsabili nel momento in cui la si detiene”. Per quanto concerne le Rems “oltre alle 632 persone già accolte” “altre 675 sono in lista di attesa e di esse 42 illegalmente recluse all’interno di ben 25 carceri, senza titolo detentivo. Oltre a ciò, da più parti si levano denunce di difficoltà negli Istituti penitenziari relativamente a coloro che mostrano significativi problemi di natura comportamentale e anche di acclarato disturbo psichico non adeguatamente gestiti nelle cosiddette Articolazioni per la tutela della salute mentale presenti in taluni di essi”. “L’eredità che lasciamo? l’indipendenza. Nordio legga i nostri report sulle prigioni” di Angela Stella L’Unità, 25 giugno 2023 Quest’anno la consueta Relazione al Parlamento del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è stata quella conclusiva del mandato del primo Collegio (Presidente Mauro Palma, membri Daniela De Robert, Emilia Rossi). Cosa è accaduto in questi sette anni. Ne parliamo proprio con l’avvocata Emilia Rossi. Che bilancio fa di questi sette anni? Abbiamo costruito l’Autorità di Garanzia sia nei suoi statuti, sia selezionando e formando il personale, sia nella creazione dei suoi valori fondanti. Ma la cosa principale che abbiamo fatto è stata quella di aver costruito il metodo di azione di una Autorità di garanzia, che necessita di una assoluta indipendenza e autonomia dal potere politico. In cosa consiste questo metodo? Parte dall’osservazione concreta delle situazioni e finisce con l’interlocuzione con le autorità responsabili, in stretta cooperazione. Il Garante nazionale è innanzitutto un organismo di prevenzione delle possibili violazioni dei diritti delle persone private della libertà e a questo si è orientato il nostro lavoro, anche nell’interesse del Paese rispetto a possibili censure del nostro Paese da parte degli organi sovranazionali. Queste le fondamenta che abbiamo costruito e tutto questo lavoro ha fatto acquisire al Garante una autorevolezza tale da dare concretezza all’interlocuzione con le Istituzioni, che ci ascoltano, e di vedere recepite le nostre linee-guida, i nostri pareri, nelle pronunce delle più alte Corti di giustizia, la Corte costituzionale e la Cedu. Però c’è un periodo in cui la Lega voleva sopprimere la figura del Garante… Si è trattato di un dibattito politico, a cui una Autorità di garanzia rimane esterna. Noi non abbiamo avuto alcun tipo di ricadute nelle nostre interlocuzioni neanche con esponenti di questa o di altre forze politiche. Non ha percepito negativamente neanche che quest’anno alla presentazione della Relazione annuale mancassero i vertici delle Camere o i loro vice? La scomparsa di Silvio Berlusconi ha riscritto l’agenda parlamentare. Noi abbiamo potuto mantenere la data scelta dall’inizio ma lo slittamento di impegni parlamentari e di governo ha determinato alcune assenze. In ogni caso erano presenti parlamentari delle varie forze politiche, rappresentati dei ministeri e, soprattutto, c’era la Presidente della Corte Costituzionale, Silvana Sciarra: un segno di riconoscimento di altissimo rilievo. In questi sette anni cosa è cambiato in merito alle nostre carceri? Noi abbiamo mantenuta viva l’attenzione su un mondo che altrimenti poteva rimanere ai margini. Lo abbiamo portato all’attenzione della politica e di tutta la società civile, guardandolo dall’interno, con modalità e ampiezza di poteri di cui non dispone nessun’altra Istituzione dello Stato. Credo sia per questo che il magistrato Riccardo De Vito in un suo articolo pubblicato su Questione Giustizia, ha scritto che il Collegio “ha costruito un patrimonio indiscusso della Repubblica”. Sicuramente il nostro sguardo e l’ordine dei valori che abbiamo costruito hanno contribuito al cambiamento, anche a quello che ha determinato alcune riforme del sistema delle pene e della sua esecuzione, come le pene sostitutive, l’ampliamento delle misure alternative, i percorsi di giustizia riparativa. Però sono accaduti fatti come quelli di Santa Maria Capua Vetere. Il vostro sguardo ha mai dato fastidio alla polizia penitenziaria? No, mai. La polizia penitenziaria che abbiamo incontrato durante le nostre visite è stata collaborativa e partecipativa. E ci siamo dati il compito di costruire insieme una cultura pienamente rispettosa dei diritti delle persone private della libertà, anche partecipando alla formazione dei diversi corpi delle Forze di polizia. È chiaro che non si può immaginare che espressioni di una incultura antica scompaiano di colpo. La differenza, oggi, è che emergono subito, come è successo a Santa Maria, e che le Istituzioni, nel loro complesso, reagiscono. E che nei Tribunali si giudichino fatti come quelli di Santa Maria, di San Gimignano, di Torino, per citarne alcuni, nella loro effettiva dimensione, contestando il reato di tortura. Fratelli d’Italia vorrebbe modificarlo o addirittura cancellarlo… Io non ho ancora letto una proposta normativa, preferisco esprimermi quando c’è un testo. Certo è che il reato di tortura va mantenuto: è un caposaldo della civiltà dello stato di diritto perché riguarda i confini legittimi del potere più forte dello Stato nel rapporto con i cittadini e ne previene l’abuso nel momento nevralgico in cui lo Stato ha la persona nelle proprie mani. A proposito di persone di cui lo Stato ha responsabilità: i suicidi continuano. Dove si sbaglia? Gli 85 morti dello scorso anno e i 30 di quest’anno interrogano tutti. Premettendo che su una scelta così drammatica il giudizio di chi osserva da fuori deve essere molto cauto, la questione che interroga più di tutti sono quei suicidi che avvengono a poche ore o giorni dall’inizio della detenzione o a pochi giorni dalla fine della pena, magari lunga. Non dipendono dalle condizioni materiali del carcere: magari esse possono avere qualche incidenza su chi è entrato da poco ma non su chi vi ha vissuto a lungo, che ha toccato con mano il degrado anche per decenni. Queste morti ci danno la sensazione precisa dello sgomento di chi entra in carcere, di colui che ha la sensazione di essere finito in un buco nero e di essere lì abbandonato. E di chi sta per terminare di scontare la pena senza prospettive fuori da quelle mura, nell’assenza di riferimenti e sostegno. Rispetto a questi due momenti nessuno di noi è assolto. In sette anni avete costruito molto. La scelta del nuovo Collegio dovrà ricadere su persone all’altezza della vostra eredità… È importante, ma noi siamo convinti che accadrà, che il nuovo Collegio mantenga l’ordine dello sguardo sulle cose che raccontavo all’inizio e mantenga quella indipendenza e autonomia di azione cooperativa vigile e attenta che abbiamo costruito noi. Palma nell’illustrare la sua ultima Relazione al Parlamento ha detto: “è avviata la procedura per indicare un nuovo Collegio che prenderà il nostro posto e che garantirà la continuità, pur nelle differenze che il carattere e le culture di ognuno di noi può porre, del cammino avviato; proprio perché non si tratta di esprimere una posizione politica, bensì di adempiere a una funzione di garanzia. La politica aiuta, coopera, ma non detta regole alle Istituzioni di garanzia”. Lei teme che ci possano essere interferenze politiche comunque nella scelta? La politica nel nostro Paese interviene sempre, da qui la raccomandazione del Presidente Palma. Lei cosa consiglierebbe al Ministro della Giustizia in tema di esecuzione penale? Non amo dare consigli, in genere. Suggerirei, caso mai, di leggere le nostre Relazioni al Parlamento. Qualche settimana fa Riccardo Magi di +Europa ha convocato una conferenza stampa per denunciare l’abuso di psicofarmaci nel Cpr. Anche voi ne avete visitati molti… Grazie all’azione del Garante finalmente c’è un regolamento nazionale nei centri di rimpatrio. Detto questo, la società civile viene molto poco investita della situazione, anche perché il dibattito pubblico e politico sui migranti è molto tormentato. Quello che abbiamo messo in evidenza è che lì il tempo è assolutamente e inutilmente vuoto. “Seconda Chance” per i detenuti: ripulire le città dai rifiuti di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2023 Domenica 25 giugno in cinque città l’iniziativa della ong in collaborazione con l’associazione Plastic Free. Un lavoro per tornare alla normalità dopo il carcere. Riscatto che passa per formazione e istruzione, oltre che impegno in attività sociali. Dal mondo del volontariato e dalle istituzioni si alternano e moltiplicano le iniziative volte a dare una nuova possibilità a chi ha sbagliato cercando di attivare quel ponte che dal carcere arriva sino alle aziende e consente di avviare un percorso di reinserimento sociale. In questo contesto anche l’iniziativa che punta alla raccolta dei rifiuti abbandonati diventa un’occasione e un’opportunità irrinunciabile. La seconda possibilità - È lo spirito che anima l’iniziativa messa in campo (per domenica 25) dalle associazioni “Seconda chance”, associazione del terzo settore, e “Plastic Free”, impegnata per contrastare l’inquinamento da plastica, a Genova, Reggio Emilia, Firenze, Secondigliano e Cagliari. Obiettivo bonifica - Fine dell’iniziativa: bonificare le aree degradate con la raccolta di plastica, rifiuti e mozziconi di sigarette. Il tutto all’interno di un programma che mette assieme inclusione e rieducazione, rispetto dell’ambiente e della legalità. Spirito che in passato ha già visto partecipare più di 50 detenuti nelle giornate ecologiche che si sono svolte i a Bologna, Priverno (Latina) e Palmi (Reggio Calabria). Le iniziative del passato - Quella messa in campo dalle due associazioni non è che una delle iniziative che vengono portate avanti per cercare di favorire il reinserimento dei detenuti proprio nelle attività lavorative. Non a caso, da diverso tempo, le aziende che si occupano di Ict hanno siglato protocolli per l’inserimento delle persone detenute in programmi di lavoro, così come fatto dall’Anci e Ance. Uno stanziamento da 13 milioni - Non è comunque tutto, perché in viaggio ci sono anche altri provvedimenti e iniziative. È di venerdì 23 la comunicazione del ministero della Giustizia che ha dato il via libera a un decreto che stanzia 13 milioni di euro per il reinserimento dei detenuti “e per le attività organizzate negli istituti penitenziari destinate ad ampliare la formazione al lavoro”. Il decreto prevede 5 milioni di euro dedicati al reinserimento dei detenuti e dei condannati, anche mediante l’attivazione di percorsi di inclusione lavorativi e di formazione professionale, per la cura e assistenza sanitaria e psichiatrica, nonché per il recupero dei tossicodipendenti o assuntori abituali di sostanze stupefacenti, psicotrope o alcoliche. “Il provvedimento attiva una stretta collaborazione tra Amministrazione della Giustizia, Regioni, Enti territoriali e Terzo settore - fanno sapere dal ministero - per attuare un sistema integrato di interventi volto a rafforzare la sicurezza del Paese, attraverso l’inclusione sociale delle persone in esecuzione penale”. Sono stati, inoltre, stanziati 8 milioni di euro per gli istituti penitenziari per ampliare le opportunità di lavoro professionalizzanti per oltre 1.500 detenuti. L’accordo con il Cnel - Pochi giorni fa, inoltre, la firma di un accordo interistituzionale tra il ministero della