Chi ha paura di Rita Bernardini come Garante dei detenuti? di Marco Perduca huffingtonpost.it, 24 giugno 2023 Una posizione dove gli oneri superano gli onori è disegnata per chi da sempre fa politica militante e non per la ricerca di un posto al sole. Il governo ci pensi seriamente. Una delle prime visite che ho fatto in un carcere italiano è stata a Rebibbia all’inizio della XVI legislatura. Marco Pannella aveva suggerito che la delegazione radicale, eletta nel 2008 nelle liste del Partito democratico, incontrasse dei ragazzi rumeni accusati di aver violentato una ragazza e picchiato il suo fidanzato. Girava voce che fossero stati picchiati in caserma al momento dell’arresto e che anche in carcere erano stati minacciati. Durante la campagna elettorale per le comunali di Roma del 2008 “rumeno” era sinonimo di violento criminale... Tra i presenti di quella visita c’era anche Rita Bernardini, da poco eletta deputata e membra della Commissione Giustizia. A seguito della conferenza stampa all’uscita tra le altre cose, si sentì dire dall’allora sindaco di Guidonia, dove erano avvenuti i fatti, che non gli risulta che “Rita Bernardini abbia fatto richiesta di incontrare la vittima di questa atroce violenza”. Sarebbe stata la prima di una lunga serie di “commenti” che, pur di non entrare nel merito della denunce di Bernardini, avrebbero scaricato su di lei accuse di privilegiare i Caino agli Abele e dubbi di imparzialità sul lavoro svolto. Anche se raramente veniva offerta la possibilità di ribattere con altrettanta copertura mediatica quei “commenti” non hanno mai attenuato l’operato di Rita Bernardini, anzi. Nei cinque anni da parlamentari la deputata radicale ha visitato tutti gli istituti di pena italiani facendosi carico di far diventare il “Ferragosto in carcere” un vero e proprio appuntamento istituzionale e non più un’azione militante che i radicali portavano avanti da quando erano entrati in Parlamento. Il Ferragosto sarebbe poi diventato Natale, il Natale si sarebbe esteso al Capodanno per arrivare fino alla Pasqua. Insomma, nel suo “rappresentare la Nazione”, Rita Bernardini, proprio come Marco Pannella, ha esercitato le sue funzioni senza vincolo di mandato elettorale (il rapporto del Pd con le carceri o col diritto penale è uno dei tanti misteri della politica italiana) ma con una coerenza di lotta politica senza uguali. Le visite alle persone private della libertà, che secondo alcuni studi interesserebbero il 40% dei ristretti - e non per errore giudiziario ma per l’irragionevole durata dei procedimenti penali - erano portate avanti non come affermazione identitaria ma con vero e proprio spirito di servizio tanto per i visitati (detenuti e detenenti) che per i visitanti. L’esperienza acquisita tra le mura dei penitenziari fece predisporre a Bernardini un vademecum della visita in carcere per consentire anche ai neofiti di impiegare fruttuosamente il tempo per acquisire informazioni utili al rispetto della Costituzione, dei diritti umani nonché del Regolamento penitenziario. sarebbe interessante, oltre che molto istruttivo, collazionare le interrogazioni parlamentari di Bernardini a seguito delle sue visite, metterle a confronto con le (eventuali) risposte del ministero della Giustizia e monitorare come si sia (eventualmente) modificata la situazione contestata. Buona parte di quanto chiesto in quella legislatura sarebbe in effetti poi rientrato, senza naturalmente esser citato, nella famigerata sentenza pilota “Torreggiani” adottata dalla Corte europea sui diritti umani nel 2013, relativa a “trattamenti inumani e degradanti” subiti dalle quasi 90.000 persone ristrette nelle carceri della Repubblica italiana nel 2009. Le elezioni del 2013 videro i Radicali (non tutti persuasi dell’opportunità dell’esercizio) impegnati a presentare una lista denominata “Amnistia Giustizia e Libertà” in linea con quella che era stata la loro priorità per la seconda parte della XVI legislatura. Anche se i provvedimenti di “clemenza” sono sempre associati alla detenzione, Pannella riteneva che, proprio per i suoi comportamenti da “delinquente abituale”, la Repubblica Italiana avesse bisogno di una grande amnistia per poter ricominciare una vita istituzionale che finalmente si basasse sull’effettivo rispetto della Costituzione e non sui vuoti proclami in piazza o sui tetti dei palazzi del potere in sua difesa. A ottobre 2013 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano inviò un messaggio alle Camere (una rarità) sulla situazione penitenziaria a cui seguirono modificazioni legislative cosmetiche volte più ad allentare il monitoraggio della Corte di Strasburgo che a rendere le carceri italiane a norma di legge. Del senno di poi son piene le fosse, ma risulta difficile ipotizzare quella decisione presidenziale senza quando detto e fatto da Pannella e i Radicali negli anni precedenti. Non rieletta nel 2013, Rita Bernardini ha, se possibile, intensificato la sua opera di sindacato ispettivo nelle carceri in tutta l’Italia isole comprese; certo doveva ottenere permessi speciali dal Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, ma non per questo ha rallentato le visite. A lei si deve l’ammissione del ministero della Giustizia di non essere in grado si conoscere il reale numero dei letti a sua disposizione - un dato fondamentale per calcolare la cosiddetta capienza regolamentare. Non è escluso che non siano state più efficaci le segnalazioni informali ad personam da “semplice” cittadina che le interrogazioni parlamentari - che pure sono continuate avendo trovato in Roberto Giachetti la massima disponibilità a presentarle e dar loro seguito. Il telefono di Bernardini è diventato una “voce bella” per chi ha problemi con la giustizia. Da innocente o colpevole. In questi giorni Rita Bernardini è una delle candidature sul tavolo del ministro della Giustizia per far parte del collegio dei garanti per le persone private di libertà le cui componenti “sono scelte tra persone non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani, e sono nominati, previa delibera del Consiglio dei ministri, con decreto del Presidente della Repubblica, sentite le competenti commissioni parlamentari”. Un’esperienza simile, anche se di nomina tutta politica, Bernardini l’aveva già vissuta anni fa quando il suo nome era stato avanzato come Garante per la regione Abruzzo. Malgrado a chiacchiere fossero tutti d’accordo la nomina fu sospesa per mesi e alla fine cassata. Come si legge sul sito del Garante, in Italia il percorso di creazione di questa figura è iniziato nel 1997 portando alla sua istituzione alla fine del 2013 mentre la nomina del Collegio e la costituzione dell’Ufficio sono avvenuti solo nei primi mesi del 2016. Una delle tante priorità all’italiana. Le ultime voci di corridoio di via Arenula la darebbero con parere favorevole dal ministro Carlo Nordio, ma al centro di dubbi da parte di altre figure politico-istituzionali non meglio identificate equamente distribuite tra questi e quelli. Quando si tratta di certe tematiche e dei Radicali è difficile identificare da dove possa arrivare il fuoco amico. Però, un governo che ha addirittura infilato la parola “merito” in uno dei suoi ministeri, che si definisce “garantista” e che, ancorché quando non godeva dell’attuale favore elettoral-mediatico, non ha mai esitato a bussare alla porta di Pannella per motivi di “denegata giustizia” o diffamazione a mezzo stampa per accuse infondate, dovrebbe apertamente e convintamente assumersi la responsabilità di candidare apertamente Rita Bernardini. Se poi, come prevede il regolamento, occorrono competenza ed esperienza nel settore non credo che, a parte gli uscenti, ci siano persone a piede libero con altrettanto pedigree. Certo, è antiproibizionista, certo è anti-clericale, certo è antifascista quanto anticomunista, ma il mandato di chi deve “garantire i diritti” è quello di guardare prima in faccia la realtà e poi il potere. Il compito di quell’ufficio (come di tutti quelli pubblici a dir la verità) è adoperarsi per l’affermazione dello Stato di Diritto, dire quel che si vede e, salvo si tratti di comprovate violazioni dei diritti umani da perseguire e sanzionare, suggerire soluzioni ideali quanto pragmatiche a problemi complessi e sclerotizzati. Una posizione dove gli oneri superano gli onori è disegnata per chi da sempre fa politica militante e non per la ricerca di un posto al sole. Il governo ci pensi seriamente. L’intelligenza artificiale nelle carceri è già realtà: servono norme per la tutela dei diritti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 giugno 2023 Telecamere con algoritmi che rivelano elementi sospetti nei reclusi, ascolto chiamate con elaborazione delle parole chiave per evidenziare fatti illeciti, guardiani robotici nei padiglioni, previsione delle recidive e disporre misure preventive come il film “Minority Report”. Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale (IA) è diventata sempre più pervasiva, con un aumento delle applicazioni in settori come la salute, l’agricoltura, l’energia e l’ambiente. L’IA può fare una grande differenza nella nostra vita, sia in positivo che in negativo. Nel corso di giugno 2023, il Parlamento europeo ha stabilito la propria posizione normativa, presentando il primo insieme di regole al mondo sull’intelligenza artificiale. Ma già nel 2021, a livello europeo, è emerso un dibattito sull’impiego dell’IA all’interno delle carceri e nei sistemi di libertà vigilata. Parliamo del Consiglio per la cooperazione penologica (PC- CP), che ha presentato una proposta di raccomandazione a Strasburgo fornendo linee guida sull’utilizzo dei meccanismi di intelligenza artificiale in tali contesti. Secondo la definizione della Commissione europea, l’intelligenza artificiale si riferisce a sistemi che mostrano un comportamento intelligente analizzando l’ambiente circostante e intraprendendo azioni per raggiungere obiettivi specifici con un certo grado di autonomia. Di conseguenza, l’utilizzo di tali sistemi nelle carceri e nella probation offre nuove modalità di raccolta ed elaborazione dei dati sui condannati e potenzia le tecniche di controllo per migliorare il regime di sorveglianza. Nel contesto della probation, l’utilizzo della tecnologia è stato introdotto già negli anni Ottanta e Novanta, con il monitoraggio elettronico e le valutazioni computerizzate del rischio di recidiva. Oggi, questi sistemi possono essere gestiti tramite l’intelligenza artificiale. Tuttavia, il documento del PC- CP ha sollevato preoccupazioni riguardo all’uso della cosiddetta polizia predittiva, che si basa su algoritmi e dati per prevedere la recidiva e prendere misure preventive. Il Consiglio ha messo in guardia sull’affidamento di tali decisioni riguardanti la recidiva, sottolineando il rischio di fallimento di queste tecniche. Allo stesso tempo, il Consiglio ha suggerito che lo sviluppo tecnologico più utile nei sistemi di probation potrebbe essere una forma di monitoraggio elettronico basata sugli smartphone, utilizzati per la localizzazione e come base per applicazioni che consentono la sorveglianza in tempo reale delle azioni dei reclusi. L’intelligenza artificiale potrebbe rilevare comportamenti potenzialmente rischiosi e intraprendere azioni adeguate, come segnalare agli ufficiali di sorveglianza o avviare una conversazione attraverso un chatbot che mira a ridurre la tensione. Questo strumento potrebbe essere particolarmente efficace nel trattamento di problematiche come la tossicodipendenza e la salute mentale. Offrendo un monitoraggio costante e una risposta tempestiva, l’IA può contribuire a individuare segnali di allarme e fornire supporto appropriato ai detenuti che affrontano tali sfide. Per quanto riguarda le carceri, l’uso dell’intelligenza artificiale è principalmente legato alla sicurezza. Le nuove tecnologie di sorveglianza remota consentono un monitoraggio costante e dettagliato dei detenuti, superando il modello del panopticon di Bentham. Si possono citare alcuni esempi, come il monitoraggio della frequenza cardiaca dei detenuti tramite braccialetti e il controllo delle telefonate mediante l’utilizzo di riconoscimento vocale e analisi semantica. Dal documento elaborato dal Consiglio per la cooperazione penologica emerge che alcuni Paesi, come Cina e Corea del Sud, hanno introdotto addirittura ‘ guardiani robotici’, macchine mobili che pattugliano gli ambienti carcerari al fine di alleggerire il carico di lavoro del personale penitenziario. Ad esempio, in una prigione di Hong Kong, ai detenuti viene richiesto di indossare un braccialetto che monitora il loro battito cardiaco, da cui è possibile dedurre alcuni aspetti del loro comportamento. In una prigione cinese, telecamere nascoste e sensori nelle celle generano rapporti quotidiani su ciascun detenuto. In una prigione nel Regno Unito, telecamere dotate di IA monitorano le persone che vi entrano per rilevare oggetti illeciti, droghe e armi, confrontando i loro movimenti e comportamenti con un concetto di ‘ sospettosità’ incorporato negli algoritmi. Negli Stati Uniti, diversi stati utilizzano l’IA per monitorare le chiamate telefoniche dei detenuti, utilizzando il riconoscimento vocale, l’analisi semantica e il software di apprendimento automatico per creare database di parole cercabili e modelli per