Giustizia e il Cnel “volto alla promozione, con attività concrete, del lavoro e della formazione quale veicoli di reinserimento sociale per le persone private della libertà”. L’intesa, siglata dal Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e dal Presidente del Cnel, Renato Brunetta, come si legge, “promuove una collaborazione orientata a diffondere le condizioni per un lavoro penitenziario formativo e professionalizzante, finalizzato all’utilizzo proficuo del tempo della reclusione e all’accrescimento delle competenze personali dei soggetti reclusi”. La Cabina di regia - Previsto inoltre l’incremento dei percorsi di formazione anche universitaria e di riqualificazione professionale a favore dei detenuti e internati. E inoltre l’istituzione di una Cabina di regia con il fine di monitorare il perseguimento degli obiettivi indicati nell’accordo e informare periodicamente ministero e Cnel i risultati dell’attività svolta. Giustizia, la vera riforma è sui tempi di Stefano Passigli Corriere della Sera, 25 giugno 2023 Sarebbe stato lecito attendersi proposte volte ad affrontare il più rilevante difetto che affligge la nostra Giustizia: la perdurante lentezza dei processi. Da Carlo Nordio, magistrato prima ancora che uomo politico, era lecito attendersi una riforma che affrontasse il più rilevante difetto che affligge la nostra Giustizia: la perdurante lentezza del processo civile che tanto impatto negativo ha sulla attività economica, e del processo penale ove la prescrizione, lungi dal costituire una soluzione estrema al problema della durata dei procedimenti, è spesso adottata come strategia difensiva dagli accusati e dai loro difensori, e diviene perciò essa stessa fonte del prolungarsi del processo. Il guardasigilli Nordio, tradendo la sua formazione giuridica, non ha affrontato i grandi nodi del problema Giustizia che ne condizionano i tempi (prescrizione, revisione di molte norme sia sostantive che procedurali, accorpamento delle sedi giudiziarie, etc.), reiterando l’annuncio di voler in futuro introdurre la separazione delle carriere ma limitandosi nel presente a pochi e peraltro controversi provvedimenti. Il dibattito politico si è sostanzialmente concentrato sull’abolizione del reato di abuso d’ufficio, una proposta che ha diviso le opposizioni ma che certo è ben meno importante dei due aspetti più rilevanti e più negativi del progetto di riforma avanzato da Nordio: l’inappellabilità da parte dell’accusa delle sentenze di assoluzione in primo grado, e i limiti posti alla custodia cautelare e all’uso delle intercettazioni. Due aspetti su cui le opposizioni non hanno concentrato sufficientemente la loro attenzione, preferendo il ben meno rilevante tema dell’abuso d’ufficio. Nel primo caso la proposta di Nordio lede il principio costituzionale della parità tra accusa e difesa, che traduce nel giudizio il principio stesso di eguaglianza che è uno dei fondamenti della nostra Costituzione. La proposta di Nordio richiederebbe dunque una norma di revisione costituzionale di ben difficile approvazione. Nel secondo caso le proposte di Nordio configurano un obiettivo ostacolo alle indagini delle procure: come pensare che i limiti di tempo posti all’inizio della custodia cautelare non intralcino seriamente le indagini? Anche se la norma non dovesse applicarsi nel caso di pericolo di fuga, è indubbio che negli altri casi i giorni a disposizione degli indagati a piede libero si tradurrebbero in innumerevoli episodi di inquinamento delle prove, inquinamento che è oggi uno dei presupposti che permettono la custodia cautelare. Si ha l’impressione che l’intero impianto normativo che il guardasigilli vuole introdurre non sia destinato a rafforzare il garantismo, ma a rendere più difficile l’efficace perseguimento dei reati da parte delle procure. Siamo in presenza di una riforma tesa a difendere i cittadini dai soprusi di una giustizia eccessivamente inquisitoria, o siamo alla vendetta postuma nei confronti della magistratura requirente da parte di un segmento della classe politica? Il voler intestare la progettata riforma alla memoria di Silvio Berlusconi non aiuta un sereno esame delle norme che si vuole introdurre, e si aggiunge al sospetto che il magistrato Nordio voglia da ministro intestarsi una rivincita nei confronti dei suoi stessi ex colleghi. Privata di questi aspetti (inappellabilità delle sentenze di primo grado da parte dei pm; limiti posti alla custodia cautelare e all’utilizzo delle intercettazioni) la riforma Nordio è ben poca cosa, e soprattutto non aggredisce minimamente il principale problema della nostra giustizia: la lentezza del processo civile e penale. Anzi, destinando a un collegio anziché a un giudice monocratico la decisione in materia di arresto cautelare sottrae qualche centinaio di magistrati alla normale attività giurisdizionale. Infine, non intervenendo sull’ordinamento giudiziario - ad esempio accorpando i tribunali minori - non contribuisce minimamente alle carenze di organico. In conclusione, una riforma che appare “vendicativa” piuttosto che migliorativa dei problemi della giustizia. Una riforma più frutto delle tensioni del passato che di una serena valutazione delle necessità del futuro. Nessuna impunità, è solo garantismo di Francesco Saverio Marini* L’Espresso, 25 giugno 2023 Molte sono le norme contenute nel disegno di legge in materia di giustizia approvato nei giorni scorsi dal Consiglio dei ministri: dal divieto di pubblicare le intercettazioni degli indagati agli avvisi di garanzia “parlanti”; dall’abrogazione dell’abuso d’ufficio alle modifiche relative al traffico di influenze; dalle garanzie relative alla custodia cautelare alle limitazioni al potere di appellare le sentenze di assoluzione. Tutte misure che sono caratterizzate da un tratto comune, quello di fondarsi su un approccio autenticamente garantistico, teso a incrementare la tutela dell’indagato e dell’incolpato fino all’eventuale definitiva condanna. Ciò vale anzitutto nella fase in cui si compie l’atto illecito, nella quale il soggetto deve essere messo nella condizione di essere consapevole dell’illiceità della sua condotta: da qui l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la limitazione del traffico di influenze, cioè di due fattispecie illecite molto generiche. Poi nella fase di avvio delle indagini, con l’introduzione dell’avviso di garanzia “parlante”, in modo da mettere subito a conoscenza dell’indagato una descrizione sommaria del fatto su cui si indaga. Quindi, nella fase dell’applicazione delle misure cautelari, nella quale viene introdotta la garanzia di essere previamente ascoltato e di essere giudicato da un collegio e non da un singolo magistrato. Ancora, nelle successive fasi processuali, nelle quali si cerca di evitare la condanna mediatici, limitando la pubblicazione delle intercettazioni a tutela soprattutto delle persone non interessate dalle indagini. Infine, nella fase dell’impugnazione, escludendo l’appellabilità per i reati meno gravi. Indipendentemente dalla condivisibilità delle singole misure, sulle quali si dovrà esprimere il Parlamento, quello che merita di essere sottolineato è l’ideologia di fondo che connota l’iniziativa governativa. Con il disegno di legge presentato dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, infatti, può individuarsi per il governo di Giorgia Meloni il momento inaugurale della concretizzazione di quella rivoluzione liberale e garantistica che rappresenta uno dei leitmotiv della politica di centrodestra e che trova le sue radici già nel momento genetico della coalizione, ossia nel successo politico che ha connotato la discesa in campo nel 1994 di Silvio Berlusconi e la creazione di Forza Italia. Sono noti e sin troppo analizzati i motivi che hanno in passato ostacolato alle maggioranze parlamentari di centrodestra nel realizzare compitamente questo obiettivo. Il primo fra tutti quello squilibrio istituzionale, nella dialettica tra magistratura e politica, che è stato uno dei prodotti più dannosi della patologica diffusione del finanziamento illecito ai partiti e della connessa e conseguente sovraesposizione mediatica che ha accompagnato l’indagine di “Mani pulite” e che ha finito per condizionare i rapporti tra giudici e organi democratici. Squilibrio che ha trovato il suo acme nella modifica dell’articolo 68 della Costituzione e nel sostanziale superamento delle immunità legate alla carica di deputato e di senatore, residuando solo quelle connesse al concreto ed episodico esercizio delle funzioni parlamentari. È evidente, infatti, e non contestabile che qualsiasi proposta in ambito giudiziario riconducibile, direttamente o indirettamente, al centrodestra è stata guardata con sospetto, anche in relazione a un attivismo delle procure nei confronti di Berlusconi, che si è rivelato tanto intenso, quanto anomalo. Si è creata, cioè, una dinamica perversa nella quale ogni modifica a carattere garantistico non è stata interpretata come un ampliamento dei diritti dell’incolpato o del soggetto sottoposto a indagini, ma come una forma limitativa dei poteri della magistratura o addirittura elusiva di attività processuali già in corso. Insomma, la soppressione delle immunità parlamentari e il tentativo da parte di molte procure di eguagliare il successo mediatico delle indagini di “Mani pulite” hanno prodotto, oggettivamente, delle condizioni politiche che rendevano in passato estremamente complessi e divisivi tutti i tentativi di riforma della giustizia. La proposta del governo oggi ha, invece, la forza di una “spersonalizzazione” del tema, che trova riscontro in un atteggiamento più dialogante, e in alcuni casi addirittura convintamente adesivo, di una parte delle forze di opposizione. Sulla questione relativa all’abuso d’ufficio, per esempio, molti dei sindaci e dei rappresentanti locali di centrosinistra hanno manifestato, con la forza dei numeri, una sostanziale condivisione dell’iniziativa, auspicandone la rapida approvazione. Con un po’ di ottimismo, si può allora immaginare da parte di tutti gli attori del tema giustizia - dalle istituzioni alle singole forze politiche, dalle correnti della magistratura ai mass media - un approccio del tutto nuovo e finalmente privo di preconcetti, favorito dalla presenza di un ex magistrato come ministro della Giustizia e di una leader e di un partito di maggioranza relativa notoriamente contrari a forme di lassismo giudiziario o a favorire situazioni generalizzate di impunità. Sembra, cioè, in via di superamento quel clamoroso equivoco che tende a far coincidere le garanzie dell’indagato e dell’imputato con una sorta di diritto a non essere punito, la presunzione di non colpevolezza con la pretesa a non essere condannati, il principio di rieducazione della pena con il diritto a non scontare la pena anche a valle della condanna definitiva. Il principio liberale e l’ideologia garantista non sono, infatti, antitetici alle esigenze della sicurezza e dell’ordine, alla tutela dei valori fondanti della nostra società e a un approccio anche severo nei confronti di coloro che violino o eludano le regole della convivenza civile. Nella speranza che possa trovare consolidamento questa nuova e più matura prospettiva, potrebbero entrare nel dibattito pubblico anche degli argomenti relativi al tema della giustizia considerati negli ultimi decenni difficilmente digeribili o politicamente tabù. Gli ambiti sono molteplici, ma, per limitarci a qualche esempio, un confronto e una riflessione non preconcetta e non faziosa meriterebbero anche il tema della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, della ricerca di un nuovo equilibrio tra politica e magistratura, dell’indipendenza e delle funzioni delle magistrature speciali, del contrasto al correntismo diffuso all’interno della magistratura, in relazione tanto alla composizione del Csm, quanto alle funzioni dell’organo. E si potrebbe continuare. Mi rendo conto che rispetto a un mero disegno di legge si potrebbe ravvisare in queste parole un eccesso di entusiasmo e si potrebbe citare Franco Califano che cantava “nun semo ragazzini che se illudemo a fa’“: ma il garantismo e l’ideologia liberale hanno storicamente richiesto 5: metodi coraggiosi e una grande scommessa sull’uomo. Due presupposti essenziali per il pieno sviluppo di ogni società. *Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata Largo ai furbetti, magistrati zittiti di Giuseppe Santalucia* L’Espresso, 25 giugno 2023 Il governo propone modifiche al sistema penale e vuole ridurre al silenzio la categoria che meglio può contribuire a delineare problemi e soluzioni. Ma non è democrazia. Una premessa per sgombrare il campo da equivoci. L’Associazione nazionale magistrati (Anm) interviene sulle riforme in materia di giustizia per un diritto proprio e non già perché qualcuno abbia il potere di darle o negarle la parola. Non spetta al ministro della Giustizia né ad altri riconoscere o meno cittadinanza sulla scena pubblica a un soggetto collettivo come l’Anm. E ciò perché è la Costituzione ad attribuire a tutti i cittadini, ivi compresi i magistrati, il diritto di associarsi liberamente per finalità non vietate dalla legge penale. In una democrazia liberale, che fa del confronto di idee la sua forza, suonano stonate le parole di un ministro che taccia come indebita interferenza la critica ragionata dell’Anm. Non occorre altro per spegnere questo accenno di polemica, che non giova e distrae dalle proposte di modifica del sistema penale che il ministro intende portare avanti. Non c’è dubbio che sia il Parlamento a dover decidere, ma non è sintomo di vitalità democratica la pretesa di ridurre al silenzio i magistrati, che invece possono contribuire costruttivamente con il loro punto di vista argomentato e ragionato, frutto di esperienze professionali qualificate, a una migliore messa a fuoco dei problemi e delle soluzioni. Nessuna delle proposte di riforma persuade. Ne affronto solo due. Il ministro propone di eliminare il reato di abuso d’ufficio e di restringere l’ambito del reato di traffico d’influenze; sceglie così il settore dei reati dei cosiddetti colletti bianchi come primo - si vedrà se esclusivo - terreno per le politiche di deflazione penale da più parti invocate. Occorre chiedersi se un intervento di tal tipo non finirà con l’indebolire la tutela delle persone che, nella relazione con un pubblico ufficio, si troveranno a subire la prevaricazione arrogante di chi a quell’ufficio è preposto; e se la limitazione del traffico di influenze, anticamera dei fatti di corruzione, alle ipotesi in cui la mediazione illecita sia finalizzata a far compiere al pubblico ufficiale un atto contrario ai doveri d’ufficio, e costituente a sua volta reato, non libererà irragionevolmente le mani dei faccendieri senza scrupoli. Non si è pregiudizialmente ostili alle politiche della giustizia del ministro se si afferma che le sue proposte, divenute legge, creeranno delle zone franche per condotte di sfruttamento, a vario titolo, di un pubblico ufficio per fini privati. E si è facili profeti nel dire che il silenzio a cui sarà consegnata la giustizia penale offenderà il buon senso di quanti ragionevolmente rimarranno disorientati dall’assenza di una reazione a tutela dei diritti violati. Aumenterà l’incomprensibilità del nostro sistema, che ora usa con eccesso lo strumento penale, ora rinuncia a punire quando il disvalore di alcuni comportamenti è avvertito con particolare Forza. Certo, c’è la cosiddetta paura della firma dei sindaci, condizionati dal timore di finire sotto indagine alla prima strampalata denuncia. Le critiche dei sindaci non vanno trascurate, ma devono essere contestualizzate muovendo da quel che molti dimenticano, ossia dalla riforma del 2020 che ha fortemente ristretto l’area del reato di abuso d’ufficio, impedendo il sindacato penale sulla discrezionalità dei pubblici ufficiali. Devono essere pertanto compiutamente comprese, per ottenere una risposta soddisfacente. Ciò che il disegno di legge del ministro Carlo Nordio non fa, preferendo una soluzione in apparenza semplice, in realtà semplicistica. Non scioglie il nodo, ma Io taglia ed esso ne genererà altri ancor più difficili da districare. L’attenzione al tema delle misure cautelari è cosa buona e giusta, ma le soluzioni proposte sono assai discutibili e meritano di essere discusse. Si affida a un giudice collegiale e non più a un giudice singolo il potere di emettere la misura cautelare della custodia in carcere. Si scopre il valore della collegialità, dimenticando che dal 1996 il nostro sistema ha optato per il giudice unico di primo grado. Si ha così che l’accertamento di responsabilità per un gran numero di reati, con pene fino a dieci anni di reclusione, quindi per nulla bagatellari, è affidato alla cognizione di un giudice unico, mentre la custodia cautelare, e non la pena detentiva, sarà affare di un collegio. Ma - ecco le domande tutt’altro che pretestuose - saranno sufficienti 250 magistrati in più, non si sa tra quanti anni presenti in carne e ossa negli uffici giudiziari, per fronteggiare il bisogno aggiuntivo di risorse che la riforma creerà? Si sono fatti i conti con la moltiplicazione delle incompatibilità di molti più giudici, perché più saranno quelli impegnati nella fase cautelare meno saranno quelli in grado di trattare il giudizio di merito? Quale sarà l’impatto nei tribunali di piccole e medie dimensioni? Dopo un giudizio collegiale, confermato da un collegio del Riesame e magari dai cinque giudizi che in Corte di Cassazione respingeranno un ricorso, quali saranno gli spazi di difesa dell’imputato nel giudizio di merito? Non si pongono forse le basi perché le valutazioni cautelari costituiscano un pesante pregiudizio nella fase dell’accertamento delle responsabilità? Questi interrogativi, e spiace doverlo ribadire, non danno corpo a una indebita l’interferenza con le prerogative di governo e Parlamento, ma sono esercizio di un dovere di parola che vive e prende forza all’interno di una democrazia matura. *Presidente dell’Associazione nazionale magistrati e consigliere della Corte di Cassazione, prima sezione penale Abolire l’abuso d’ufficio vìola i patti con Onu e Ue di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2023 L’ex procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, assurto al prestigioso incarico di Guardasigilli, ha tuonato: “Il magistrato non può criticare le leggi, come il politico non può criticare le sentenze”. Ci si domanda: come è possibile che un ministro di Giustizia, ex magistrato, non sappia (o faccia finta di non sapere) che la critica non è altro che l’esercizio del diritto fondamentale, costituzionalmente tutelato dall’articolo 21 della Carta, di poter liberamente manifestare il proprio pensiero e le proprie idee con il solo limite di non ledere la dignità, l’onore e la reputazione altrui? Diritto, oltretutto, spettante a ciascun cittadino, ivi compresi i magistrati, che ben possono criticare le leggi, soprattutto se in itinere, anche al fine di segnalarne le criticità e le anomalie onde migliorarne la loro formulazione. Ma dove mai il ministro Nordio ha letto che le sentenze non possono essere criticate? I provvedimenti giurisdizionali, in un sistema democratico, ben possono essere oggetto di critiche, anche aspre e graffianti, da parte di tutti i cittadini (ivi compresi i politici), ma sempre nei limiti della continenza formale e sostanziale (limite che spesso viene superato da diffamatori di professione). Ma non basta. Il ministro ha proposto - e la proposta è stata approvata dal Cdm - l’abrogazione del reato di abuso di atti di ufficio. Ora - poiché tale delitto, con la riforma del 2020, è stato circoscritto alle sole ipotesi in cui la condotta del pubblico ufficiale sia posta in essere in violazione di legge (che impone di tenere o non tenere un determinato comportamento) - ciò significa che, con l’abrogazione di tale reato, viene rilasciata al pubblico ufficiale una indiscriminata licenza di commettere impunemente abusi e arbitri al fine di avvantaggiare se stesso o parenti e amici, ovvero di danneggiare i nemici, determinando, quindi, un fenomeno di illegalità diffusa nell’ambito della pubblica amministrazione e degli enti locali, ove maggiore è il compromesso politico-elettorale, e ciò, soprattutto, nel momento in cui stanno arrivando i miliardi del Pnrr e ancor più stringente dovrebbe essere il controllo di legalità sull’operato dei pubblici funzionari (in particolare, in ordine ad appalti, concorsi, concessioni). In sostanza, viene eliminato qualsiasi presidio penale circa il rispetto dei fondamentali principi costituzionali di buona e imparziale amministrazione. E può ben affermarsi che, con l’abrogazione di tale delitto, viene meno la paura degli amministratori di firmare provvedimenti illegittimi (perché per quelli legittimi non c’è da aver paura). Peraltro, questo ministro non ha tenuto in alcuna considerazione gli autorevoli pareri del presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e del Procuratore nazionale antimafia che segnalavano le gravi conseguenze di tale abrogazione. Si è ancora dimenticato il ministro di tener presente che le condotte riconducibili al reato in questione sono, sia pure con diverse sfumature, sanzionate in tutti e ventidue degli Stati membri dell’Unione europea che fanno parte di Eppo (European Public Prosecutor’s Office). Nella sua attuale formulazione, tale reato non solo è imposto dalla Convenzione Onu sull’azione di contrasto alla corruzione, e dalla direttiva Pif (Protezione Interessi Finanziari) ma anche dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla corruzione del 1999. Conseguentemente, è di tutta evidenza che l’abuso di ufficio è strettamente collegato a ipotesi di corruzione e che l’abrogazione di tale reato - (anche l’Ue nei giorni scorsi ha chiesto di non abolirlo) - viola gli accordi che l’Italia ha assunto con l’Onu e con l’Europa e rappresenta un’anomalia rispetto agli altri Stati. Orbene, a fronte di tali puntuali e pertinenti critiche le quali denunziano che, con l’abrogazione del delitto in questione, si rimane senza tutela a fronte degli abusi di potere della PA, ecco l’incredibile risposta dell’ex procuratore aggiunto: “Nessun vuoto di tutela perché il nostro arsenale è il più agguerrito d’Europa”. Ogni commento è superfluo. Sulmona (Aq). Detenuto stroncato da un malore a tre giorni dal regime di semilibertà ilgerme.it, 25 giugno 2023 Lunedì sarebbe andato in semilibertà il sessantenne morto dietro le