rilevare attività illegali. Ancora più all’avanguardia c’è Singapore. Il complesso carcerario di Changi è considerato da alcuni settori commerciali il vertice della gestione tecnologica avanzata nelle “correzioni”. Ancora più interessante della prigione stessa è l’ambiente stato- corporativo in cui si è sviluppato questo progetto. Opera un’organizzazione commerciale (HTX) che si definisce un’agenzia scientifica e tecnologica il cui obiettivo è ‘ trasformare il panorama della sicurezza nazionale e mantenere al sicuro Singapore’. La gamma di tecnologie utilizzate da questa organizzazione, è enorme: ‘ biometria, minacce chimiche, biologiche, radiologiche, nucleari ed esplosive, sicurezza informatica, intelligenza artificiale, medicina legale, robotica, automazione e sistemi senza pilota, e sorveglianza’. Questi sviluppi nell’impiego dell’IA all’interno delle carceri sollevano quindi importanti questioni etiche e di privacy. Sebbene queste tecnologie possano contribuire a migliorare la sicurezza e il controllo all’interno degli istituti penitenziari, vi è anche il rischio di una eccessiva invasione della privacy dei detenuti e la possibilità di veri e propri abusi. L’uso diffuso di telecamere e sensori per monitorare ogni aspetto della vita dei detenuti può costituire una violazione dei loro diritti fondamentali e della loro dignità. Inoltre, l’elaborazione e l’analisi dei dati raccolti possono portare a decisioni discriminatorie o pregiudizievoli nei confronti dei detenuti, basate su algoritmi che potrebbero essere intrinsecamente sbagliati o contenere pregiudizi incorporati. Questo solleva preoccupazioni riguardo all’equità nel trattamento dei detenuti e alla potenziale perpetuazione delle disuguaglianze esistenti nel sistema penale. È quindi fondamentale trovare un equilibrio tra sicurezza e rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. Ecco perché, già da ora, è importante considerare la necessità di un adeguato quadro normativo e di salvaguardie per regolamentare l’uso delle tecnologie digitali e dell’IA nelle carceri. Prima o poi, anche se l’Italia è un caso particolare perché trova persino difficoltà nell’utilizzo del semplice Skype per le videochiamate, è essenziale elaborare norme per garantire che tali strumenti siano utilizzati in conformità con i principi fondamentali dei diritti umani, inclusa la riservatezza, la non discriminazione e il trattamento umano dei detenuti. Inoltre, emerge sempre dal documento elaborato a Strasburgo, occorre garantire la trasparenza nell’utilizzo di tali tecnologie, al fine di evitare abusi e manipolazioni. In definitiva, l’introduzione delle tecnologie digitali e dell’IA nelle carceri ha il potenziale per trasformare radicalmente il modo in cui vengono gestite e il rapporto tra autorità carcerarie e detenuti. Tuttavia, è fondamentale affrontare in modo critico le implicazioni etiche, sociali e giuridiche di tali sviluppi, al fine di garantire che siano utilizzati in modo responsabile e rispettoso dei diritti umani. Detenuti, 13 mln per reinserimento Italia Oggi, 24 giugno 2023 Arriva il semaforo verde dal Ministero della Giustizia a un decreto che stanzia 13 milioni di euro per il reinserimento dei detenuti e per le attività organizzate negli istituti penitenziari destinate ad ampliare la formazione al lavoro. Il decreto prevede 5 milioni di euro dedicati al reinserimento dei detenuti e dei condannati, anche mediante l’attivazione di percorsi di inclusione lavorativi e di formazione professionale, per la cura e assistenza sanitaria e psichiatrica, nonché per il recupero dei tossicodipendenti o assuntori abituali di sostanze stupefacenti, psicotrope o alcoliche. Sono stati, inoltre, stanziati 8 milioni di euro per gli istituti penitenziari per ampliare le opportunità di lavoro professionalizzanti per oltre 1.500 detenuti. Il provvedimento, spiega una nota del dicastero guidato da Carlo Nordio, attiva una stretta collaborazione tra Amministrazione della Giustizia, Regioni, Enti territoriali e Terzo settore per attuare un sistema integrato di interventi volto a rafforzare la sicurezza del Paese, attraverso l’inclusione sociale delle persone in esecuzione penale. Vi dico chi era Caino di Andrea Pugiotto L’Unità, 24 giugno 2023 È il primo assassino, ma dopo una vita tormentata, diventa il primo costruttore di città nella storia dell’umanità. Sostituisce alla violenza passata gli strumenti nonviolenti dell’ordinamento democratico, e li usa nell’interesse generale: il segno più tangibile che la scommessa costituzionale è stata vinta. Da tutti. Sembra sopita la polemica esplosa all’indomani della pubblicazione su l’Unità di un articolo a firma di Valerio Fioravanti, peraltro dal contenuto “civilissimo” (Stefano Cappellini, La Repubblica, 3 giugno). Ma è come brace sotto la cenere: il putiferio riprenderà alla prossima occasione. Il direttore Sansonetti, nella sua replica, ha lasciato appeso il quesito di fondo: “Sapete chi è Caino? Beh, questo ve lo spiego un’altra volta”. Raccolgo la pertinente provocazione rispondendo a mio modo. Caino è, innanzitutto, un personaggio biblico. Fratricida per motivi abietti, subisce per questo una triplice condanna: la lontananza da Dio, la fatica infruttuosa del lavoro della terra, la condizione di esule ramingo. Al tempo stesso, è posto al riparo dalla vendetta altrui: “Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato”. Il racconto biblico ha un epilogo ri-generativo: diventato padre, Caino “costruì una città alla quale diede il nome di suo figlio: Enoc” (Genesi, 4,17). Il primo assassino, al termine della sua vita tormentata, è il primo costruttore di città nella storia dell’umanità. Caino che sostituisce alla violenza passata il ricorso agli strumenti nonviolenti dell’ordinamento democratico, e li usa nell’interesse generale, è il segno più tangibile che la scommessa costituzionale è stata vinta. Da tutti. Chi pensa che tacitare Caino sarebbe un virile gesto antifascista, ha capito davvero poco della logica inclusiva della nostra Costituzione. 1. Sembra sopita la polemica esplosa all’indomani della pubblicazione su l’Unità di un articolo a firma di Valerio Fioravanti, peraltro dal contenuto “civilissimo” (Stefano Cappellini, La Repubblica, 3 giugno). Ma è come brace sotto la cenere: il putiferio riprenderà alla prossima occasione, trainato da pagine social usate come le pareti di un vespasiano. Il direttore Sansonetti, nella sua replica, ha lasciato appeso il quesito di fondo: “Sapete chi è Caino? Beh, questo ve lo spiego un’altra volta” (l’Unità, 1 giugno). Si parva licet, raccolgo la pertinente provocazione rispondendo a mio modo. 2. Caino è, innanzitutto, un personaggio biblico (Genesi, 4, 1-16). Fratricida per motivi abietti, subisce per questo una triplice condanna: la lontananza da Dio, la fatica infruttuosa del lavoro della terra, la condizione di esule ramingo. Al tempo stesso, è posto al riparo dalla vendetta altrui: “Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato”. Dunque, dopo l’omicidio di Abele, Dio pone Caino davanti alle sue responsabilità, sanzionandole severamente, e lo rende riconoscibile, non per farne un bersaglio bensì per tutelarlo. Giuridicamente, è un rebus denso di significati: quali? Primogenito di Adamo ed Eva, Caino è il primo nato tra gli uomini: dunque, “la violenza dell’uomo appare come originaria” (Massimo Recalcati, Il gesto di Caino, Einaudi 2020); riguarda potenzialmente tutti, perché “io vivo adesso dentro ogni umano, e lo strattono fino all’insolenza, fino al delitto/a volte” (Mariangela Gualtieri, Caino, Einaudi 2011). È il primo insegnamento. Ecco il secondo: il peccato originale commesso nell’Eden dai suoi genitori perde, con Caino, la dimensione privata per trasformarsi in violenza sociale: due fratelli, “uno non sopporta l’altro; ed ecco che l’odio si scatena, e subito la terra è irrigata di sangue” (Gianfranco Ravasi). Proprio perché fatto sociale, l’atto criminale per quanto efferato merita giustizia, non vendetta: da questa Caino va protetto, senza che ciò ne giustifichi l’azione. È il terzo insegnamento: in uno Stato di diritto, il monopolio pubblico nell’esecuzione penale serve proprio per emanciparla da forme di giustizia fai-da-te e dalla logica del taglione, perché l’occhio per occhio rende tutti ciechi. A fondamento di tutto c’è la distinzione tra errore ed errante: Caino è colpevole, ma non si risolve integralmente nella sua colpa. Teologicamente si direbbe: distinguere tra l’esistenza e l’essenza dell’uomo. Giuridicamente noi diciamo: distinguere tra il reato e il reo, nel nome di una dignità umana che, “come non si acquista per meriti, così non si perde per demeriti” (Gaetano Silvestri). 3. Caino, però, è anche un personaggio letterario, protagonista dell’omonimo romanzo di José Saramago (Feltrinelli 2010). Lo scrittore portoghese ne fa un viaggiatore nello spazio e nel tempo che attraversa tutti gli episodi più significativi dell’Antico Testamento: dalla cacciata dall’Eden fi no alle vicende dell’arca di Noè (con finale a sorpresa, rispetto al racconto biblico). Attraverso questo Caino errabondo, a cavallo di una mula come un Don Chisciotte ante litteram, scopriamo le spropositate pretese del Dio della Bibbia e i suoi smisurati castighi. L’allegoria letteraria capovolge l’immagine di Caino quale personificazione del male. È invece il suo dio a rivelarsi più crudele di lui e di tutti i peccatori. Disossato dall’ateismo professato da Saramago, e declinato in chiave giuridica, lo stupore misto allo sdegno del suo Caino davanti a un potere ingiusto e vendicativo disegna - per antitesi - i tratti essenziali di una pena costituzionalmente orientata. Ci dice innanzitutto che il diritto penale, per conservare la sua umanità (imposta dalla prima parte dell’art. 27, comma 3, Cost.), deve essere diverso dal suo oggetto, spezzando la ritorsiva logica per equivalente della pena. Non a caso, il sintagma “Nessuno tocchi Caino” evoca la battaglia radicale per l’abolizione universale delle pene massime: quella di morte e quella fi no alla morte (l’ergastolo). Lo sdegno del Caino letterario ci ricorda, inoltre, quanto sia essenziale la proporzionalità delle pene, se queste “devono tendere alla rieducazione del reo” (come prescrive la seconda parte dell’art. 27, comma 3, Cost.). La dismisura sanzionatoria del legislatore rovescia indebitamente i ruoli, inducendo Caino a percepirsi Abele perché vittima di una pena spropositata, quindi ingiusta. 4. Pur nella abissale distanza, il Caino biblico e il Caino letterario convergono su un punto. Entrambe le narrazioni fanno capire come il momento punitivo sia eminentemente collettivo perché, se ridotto entro il rapporto asimmetrico tra colpevole e offeso, rischia di degenerare nella vendetta di vittime rancorose (così nella Bibbia) o guidata dalla collera di un dio iracondo (così nel romanzo di Saramago). Posso tentarne anche qui una traduzione giuridica. Il finalismo rieducativo della pena si proietta oltre il perimetro dello Stato-apparato per chiamare in causa lo Stato- comunità nel sostenere il percorso di risocializzazione del condannato. Infatti, l’orizzonte lungo e inclusivo dell’art. 27, comma 3, immette un’obbligazione costituzionale che grava, innanzitutto, sul reo chiamato a “intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità”. Ma “non può non chiamare in causa - assieme - la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino” (Corte costituzionale, sent. n. 149/2018). Tutto ciò si riassume nel “diritto alla speranza”, di cui anche Caino è titolare. L’evocativa espressione non nasce dal pulpito, ma dalla Corte EDU (Vinter e altri c. Regno Unito, in tema di ergastolo). Ed è sempre la Corte di Strasburgo a riconosce che la dignità umana “impedisce di privare una persona della sua libertà, senza operare al tempo stesso per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di riguadagnare un giorno questa libertà” (Viola c. Italia n. 2). Detto altrimenti, il diritto alla speranza, quale diritto a ricominciare, è la misura della dignità di Caino: negare l’uno significa negare l’altra. 5. Come sottolinea Andrea Camilleri nel suo Autodifesa di Caino, (Sellerio 2019), il racconto biblico ha un epilogo ri-generativo: diventato padre, Caino “costruì una città alla quale diede il nome di suo figlio: Enoc” (Genesi, 4,17). Il primo assassino, al termine della sua vita tormentata, è il primo costruttore di città nella storia dell’umanità. È l’atteggiamento di Caino che si fa speranza contro ogni speranza, agendo affinché le cose cambino invece di sperare che cambino indipendentemente dal proprio agire: “Spes contra spem” (Lettera ai Romani, 4,18). Caino che - dopo tanto tempo e lungo patire - sostituisce alla violenza passata il ricorso agli strumenti nonviolenti dell’ordinamento democratico, e li usa nell’interesse generale, è il segno più tangibile che la scommessa costituzionale è stata vinta. Da tutti. 