sbarre nella Casa Circondariale in via Martiri del Lavoro, a Sulmona. Il carcerato è stato trovato esanime nella propria cella, nella mattinata di ieri. L’uomo sarebbe stato stroncato da un infarto nella notte a cavallo tra il 22 e il 23 giugno. La salma è stata trasportata ieri dagli agenti della Polizia Penitenziaria, in servizio presso il carcere sulmonese, all’Aquila, per eseguire l’esame autoptico sul cadavere. L’uomo, da lunedì, con il regime di semilibertà avrebbe ottenuto la possibilità di trascorrere parte della giornata fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili per il reinserimento sociale, unitamente al mantenimento delle relazioni familiari. Roma. Finalmente un permesso premio per lo scrivano di Rebibbia? di Maria Brucale* L’Unità, 25 giugno 2023 La giurisprudenza di legittimità in materia di reati ostativi, dopo le sentenze della Cedu e della Corte costituzionale e la conseguente modifica normativa, si arricchisce di una importante sentenza, la n. 23556/2023, emessa dalla Corte di Cassazione, prima sezione penale. Ricorrente è Fabio Falbo, “lo scrivano di Rebibbia”, prezioso componente dei laboratori Spes contra Spem di Nessuno tocchi Caino, risorsa fondamentale per i compagni di detenzione, appassionato studioso del diritto con una vocazione autentica all’aiuto degli altri. Fabio è detenuto da molti anni e il suo percorso all’interno del carcere è riconosciuto da tutti gli operatori ma a oggi non ha mai usufruito di un permesso premio, strumento di importanza fondamentale nella riabilitazione perché è il primo momento di approccio con l’esterno utile a verificare la tenuta dei progressi già raggiunti e a costituire il punto di partenza per maturare ulteriori traguardi di libertà. Secondo il tribunale di sorveglianza di Roma, Falbo non poteva essere meritevole della concessione del beneficio richiesto perché la sua mai smentita professione di estraneità ai crimini per i quali è stato condannato appariva, secondo i giudici, incompatibile con una concreta rivisitazione critica in una reale prospettiva risocializzante e rendeva non assolto l’onere probatorio previsto normativamente inerente alla recisione dei contatti con gli ambienti malavitosi di provenienza e all’impossibilità di ripristino di essi. Secondo il tribunale, se è lecito invocare il diritto al silenzio e alla speranza, occorre, tuttavia, che chi lo fa accetti le conseguenze dell’esercizio di tali diritti. Una affermazione, in realtà, sconcertante perché sembra scaturire dalla convinzione che l’esercizio di un diritto possa o debba comportare la soggezione a effetti negativi, perfino allo sbarramento ai percorsi di riabilitazione sociale. Secondo la suprema Corte il tribunale di sorveglianza di Roma ha mancato al dovere di bilanciare la caratura criminale dei fatti commessi con il cammino rieducativo portato avanti dalla persona condannata “una comparazione che, invece, è specificatamente chiamato a compiere il giudice di sorveglianza. La funzione della magistratura di sorveglianza, in caso contrario, risulterebbe svilita alla semplice opera di constatazione in ordine alla oggettiva gravità dei delitti perpetrati dal condannato. Tale impostazione vanificherebbe qualsivoglia aspirazione al recupero personale riconoscibile in capo al detenuto laddove tale aspirazione non fosse correlata alla collaborazione dichiarativa con le istituzioni. Siffatta lettura delle norme si porrebbe peraltro in aperto conflitto con gli scopi rieducativi ai quali è indirizzato ogni genere di sanzione conforme ai principi costituzionali”. In linea con precedenti decisioni, la Cassazione ribadisce l’illegittimità di un giudizio che orienti la decisione negativa su un binario di valutazione morale negando rilevanza a un percorso intramurario ineccepibile, immune da rilievi e improntato alla partecipazione al trattamento, alla formazione didattica, alla disponibilità all’attività lavorativa. La gravità dei reati commessi, insomma, non può inibire in radice la praticabilità di un bilanciamento in senso favorevole tra esigenze di difesa sociale e di riabilitazione della persona condannata. Non, dunque, sbarramenti astratti evocativi di un’etica indefinita posta a paradigma insuperabile ma valutazioni concrete di ogni dato specifico che possa consentire di ritenere che il soggetto si sia definitivamente incamminato verso un percorso di recupero. Valutazione in senso positivo che non necessariamente coincide con il rinvenimento di una intima e personalissima emenda da parte del condannato dovendosi invece riscontrare la sua propensione a recidere i collegamenti criminali e a non riannodarli in un’ottica dinamica di rieducazione che si nutre di tutti gli elementi di condotta emersi e dei comportamenti serbati. La pronuncia della Cassazione sembra ricordare alla magistratura di sorveglianza la sua essenza e la sua funzione ordinamentale, quella di un giudice di prossimità, vicino al ristretto, che, attraverso visite frequenti in carcere, lo conosce, ne apprezza personalmente l’approccio con la pena e con il reato, lo accompagna al pieno recupero sociale in un’ottica non di fustigazione morale ma di verifica della assenza di pericolosità soggettiva. *Direttivo di Nessuno tocchi Caino Bologna. I primi dieci anni della fabbrica dentro il carcere della Dozza di Marco Madonia Corriere di Bologna, 25 giugno 2023 Il bilancio di Fid (Fare impresa in Dozza): il progetto di Marchesini, Ima e Coesia. La dedica a Flavia Franzoni. “L’idea è venuta all’avvocato Italo Minguzzi, all’epoca nel cda di Ima. Ci fu un giro di telefonate, ci siamo visti e siamo partiti. Minguzzi è rimasto presidente onorario e Gianguido Naldi amministratore delegato. È stato un percorso lungo, ma pieno di soddisfazioni”, dice Maurizio Marchesini. Insieme a Isabella Seràgnoli (Coesia) e Alberto Vacchi (Ima) ebbero la folle idea di immaginare una fabbrica nel carcere della Dozza per dare formazione, lavoro, stipendio e speranza ai detenuti. Così sono diventati i soci fondatori di Fid (Fare impresa in Dozza). Un’esperienza che è stata raccontata nel libro “La fabbrica in carcere e il lavoro all’esterno: uno studio di caso su Fare Impresa in Dozza” scritto da Valerio Pascali e Alvise Sbraccia. Marchesini, qual è il suo bilancio? “I progetti in carcere non sono mai semplici. Noi facciamo montaggio e aggiustaggio, per l’officina gli attrezzi fondamentali sono seghetti, lime e trapani. Non proprio gli oggetti più facili da portare in carcere. Faticosamente abbiamo iniziato e ci siamo riusciti”. Cosa ha convinto lei e gli altri imprenditori a impegnarvi? “Siamo convinti che il grado di civiltà di una società si veda anche dalla capacità di recupero di chi ha sbagliato. Escludere chi delinque non solo non è possibile, ma è anche un peccato mortale. Conviene a tutti dare una possibilità vera. In questo percorso il lavoro è fondamentale”. Come funziona? “Della formazione teorica si occupa la Fondazione Aldini Valeriani, poi ci sono i tutor che affiancano i detenuti. Si tratta nella maggior parte dei casi di lavoratori in pensione di Marchesini, Ima e Coesia”. Dalle interviste con i detenuti emerge che il rapporto con i tutor è l’aspetto che funziona meglio... “Sono montatori, fanno parte di quella aristocrazia operaia che è andata in giro per il mondo facendo funzionare le nostre macchine parlando solo in dialetto. Anche ai detenuti stranieri parlano in dialetto. Tanti sono stati poi assunti nella nostra filiera. Purtroppo non si risolve tutto così” Perché? “Quando escono hanno gravi difficoltà di inserimento, il carcere paradossalmente è un ambiente protetto, magari si ritrovano fuori senza famiglia e amici, fanno fatica a trovare casa o più banalmente ad avere documenti e un medico. Lo stigma del carcere è molto pesante. Vorremmo fare un passaggio in più, per dare una mano anche fuori”. Cosa intendete fare? “Non abbiamo competenze e capacità in questo campo, cerchiamo di coltivare rapporti con il volontariato e con le istituzioni. Loro potrebbero dare un contributo soprattutto sul versante della casa”. È questo che volete fare nei prossimi dieci anni? “Un obiettivo condiviso con Flavia Franzoni, era una nostra consigliera e a lei dedichiamo questo anniversario. Vorremmo fare vedere anche ad altri imprenditori che si può fare. Lo stesso sottosegretario Ostellari dice che sostenere il lavoro in carcere è una garanzia per la società”. L’esperienza di Fid mette insieme imprenditori concorrenti e figure molto lontane per cultura politica. “Credo che la coesione sociale di questo territorio si veda proprio nelle situazioni complesse. In questa azienda ci sono persone che vengono dall’associazionismo cattolico e anche dalla sinistra. Il nostro capo officina è l’ex consigliere Valerio Monteventi”. Altri progetti? “Abbiamo dato una mano a Cisco, la multinazionale americana che si occupa di software e ha un programma di corsi di informatica. Abbiamo presentato il progetto e cablato la stanza. Chi supera quel corso ottiene un diploma che vale in tutto il mondo”. Il rapporto con il carcere? “Non appena alla Dozza sono arrivate direttrici donne siamo partiti e abbiamo risolto i problemi. Prima ci dicevano che era bello, ma difficile da realizzare...”. Cagliari. Inclusione sociale, concluso progetto “Liberi” per ex detenuti cagliaripad.it, 25 giugno 2023 Per 21 di loro è arrivato un contratto di lavoro, per alcuni a tempo determinato e per altri a tempo indeterminato. Sono più di sessanta gli ex detenuti che hanno potuto partecipare al programma Liberi (Lavoro, Inserimento, Bilancio di competenze, Esperienza, Riscatto sociale, Inclusione), pensato con l’obiettivo di aiutarli a reinserirsi nella società attraverso progetti personalizzati. Il programma, voluto dall’assessorato regionale del Lavoro e dall’Aspal e finanziato col Fondo sociale europeo, ha consentito loro di compiere un percorso non solo di formazione ma anche di tirocinio, empowerment e mentoring per aumentare così le possibilità di inclusione attiva, riducendo il rischio di povertà ed esclusione sociale. Al termine del percorso, per 21 di loro è arrivato un contratto di lavoro, per alcuni a tempo determinato e per altri a tempo indeterminato. Un traguardo importante in un mercato del lavoro spesso difficile per le categorie più fragili. “Un progetto di riscatto e di reinserimento sociale importante che riduce i rischi di esclusione sociale e lavorativa - ha affermato l’assessora regionale del Lavoro, Ada Lai - Il lavoro, infatti, rappresenta un punto di partenza per favorire un processo di cambiamento e riprendere in mano la propria vita in modo positivo. Ritrovare un equilibrio, ristabilire una routine giornaliera, può aprire nuove porte e accrescere il senso di responsabilità verso sé stessi e gli altri, ma soprattutto, prevenire le recidive e le ricadute delinquenziali”. Così Maika Aversano, direttrice generale dell’Aspal: “Abbiamo fatto rete con gli uffici penitenziari, le associazioni del terzo settore e le imprese e questo progetto ha dato subito ottimi risultati, segno evidente che questa sperimentazione dovrà proseguire fino a diventare una modalità ordinaria per accompagnare persone particolarmente fragili come i detenuti nel loro percorso di reinserimento nel mondo del lavoro e nella