6. Quanto a lungo dovrà errare Caino, con un fratricidio che pesa sulle spalle, prima di fare reingresso nella vita della città? Durerà il tempo della pena stabilita dalla legge generale e astratta, applicata in concreto dal giudice: oggi, per i reati ostativi più gravi, 30 anni di detenzione+10 di libertà vigilata (troppo pochi?). Dopo, per lo Stato Caino recupererà il pieno esercizio dei diritti di cittadinanza: anche quello di manifestare liberamente il proprio pensiero, che la Costituzione riconosce a “tutti” (art. 21, comma 1). Chi vede in ciò un intollerabile oltraggio, invoca una pena aggiuntiva priva di base legale. Equivoca il segno imposto su Caino, scambiandolo per un’arroventata lettera scarlatta. Rimpiange l’ostracismo dell’antica Atene. Vuole, senza dirlo, che per lui la pena sia spietata e perenne. Quanto a chi pensa che tacitare Caino sarebbe un virile gesto antifascista, ha capito davvero poco della logica inclusiva della nostra Costituzione. Corsa nel governo per “finanziare” la riforma Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 24 giugno 2023 Nessun sabotaggio del Mef nei confronti del ddl giustizia: lo stop alla Ragioneria di Stato si spiega con lo sforzo di reperire i fondi necessari alla riforma: fino a 34 milioni per i prossimi 10 anni, e Via Arenula non li coprirà da sola. Non è che capita sempre. Non si pensi che a ogni ddl il Consiglio dei ministri liberi un’ovazione come quella tributata a Nordio lo scorso 15 giugno. Anzi. Ai tempi di Tremonti il tono spiccio delle riunioni a Palazzo Chigi provocò una crisi di governo. Però con Nordio è diverso. Sarà il suo eloquio. Sarà il suo amore per le citazioni colte e la capacità, che gliene deriva, di tenere incantato l’uditorio. Fatto sta che giovedì della scorsa settimana, quando il guardasigilli ha finito di illustrare il suo primo ddl, il testo con dentro l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, le intercettazioni e altre novità, è scattato l’applauso degli altri ministri. Anche liberatorio, se si vuole: erano i primi provvedimenti garantisti dopo mesi in cui si è temuto che Nordio fosse isolato. Perciò adesso sarebbe tanto più incomprensibile un insabbiamento del ddl Giustizia. Via Arenula tiene ad assicurare che non c’è da temere alcun sabotaggio della riforma, da più di una settimana ferma ai box della Ragioneria di Stato. I motivi del pit-stop sono altri e sono esattamente opposti all’idea del boicottaggio. Sono sempre fonti governative a spiegare che al ministero dell’Economia, da cui appunto la Ragioneria dipende, è in corso un lavoro febbrile per raccogliere tutte le coperture necessarie all’unica norma del ddl Nordio bisognosa di nuovi stanziamenti. Si tratta, come riportato dal Dubbio, dell’articolo 4, che disciplina l’assunzione dei magistrati da destinare al cosiddetto gip collegiale. Si tratta cioè di finanziare la parte di riforma in cui si prevede che le richieste di misure cautelari in carcere siano valutate non più da un gip monocratico ma appunto da un collegio di tre magistrati, per garantire maggiore ponderazione e anche più autonomia dalla Procura. Il disegno di legge prevede, all’articolo 2, non solo che il nuovo istituto procedurale entri in vigore a due anni dall’approvazione, ma anche che, per rendere sostenibile il passaggio al collegio di tre gip, vengano assunti 250 nuovi magistrati, ulteriori rispetto all’organico già previsto con gli altri concorsi. Magistrati che dovranno assicurare in tutti i Tribunali un organico giudicante abbastanza robusto da scongiurare incompatibilità. Va evitato, per l’esattezza, che uno stesso giudice possa trovarsi ad assumere, in uno stesso procedimento, prima le vesti di gip collegiale e poi quelle di giudice del dibattimento, eventualità che l’ordinamento proibisce. All’articolo 4 del ddl si indica non solo la spesa necessaria a celebrare il concorso per reclutare i futuri 250 gip collegiali (quasi un milione e 300mila euro da spendere l’anno prossimo) ma si autorizzano anche i maggiori costi dovuti agli stipendi dei neoassunti, e lo si fa per i primi dieci anni di vigenza della misura. Qui le cifre si fanno più consistenti, con un’inevitabile progressione, visto che i magistrati vedono aumentare la loro retribuzione in rapporto all’anzianità. Se per il 2025, anno dell’immissione in ruolo, servono 19 milioni e 950mila, ci vorranno 34 milioni e 755mila euro a partire dal 2034. Una spesa annua notevole, che non sarà coperta dal solo ministero della Giustizia. Impossibile, spiega via Arenula, anche considerato che proprio ieri è arrivata, sempre dal Mef, la bollinatura di un altro provvedimento che pure coinvolge le risorse del dicastero di Nordio: il decreto Assunzioni bis, in cui 4 articoli sono destinati a reclutamento di personale per i Tribunali. Uno sforzo che, assicura il ministero guidato dall’ex pm di Venezia, ha letteralmente prosciugato le risorse della Giustizia. Ecco perché per pagare l’innesto dei 250 gip collegiali servono stanziamenti “esterni”. E fonti governative spiegano appunto che alla Ragioneria dello Stato si lavora a stretto contatto con i vertici del dicastero di Giancarlo Giorgetti per individuare da quali fondi dell’Economia e delle Finanze attingere i soldi necessari alla riforma di Nordio. Si segnala anzi che possano esserci spostamenti di risorse anche da altri settori dell’amministrazione. Il che ci riporta all’immagine di partenza: quella di un consenso corale nei confronti di Nordio da parte degli altri ministri, in grado di suscitare un contributo di forze allargato per finanziare il ddl Giustizia. Si temeva che il guardasigilli fosse un corpo estraneo o quasi rispetto alla maggioranza guidata da Giorgia Meloni. A quanto pare non è così. E le critiche arrivate nelle ultime ore per altre misure del ddl Nordio, come l’addio all’abuso d’ufficio, non provocano alcuna crepa nella convinzione del governo rispetto al piano garantista del guardasigilli. Intanto perché quel piano è stato definito in un ministero dove, con Nordio, sono rappresentate tutte le componenti della maggioranza: Forza Italia con Sisto, FdI con Delmastro e la Lega con Ostellari. La concertazione c’è stata prima, insomma. E non è appannata dal timore di indispettire Bruxelles. A proposito della proposta che la Commissione Ue ha avanzato sull’anticorruzione, e che sembrerebbe sconfessare Roma sull’abolizione dell’abuso d’ufficio, via Arenula assicura che, nel colloquio tra Nordio e l’”euroministro” della Giustizia Didier Reynders, è stato ricordato come l’Italia possa contare su ben 17 fattispecie penali in grado di rispondere agli obiettivi della proposta di Bruxelles, concepita per quei paesi che, sulla corruzione, non dispongono di norme efficaci come quelle italiane. Insomma, non sono alle viste ripensamenti sul ddl garantista. Che anzi ha innescato nel governo persino una piccola corsa a reperirne le risorse. Abuso d’ufficio, sindrome d’assedio della magistratura di Alberto Cisterna L’Unità, 24 giugno 2023 La Fortezza Bastiani. La sindrome dell’assedio con un nemico ancora invisibile, ma la cui presenza di percepisce giorno per giorno, oltre le mura rassicuranti e possenti, come una profezia cui non si può sfuggire e che si deve solo avverare. La reazione di alcune toghe al disegno di legge governativo che abroga l’abuso d’ufficio risente, in qualche misura, della sindrome descritta da Dino Buzzati ne Il deserto dei tartari. Si teme che il colpo sia solo un prologo, l’inizio di una tempesta e di un destino a cui non è dato scampare, una inevitabile resa dei conti dopo 30 anni di una legittimazione e di una forza persuasiva che non temeva rivali e che annichiliva, alla fine, ogni disegno riformatore, anche quello animato dal più profondo risentimento e dalla più dolorosa rivalsa. È legittimo chiedersi per quale ragione la cancellazione dal codice penale di un reato praticamente privo di ricadute applicative, con un risibile numero di condanne, con una premorienza investigativa altissima abbia messo in allarme alcuni pubblici ministeri, anche autorevoli, e indotto l’Anm a una posizione di contrarietà decisa e priva di tentennamenti. La risposta non è agevole. È del tutto ragionevole immaginare che il reato di abuso resti in vita in tutti i casi in cui sia violato il dovere di astensione. Che la punizione derivi dall’articolo 323 Cp (come oggi) o da una diversa fattispecie contigua alla corruzione o alla concussione o al peculato non importa poi tanto, ma certamente il funzionario che nega illegittimamente la concessione edilizia al nuovo compagno dell’ex coniuge tiene un comportamento che si colloca ben oltre la sorte dell’impunità che l’abrogazione del reato comporta e par giusto ritenere che debba trovare ospitalità nel codice penale. Nel dibattito parlamentare si potrebbe rinvenire uno spazio di mediazione appropriato, soprattutto tra gli amministratori locali che, certo, non possono invocare una licenza di firma anche in ipotesi di palese conflitto d’interessi e di violazione del dovere di astensione che rappresenta un caposaldo costituzionalmente irrinunciabile dell’attività amministrativa. Chiarito, quindi, che con un po’ di buona volontà una strada riformista resta praticabile, c’è da chiedersi cosa altro si celi in un certo allarmismo che ha subito circondato l’iniziativa di Nordio. La questione è stata esplicitata in alcune interviste dove apertamente si è prefigurato il pericolo che il cittadino non si presenti più in procura a denunciare comportamenti scorretti degli amministratori, menomando così la posizione della magistratura intera nel proprio ruolo di titolare del cosiddetto controllo di legalità. La frase “mi domando da magistrato ed uomo che amministra giustizia cosa dirò a quell’onesto cittadino” che reclama l’intervento investigativo dopo l’abrogazione del reato riassume per intero quale sia il reale approccio al problema in una cerchia non esigua di inquirenti penali. Non importa l’esito dell’indagine, come visto quasi sempre nullo, quel che conta è l’esistenza di una sorta di “forza di reazione rapida” la quale, in presenza di una denuncia, sia in grado di inviare la polizia giudiziaria nell’ufficio amministrativo, di spedire informazioni di garanzia, di disporre sequestri, di interloquire più o meno correttamente con la stampa. Un plesso fortificato, reattivo, minaccioso se occorre, che colloquia direttamente con il singolo cittadino che lamenta un torto dalla pubblica amministrazione e che è in grado di spendere la propria autorevolezza e la propria forza sostanzialmente in modo discrezionale, graduando la risposta a seconda di opinioni, visioni, pregiudizi, congetture. La possibilità di individuare, poi, l’organo di polizia giudiziaria in modo assolutamente incondizionato e libero e a esso affidare l’inchiesta avviata rappresenta il corollario più insidioso del protocollo operativo che si vuole difendere. Si badi bene, non si è al cospetto di interna corporis, di arcana imperii o di misteriose alchimie di potere, il perimetro difensivo di questa azione è esplicitamente e pubblicamente rivendicato da quanti ritengono che l’abuso d’ufficio sia un reato-spia, un campanello d’allarme per poi procedere alla ricerca di ulteriori, più gravi, nascoste ipotesi criminose. In questa definizione di reato-spia si celano riti e sapienza di un certo potere inquirente che ritiene sia propria irrinunciabile missione quella di operare da cane da guardia del potere politico e amministrativo a prescindere da una precisa notizia di reato, ma semplicemente in quanto allertato dal singolo cittadino in una interlocuzione diretta e semplificata, a presa rapida. L’istanza di punizione o la denuncia, così, si atteggiano a presupposto irrinunciabile per insediarsi nella cittadella amministrativa e politica, soprattutto quando questa sia circondata da sospetti, scarsa capacità, opacità finanche antropologiche. Un terreno contiguo, soprattutto nel mezzogiorno d’Italia, a quello delle interdittive antimafia, dello scioglimento dei comuni per mafia, delle misure di prevenzione in cui finanche le denunce contano, assumono rilievo e peso nell’alambicco misterioso e incerto dei presidi di inquisizione. Non è l’abuso d’ufficio in discussione. Lo si è detto la soluzione esiste e appare ragionevole. È il retroterra ideologico e culturale che lo sorregge a mostrare, per la prima volta, crepe e fessure pericolose. Una certa magistratura inquirente rischia di restare alla porta e di non poter violare i santuari opachi del potere politico amministrativo con incursioni che oggi sono possibili pur in presenza di episodi esigui, denunce approssimative, doglianze generiche fintanto che perduri l’attuale configurazione dell’articolo 323. Non è un caso che a muoversi siano state innanzitutto tante toghe del mezzogiorno e dell’antimafia, perché proprio al Sud l’interlocuzione tra poteri e l’azione inquirente muovono dal pregiudizio di una contaminazione, di una collusione e di una convivenza per scardinare la quale occorre un passpartout che solo l’evanescenza descrittiva e precettiva del reato di abuso d’ufficio ha sinora consegnato. L’assedio è cominciato ed è stato condotto con millimetrica precisione. Se la Fortezza Bastiani cade tutto il resto (intercettazioni, custodia cautelare e via seguitando) è di secondaria importanza perché non intacca la base sostanziale di quel “controllo di legalità” che è la fonte della legittimazione politica che una certa magistratura ha perseguito e custodito in qualche decennio. Salerno. Detenuto 36enne morto in cella. Il Garante: “Verità e giustizia per la famiglia” Il Mattino, 24 giugno 2023 La morte di Vittorio Fruttaldo è avvenuta lo scorso 10 maggio nella Casa Circondariale “Antonio Caputo”. “Sulla morte del giovane Vittorio chiedo in tempi brevi verità e giustizia per la famiglia di tutti i soggetti coinvolti sia della persona offesa che per gli indagati, ma soprattutto per il sistema carcere tutto”. A chiederlo, in una nota, il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Campania Samuele Ciambriello in relazione alla morte del detenuto 36enne Vittorio Fruttaldo avvenuta lo scorso 10 maggio nella Casa Circondariale “Antonio Caputò” di Salerno, durante il recupero degli oggetti personali, a seguito del trasferimento del suo ex compagno. In relazione a questo evento tragico due agenti sono stati iscritti nel registro degli indagati però, secondo quanto rende ancora noto Ciambriello: “Purtroppo i familiari di Fruttaldo hanno informato il garante campano che il Pubblico Ministero ha depositato richiesta di archiviazione. Quanto avvenuto quel giorno, fa sapere il Garante: “È ancora in fase di accertamento: il detenuto era ristretto nella sesta sezione in espiazione di un residuo di pena per reato di lesioni personali e rapina. La Procura a seguito dell’iscrizione della notizia di reato ha anche disposto un esame autoptico. All’epoca dei fatti il garante ha indicato al pubblico ministero i detenuti presenti in sezione, che durante il colloquio da loro richiesto, hanno riferito di essere a conoscenza della dinamica del tragico episodio a seguito del quale il detenuto è deceduto”, informa ancora la nota. Bologna. Imprese in carcere, il progetto. “Nove su dieci cambiano vita” di Benedetta Dalla Rovere Il Resto del Carlino, 24 giugno 2023 “Ho fatto il corso delle Aldini Valeriani e sono stato assunto. Da 8 anni, grazie ai tutor, imparo ogni giorno i segreti della meccanica. Mando parte dello stipendio ai miei familiari, finora sono sempre stato un peso per loro, ma ora li aiuto”. Ha lo sguardo fiero Hisham, mentre racconta del suo percorso all’interno dell’iniziativa ‘Fare Impresa in Dozza’, Fid, voluta da Isabella Seragnoli, presidente di GD, Maurizio Marchesini, ai vertici dell’omonimo gruppo e da Alberto Vacchi, presidente e Ad di Ima, a cui dal 2019 si è affiancata Faac. Grazie al programma oltre 60 detenuti sono stati assunti, di cui 16 sono attualmente dipendenti Fid mentre 45 hanno terminato con successo il percorso. Ben 20 di loro lavorano in aziende meccaniche del territorio e 5 sono diventati trasfertisti. Solo il 12% è tornato a delinquere. Da Hisham e dai suoi compagni arriva forte l’invito “ad altre aziende a fare come Ima, Marchesini e Gd e offrire opportunità di lavoro a chi è in carcere”. Opportunità che anche il Governo, con il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, è intenzionato a promuovere. “Valorizzeremo tutte queste esperienze di lavoro in carcere - dice Ostellari - creando anche una cabina di regia con il Cnel”. Anche il governatore, Stefano Bonaccini annuncia “importanti iniziative in vista”. “Quando porti persone al lavoro è sempre un grande risultato”, sottolinea l’assessore regionale alle Politiche economiche, Vincenzo Colla. Per Vacchi il progetto Fid punta a “generare un tipo di ricchezza non quantificabile attraverso i parametri dell’economia di mercato, ma di grande valore sociale e culturale”. Convinzione condivisa anche da Maurizio Marchesini, che ricorda Flavia Franzoni Prodi “determinante”, grazie “alla sua gentile determinazione, per passare dal cielo alla terra, dal progetto alla realizzazione”. Quanto agli obiettivi del Fid, “il nostro scopo - conclude - è che altri imprenditori facciano lo stesso. Cisco, ad esempio, arriverà alla Dozza per fare corsi ai detenuti”. Bologna. Fid festeggia i primi dieci anni della fabbrica dentro la Dozza Di Marco Madonia Corriere di Bologna, 24 giugno 2023 Il progetto di Marchesini, Ima e Coesia. La dedica a Flavia Franzoni. “L’idea è venuta all’avvocato Italo Minguzzi, all’epoca nel cda di Ima. Ci fu un giro di telefonate, ci siamo visti e siamo partiti. Minguzzi è rimasto presidente onorario e Gianguido Naldi amministratore delegato. È stato un percorso lungo, ma pieno di soddisfazioni”, dice Maurizio Marchesini. Insieme a Isabella Seràgnoli (Coesia) e Alberto Vacchi (Ima) ebbero la folla idea di immaginare una fabbrica nel carcere della Dozza per dare formazione, lavoro, stipendio e speranza ai detenuti. Così sono diventati i soci fondatori di Fid (Fare impresa in Dozza). Un’esperienza che è stata raccontata nel libro La fabbrica in carcere e il lavoro all’esterno: uno studio di caso su Fare Impresa in Dozza scritto da Valerio Pascali e Alvise Sbraccia. Qual è il suo bilancio? “I progetti in carcere non sono mai semplici. Noi facciamo montaggio e aggiustaggio, per l’officina gli attrezzi fondamentali sono seghetti, lime e trapani. Non proprio gli oggetti più facili da portare in carcere. Faticosamente abbiamo iniziato e ci siamo riusciti”. Cosa ha convinto lei e gli altri imprenditori a impegnarvi? “Siamo convinti che il grado di civiltà di una società si veda anche dalla capacità di recupero di chi ha sbagliato. Escludere chi delinque non solo non è possibile, ma è anche un peccato mortale. Conviene a tutti dare una possibilità vera. In questo percorso il lavoro è fondamentale”. Come funziona? “Della formazione teorica si occupa la Fondazione Aldini Valeriani, poi ci sono i tutor che affiancano i detenuti. Si tratta nella maggior parte dei casi di lavoratori in pensione di Marchesini, Ima e Coesia”. Dalle interviste con i detenuti emerge che il rapporto con i tutor è l’aspetto che funziona meglio... “Sono montatori, fanno parte di quella aristocrazia operaia che è andata in giro per il mondo facendo funzionare le nostre macchine parlando solo in dialetto. Anche ai detenuti stranieri parlano in dialetto. Tanti sono stati poi assunti nella nostra filiera. Purtroppo non si risolve tutto così” Perché? “Quando escono hanno gravi difficoltà di inserimento, il carcere paradossalmente è un ambiente protetto, magari si ritrovano fuori senza famiglia e amici, fanno fatica a trovare casa o più banalmente ad avere documenti e un medico. Lo stigma del carcere è molto pesante. Vorremmo fare un passaggio in più, per dare una mano anche fuori”. Cosa intendete fare? “Non abbiamo competenze e capacità in questo campo, cerchiamo di coltivare rapporti con il volontariato e con le istituzioni. Loro potrebbero dare un contributo soprattutto sul versante della casa”. È questo che volete fare nei prossimi dieci anni? “Un obiettivo condiviso con Flavia Franzoni, era una nostra consigliera e a lei dedichiamo questo anniversario. Vorremmo fare vedere anche ad altri imprenditori che si può fare. Lo stesso sottosegretario Ostellari dice che sostenere il lavoro in carcere è una garanzia per la società”. L’esperienza di Fid mette insieme imprenditori concorrenti e figure molto lontane per cultura politica… “Credo che la coesione sociale di questo territorio si veda proprio nelle situazioni complesse. In questa azienda ci sono persone che vengono dall’associazionismo cattolico e anche dalla sinistra. Il nostro capo officina è l’ex consigliere Valerio Monteventi”. Altri progetti? “Abbiamo dato una mano a Cisco, la multinazionale americana che si occupa di software ha un programma di corsi di informatica. Abbiamo presentato il progetto e cablato la stanza. Chi supera quel corso ottiene un diploma che vale in tutto il mondo”. Il rapporto con il carcere? “Non appena alla Dozza sono arrivate direttrici donne siamo partiti e abbiamo risolto i problemi. Prima ci dicevano che era bello, ma difficile da realizzare...”. Bari. I baby detenuti del carcere Fornelli a lezione di rugby di Enrico Filotico Corriere del Mezzogiorno, 24 giugno 2023 Lo sport come crocevia per rispondere all’articolo 27 della Costituzione: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Soprattutto se si parla di giovani. È racchiuso nel dettato costituzionale il valore di “Meta insieme”, iniziativa che ha coinvolto 27 detenuti dell’istituto penitenziario minorile Fornelli di Bari. Promotori della settimana dedicata al rugby sono stati Intesa Sanpaolo e Fideuram Intesa Sanpaolo private banking. Sette giorni di camp estivo, per imparare fondamenti e valori del rugby. La prima sperimentazione del programma si è conclusa ieri con un evento all’interno dell’istituto penitenziario, al quale hanno partecipato fra gli altri il direttore del Fornelli, Nicola Petruzzelli, la responsabile social development and university relations Intesa Sanpaolo, Elisa Zambito Marsala, il direttore regionale Puglia, Basilicata e Molise di Intesa Sanpaolo, Alberto Pedroli, e Diego Dominguez, ex azzurro della Nazionale di rugby. Presente fra il pubblico anche l’ex ct della Nazionale italiana di calcio Giampiero Ventura. Pedroli a margine dell’incontro ha voluto sottolineare il valore umano di questo genere di kermesse. “Per noi è molto importante il legame territoriale, siamo un’azienda che cerca di avere sotto controllo le impronte in materia ecologica, sociale e di governo, non possiamo non essere legati a queste iniziative”, dice. Il numero uno di Intesa San Paolo Puglia, Molise e Basilicata, continua: “Buona parte degli imprenditori che abbiamo invitato non erano mai entrati in questo luogo, noi vogliamo che altre persone si innamorino di questi ragazzi come è accaduto per noi. Solo così il carcere non sarà più solo. Qui si svolge un lavoro splendido, grazie all’impegno di tutti. La società civile non può però disinteressarsi, altrimenti quando questi ragazzi rientrano in società andranno ancora più lontani da noi. E non è quello che vogliamo”. Nicola Petruzzelli, direttore dell’istituto penitenziario per i minorenni, aggiunge: “Lo sport è un elemento essenziale nel trattamento educativo, come dicono sia l’ordinamento penitenziario degli adulti sia quello per i minorenni, che abbiamo dal 2018. Lo sport ha, quindi, diritto di cittadinanza assoluto in carcere, perché veicola i valori della solidarietà, della sana competizione, della disciplina, e quindi riesce a portare i ragazzi sulla via del bene”. Coordinatore sul campo del progetto è stato Diego Dominguez, per dodici anni nazionale azzurro di rugby. Dice: “Siamo venuti qui perché attraverso lo sport vogliamo portare ai ragazzi gesti, esempi, costanza e valori. Sono quelli su cui lavoriamo. Noi non cerchiamo campioni, vogliamo spiegare a chi è qui l’importanza di gruppo e condivisione”. Vicenza. “MusicAmica”, note e melodie in carcere. “Un linguaggio che abbatte ogni barriera” di Mauro Della Valle Corriere del Veneto, 24 giugno 2023 “In carcere è come ci fosse un fuso orario diverso. Il tempo si dilata e anche la musica sembra assumere un ritmo diverso”. Il vicentino Mario Lanaro, compositore e direttore di coro e orchestra, commenta così l’esperienza vissuta nei mesi scorsi insieme alla figlia Lucia, psicologa e musicoterapeuta e Monica Bassi, vocalista e divulgatrice, nel carcere Filippo Del Papa a San Pio X, a Vicenza, nell’ambito del progetto “MusicAmica”. Un’iniziativa della Società del Quartetto, in collaborazione con il Csi e in particolare Enrico Mastella, oltre naturalmente alla casa circondariale, e che si è conclusa il 21 giugno, in concomitanza con la Festa internazionale della Musica. Lanaro e Bassi sono infatti tornati nuovamente al “Del Papa” per due incontri musicali, aperti anche a chi non ha partecipato alle lezioni di MusicAmica, nel corso dei quali hanno eseguito un excursus tra le più note melodie italiane e internazionali. “Tra marzo e maggio - spiega Lanaro - abbiamo effettuato una decina di lezioni ad altrettanti detenuti, che in verità per noi erano allievi e con grande sorpresa nel giro di poco tempo se ne sono aggiunti alcuni altri e questo è stato motivo di grande soddisfazione. Quando alla fine di alcune lezioni ho improvvisato alla tastiera alcuni pezzi ho visto tanta emozione e partecipazione all’ascolto, ennesima dimostrazione che la musica davvero è in grado di rompere le barriere, forse anche le sbarre e i cancelli”. Non è la prima volta che il maestro Lanaro si rende disponibile per simili esperienze. Alla fine degli anni ‘80 gli fu chiesto di tenere alcune lezioni nel carcere di Montorio a Verona. “Altri tempi. Allora parteciparono sei detenuti italiani con i quali finimmo per cantare Malafemmena a squarciagola. Questa esperienza vicentina, alla quale hanno partecipato molti extracomunitari, è stata decisamente più organizzata e anche la collaborazione dei dirigenti, dello psicologo e degli agenti è stata molto più aperta rispetto ad allora”. Medesimo giudizio positivo arriva anche da Piergiorgio Meneghini, direttore artistico della Società del Quartetto: “Lo scopo del corso non era certo quello di insegnare a suonare - precisa -, quanto piuttosto di creare relazioni attraverso la musica. Un altro tassello nel nostro percorso volto a portare la musica dal vivo in luoghi dove solitamente non c’è, come i centri diurni per anziani, le case di riposo e gli ospedali. Una sensibilità condivisa dal grande direttore d’orchestra Ivàn Fischer che ogni anno, in occasione del Vicenza Opera Festival, seleziona dei quartetti d’archi della Budapest Festival Orchestra con il medesimo scopo”. Info: https://quartettovicenza. Napoli. Minori, donne e carcere. I ragazzi di Nisida: “Siamo rinati con Puteoli Sacra” di Gigliola Alfaro agensir.it, 24 giugno 2023 Grazie a un