società”. Il progetto, sviluppato in collaborazione con i Servizi sociali della Giustizia (Uffici Esecuzione Penale Esterna - UEPE e Uffici Servizi Sociali Minorenni - USSM), ha portato alla presentazione di tre progetti da parte di cooperative che hanno partecipato all’avviso pubblico. Si tratta del progetto Telemaco rivolto a 32 utenti (per l’area che comprende la vecchia provincia di Cagliari e Oristano), del progetto Nestore per 16 utenti (area vecchia provincia di Sassari) e Giro di Boa per 16 utenti (area vecchia provincia di Nuoro). I primi due progetti sono stati curati dalla Cooperativa sociale Il seme in partnership con l’IFOLD, mentre il terzo dalla Cooperativa Lariso, in partnership con la Cooperativa Progetto H. Udine. “Liberamente”, progetto Caritas accoglie e supporta i detenuti dopo la dimissione dal carcere lavitacattolica.it, 25 giugno 2023 L’iniziativa è resa possibile dai fondi Cei dell’8xmille. Nella casa circondariale di via Spalato, a Udine, anche un centro di ascolto. Troppo pochi gli operatori, esigue le risorse a disposizione. Anche nella casa circondariale di Udine riuscire ad accompagnare chi sta scontando una pena per dare respiro a una giustizia vera, che sia anche riabilitazione e reinclusione, è tutt’altro che semplice. Ma grazie a risorse dell’8xmille la Caritas diocesana di Udine, che da due anni opera all’interno della struttura detentiva cittadina anche con un centro di ascolto (realizzato insieme al Comune di Udine, ente gestore del Servizio sociale dei Comuni, con il contributo della Cassa delle Ammende e della Regione Friuli-Venezia Giulia) è riuscita ad avviare il progetto “Liberamente”, mirato ad aiutare le persone detenute soprattutto nella fase di dimissione. Ricostruire una rete - “Focus del progetto - spiega Annarita De Nardo della Caritas - è l’accoglienza dopo il periodo di detenzione per cercare di riattivare attorno a chi ha subito una carcerazione una rete di servizi e di relazioni - alloggio, lavoro, famiglia se possibile - e per favorire un rientro graduale in comunità”. Annarita segue personalmente il centro di ascolto. “Molte persone detenute hanno problemi di tossicodipendenza o di salute mentale - spiega -. Insieme ai Servizi che si occupano di questo, tra quanti sono vicini al “fine pena” cerchiamo di individuare le persone più fragili da accompagnare anche in seguito; persone che, lasciate da sole, potrebbero perdersi. Soprattutto chi è privo di una rete familiare viene accolto e accompagnato, e sono molti, anche italiani, che spesso proprio a causa dei reati commessi sono stati allontanati dagli stessi familiari”. Il progetto è partito all’inizio dell’anno. Le richieste di colloquio al centro di ascolto sono moltissime - ammette la referente Caritas -, inoltre per ogni percorso sono necessarie pratiche burocratiche e di autorizzazioni non rapide, ma alcune persone - le prime - sono già state accolte. Sensibilizzazione e volontariato - Parallelamente, il progetto “Liberamente” si pone anche un obiettivo di sensibilizzazione della società rispetto ai temi della giustizia e in particolare della giustizia riparativa, cioè della possibilità di lavorare sull’incontro di pacificazione tra vittima e autore del reato, cercando di far conoscere le ragioni dell’uno e dell’altro. “Un percorso che riteniamo essenziale - precisa De Nardo - per permettere alle persone di ricostituire quelle fratture e sanare quel dolore che si determinano in questi casi”. Anche a tale scopo la Caritas ha organizzato quest’anno una serie di convegni (l’ultimo il 6 giugno scorso) mirati a puntare i riflettori sulla realtà carceraria. “Abbiamo un sogno grande - conclude De Nardo - quello di trovare diversi volontari determinati a mettersi in gioco proprio nei percorsi di giustizia riparativa (al riguardo Caritas propone dei percorsi di formazione ad hoc, per info: www.caritasudine.it). Attività con i più giovani - Infine, per sensibilizzare i più giovani e metterli in guardia sui rischi che possono correre (“una percentuale consistente delle persone detenute ha vent’anni o poco più”) Caritas ha in programma una rappresentazione teatrale che coinvolgerà gli adolescenti. Reggio Calabria. La Caritas di Locri-Gerace aiuta il reinserimento sociale dei detenuti telemia.it, 25 giugno 2023 È lo scopo del progetto attivato tra le mura del carcere di Locri, dove è stato avviato un percorso lavorativo e di miglioramento delle condizioni personali del detenuto. Lavorare è dignità: il lavoro ti permette di poter vivere senza dover pesare sulle spalle altrui, di costruirti una famiglia, di realizzarti individualmente e all’interno della società, di essere parte integrante dello sviluppo del Paese. Nella convinzione che il lavoro sia anche un grande mezzo di inclusione, la Caritas diocesana di Locri-Gerace ha elaborato e sta sperimentando presso il carcere di Locri un modello di riabilitazione e reinserimento socio/economico nel territorio degli ex detenuti. Il progetto nasce dall’esigenza di ripristinare rapidamente le condizioni pre pandemia della casa circondariale cittadina, all’interno della quale, per decreto ministeriale, l’introduzione obbligata di misure normative eccezionali per impedire il diffondersi del Covid-19, ha impedito molte delle attività trattamentali rieducative. Con tale fine, il programma ideato dalla Caritas diocesana si sviluppa attraverso attività di pubblica utilità per il tempo stabilito dall’Autorità competente come misura alternativa alla detenzione e, fino ad oggi, ha dato risultati soddisfacenti, ottenuti grazie al lavoro sinergico tra gli enti coinvolti. Nello specifico, l’impegno della Caritas si svolgerà anzitutto tra le mura della casa circondariale, all’interno della quale l’ormai fisiologico sovrannumero di detenuti e la presenza crescente di persone extracomunitarie che manifestano difficoltà di comprensione della lingua e di reperimento dei beni di prima necessità, ha convinto i nostri operatori a proporre l’idea progettuale Mendicanti di riconciliazione, profeti di speranza, che unisce l’attività lavorativa all’interno di laboratori artigianali al miglioramento delle condizioni personali, di igiene, pulizia e confort delle persone che scontano una pena. La mancanza di effetti personali o di generi di prima necessità, infatti, genera nel detenuto una situazione di disagio che può costituire un elemento di discriminazione e/o frustrazione che, unitamente all’assenza di capacità lavorative, ingenerano quel tipo di isolamento sociale che spinge alla recidiva. Per tali motivi, il progetto ha avviato un percorso di miglioramento della persona e di sensibilizzazione ai comportamenti corretti verso gli altri e l’ambiente e intende realizzare un emporio solidale presso il quale i detenuti potranno reperire vestiario di prima necessità. Il percorso di ricostruzione personale viene completato da un servizio di cappellania sviluppato grazie a un cappellano e alla nostra squadra educativa, che accompagnerà i detenuti attraverso un percorso di ricostruzione dei rapporti umani, raccoglimento e riflessione e confronto (tre momenti che abbiamo convenzionalmente indicato con le tre P di Presenza, Preghiera e Parola) ma, soprattutto, con l’attivazione dei laboratori artigianali. Questi ultimi impegneranno i detenuti nella realizzazione retribuita di braccialetti della Pace e Corone del Santo Rosario, ma anche di prodotti di cosmesi naturale e detergenza ecologica realizzati grazie alla preziosa collaborazione con la cooperativa sociale Felici da Matti che da venti anni si occupa di recupero e riciclo degli scarti, sia materiali sia sociali, per perseguire i nobili obiettivi della tutela dell’ambiente e del reinserimento sociale dei soggetti svantaggiati. Grazie alla consulenza di un artista del legno, inoltre, i detenuti creeranno porta sapone realizzati con gli scarti del legno d’ulivo da commercializzare all’esterno del carcere. Creando una collaborazione attiva tra la casa circondariale di Locri e i tutor, oltre a favorire la nascita di un’attività imprenditoriale costituita da ex detenuti, nel prossimo futuro si intende commercializzare parte dei prodotti realizzati all’interno del carcere, creando un’economia circolare in grado di garantire l’autosostenibilità del progetto e che la collaborazione tra il carcere e gli associati al progetto risulti duratura nel tempo. Su input del presidente del Tribunale di Locri Fulvio Accurso, poi, si è pensato anche alla realizzazione di un’attività commerciale gestita dall’impresa composta da ex detenuti, con l’obiettivo di sviluppare l’economia sociale come strumento d’inclusione socio/lavorativa di chi deve reinserirsi in società e attivare processi di comunità monitoranti in luoghi simbolo della lotta alla ‘ndrangheta. Sempre rivolto agli ex detenuti è, infine, il percorso di assunzione nella Diocesi di Locri-Gerace attivato, al momento, su due persone che hanno seguito un percorso formativo all’interno della casa circondariale per poi rilevare l’incarico che attualmente ricoprono. Riteniamo, così, di aver individuato il modo non solo di spezzare la routine della giornata dei detenuti, ma anche di dare loro uno scopo funzionale alla dinamica di progettualità e al loro futuro, migliorando le prospettive di reintegro all’interno della società civile e limitando il rischio, molto concreto sul nostro territorio, che tali persone, abbandonate a loro stesse, possano farsi tentare dalla prospettiva di facili guadagni. Trento. Carcere e palcoscenico: a lezione da Punzo di Chiara Marsili Corriere del Trentino, 25 giugno 2023 Punzo, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia in Trentino con un laboratorio tra i boschi “Le sbarre? Una metafora dell’esistenza, la cultura porta libertà e consapevolezza”. Il suo nome, la sua vita e il suo lavoro sono legati al carcere di Volterra. Un luogo che è stato trasformato da istituto di pena a centro culturale, capace di coinvolgere ottanta detenuti-attori e produrre circa 40 spettacoli di altissimo livello artistico. È Armando Punzo, recentemente vincitore del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, che ora torna in Trentino per un laboratorio unico. La terza edizione del “Maggese”, dal 7 al 10 settembre negli spazi del Masetto, a Terragnolo, trai boschi del Trentino (info e iscrizioni entro il 30 giugno su www.spaziooff.com). Un luogo isolato per lavorare con Armando Punzo e la psicoterapeuta Chiara Lui sul tema del ruolo. Punzo, perché in Trentino un laboratorio come il Maggese? “È un lavoro nato grazie a Daniele Filosi di Spazio Off, una sollecitazione che ha incontrato il mio interesse. Faccio un lavoro che non ha a anche fare direttamente con la psicologia, ma volevo esplorare la possibilità di questo connubio. Si parla della questione del ruolo, come questo è inteso anche dalla psicologia costruttivista”. Cosa si intende per ruolo nel suo teatro? “Il mio lavoro è improntato sull’idea che tutto può e deve essere messo in discussione. Da anni ho l’impressione che viviamo in un’epoca storica in cui nulla si può fare. Siamo come depotenziati. Come se la realtà avesse vinto e non ci fosse nulla da provare da immaginare. Invece Volterra è stata trasformato da istituto di pena a istituto di cultura. Questo dimostra che si può