sistema integrato di servizi volti alla valorizzazione del patrimonio archeologico e storico-artistico contenuto nelle pertinenze diocesane del Rione Terra è stata offerta una possibilità di crescere e cambiare vita a un gruppo di persone provenienti dall’area penale. Due anni fa al Rione Terra di Pozzuoli fu inaugurata la prima esperienza in Europa con la gestione di un patrimonio archeologico e storico-artistico da parte di ragazzi e donne provenienti dall’area penale, sono cioè detenuti in un istituto o stanno usufruendo delle misure alternative. Si tratta del progetto Puteoli Sacra che in questo tempo ha formato 16 soggetti - con il contributo dell’ente di formazione Gesfor, dell’Accademia di Belle Arti di Napoli e dei professionisti di “Storie di Napoli” - e ne ha avviati 8 al lavoro con contratti di tirocinio e apprendistato che potranno essere trasformati in contratti a tempo indeterminato con la Cooperativa Regina Pacis. Il tutto in linea con la mission di impresa sociale che si propone di costruire un sistema integrato di servizi volti alla valorizzazione del patrimonio archeologico e storico-artistico contenuto nelle pertinenze diocesane del Rione Terra di Pozzuoli - dimenticato per oltre cinquanta anni - insieme alle storie di vita di giovani e donne a rischio di emarginazione sociale. Puteoli Sacra è coordinata dalla Fondazione Centro educativo diocesano (Ced) Regina Pacis (diocesi di Pozzuoli), diretta da Gennaro Pagano, e sostenuta da Fondazione Con il Sud, Fondazione Giglio, Fondazione Eduardo De Filippo, Associazione Costruttori edili di Napoli - Acen, Provincia italiana dei Missionari di N. S. De La Salette, Figlie della Presentazione di Maria Santissima al Tempio, Ance Campania. Il percorso formativo di questi giovani e donne di area penale è affidato alla Gesfor tramite l’orientamento professionale e la formazione polivalente che comprende elementi di cultura professionale, di storia dell’arte e del patrimonio storico-artistico del Rione Terra nonché delle ricchezze del territorio, elementi di approntamento degli spazi museali e assistenza all’utenza museale, abilità tecniche utili alla manutenzione del sito, servizio di catering per eventi culturali. L’Accademia avvia una formazione specifica e tutoring per le guide pastorali, facendo del patrimonio simbolo di riscatto territoriale e di valorizzazione culturale un modello di reinserimento sociale attraverso l’arte e la bellezza. Le lezioni pratiche prevedono laboratori didattici e progettuali in grado di stimolare i beneficiari nella ideazione di allestimenti, mostre e/o eventi culturali in cui ritrovarsi, esprimersi e promuovere il sito in vista di una sempre maggiore autonomia. “Storie di Napoli” fornisce elementi di comunicazione efficace per narrare in modalità originale e nuova la bellezza che salva. Il progetto è stato inaugurato il 25 giugno 2021 e venerdì 23 giugno, presso la basilica cattedrale del Rione Terra di Pozzuoli, si è tenuto un momento di condivisione del percorso. “Quello di Puteoli Sacra - dice mons. Carlo Villano, vescovo eletto di Pozzuoli e Ischia - è un progetto bello perché guarda alla bellezza della vita, una vita che per questi ragazzi vale la pena di essere vissuta. I ragazzi hanno fiducia in noi, nella nostra Fondazione, e anche nella società che garantisce percorsi belli e virtuosi. “Le motivazioni che spingono ragazzi e donne di area penale ad abbracciare il nostro progetto sono molte diverse, più o meno decise e sincere, e contemplano la voglia di riscatto dopo anni di detenzione, il tentativo di sperimentarsi in qualcosa di diverso dalle esperienze passate, il desiderio di poter coltivare una propria passione o attitudine, la voglia di cimentarsi nel mondo del lavoro spesso come prima esperienza o semplicemente la voglia di evadere da un presente ancora duro - racconta Danilo Venditto, coordinatore dell’area educativa -. Credo sia estremamente prezioso sperimentarsi all’interno di un gruppo sociale sano e diversificato sia per personalità sia per professionalità, orientato da un modello innovativo di impresa e da un dispositivo educativo di spessore che responsabilizza, rende autonomi, crea occasioni di crescita e di certezza per un futuro possibile, migliore. Donne e ragazzi hanno provato a darsi una seconda chance di riscatto con gradi differenti di convincimento. Ad esempio per S., ragazza di 25 anni, il reato ha significato fare i conti con un ambiente e dinamiche nuovi, difficili da digerire e da gestire. Aver incontrato Puteoli è stato “come immaginare un futuro per quella passione mai sopita per il disegno e per l’arte”, sperimentandosi e riuscendo come guida pastorale. L’iscrizione al corso di laurea in Archeologia, Storia delle arti e Scienze del patrimonio culturale della Federico II è un obiettivo importante che le consentirà di dare una base più solida al suo lavoro. Per due giovani diciottenni, E. ed A., il carcere è stato foriero di insegnamenti, nel bene o nel male. Hanno incrociato le vite di altri giovani condividendone stile e pensiero ma reagendo all’interpretazione di un futuro già segnato e impegnandosi attivamente nella costruzione di uno migliore. Per A., Nisida ha significato “rimettersi in gioco rispetto ai fallimenti anche scolastici del passato, di riscoprire con curiosità le proprie capacità rispetto ai laboratori di teatro, cucina, giardinaggio, ceramica ed edilizia”. In comunità alloggio e nel progetto ha riscoperto la sua vera passione. Per E., che quest’anno si diploma all’Istituto alberghiero, abbracciare Puteoli ha significato sperimentarsi nel mondo del lavoro e far confluire in esso la sua energia, le molteplici idee ed iniziative, diventando una risorsa molto versatile. “Sono stato nell’Istituto di Nisida, poi sono entrato in comunità al Regina Pacis. Puteoli Sacra mi ha dato una seconda possibilità e mi ha inserito nel mondo del lavoro, a contatto con le persone - dice E. al Sir. Sono cambiato, prima ero molto impulsivo, non ragionavo sulle cose, oggi rifletto di più e in questo cammino mi ha aiutato molto Puteoli Sacra”. Un’esperienza che l’ha anche rafforzato: “Stando lontani dalla famiglia ci si rafforza ancora di più interiormente - prosegue il ragazzo -. Oggi mi sento forte, anche grazie all”avventura’ con Puteoli Sacra: ho seguito un corso di formazione, mentre ero ospite della Comunità Regina Pacis, che fa capo alla Fondazione Regina Pacis che coordina tutto il progetto, al termine del corso sono stato avviato al mondo del lavoro: mi occupo degli apertivi e del bookshop dove vendiamo i prodotti di ceramiche che realizziamo alla Cooperativa Regina Pacis”. D., una giovane di 28 anni, dopo anni di carcere e comunità ha abbracciato con entusiasmo il progetto, immaginando di poter narrare la storia del sito diventando una guida pastorale. Oggi ha trovato il suo posto nel progetto diventando un’ottima risorsa nella gestione dell’info point, facendo passi notevoli rispetto al perfezionamento della lingua italiana, rispetto all’uso degli strumenti digitali per la comunicazione. Con i dimenticati e chi vive ai margini: la via di don Colmegna di Fabrizio Mastrofini L’Unità, 24 giugno 2023 Don Virginio Colmegna, classe 1945 (nato a Saronno, ordinato sacerdote nel giugno 1969) è protagonista di una stagione importante, potremmo dire profetica, nella Chiesa e nella società. La sua storia di sacerdote ha attraversato le vicende italiane attraverso la storia della città di Milano: le migrazioni interne dal Mezzogiorno, le scuole popolari alla Bovisa (quartiere popolare e operaio) dal 1969 e le 150 ore, le lotte per la casa e per una scuola democratica e partecipata, i movimenti studentesco e operaio, la politica e il sindacato, il referendum sul divorzio e i preti operai, la deistituzionalizzazione e la deindustrializzazione del periodo più recente. Gli anni di don Virginio sono quelli del cardinale Colombo arcivescovo di Milano, prima, e poi - soprattutto - gli anni del cardinale Martini e il periodo delle cooperative realizzate a Sesto San Giovanni, il terrorismo e la riconciliazione, le nuove povertà e le prime immigrazioni, la Caritas e dal 1994 la rivista Scarp de’ Tenis, la Casa della Carità e “SON” - Speranza Oltre Noi - l’ultima iniziativa di don Virginio. Ma non c’è solo una parte importante della storia d’Italia, attraverso Milano, nella dettagliata ricostruzione di Andrea Donegà in questo libro Don Colmegna: al centro dei margini (Homeless book, 102 pp.), che fa parlare la viva voce dei tanti protagonisti. Nel descrivere i rapporti tra don Virginio e il cardinale Martini, vediamo in azione un modo di farsi della Chiesa che ha molto da dire oggi. Una frase di don Virginio precisa tutto il suo percorso umano, sociale, ecclesiale. Ricordando la sua esperienza in parrocchia, a Sesto San Giovanni, negli anni Ottanta del Novecento (sembra il secolo scorso, ma in fondo sono “soltanto” 40 anni fa…), spiega: “Mi riconoscevo in quella visione pastorale che si andava concretizzando e non mi sembrava vero di veder realizzare ciò che inseguivo dai tempi della Bovisa quando resistevo alle sirene del dissenso ecclesiale e cercavo un modello di Chiesa nuovo, sobrio e libero”. In questa frase c’è qualcosa di notevole. Gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, sono il periodo del cosiddetto “dissenso” ecclesiale, originato dalla speranza delusa di vedere velocemente realizzati i cambiamenti del Concilio Vaticano II. A quell’epoca di tensioni e reciproche sconfessioni (Paolo VI era intervenuto contro don Franzoni e le “comunità di base”, colpevoli di legittimare il dissenso dei cattolici in politica all’epoca della Democrazia Cristiana, che sembrava l’unica aggregazione politica possibile per i cattolici… oggi incomprensibile…), la vicenda di don Colmegna fa vedere che un’altra dimensione ecclesiale è possibile. Certo, è stata resa possibile dall’incrocio di condizioni speciali: la sapienza ecclesiale di don Colmegna e la visione del cardinale Martini, capace di coinvolgere il sacerdote in una visione più ampia. Don Virginio si trova immerso in un clima culturale di alto livello che fa perno - come accortamente registra il libro - sul “personalismo comunitario di Emmanuel Mounier” che “indicava nella relazione con l’altro la strada che ci costituisce persone e genera la comunità, un pensiero capace di dare luogo ad una fraternità vera e non ideologica, invitando ad aprirsi all’incontro”. E nelle pagine del libro, si moltiplicano gli incontri significativi che generano relazioni importanti: dai ragazzi disagiati, alle cooperative come risposta collettiva ai bisogni delle persone, fi no alla primavera del 1993 quando il cardinale Martini chiede a don Colmegna di diventare direttore della Caritas diocesana. E qui inizia un’altra vicenda umana ed ecclesiale tutta da scoprire. Si raccontano infatti, ad esempio, le storie dei progetti di reciprocità tra la Caritas Ambrosiana e quella di Napoli capace di promuovere cooperative nel capoluogo campano e di custodire iniziative e impegni che uniscono le due regioni ancora oggi su sostenibilità e legalità. Ma soprattutto colpiscono le esperienze della cooperativa “Farsi Prossimo”, diventata poi Consorzio, e la messa in atto di un sistema di mutualità interna tra cooperative, capace di coinvolgere gli imprenditori e attuare progetti economici concretissimi, attraverso il recupero di ciò che scartiamo, attivando un circuito virtuoso capace di anticipare il tema della sostenibilità (oggi centrale) e attivando allo stesso tempo percorsi di inserimento o reinserimento lavorativo e sociale per le persone “ai margini”. “Il sistema Caritas che si sviluppò in quegli anni - scrive Donegà - fu un intreccio di cooperative che nel tempo hanno assunto la gestione di comunità, sportelli, equipe di strada, centri di accoglienza e residenze protette, salvaguardando sempre l’idea di fondo di stare a pieno titolo, e responsabilmente, sul territorio”. A raccontare ci sono le voci di molti di coloro che hanno accompagnato don Virginio per un pezzo di strada: persone semplici, giovani incontrati ai tempi dell’oratorio, sindacalisti, professori e intellettuali che hanno voluto condividere ricordi, sentimenti, pensieri e impegno, orgogliosi di aver preso parte a una storia collettiva fatta di intelligenze che si incontrano e riconoscono su un sentiero lastricato di comuni valori. Il libro inizia e si conclude a “SON”. Una storia individuale può essere anche una significativa storia collettiva. È questa la vita di don Virginio Colmegna che ha, da sempre, collocato il suo punto di osservazione nei margini, dove meglio si avvertono i cambiamenti, per interrogare la società e le sue contraddizioni. Dall’incontro con le persone, e da una straordinaria capacità di lettura dei bisogni, ha saputo immaginare risposte innovative promuovendo attività sociali che, in molti casi, hanno anticipato i tempi. Nella Postfazione Elena Granata, docente al Politecnico di Milano (la Prefazione è di Giangiacomo Schiavi, del “Corriere della Sera”), riassume bene il significato emblematico del percorso di don Colmegna, attraverso il quale scopriamo o riscopriamo che “il cattolicesimo ha qualcosa da dire oggi ai molti distratti, agli indifferenti e ai delusi, ma anche ai molti credenti intorpiditi, quando sa proporre una pastorale della convivenza e dell’abitare insieme. È lì che coglie le profonde solitudini del nostro tempo, che raccoglie le storie dei più dimenticati, che prende con sé i destini pieni di dignità che ogni essere umano porta con sé con il proprio venire al mondo”. Lutring, un criminale gentiluomo a Milano. Lucarelli: “Aveva un codice d’onore ed era simpatico” di Laura Vincenti Corriere della Sera, 24 giugno 2023 Lo scrittore è voce narrante nel podcast dedicato al gangster. “Quando l’ho incontrato mi ha regalato un cd del gruppo musicale con cui suonava e mi ha detto: una volta avevo una banda, adesso una band”. Scomparso a Verbania dieci anni fa, Luciano Lutring è nato nel 1937 a Milano, in via Novara, dove i genitori avevano un bar. Era soprannominato “Il solista del mitra” perché era solito nascondere un fucile mitragliatore nella custodia di un violino, che suonava fin da bambino. È considerato l’ultimo rappresentante della mala romantica milanese, quella che non uccideva e che ruotava intorno a osterie, ristoranti e case di ringhiera. Gli sono stati attribuiti circa 200 colpi, tra i più spettacolari quello del 1964 in via Monte Napoleone con i Marsigliesi. Come racconta “Lutring: il maestro della rapina”, podcast appena uscito sulla piattaforma Audible.it, scritto da Matteo Liuzzi e narrato dallo scrittore Carlo Lucarelli. Lo ha conosciuto? “Sì, l’ho anche intervistato per “Milano Calibro 9”, una puntata del mio programma tv Blu Notte. Era simpaticissimo, oltre che un gangster era un “gagster”, uno che faceva un sacco di gag, di battute. Quando l’ho incontrato mi ha regalato un cd perché aveva un gruppo musicale con cui suonava e mi ha detto: una volta avevo una banda, adesso una band!” Qualche altro aneddoto? “Uscito di prigione, quando ormai aveva saldato i suoi debiti con la giustizia, viveva in un paesino: un giorno va in banca per un’operazione e parcheggia in doppia fila. Arriva un vigile che lo ferma e gli chiede: ma quanto tempo ci mette? Lutring risponde: una volta due minuti, adesso non lo so, devo fare la fila. Ho conosciuto Lutring sia come persona che come personaggio: era molto divertente, certo anche un criminale”. Ce lo racconta? “Un tipo della malavita ma con tutte le attenuanti. È stato un rapinatore, uno che sparava anche se cercava di non farlo: aveva un suo codice d’onore e ha avuto la fortuna di non uccidere nessuno, e di non far quasi mai del male a qualcuno. Era un ladro, non si può negare, ma anche gentiluomo nel senso che rispettava delle regole. Anche Vallanzasca a modo suo era gentiluomo, ma Lutring era diverso perché credeva che il suo fosse un mestiere, non pensava a guadagnare e basta. Nelle sue regole c’era non andare in giro a far del male o con le armi cariche, tranne negli ultimi anni quando qualcosa è successo”. Qualche altra sua caratteristica? “Era un perdente. Lo abbiamo sempre visto bastonato, arrestato dalla polizia. Rispetto alla mala vincente come la mafia che fa le regole, lui apparteneva a un’altra mala destinata a perdere, perché sei tu, un singolo ribelle contro il sistema, contro lo Stato. Queste sono attenuanti per cui Lutring ci sta simpatico, nonostante fosse un criminale, ovviamente”. Nel podcast ci sono tanti interventi, anche dello stesso Lutring che racconta la sua vita e parla in dialetto. Lei conosce Milano? Le piace? “La conosco ma non così bene come i miei colleghi che scrivono di noir e infatti io non ambienterei mai un mio romanzo in questa città, non ne sarei in grado. Però mi piace molto: la cosa bella del podcast è che grazie anche ai tanti contributi ci fa conoscere la Milano dell’epoca, quella del boom economico, dei romanzi di Scerbanenco che mi hanno fatto apprezzare la città in tutti i sensi. Vivere qui? No, perché vivo nella città più bella del mondo: Bologna! Ma ci verrei comunque a stare per un bel po’. Il tema della criminalità è tornato dominante nelle cronache cittadine… “Una delle cose interessanti della storia di Lutring è che lui racconta il passaggio di un’Italia appena uscita dalla guerra, che aveva visto delle cose tremende. Però era un Paese ancora arcaico, contadino, legato a certi valori del passato. Non che fossero migliori, ma erano diversi, meno veloci, meno rapidi”. E poi? “Poi arriva la mafia. Cosa nostra e la ‘ndrangheta cambiano tutto, così come la droga negli anni 80 cambia tutto, significa vivere a un altro livello e velocità e soprattutto con una spietatezza diversa. Significa spararsi, ammazzare la gente, i poliziotti. Ecco, io credo che poi la criminalità si sia un po’ calmata: adesso siamo tornati a brutti livelli perché sono livelli nuovi”. Ovvero? “La criminalità è figlia di un disagio sociale, di sacche di povertà, di giovani che hanno avuto il problema della pandemia e sono stati trascurati: le baby gang, per esempio, sono fenomeni da studiare non solo da reprimere, abbiamo ancora tanto da fare”. I casi di cronaca nera sono sempre molto seguiti dal pubblico: come mai? “Per tanti motivi, uno è istintivo: le cose eclatanti, che fanno paura, ci colpiscono e non ci lasciano indifferenti. Quindi quando succede qualcosa di nero, subito ci giriamo a guardare. La cronaca nera è un fatto che è avvenuto e se è avvenuto ci sono dei motivi. Se hanno ammazzato qualcuno o è sparita una bambina non è per farmi passare mezz’ora davanti alla tv, significa che esiste disagio. Ecco che la cronaca diventa non solo accattivante ma anche importante da seguire e raccontare, ma va fatto bene”. Il podcast come strumento per narrare storie piace sempre di più, perché? “La sua forza, che può essere una debolezza, è quella di essere solo ascoltato, è il rapporto diretto tra la voce e chi la sta sentendo: le parole diventano molto intense. Però dentro quelle parole deve esserci anche un racconto. Non basta registrare un testo al microfono”. L’inflazione aumenterà ancora di più le disuguaglianze di Massimo Taddei Il Domani, 24 giugno 2023 La disuguaglianza in Italia è più alta rispetto alla maggior parte dei paesi occidentali. I motivi sono vari, da possibili errori di misurazione dovuti all’alto livello di evasione fiscale, fino alla sostanziale immobilità dell’economia italiana, che, non crescendo, rende più complicata la redistribuzione delle risorse e riduce le possibilità per i più poveri di risalire la scala sociale. Il nostro Paese, un tempo considerato uno dei meno diseguali tra quelli avanzati, ha peggiorato la propria posizione negli ultimi anni. Lo si vede osservando l’aumento della quota di reddito e ricchezza in mano al 10 per cento più ricco della popolazione. Nel 1995, solo il 33 per cento del reddito finiva nelle mani del 10 per cento più abbiente della popolazione, che deteneva anche il 45 per cento del totale della ricchezza nazionale. Oggi, la situazione è cambiata molto. Il 10 per cento più benestante ha in mano il 37 per cento del reddito e il 56 per cento della ricchezza. La situazione è opposta per il 50 per cento più povero, che ha ridotto sia la quota di reddito detenuta (da 17 a 16 per cento), sia quella di ricchezza (da 10 a 2,5 per cento). Una notizia in parte confortante è la sostanziale stabilità della disuguaglianza negli ultimi anni per cui sono disponibili i dati. Per quanto riguarda la ricchezza, la quota in mano al 10 per cento più abbiente è rimasta all’incirca al livello del 2010, mentre per il reddito siamo ai massimi storici, che però sono rimasti stabili negli ultimi anni. Una delle ragioni resta probabilmente la sostanziale immobilità dell’economia italiana, che, non cambiando, non cambia nemmeno i rapporti di forza nelle dinamiche di reddito e ricchezza. Cosa aspettarci dall’inflazione - La situazione potrebbe però presto cambiare. O meglio, è possibile che sia già cambiata, ma non abbiamo ancora dati per verificarlo. L’economia ferma o quasi degli ultimi anni non c’è più: dopo il crollo dovuto alla pandemia, il Pil italiano è tornato a crescere, prima con un ovvio rimbalzo dopo la caduta nel 2021, poi con un’ulteriore crescita del 3,7 per cento nel 2022. Anche quest’anno, seppur con dei rallentamenti, il Pil dovrebbe aumentare a livelli superiori rispetto al pre-pandemia. I motivi sono molti e sicuramente c’è di mezzo anche il Pnrr, che sta fornendo una delle più grandi quantità di risorse dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. C’è però un problema: la crescita più marcata dell’economia e, soprattutto, la situazione internazionale stanno facendo crescere i prezzi. L’inflazione ha effetti distorsivi sull’economia e rischia di avere pesanti conseguenze sulla distribuzione di reddito e ricchezza. I motivi sono vari. Innanzitutto, l’aumento dei prezzi ha un impatto diverso sui lavoratori a seconda della loro situazione. Da una parte, i dipendenti tendono a subirla di più, perché non possono aggiustare immediatamente il proprio stipendio al costo della vita e devono sperare in un accordo con il datore di lavoro o sul rinnovo del contratto collettivo nazionale, che di solito risultano essere troppo poco, troppo tardi. I lavoratori autonomi, al contrario, possono aggiustare immediatamente le proprie tariffe e adeguare il proprio salario all’inflazione. In alcuni casi possono addirittura guadagnarci, ricaricando il prezzo di più rispetto all’inflazione. Il ragionamento è generale, ma ci sono delle eccezioni. Ci sono per esempio dipendenti con grande potere contrattuale che possono ricevere senza troppa fatica un aumento, come per esempio i manager. Molti autonomi, al contrario, hanno pochissime possibilità di aggiustare le tariffe, magari perché assomigliano più a dipendenti di fatto che a lavoratori indipendenti. Basti pensare alle moltissime partite Iva assunte con ruoli da consulenti da agenzie e studi professionali. A differenza di un professionista, da un elettricista a un notaio, questi lavoratori non hanno molti clienti, anzi, spesso ne hanno solo uno, e quindi, da dipendenti di fatto, non hanno grande margine. Da questa distinzione tra dipendenti (e pensionati) e autonomi si capisce perché l’inflazione rischia di aumentare le disuguaglianze: le persone con meno potere contrattuale hanno maggiore probabilità di trovarsi nelle fasce più povere della popolazione, mentre i lavoratori autonomi e i dipendenti di alto livello sono più spesso tra coloro che stanno già meglio rispetto al resto della popolazione. Mentre questi ultimi non subiscono o comunque limitano l’impatto dell’inflazione, i dipendenti vedono il proprio potere di acquisto erodersi mese dopo mese. In base al reddito - C’è poi un altro fattore da tenere in conto: l’inflazione di solito interessa i beni e i servizi che vengono consumati di più dalle persone più povere. Non necessariamente in termini assoluti, ma in termini relativi. Per esempio, se una persona guadagna 1.000 euro al mese e ne spende 300 per le bollette, un eventuale aumento del prezzo dell’energia avrà un peso su circa un terzo del suo reddito. Una persona più benestante, che guadagna 2.000 euro e ne spende 400 in bollette, subirà di più l’inflazione in termini assoluti, ma il peso sul suo bilancio familiare dell’energia sarà pari solo a un quinto del totale. Le persone più ricche consumano una quantità relativamente maggiore di beni e servizi “di lusso”, dalle vacanze, alle auto, fino agli appuntamenti da medici e fisioterapisti. Per i più poveri, invece, hanno un peso più alto beni come gli alimenti e l’energia. L’inflazione è una misura relativa: indica infatti di quanto sono cambiati i prezzi dando per scontato che una famiglia consumi una certa quantità di beni. Il “paniere” di beni prende in considerazione l’italiano medio, ma Istat ipotizza anche i panieri delle famiglie in base al loro reddito. Più la famiglia è povera, maggiore è il peso dei beni di prima necessità; più è ricca, maggiore sarà il peso di servizi e beni di lusso. Se si guarda ai dati 2021, quando l’aumento dell’inflazione ha iniziato a essere rilevante, già si vedeva la differenza tra ricchi e poveri. Secondo Istat, l’aumento dei prezzi era stato dell’1,6 per cento per il 20 per cento più ricco e del 2,4 per cento per il 20 per cento delle famiglie più povere. L’aumento dell’inflazione nel 2022 è stato trainato dal prezzo dell’energia, con una crescita superiore al 60 per cento, e dei beni alimentari, cresciuti di oltre il 10 per cento. Proprio quelle categorie di beni che sono maggiormente consumate dai più poveri. L’intensità di questo aumento del divario tra ricchi e poveri sarà più chiara una volta che Istat pubblicherà i dati ufficiali, ma la possibilità che questa crisi inflattiva faccia aumentare le disuguaglianze è decisamente concreta. *Economista Se è una colpa essere poveri o senza lavoro di Marianna Filandri La Stampa, 24 giugno 2023 Il Senato ha approvato ieri la fiducia al Decreto Lavoro. Con questa norma sostanzialmente si smantella il reddito di cittadinanza, una misura fondamentale di sostegno ai nuclei in povertà. Si introduce l’assegno di inclusione, di importo e durata minori, ma solo per le famiglie in cui non vi siano componenti con necessità di cura. Tutti gli altri dovranno darsi da fare nel mercato del lavoro. L’intento dichiarato esplicitamente nella discussione al Senato è che il lavoro e il salario che si percepisce tornino a costituire l’autentico reddito di cittadinanza. Come viene argomentata questa politica? Sostanzialmente