cambiare tutto, anche le persone. Perché ha deciso di lavorare in questa specifica dimensione, con persone condannate a pene lunghe di carcere? “Il tema originario era una riflessione sulla condizione di prigionia, indipendentemente dal carcere reale. Ci costruiamo società che invece di sostenere le possibilità le limitano. Quando sono entrato in carcere ero interessato alla prigione come metafora, non alle storie e all’attualità. Non sono un educatore o uno psicologo: volevo riformulare il teatro, lo spazio della libertà per eccellenza, in un luogo che sembra non accettare la libertà e con attori non professionisti. Questo 35 anni fa”. Ha vinto il Leone d’Oro alla carriera della Biennale di Venezia, che significato ha per lei? “Questo premio è il riconoscimento a un’idea che è significativa anche se non fa tanti numeri, anche se si tratta di una pratica quotidiana in un luogo difficile. Il Leone del l a Bi e nnal e di Ve nez i a mette in luce un’esperienza radicale, che va in profondità. A Volterra sta nascendo un teatro stabile in carcere. Servirebbero più esperienze artistiche così in tutta Italia? “A Volterra dopo più di 20 anni di tentativi stiamo arrivando alla costruzione di qualcosa di concreto, che dovrebbe essere agibile nel 2024. Uno spazio teatrale in carcere dove potere accogliere spettatori anche d’inverno e mostrare i nostri lavori alle scuole. La nostra esperienza ha aperto la strada: stiamo lavorando con fondazioni bancarie per cercare di seminare buone pratiche anche in altre carceri”. Sulmona (Aq). Premio letterario assegnato ai detenuti del supercarcere Il Centro, 25 giugno 2023 Quattro detenuti del supercarcere di Sulmona sono stati premiati nell’ambito del Concorso letterario nazionale “Premio Padre Osvaldo Lemme”, curato dall’associazione culturale “Una storia… Tante storie” di Celano, presieduta dal professor Abramo Frigioni. Ai reclusi è andato il terzo premio in palio, oltre alle attestazioni di merito assegnate dalla giuria del concorso. “La quinta edizione dell’ormai rodato momento culturale-letterario celanese”, spiega Frigioni, “ha dato la misura del crescente interesse non solo rilevabile dal numero dei concorrenti - 202 partecipanti - ma anche dalla ricchezza e originalità dei contenuti che hanno permesso agli organizzatori di cogliere quanta voglia di scrivere c’è ancora tra le diverse generazioni e quanto bene faccia al cuore di tanti dar voce e sfogo ad emozioni autentiche e contagianti”. La cerimonia di premiazione si è svolta alla presenza del presidente della giuria, il professore sulmonese Enea Di Ianni, accompagnato per l’occasione dal dirigente scolastico dell’istituto carcerario, Francesco Di Girolamo, dall’insegnante Daniela Verzino, referente educativa della sede carceraria, e da Fiorella Ranalli, capo area trattamentale della casa di reclusione, che ha fatto gli onori di casa e ha avuto il grande merito di dare vita a un emozionante incontro-confronto, soprattutto umano, per testimoniare ai detenuti “di quale e quanta libertà possa essere foriero un momento letterario-culturale”. I premiati, a loro volta, hanno ringraziato con tanta emozione la delegazione “per la considerazione, le belle parole e soprattutto il calore umano ricevuto”. Livorno. Presentato il volume “Racconti dal carcere. Storie a fumetti” toscanaeventinews.it, 25 giugno 2023 Un percorso di grafica a fumetti nella sezione di media sicurezza della Casa circondariale delle Sughere. Con la realizzazione del volume “Racconti dal carcere. Storie a fumetti” si è concluso il laboratorio di grafica a fumetti condotto, dal novembre 2022 al maggio scorso, nella sezione di media sicurezza della Casa Circondariale di Livorno. “È questa - dichiara l’assessore Raspanti - una opportunità che è stata data alla popolazione penitenziaria sul nostro territorio e anche alla città di gettare un nuovo ponte verso l’esterno per creare occasioni di frequentazione, anche se mediata e, quindi, di comprensione reciproca maggiore. Il mondo del carcere è sempre un mondo misconosciuto e frainteso, è un mondo estremamente complesso, è un mondo che ha bisogno di uscire fuori, prima che arrivi il momento in cui il detenuto può uscire proprio perché quell’uscita fuori non diventi un evento traumatico che è il preludio di un nuovo ingresso, come succede nella maggior parte dei casi. L’importanza di queste iniziative, che sono iniziative di socializzazione, è quindi fondamentale e lo scopo deve essere quello di moltiplicarle a maggior ragione in un momento in cui la casa circondariale di Livorno sta affrontando un periodo davvero difficile di emergenza. Il progetto, realizzato dal Comune di Livorno insieme al comitato territoriale di Arci Livorno, al Garante dei diritti dei detenuti Marco Solimano, alla Casa Circondariale di Livorno, è stato curato da Daniele Solari e Francesca Nencioni. Scopo del percorso è stato quello di fornire ai partecipanti le basi del disegno prospettico ed anatomico per poi approfondire le regole dello storytelling applicato al fumetto, per poter creare un racconto breve ma incisivo che riuscisse a trasmettere le storie, i sogni e le aspettative dei partecipanti. La pubblicazione è stata presentata dall’assessore al Sociale Andrea Raspanti, dal Garante dei diritti dei detenuti Marco Solimano, dalla responsabile dell’Area Trattamentale della Casa Circondariale di Livorno Marcella Gori, dal presidente di Arci Livorno Alessio Simoncini. Presenti anche Daniele Solari e Francesca Nencioni che hanno condotto il corso. Fin dall’inizio è emerso nei partecipanti la voglia di raccontare storie dai forti elementi autobiografici, ma anche di rivalsa personale, dal viaggio verso l’Italia al sogno di diventare un calciatore di successo. “Questa pubblicazione - afferma il Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Livorno Marco Solimano - ci consegna storie, sofferenze, sogni, aspettative. Pezzi di vita raccontati attraverso tavole illustrate, un mezzo potente ed universale per comunicare e rappresentare le proprie esistenze ed i propri vissuti, una forma di comunicazione immediata e ricca di spunti e riflessioni”. Messina. La musica apre le porte del carcere di Gazzi, l’evento anche a Barcellona di Alessandra Serio tempostretto.it, 25 giugno 2023 La città entra a Gazzi per la Festa della Musica, ecco come l’arte libera, tutti. In una mattinata caldissima rinfrescata da una folata di vento, nel campo di calcio del carcere di Gazzi brillano il verde dell’erba, il bianco delle camicie linde dei detenuti - attori, le mostrine delle forze dell’Ordine, i colori delle divise e quelle delle tshirt dei bambini, le stoffe degli ospiti, sotto le tende. Poi l’aria si riempie della musica della banda della Brigata Aosta, delle voci del coro Note colorate del maestro Giovanni Mundo e la Filarmonica Laudamo, del canto cristallino e potente di Sofia D’Arrigo e della poesia rap di Skilla, dei recital dei vari rappresentati dei militari e della passione dei detenuti che partecipano ormai stabilmente al progetto artistico di D’aRteventi, diretta da Daniela Ursino, principale creatrice della Libera Compagnia del teatro per sognare che porta sul palcoscenico, insieme, le studentesse dell’Università di Messina e i detenuti e le detenute. Un gabbiano dall’alto vola placido oltre i sei metri di muro di cinta, sembra osservare la danza dei ballerini dello Studio Danza di Mariangela Bonanno. Lui il muro non lo vede e nella gioia della festa, nell’emozione delle performance di tante persone, così diverse tra di loro, solitamente impegnate “dalle opposte barricate”, tutte insieme, anche i partecipanti quella grigia muraglia non la vedono più. E’ la Festa della Musica, l’evento europeo che anche quest’anno si è celebrato anche all’interno del carcere di Gazzi, grazie all’impegno costante della direttrice Angela Sciavicco e dei suoi collaboratori, sotto braccio alla Ursino e a tutte le altre realtà che contribuiscono agli eventi e i progetti della struttura penitenziaria messinese. “Questo evento, che vede insieme i detenuti, gli operatori e la partecipazione delle forze armate e di Polizia è un unicum: coinvolgerli nella lettura di un racconto testimonia il coinvolgimento di forze nella riabilitazione anche da parte di forze che non hanno nella loro “mission” questa funzione specifica, invece così tendono una mano a chi nella vita è inciampato”, spiega Daniela Ursino. “E’ un’emozione vedere crescere ogni anno le adesioni a questo evento, quest’anno è diventato un vero e proprio spettacolo, l’arte accompagnata dalla musica è contagiosa per tutti, diventa quindi un progetto, una manifestazione che diventa espressione della città che entra in carcere, nel solco della legalità, è bellissimo vedere come un campo di calcio diventi un La Ursino nel ringraziare tutti gli artisti intervenuti ha sottolineato la grande sinergia con tutte le istituzioni presenti ed ha ricordato anche il ruolo molto importante del Tribunale di Sorveglianza, presieduto dalla dottoressa Francesca Arrigo, anche in manifestazioni come queste. Infine ha rilanciato l’appuntamento per lo spettacolo con la compagnia dei detenuti e delle studentesse e tanti artisti, con la regia di Mario Incudine, il 28 luglio al Teatro greco di Tindari all’interno del cartellone del Tindari Festival, diretto da Tindaro Granata. Il progetto è sostenuto sin dall’inizio dalla Caritas diocesana grazie alla quale il è stato realizzato anche nell’istituto Madia di Barcellona e oggi anche nella parrocchia di padre Nino Basile, che insieme all’arcivescovo Accolla seguono costantemente il percorso dei detenuti. Fondamentale anche l’appoggio del Tribunale di Sorveglianza, con la presidente Francesca Arrigo. “Liberi di Lavorare”: viaggio nelle carceri con il podcast di Tgr Veneto e Raiplay Sound di Federica Riva e Paolo Colombatti ainews.it, 25 giugno 2023 In quattro puntate il racconto del lavoro come elemento di “normalità” e di “libertà” anche in condizione di detenzione: https://www.raiplaysound.it/programmi/liberidilavorare. Come funziona il lavoro dei detenuti dentro un carcere? Quanti sono i progetti imprenditoriali nati per dare vera applicazione al concetto di rieducazione e reinserimento nella società citato dalla Costituzione? Quali sono le difficoltà che si incontrano? Le risposte in “Liberi di lavorare”, un podcast della Tgr Veneto della Rai, a cura di Federica Riva e Paolo Colombatti, disponibile gratuitamente sulla piattaforma di Raiplay Sound e raggiungibile sul sito web e sui canali social della Tgr Veneto. Le tappe del viaggio - Quattro puntate, con la collaborazione tecnica di Andrea Diprizio, per 45 minuti che raccontano le tappe di un viaggio fatto nei laboratori nati dentro le carceri di Belluno, Venezia, Verona e Vicenza, con le voci dei protagonisti di una sorprendente realtà che merita di essere approfondita. La volontà è però anche quella di far conoscere alle imprese un mondo che offre manodopera motivata, sgravi fiscali e contributivi, ma soprattutto la soddisfazione di offrire una seconda opportunità a chi ha sbagliato, come dice Gabriel, che sta scontando la sua pena nel carcere di Vicenza: “Quando siamo qui a lavorare nell’officina non siamo più detenuti, ci sentiamo persone normali. Le persone che sono qui hanno