attraverso l’assunzione che chi è povero non lavori perché non vuole farlo. Emblematica è la dichiarazione di una esponente della maggioranza secondo la quale i percettori del reddito di cittadinanza hanno ricevuto l’aiuto pubblico senza essersi mai attivati per trovare un impiego anche se potevano farlo. In sostanza dietro questa scelta c’è una visione della povertà come risultato di una responsabilità individuale. Una visione tutt’altro che nuova. Già nel 1978 Margaret Thatcher definì il problema della povertà estraneo alle responsabilità del governo nei paesi occidentali. La causa della condizione di indigenza è piuttosto da imputare alla mancanza di personalità degli individui. In altri termini, se le persone vivono in povertà è in gran parte colpa loro perché non hanno carattere. Questa concezione del fenomeno della povertà è semplicistica, fuorviante e grottesca. Senza entrare nel merito della complessità delle dimensioni e delle dinamiche che portano in Italia circa 5,6 milioni di individui a non avere le risorse necessarie per vivere con uno standard di vita minimo, ci limitiamo qui a considerare il legame tra povertà e lavoro. Secondo gli ultimi dati Istat sono 3,4 milioni le persone in età compresa tra i 18 e 64 anni a essere povere e potenzialmente occupabili. In realtà più di un quarto sono occupate e sono quindi lavoratrici e lavoratori poveri. Gli altri? Inattivi e disoccupati. I primi non cercano lavoro e se anche glielo offrissero lo rifiuterebbero. Fannulloni? Forse alcuni, ma la stragrande maggioranza sono donne con carichi di cura. I secondi sono i cosiddetti occupabili. Uomini e donne che cercano un impiego e se non lo cercano, perché scoraggiati dopo tanti mesi senza lavorare, sarebbero comunque disponibili ad accettarne uno. Ecco, si potrebbe concludere che loro sì, sono colpevoli per la loro condizione di povertà. In realtà, prima di trarre qualsiasi conclusione, va sempre considerata l’offerta di lavoro insieme alla domanda. La realtà è che, a fronte di 2 milioni di disoccupati nel nostro paese, sfaticati o no, non c’è un numero sufficiente di occupazioni per tutta la richiesta che c’è. Detto altrimenti, manca il lavoro. Dunque, tra le persone che vivono in povertà molte lavorano, una parte non può essere occupata e una parte vorrebbe lavorare ma non trova lavoro. Su cosa si basa questa politica allora? Sulla presenza di alcuni che scientemente non vogliono lavorare e colpevolmente godrebbero di soldi pubblici. Presenza che però, guardando ai dati, è residuale. D’altro canto, dargli molto enfasi consente di non affrontare problemi più ostici per un governo: aumentare l’occupazione e migliorare le condizioni di lavoro. Insomma, più facile smantellare il reddito di cittadinanza anziché realizzare politiche di sviluppo, industriali e di buona occupazione, adeguatamente retribuita. Diritti umani, che mistero: le nostre aziende un po’ distratte di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 24 giugno 2023 Un rapporto di Oxfam rivela che un terzo delle imprese italiane non presta attenzione alle violazioni legate alla propria attività. Quasi un terzo delle aziende in Italia non presta sufficiente attenzione al rischio di violazioni dei diritti umani legate alla propria attività. Il 70% si dichiara particolarmente attento al tema, pur non avendo piena contezza delle risorse impiegate, dei metodi utilizzati per l’analisi, delle politiche e pratiche adottate lungo la fi liera di produzione. A questo proposito, per esempio, solo il 10% compie valutazioni tramite visite ai propri fornitori. Sono alcuni dei risultati dell’indagine sul tema dei diritti umani nelle imprese italiane, condotta da Oxfam Italia e Collectibus Società benefit tramite un sondaggio a cui hanno aderito 77 aziende di diversi comparti produttivi, campione tra i più rappresentativi delle ricerche finora condotte in Italia sul tema. Il 56% delle aziende partecipanti conta più di 250 dipendenti e il 32% opera nella filiera agroalimentare. Risultati che arrivano all’indomani del voto del Parlamento europeo a favore di una Direttiva sulla due diligence aziendale in tema di diritti umani, lo scorso 1 giugno. Un passaggio molto importante, anche se con ampi margini di miglioramento, che procede verso la richiesta alle aziende di identificare, prevenire o mitigare gli impatti negativi delle loro attività sui diritti umani e sull’ambiente. I dati sono stati presentati ieri nel corso del webinar promosso da Oxfam e Collectibus, con la partecipazione e il contributo di Luciano Pirovano, Global Sustainable Development Director Bolton Food. Un appuntamento di approfondimento e confronto sul tema al centro dell’indagine, grazie alla partecipazione di molte realtà aziendali. “La valutazione e la prevenzione di qualsiasi violazione dei diritti umani è un processo assolutamente necessario e non più volontario per vincere la sfida della sostenibilità, ma in Italia c’è ancora molta strada da fare: solo il 12% degli intervistati ad oggi dichiara di aver adottato strumenti e processi di due diligence. -afferma Marta Pieri, Head of Private Sector Partnership di Oxfam Italia - Benché siano temi che possono risultare distanti, come ci dicono questi dati, la due diligence è anche al centro delle negoziazioni europee per la definizione di una nuova Direttiva che renderà le imprese legalmente responsabili dei loro impatti sulle persone e sul pianeta. Con la presentazione di questi risultati, vogliamo avvicinare le aziende agli strumenti disponibili per integrare i diritti umani nella visione strategica d’impresa e rilanciare l’impegno di Oxfam nella promozione di percorsi concreti di collaborazione verso modelli di business responsabili anche verso le persone e le comunità”. “Le aziende negli ultimi anni hanno interpretato il tema della sostenibilità principalmente dal punto di vista ambientale -aggiunge Danilo Devigili, Partner di Collectibus - I dati raccolti testimoniano che sta maturando una diversa consapevolezza, che oltre al tema ambientale, guarda anche al soddisfacimento di alcuni fondamentali bisogni sociali e di pacifica convivenza tra gli uomini, tra cui il rispetto dei diritti umani. Siamo impegnati quotidianamente per supportare le aziende nell’attuazione di modelli di business che integrino tutti gli aspetti della sostenibilità.” Dall’analisi si evince inoltre che la scelta di occuparsi del tema dei diritti umani è dettata per il 45% dalla necessità di essere coerenti con i valori aziendali e per il 34% dall’adeguamento ad una prassi diffusa nel settore di riferimento. Restano sullo sfondo i rischi connessi alle attività lungo la filiera di approvvigionamento, soprattutto in paesi a rischio, e funzioni di controllo affidate a soggetti indipendenti. Due elementi percepiti come leve marginali, soprattutto nelle piccole e medie imprese. Tra le principali criticità la ricerca evidenzia come nel 61% delle aziende, la responsabilità e la gestione del tema dei diritti umani sia affidata unicamente all’area risorse umane. Solo nel 2% dei casi è coinvolto il settore acquisti, cruciale per la valutazione dei rischi lungo le filiere e la selezione di partner e fornitori. Stati con licenza di spiare i giornalisti, è battaglia all’Europarlamento di Angela Mauro huffingtonpost.it, 24 giugno 2023 La liberale olandese in t’Veld, nota anti-Orban: “È la morte della democrazia”. Anche Verdi, socialisti e sinistra contrari alla versione del Media Freedom Act voluta dagli Stati membri. Ma Ppe e destre strizzano l’occhio. Il negoziato inizia a settembre. Reporters senza frontiere e altre 61 organizzazioni sul piede di guerra. “I governi nazionali vogliono trasformare il Media Freedom Act europeo in una licenza de facto per spiare i giornalisti senza limiti. Questa è la morte della democrazia”. Sophie in ‘t Veld, europarlamentare olandese del gruppo liberale di Renew Europe, nota per le sue battaglie contro Viktor Orban e anche contro l’uso dello spyware Pegasus per spiare i giornalisti in Ungheria, è fuori di sé dalla rabbia. Per lei, per i socialisti, i Verdi e la sinistra al Parlamento europeo, la bozza dello ‘European Media Freedom Act’ licenziata dagli ambasciatori degli Stati membri questa settimana e anticipata da Huffpost non va affatto bene. I negoziati tra gli Stati e l’Eurocamera inizieranno solo a settembre, ma è già battaglia. Le associazioni di categoria, a partire da Reporters senza frontiere, sono sul piede di guerra. Szabolcs Panyi, giornalista investigativo ungherese sottoposto a sorveglianza con Pegasus, dice: “Non ho potuto proteggere le mie fonti. La leadership dell’Ue a Bruxelles deve rendersi conto che qualsiasi cittadino dell’Ue, che sia un giornalista o una fonte di un giornalista, può diventare oggetto di sorveglianza illegittima se alcuni Stati membri se la cavano sempre usando la ‘sicurezza nazionale’ come lasciapassare”. Il punto è che la responsabile dei negoziati per il Parlamento, Sabine Verheyen, tedesca del Ppe, non è contraria in linea di principio alla formulazione scelta dagli Stati. Per la precisione, è stata la Francia a chiedere di inserire delle eccezioni nel testo e consentire alle agenzie di intelligence nazionali di far uso di software intrusivi, installati nei telefoni o le apparecchiature dei media, redazioni o anche singoli giornalisti, per questioni di sicurezza nazionale. Germania, Olanda, Lussemburgo hanno sostenuto la proposta francese, gli altri Stati non sono intervenuti. Alla fine è passato un compromesso meno duro di quanto richiesto da Parigi, ma che comunque prevede l’uso dei cosiddetti ‘spyware’ per spiare i giornalisti se c’è il sospetto di minaccino la sicurezza nazionale. Il Media Freedom Act era stato pensato come misura per proteggere l’indipendenza dei media nei paesi a guida sovranista, in Polonia e Ungheria, che infatti hanno votato contro nella riunione degli ambasciatori che ha licenziato il testo a maggioranza. Ma la versione finale, da sottoporre al negoziato con il Parlamento, svela le tentazioni di controllo degli altri Stati. E così, tanto per iniziare, la maggioranza Ursula all’Eurocamera si spacca. O almeno, ci sono delle avvisaglie molto concrete. La trattativa con i rappresentanti del Consiglio (gli Stati) inizierà dopo l’estate, ma in Commissione Cultura all’Europarlamento è già cominciata. Non si è ancora al punto della formulazione degli emendamenti, ma uno scontro contro la relatrice del Ppe Verheyen c’è già stato. I Verdi sono fermamente contrari all’uso degli spyware per spiare i giornalisti in nessun caso. Così i liberali, appunto. E anche i socialisti, rappresentati in Commissione Cultura da Massimiliano Smeriglio, indipendente del Pd. “Testo sbagliato. Difenderemo la libertà di stampa in Commissione Cultura con il voto previsto per settembre e poi in Parlamento”, dice Smeriglio. Contraria anche la sinistra. Invece il Ppe cerca la mediazione anche con i Conservatori e riformisti, che sono sulle posizioni della Polonia e dell’Ungheria, insieme ai sovranisti di Identità e democrazia. La questione entra nel vivo a settembre, ma già allarma le associazioni di categoria, a cominciare da Reporters senza frontiere. Insieme ad altre 61 organizzazioni, Rsf ha scritto una lettera aperta al Consiglio per chiedere un cambiamento di rotta. L’attuale testo, si legge, “invece di proteggere i giornalisti e le loro fonti, legalizzerà l’uso di spyware contro i giornalisti” e trasforma le protezioni originariamente offerte “in gusci vuoti”. “Attraverso questa nuova disposizione, il Consiglio non solo sta indebolendo le salvaguardie contro la diffusione di spyware, ma ne incentiva fortemente l’uso esclusivamente sulla base della discrezionalità degli Stati membri”. La lettera cita l’opinione del giornalista ungherese Szabolcs Panyi, spiato dal governo Orban attraverso Pegasus. “L’analisi tecnica forense del mio telefono ha mostrato che lo spyware Pegasus era in esecuzione sul mio dispositivo da sette mesi - racconta Panyi - Questa sorveglianza su di me ha impedito il mio diritto di proteggere le mie fonti di informazione. Sono un giornalista investigativo che fa molto affidamento sulle informazioni degli informatori. In ambienti politici sempre più repressivi, come in Ungheria, dove i media sono sotto il controllo e la pressione del governo, gli informatori e le fughe di notizie sono l’unico modo rimasto ai giornalisti investigativi per scoprire la verità. Questo è esattamente il motivo per cui, con il pretesto di vaghi e fasulli motivi di sicurezza nazionale, la sorveglianza viene utilizzata contro i giornalisti in Ungheria. Ha un enorme effetto raggelante e potrebbe rendere impossibile il nostro lavoro. La leadership dell’Ue a Bruxelles deve rendersi conto che qualsiasi cittadino dell’Ue, che sia un giornalista o una fonte di un giornalista, può diventare oggetto di sorveglianza illegittima se alcuni Stati membri se la cavano sempre usando la ‘sicurezza nazionale’ come lasciapassare. Ciò rende il Media Freedom Act ancora più essenziale nella protezione dei diritti dei giornalisti e della libertà di stampa”. Tutto dipenderà dal negoziato del Parlamento con il Consiglio. Ma soprattutto dalla compattezza della maggioranza Ursula, composta dai maggiori gruppi di questa legislatura che volge alla fine: Popolari, socialisti, Liberali con l’appoggio dei