sbagliato, ma stanno imparando a non sbagliare più. Adesso posso dare un futuro a mio figlio”. I progetti nelle carceri - Il laboratorio di pasticceria, la falegnameria, le officine meccaniche, le commesse del settore dell’occhialeria, i prodotti di pelletteria diventati un brand: sono solo alcuni dei progetti raccontati, in collaborazione con il Provveditorato alle carceri del Veneto. Insomma il lavoro come elemento di “normalità” e di “libertà” anche in una condizione di detenzione. Storie e interviste - Nelle tante interviste le storie dei detenuti, i pareri degli imprenditori, il punto di vista dell’amministrazione penitenziaria, lo sguardo delle associazioni di volontariato. Quel che è stato fatto e quello che ancora resta da fare. “La droga mi ha portata in carcere, è lì che sono rinata ma c’è bisogno di più ascolto” di Rossella Grasso L’Unità, 25 giugno 2023 “Per sconfiggere la droga c’è bisogno di più amore ma soprattutto di ascolto e aiuto mirato. Questo l’ho capito dopo esserci caduta e poi uscita”. Paola Aceti, romana, oggi ha 53 anni ed è come se di vite ne avesse vissute due: la prima al buio, la seconda alla luce. E così ha intitolato il suo libro, “Esiste la luce nel buio”, in cui si racconta senza risparmiarsi perché “spero con la mia storia di poter aiutare tante persone, sia chi finisce nella droga, sia le loro famiglie, sia il sistema intorno che ho scoperto a mie spese avere qualche pecca”. Ora Paola è una donna che ha ripreso in mano la sua vita e oltre al libro ha intenzione di fare anche dei progetti per fare tesoro e condividere con gli altri la sua storia e come è riuscita a venirne fuori, nonostante tutto. Per gridare al mondo che cambiare si può, basta volerlo. Ed essere di supporto per chi ne ha bisogno. Tutto è iniziato quando Paola aveva circa 30 anni. “Ho iniziato a bere per alleviare le mie sofferenze ma presto sono passata alle droghe - racconta - ci finisci in modo inconscio. Ero devastata a livello psicologico, ero fragile, depressa e non sapevo come fare a superare i miei disagi. Non avevo nemmeno un buon rapporto con la mia famiglia, troppo rigida per le mie fragilità, soprattutto mio padre. Quando mi sono separata da mio marito non sentivo di avere alcun appoggio e così il mio mondo è precipitato”. Sin dall’inizio del suo racconto Paola sottolinea più volte che per le persone fragili come lei è stata è fondamentale l’ascolto in famiglia: “Può fare davvero tanto quando ti senti perduto”. Il dolore era tanto e Paola iniziava a cercare vie facili per anestetizzarlo con alcol e droga. “Spesso si dice che si finisce in certi giri per le amicizie sbagliate - continua il racconto - ma non è così: ci si incontra tra soggetti che hanno problemi simili. È inevitabile. E così queste sostanze non ti fanno pensare più, nemmeno a te stessa. Inizi e pensi: ‘tanto poi smetto’. Ma la droga è una sostanza maledetta, subentra facilmente la tossicodipendenza. Poi arriva l’astinenza. Ma il momento peggiore è quando sei lucido e capisci la sofferenza che vivi e che dai agli altri. Vedi i tuoi problemi ma ormai sono diventati insormontabili, più grandi, trovare una soluzione è sempre più difficile. E allora ci ricaschi peggio per trovare più sollievo e nuove vie di uscita. È come l’inferno”. Paola ha provato per ben tre volte a ricorrere a una comunità ma ha lasciato il suo percorso a metà. Descrive quell’esperienza come più dura ancora del carcere. Quello che continuava a mancarle era l’ascolto: continuava a combattere con i suoi demoni ma non c’era un programma che sentiva adatto per uscirne. “Ho capito sulla mia pelle che è importante lavorare sin da subito sui propri problemi ma che se il punto non è centrato è come perdere il tempo. Ed è questo forse il motivo per cui qualcuno scappa dalle comunità e poi ricasca nella droga. Come ho fatto io. Ci vorrebbero più programmi mirati, individuali, cuciti su ognuno”. C’è anche un altro aspetto molto complicato in questa storia: le famiglie. Spesso lontanissime da questo mondo, addolorate nel veder soffrire i loro cari, farebbero qualsiasi cosa per salvarli. “Ma sono ‘incompetenti’ in materia, nel senso stretto del termine: non ne capiscono nulla e finiscono per non capire nemmeno il dolore. Per questo dico sempre che la cura più grande è l’amore e la fiducia da dare a chi si trova in un momento di fragilità. È questo che può davvero fare la differenza. Un abbraccio, ecco: era questo di cui sentivo più bisogno”. La sofferenza di Paola era diventata estrema, troppo fragile per riuscire da sola a rialzarsi. Tra le ‘cattive compagnie’ da cui si trova attratta c’è un nuovo compagno che sarà il suo primo appiglio. “Stavo male, ma lui stava male come me. Insieme finimmo ancora una volta nella droga e poi un reato, l’unico, concorso in rapina, che mi portò dritta in carcere”. Prima di finire nel vortice buio Paola faceva la cuoca, la sua è una famiglia di grandi lavoratori. La criminalità un concetto davvero lontano da tutti loro. Come era finita addirittura in carcere? Il tunnel si era fatto ancora più buio. Eppure è stato quello il momento in cui ha cominciato a vedere la luce. “In carcere sono rimasta poco più di un anno, poi sono stata ai domiciliari e infine ho avuto l’obbligo di dimora - continua a raccontare - arrivi in carcere che sei alla frutta, dopo c’è solo la morte. E’ stato lì che ho aperto gli occhi. Mi sono guardata allo specchio e mi sono detta: ‘cosa mi ha ridotto così?’. Ho iniziato a lavorare su me stessa, c’è stato bisogno di una grandissima forza di volontà, è stata dura. Mi sono aiutata da sola. In cella sono stata vera con me stessa, ho capito cosa cercavo di coprire e alleviare con le sostanze”. Paola è arrivata in carcere al colmo della sua fragilità, disperata dopo aver toccato il fondo. E come lei tanti altri, soprattutto tossicodipendenti, finiscono in carcere dove troppo spesso hanno la possibilità solo di farcela da soli, se vogliono e se ne hanno gli strumenti e la forza. Se sono fortunati poi intorno incontrano compagni di cella che li aiutano o agenti armati di buon cuore che si sostituiscono agli psicologi ma che non è il loro lavoro. Paola è riuscita a trovare la forza da sola. “Tutto merito della mia voglia di riprendermi la vita - dice - Soprattutto lavorando in carcere ho conosciuto tante persone diverse, tante sofferenze. Qualcuno mi faceva anche paura. Ma ho affrontato tutto con l’amore che ho dato agli altri e che a un certo punto ho avuto per me. Ma avrei avuto bisogno di qualcuno, un esperto che potesse ascoltarmi, comprendere i miei drammi e indicarmi il percorso. Guardandomi intorno ho capito che la durezza del carcere o della comunità non serve a niente senza di questo. Servono assistenti sociali, psicologi, esperti che possano aiutare a cambiare. Secondo me lo psicologo e gli assistenti sociali, servono prima che il tossicodipendente venga indirizzato in una determinata comunità. I colloqui con gli esperti servono prima affinché le persone si possano aprire e capire quali problemi bisogna risolvere. E in base a questo capire che tipo di struttura è adatta per ognuno”. Paola ce l’ha fatta da sola, è stata forte, ma quanti ce la fanno? Bisognerebbe che lo Stato prenda in carico maggiormente soprattutto le fragilità delle persone se mira a creare un mondo davvero migliore per tutti, assolvendo alla sua missione. “Qualche tempo fa sono andata a ringraziare i carabinieri: se non mi avessero arrestata forse sarei morta di overdose prima. Mi hanno salvato la vita - dice Paola commossa - Alla fine ho perdonato anche papà con cui avevo avuto in passato grande conflitto. Sono stata con lui fino alla fine, l’ho accudito e mi è servito tanto. Non son più cascata nelle sostanze perché mi avevano tolto l’amore di me stessa e degli altri. In carcere, nella mia ora più buia, ho capito che una luce esiste sempre ed è questo il mio messaggio di speranza che voglio portare a tutti”. Matteo Garrone: “Torno alla realtà del contemporaneo dopo Gomorra un’Odissea sui migranti” di Fulvia Caprara La Stampa, 25 giugno 2023 Il regista e il nuovo film “Io capitano”, storia del viaggio tragico di due ragazzi dall’Africa. Una luce negli occhi, quasi infantile, un sorriso largo, accogliente, una timidezza congenita che lo ha accompagnato fin dagli inizi trasformandolo in uno degli autori più segreti e laconici del panorama internazionale. Eppure, stavolta, Matteo Garrone, ospite d’onore del Filming Italy Sardegna Festival diretto da Tiziana Rocca, smentisce la sua fama, parla di tutto, il cinema, l’ispirazione, il modo per rilanciare le sale in crisi. L’unico terreno off-limits riguarda il nuovo film Io capitano, nelle sale dal 7 settembre, protagonisti Seydou Sarr e Moustapha Fall, storia del viaggio tragico e avventuroso di due ragazzi che lasciano Dakar per raggiungere l’Europa, affrontando “un’Odissea contemporanea attraverso le insidie del deserto, gli orrori dei centri di detenzione in Libia e i pericoli del mare”. Garrone, dopo “Gomorra” e “Dogman” torna a puntare l’obiettivo sui nostri giorni, usando il suo linguaggio pittorico e metaforico e mettendo in modo ancor più incisivo il dito nella piaga dell’attualità... “Sto facendo un percorso, ma non so bene dove sto andando e nemmeno lo voglio sapere. Faccio del mio meglio per raccontare storie che siano vive. Sono d’accordo con quello che diceva Fellini, non ci sono film belli e brutti, ci sono solo film vivi o morti. Cerco di fare film vivi”. “Io capitano” sarà in cartellone alla prossima Mostra di Venezia? “Non posso dire molto, se non che il film è su due ragazzi che fanno un viaggio partendo dall’Africa. Sarò felice di parlarne quando sarà possibile”. È contento del risultato finale? “Questo dovrete dirlo voi. Quando finisco un film sono sempre contento, anche se ogni volta mi lascio aperta una strada per tornare a girare. Metto da parte una piccola quota del budget, così se dopo il montaggio e dopo le proiezioni-test, mi viene in mente di correggere qualcosa, posso farlo. Ho un tesoretto, l’ho usato anche stavolta. Per L’imbalsamatore siamo tornati sul set in nove, su una troupe che in tutto era stata di 40 persone, abbiamo girato quasi 50 minuti e abbiamo raddrizzato il film. Le riprese, per me, sono un po’ come quando si va a fare la spesa. Se hai comprato buoni ingredienti, è probabile che venga fuori un buon piatto, ma poi c’è il montaggio, che è come cucinare, e anche lì non si può mai dire come sarà la pietanza”. Le è mai capitato, a fine riprese, di non essere soddisfatto? “Non è facile fare buoni film, cere volte si fanno errori in buona fede. Per Dogman avevo scelto un altro attore protagonista e anche un’altra location, totalmente sbagliata. Stavo per iniziare a girare, ma ho capito che non avevo preso le decisioni giuste, così ho cambiato tutto. L’errore è sempre in agguato, certe volte te ne accorgi in tempo e cambi rotta, altre no”. Ha tenuto una masterclass, qual è il consiglio che darebbe ai futuri registi? “Sono un autodidatta, non ho una preparazione teorica, per me il lavoro è sempre un’esperienza vissuta sul campo. Quando incontro ragazzi cerco di capire che cosa li interessa, quali sono i loro obiettivi, e cerco di mettermi al loro servizio. Non ho la frase magica che risolve tutto, apro un dialogo. Una cosa che raccomando sempre è di non omologarsi, di trovare un loro linguaggio. Oggi si fanno film con budget sempre più ridotti, ci sono telecamere straordinarie, è diverso da quando ho iniziato io. Allora esisteva ancora la pellicola, facevo i miei corti con gli scarti della pellicola di Nirvana di Salvatores. Adesso se hai un’idea la puoi realizzare, i ragazzi non hanno alibi”. Alla base dei suoi film ci sono stati spesso temi legati alla realtà, che lei ha riletto attraverso la sua particolare sensibilità. Come è andata? “La cronaca ti lega e io, invece, voglio essere libero, voglio conservare la possibilità di mettere la mia e la nostra fantasia nelle cose che faccio. Quando ho affrontato Gomorra ho scelto un linguaggio quasi documentaristico perché volevo restituire allo spettatore l’esperienza di vivere dentro quel mondo. Ogni film ti suggerisce un approccio. Quello di Dogman è una fusione esplicita tra realismo e astrazione fiabesca. Gomorra è una fiaba nera, avevo letto il libro di Saviano appena pubblicato, rimasi colpito dalla forza di una realtà che sconfinava quasi nella fantascienza”. Ha detto di avere un’idea per rilanciare le sale cinematografiche. Qual è? “Secondo me bisognerebbe classificare le sale, come si fa con gli alberghi e con i ristoranti. Dovrebbero esserci sale a 3, a 4, a 5 stelle, così da una parte si valorizza il lavoro degli esercenti e dall’altra si tutelano gli spettatori evitando che paghino un biglietto per poi trovarsi in un cinema dove lo schermo è grande come quello del televisore di casa”. La trappola della “informazione alternativa” di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 25 giugno 2023 Il segnale di pericolo sta in cinque parole: “L’ho visto su internet”. Il pericolo sta nelle notizie incontrollate, diffuse per allarmare e per provocare. Ottant’anni e opinioni decise, come spesso càpita a quell’età: diminuisce la cautela, aumentano le convinzioni. Il signor M. ha vissuto a lungo all’estero, dove ha lavorato come dirigente per un’azienda italiana. Ci siamo incrociati, in passato. Mi saluta con calore e mi chiede cosa faccio oggi. Gli rispondo. Sembra scusarsi: “Sa com’è, non leggo più i giornali e non guardo la televisione... Preferisco l’informazione alternativa”. Non ho cuore di chiedergli quale sia, temendo la risposta. Mi preoccupa l’aggettivo: “alternativa”. Come ha ricordato Lilli Gruber nella rubrica su “7”, l’aggettivo venne usato da una consigliera del presidente Donald Trump per nascondere la verità (alternative facts = falsità). Informazione alternativa: a cosa? Quotidiani, testate online, tigì, notiziari radio, programmi d’approfondimento - con tutti i loro limiti e le loro differenze - sono prodotti da professionisti. Il pubblico li giudica, e poi sceglie. Un sistema imperfetto, però funziona. L’informazione alternativa cos’è? Partiti, aziende, enti pubblici, individui e interessi che promuovono sé stessi? Oppure, peggio: notizie incontrollate, diffuse per allarmare, provocare e far soldi? Lo abbiamo sperimentato al tempo del Covid: gli “informatori alternativi”, senza basi scientifiche, confondevano le idee a molti, in cerca di clic e follower. Quante persone che conosco ci sono cascate. Persone istruite, spesso. Il segnale di pericolo sta in cinque parole: “L’ho visto su internet”. Anche questo articolo, probabilmente, lo state leggendo online. Ma sotto c’è un nome, un cognome, una vicenda professionale; una testata che ha una storia, una reputazione e offre una garanzia. Non una garanzia assoluta - nessuno è perfetto - ma certamente superiore a quella dei trafficanti del web. È colpa nostra - dei giornalisti, intendo - se non siamo riusciti a convincervi del valore del nostro lavoro. Ogni persona intelligente che s’affida alla “informazione alternativa” è, per noi, una sconfitta personale e professionale. Il mestiere degli “informatori alternativi” è spacciare ossessioni. Voi direte: chi se ne frega, tanto è gratis! Be’, pure peggio. Se non pagate per un prodotto, il prodotto siete voi. Su disarmo e diritti, faremmo bene a ripartire da queste parole di Enrico Berlinguer di Manfredi Alberti L’Espresso, 25 giugno 2023 Per il segretario del Pci la salvaguardia della pace era connessa alla trasformazione dell’ingiusto ordine economico internazionale. Rileggerlo ora dimostra quanto sia ancora attuale. “C’è un ruolo insostituibile che l’Europa dovrebbe svolgere per favorire uno sviluppo della collaborazione mondiale per il disarmo, per la salvaguardia della pace, per la trasformazione dell’attuale, ingiusto ordine economico internazionale, che condanna oltre un terzo dell’umanità al sottosviluppo, alla fame, alle malattie endemiche, all’analfabetismo”. Si rimane sorpresi per l’attualità di queste parole. Risalgono al 1978, e sono le parole usate da Enrico Berlinguer in un’intervista sull’Africa. Sono trascorsi poco meno di cinquant’anni da allora, ma i problemi all’ordine del giorno sono ancora gli stessi: il superamento di un sistema economico che produce diseguaglianze, la minaccia della guerra atomica, lo sfruttamento delle risorse naturali e l’inquinamento, il pericolo di ricorrenti pandemie, la gestione dei flussi migratori. Di fronte a tali sfide, quello di cui si sente la mancanza oggi è un pensiero politico che sappia tenere insieme le questioni locali e quelle globali; in un mondo sempre più interconnesso non sono ammissibili chiusure nazionalistiche, ma al contempo non può essere elusa la questione di un nuovo governo dell’economia mondiale, come fondamento per una pace stabile. Si rivela prezioso il volume (Enrico Berlinguer, “La pace al primo posto”. Scritti e discorsi di politica internazionale (1972-1984), a cura di Alexander Höbel, Donzelli, Roma 2023, pp. 368) che l’Associazione Enrico Berlinguer e l’editore Donzelli hanno pubblicato, affidando allo storico Alexander Höbel il compito di selezionare e introdurre alcuni dei principali scritti del segretario del Pci su pace e relazioni internazionali. Le considerazioni di Berlinguer prendono avvio dalle turbolenze economiche dei primi anni Settanta, la fine del sistema di Bretton Woods e la crisi petrolifera del 1973. Pur muovendo dalle basi economiche della crisi, Berlinguer rifugge da una lettura economicistica, collegando quei cambiamenti all’esaurimento del vecchio colonialismo e all’emergere di nuovi attori economici globali (dai Paesi asiatici a quelli del Medio Oriente). Con la fine della guerra del Vietnam non venne meno il rischio di un confronto militare fra Stati Uniti e Unione Sovietica, come dimostrava l’accumulazione di armi atomiche. In tale scenario la ricerca della pace diventava per Berlinguer un “imperativo categorico” per la sopravvivenza stessa del genere umano. L’Europa di oggi, e in particolare le forze democratiche e popolari, farebbero bene a ripartire da questa lezione. La ricerca di un’autonoma strategia per la pace impone anche oggi il superamento della logica bellicista, la riduzione degli armamenti e la costruzione attiva di un ordine economico fondato sulla cooperazione commerciale e finanziaria, oltre che sulla riduzione delle barriere e delle diseguaglianze. Berlinguer vedeva tali obiettivi come parte di un processo di avvicinamento al socialismo. Seppure in condizioni diverse, dovremmo avere il coraggio di riprendere in forme nuove quel cammino. Il continente africano: la vera base operativa e finanziaria di Wagner di Stefano Mauro Il Manifesto, 25 giugno 2023 Le origini del gruppo Wagner e la sua affermazione in vari paesi dell’Africa. I mercenari di Wagner sono saliti alla ribalta per la prima volta durante l’invasione della Crimea del 2014, quando hanno sostenuto l’esercito russo. Li abbiamo poi visti in Siria, accanto alle forze di Bashar Al-Assad, per arrivare nel continente africano in Libia, dove hanno sostenuto il generale Khalifa Haftar. Il Gruppo Wagner è una compagnia militare privata, ma anche una rete opaca di aziende e organizzazioni di influenza politica che godono dell’appoggio implicito dello stato russo. Guidato da Evgueni Prigojine, un oligarca inizialmente vicino al presidente russo Vladimir Putin. Nel gennaio 2023, gli Stati Uniti l’hanno designata “organizzazione criminale internazionale” anche a causa di “numerose esecuzioni sommarie e brutalità contro civili”, come documentato dall’Onu nella Repubblica Centrafricana ed in Mali. Secondo vari studi il gruppo Wagner ha la propria “base operativa ed economica in Africa” dove svolge attività in tredici diversi paesi: Libia, Eritrea, Sudan, Algeria, Mali, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Mozambico e Zimbabwe. Ha attivato collaborazioni in alcuni casi di tipo militare, in altri solo commerciali: l’obiettivo è da un lato di ottenere vantaggi economici, con lo sfruttamento delle risorse locali, dall’altro creare nel continente una rete di governi vicini alle posizioni russe e in opposizione ai paesi occidentali. I mercenari del gruppo avevano iniziato a operare in Libia dopo la fine del regime di Muammar Gheddafi e l’inizio della guerra civile, e avevano affiancato le milizie del maresciallo Khalifa Haftar nella guerra contro il governo di Tripoli, sostenuto dai paesi occidentali. Ma è nella Repubblica Centrafricana che hanno stabilito “la loro partnership più proficua”, stima la Global Initiative against Transnational Organised Crime (Gi-Toc) in un rapporto pubblicato nel febbraio 2023. Arrivato nel 2018 per facilitare i trasferimenti di armi e fornire addestramento e protezione, il personale Wagner ha rapidamente preso parte alle operazioni militari contro i ribelli armati che cercavano di attaccare il governo del presidente Faustin-Archange Touadéra. Le loro aziende sono passate dalla sicurezza anche al settore delle risorse naturali, con accesso privilegiato alle miniere d’oro e di diamanti, oltre al controllo di alcuni ministeri. Una situazione simile si è verificata in Mali. In seguito a due colpi di stato, i rapporti tra Bamako e Parigi, ex potenza coloniale, si sono deteriorati e, dopo il fallimento dell’operazione Barkhane - la forza antiterroristica francese- il ritiro francese ha lasciato campo libero ai russi. Il Mali nega la presenza di mercenari, riconoscendo solo quella di istruttori e addestratori russi, arrivati in virtù di un accordo di cooperazione con la Russia. Ma il capo dell’Africa Command degli Stati Uniti, il generale Stephen Townsend, ha sostenuto lo scorso luglio che il Mali stava pagando a Wagner “10 milioni di dollari al mese, sotto forma di risorse naturali come oro e pietre preziose”. In Sudan, Wagner ha approfittato dell’instabilità per ottenere profitti. Le aziende della rete Prigojine hanno avuto per anni accesso a concessioni minerarie e trafficato in prodotti auriferi sudanesi. Nel conflitto in corso nel paese, Wagner sostiene i paramilitari delle Rapid Support Forces (Rsf) del generale Mohamed Hamdane Daglo, detto Hemetti, ai quali ha fornito in particolare missili terra-aria e sostegno logistico, in particolare nella zona del Darfur. Dopo i fatti di oggi, bisognerà vedere quali ripercussioni ci saranno anche per i governi locali africani legati sia a Mosca con rapporti economici e militari, ma intrinsecamente affiliati in numerose operazioni militari ai miliziani di Wagner.