Verdi. Se i segnali di sfaldamento saranno confermati nella trattativa finale, c’è poco da aspettarsi. Tanto più che il diritto di poter spiare i giornalisti per la sicurezza nazionale è stato chiesto dai maggiori Stati dell’Ue, non dai soliti noti sovranisti. Giudici che si dimettono e carcerazioni selvagge. Che resta del Qatargate? di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 24 giugno 2023 Le dimissioni del procuratore Michel Claise e la liberazione degli indagati scoperchiano gli abusi e le contraddizioni di un’inchiesta coccolata dai media ma priva di sostanza fin dall’inizio. Doveva essere “il più grande scandalo nella storia dell’Ue”, un affaire che avrebbe scosso se non sgretolato le fragili fondamenta comunitarie. E invece, a sei mesi dai primi, spettacolari arresti, il cosiddetto Qatargate sembra implodere nelle contraddizioni di un’inchiesta tanto fumosa quanto gonfiata dal circo mediatico, scandita dall’uso smodato della carcerazione preventiva, dalle continue violazioni del diritto di difesa e della presunzione di innocenza. Senza aver mai individuato prove concrete sull’esistenza dell’”organizzazione criminale” che avrebbe operato in modo occulto per favorire gli interessi del Qatar (e del Marocco come ipotizzano gli inquirenti) nelle istituzioni europee. Dallo scorso sette dicembre, data dell’arresto della vicepresidente del parlamento europeo Eva Kaili non è emersa alcuna novità sostanziale. L’unico elemento attorno a cui tutto ruota e che tanto ha attizzato i media sono il trolley e i sacchi pieni di euro appartenenti al lobbista Antonio Panzeri che hanno fatto scattare le retate della polizia giudiziaria belga e...una cravatta che l’ambasciatore marocchino a Varsavia avrebbe regalato all’europarlamentare del Pd Andrea Cozzolino. Con grande profusione di mezzi e persino con il coinvolgimento dei servizi segreti belgi del Vsse, in oltre duecento giorni gli investigatori della procura di Bruxelles non sono riusciti a mettere a fuoco nient’altro. Spulciando milioni di pagine di documenti ufficiali dell’Unione europea non è venuta galla alcuna votazione, decisione, favoreggiamento concreto degli interessi dell’emirato qatariota o della monarchia marocchina. Le dimissioni del giudice istruttore Michel Claise, autentico mattatore di questo romanzo giudiziario, hanno poi il sapore della farsa. È stato costretto a lasciare per via di un potenziale conflitto di interesse: suo figlio Nicolas ha infatti fondato una società a responsabilità limitata per la distribuzione di cannabis legale con il figlio di Maria Arena, eurodeputata belga non ufficialmente indagata ma citata a più riprese nei faldoni dell’inchiesta. A denunciare l’intreccio è stato Maxime Toeller, avvocato di Marc Tarabella, eurodeputato belga rimasto in prigione per un paio di mesi. Toeller in questi mesi ha tuonato più volte contro i metodi da “sceriffo” di Claise chiedendone lo scorso marzo anche la ricusazione per “manifesto pregiudizio”. Non c’è riuscito, la Corte d’Appello della procura federale lo ha infatti ritenuto idoneo ed è con una specie di stratagemma formale che alla fine ha ottenuto la sua uscita di scena. Al contrario, il giudice istruttore avrebbe dovuto essere messo all’angolo per la sua condotta nei confronti delle persone indagate, inqualificabile e ai limiti dello Stato di diritto. Mihalis Dimitrakopoulos, difensore di Kaili, ha parlato esplicitamente di “tortura”, raccontando come la sua assistita sia stata tenuta nella cella di sicurezza un commissariato per due giorni senza potersi lavare e privata di coperte per ripararsi dal freddo pur essendo pieno inverno. Rimanendo peraltro in prigione per quasi cinque mesi, separata dalla figlia di nemmeno due anni nonostante non ci fosse pericolo di fuga né di inquinamento delle prove (quali prove, poi?). Un trattamento che viola la convenzione internazionale sui diritti dei minori come ha fatto notare Dimitrakopoulos. Tutto lo schema inquisitorio di Claise trae sostanza dalla carcerazione preventiva, strumento principe per estorcere confessioni agli indagati: tu parli e io ti restituisco la libertà. Patteggiamo dunque, ma rigorosamente alle condizioni dell’accusa: “La procura negozia ma lo fa con la pistola puntata alla tempia delle persone indagate”, si era vantato lo scorso 8 gennaio in una sconcertante intervista rilasciata al quotidiano L’Echo. Con Panzeri, il “grande pentito” ha funzionato: di fronte alla prospettiva di rimanere dietro le sbarre per chissà quanto tempo, l’ex sindacalista ha chiamato in causa praticamente tutti gli indagati: Trabella, Cozzolino, Maria Arena, la stessa Kaili e il compagno Francesco Giorgi: “Non ho le prove ma dovete controllarli”, avrebbe detto al giudice istruttore, quanto basta per ottenere la scarcerazione lo scorso aprile. Ma le “confessioni” di Panzeri, o forse è meglio dire le calunniose illazioni, evidentemente non sono bastate a far “allargare l’inchiesta” come invece hanno fantasticato per mesi giornali e televisioni, in un’escalation scandalistica che ha fatto a pezzi la vita pubblica e privata degli indagati già dati per colpevoli. Il dossier è ora nelle mani della giudice Aurélie Dejaiffe che ha seguito il caso fin dall’inizio. In teoria dovrebbe proseguire il filone investigativo di Claise, ma la sensazione è che si ritrovi in mano la classica patata bollente, con le indagini spiaggiate da mesi e una sgradevole ombra di discredito calata sull’intera procura della capitale belga. Senza più il vento mediatico a sospingere l’inchiesta. Ma c’è un altro aspetto, forse ancora più inquietante degli abusi perpetrati da Claise, che il Qatargate ha fatto venire alla luce: la reazione, ai limiti dell’isteria, da parte dell’europarlamento che di fronte ai titoloni dei giornali ha letteralmente perso la testa. All’indomani dell’arresto di Kaili, la sua presidente Roberta Metsola pronuncia un discorso che, riascoltato oggi, fa davvero molta impressione: si disse “piena di rabbia e di amarezza”, spiegò quasi in lacrime che stava vivendo “i giorni più lunghi” della sua vita politica, tuonò contro i colleghi indagati promettendo che “non ci sarà impunità”, piagnucolando sulla “democrazia europea messa sotto attacco”. E prodigandosi per far revocare in pochissimi giorni l’immunità parlamentare alla sua vice Eva Kaili. Anche in quel caso viene utilizzato un artificio: la flagranza del reato, unico caso per il quale l’immunità decade automaticamente. Ma di quale flagranza si parla se non esiste nessun reato ma solamente delle ipotesi investigative? Sono invece la vigliaccheria e il conformismo giustizialista con cui il parlamento dell’Ue ha scaricato Kaili a porre seri interrogativi sulla tenuta democratica delle istituzioni europee. Permeabili e influenzabili non tanto dal fantomatico lobbismo delle potenze straniere ma dalla pubblicistica degli organi di informazione, dal bullismo di una procura che si è creduta onnipotente, e che ha calpestato oltre ogni limite la presunzione di innocenza e i diritti degli indagati. In Libia le motovedette italiane Ma il gas arriverà (forse) tra tre anni di Futura d’Aprile Il Domani, 24 giugno 2023 La guardia costiera libica ha due motovedette in più. La cerimonia di consegna si è svolta presso l’arsenale militare di Messina tra strette di mano e foto dei rappresentanti della commissione Ue, della direzione centrale dell’immigrazione, dell’agenzia industrie difesa, che si è occupata del refitting delle motovedette, e della stessa guardia costiera. A quest’ultima spetta il compito di usare le imbarcazioni per contrastare i traffici illegali di migranti e controllare le frontiere, due pilastri della missione Sibmmil finanziata dal 2017 dall’Ue con 43 milioni di euro e gestita dal ministero dell’interno italiano. La consegna deriva dal memorandum firmato a gennaio dalla premier Meloni e da Abdel Hamid Dbeibah, leader del governo di unità nazionale libico, per uno scambio motovedette-gas, rivelatosi sfavorevole per l’Italia. La guardia costiera libica ha già ottenuto tre delle cinque motovedette promesse, l’accordo sul gas da 8 miliardi siglato tra Eni e la National oil corporation (Noc) presenta non pochi problemi. Prima di tutto, il gas non arriverà sul mercato italiano prima del 2026, nonostante l’urgenza di trovare fonti energetiche alternative rispetto alla Russia, altri punti fanno temere il fallimento dell’accordo. L’intesa è stata criticata dal ministro libico del petrolio, che ha definito non affidabili gli studi di fattibilità del progetto, mentre la Noc - guidata da Farhat Bengdara, uomo fedele al generale Kalifa Haftar - potrebbe non avere abbastanza liquidità per contribuire all’attivazione dei due giacimenti di gas offshore. Vi è anche una questione politica non certo secondaria e che deriva dalla frammentazione dei centri di potere in Libia, divisi fra Tripolitania a ovest e Cirenaica a est. L’allora capo dal governo della Cirenaica, Fathi Bashagha, aveva messo in discussione la validità dell’accordo siglato dal premier Dbeibah visto che il suo mandato è ufficialmente scaduto da più di un anno, lasciando intendere che in caso di cambiamenti negli equilibri di potere, l’intesa sul gas poteva essere messa in discussione. Le elezioni in Libia per il momento non sono una possibilità, ma l’instabilità politica del paese non fa ben sperare. L’accordo - definito “storico” da Meloni - potrebbe quindi fallire ancora prima di nascere, mentre la guardia costiera libica è stata ancora una volta equipaggiata con soldi pubblici nonostante le ripetute violazioni dei diritti umani e gli attacchi e i tentativi di sequestro ai danni dei pescherecci italiani. Roma, con il sostegno dell’Ue, continua a rafforzare una guardia costiera discutibile, secondo un approccio di militarizzazione delle frontiere ed esternalizzazione del controllo dei flussi che ha dato pochi risultati. Da gennaio a giugno 2023 sono arrivati in Italia circa 59mila migranti, più del doppio rispetto allo stesso periodo del 2022, mentre l’hotspot di Lampedusa è ancora una volta sovraffollato. I rapporti con Haftar - La scelta di puntare sulla fortificazione dei confini anziché su politiche di accoglienza non sembra stia ripagando e la prossima delusione per il governo Meloni potrebbe arrivare da Haftar, il generale che controlla militarmente la Cirenaica, area da cui sono partiti almeno 10mila dei migranti arrivati in Italia nei primi quattro mesi dell’anno. Haftar è stato a Roma a inizio maggio per discutere proprio dei flussi che partono dalle coste orientali e stando al portavoce del generale il clima intorno ai negoziati, di cui si sa ancora poco, sarebbe decisamente favorevole. Con molta probabilità i colloqui si sono concentrati sulla fornitura di mezzi e denaro per bloccare le partenze. Una prospettiva positiva per il generale, uscito senza soldi dalla fallimentare campagna militare per la conquista di Tripoli e bisognoso di nuove fonti di reddito, oltre che di legittimità internazionale. Peccato che Haftar non controlli totalmente la Cirenaica: l’area del porto di Tobruk, una delle più importanti della zona, ricade sotto l’influenza di una tribù a cui appartiene il presidente della Camera dei rappresentanti libica, Aguila Saleh, e che il generale sta provando a riconquistare con la forza. Ai danni di chi cerca di raggiungere le coste italiane, schiacciato tra i signori della guerra locali che cercano di sedurre il governo italiano e le istituzioni europee. Con risultati alle volte favorevoli. La politica migratoria del governo Meloni rischia dunque di rivelarsi fallimentare come quella dei suoi predecessori, tutti ugualmente disposti a rafforzare la guardia costiera libica e a trattare con milizie locali o governi di discutibile legittimità, pur di tenere lontano quelle persone che finiscono troppo spesso sul fondo del mare. In cambio di poco o nulla, nonostante i proclami ufficiali. Nessuna indagine per cercare i colpevoli dei 37 immigrati subsahariani morti durante gli scontri a Melilla nel giugno 2022 La Repubblica, 24 giugno 2023 La denuncia di Amnesty International. Formazioni antisommossa usarono lacrimogeni, proiettili e palle di gomma per cacciare i migranti: i loro corpi sono ancora negli obitori. Era il 24 giugno 2022 quando duemila persone provarono a scappare dall’Africa sub-sahariana per entrare a Melilla, in Spagna, attraverso il valico di frontiera di “Barrio Chino”. Le autorità marocchine e spagnole provarono a disperderli utilizzando attrezzature antisommossa, gas lacrimogeni, proiettili di gomma, manganelli, palle di gomma. In 37 morirono, in 76 risultano ancora oggi dispersi. Le autorità di Spagna e Marocco - denuncia Amnesty International - sinora non hanno condotto un’indagine indipendente efficace per garantire giustizia. L’organizzazione per i diritti umani denuncia un costante tentativo di insabbiamento delle prove sia da parte del governo marocchino che di quello spagnolo. Si negano ancora responsabilità. “A un anno dalla strage di Melilla, Madrid e Rabat non solo continuano a negare ogni responsabilità ma impediscono qualsiasi tentativo di scoprire la verità. I corpi dei migranti giacciono ancora negli obitori e gli sforzi per identificare i morti e informare i loro parenti sono stati bloccati”, dice il segretario generale di Amnesty International, Agnès Callamard. “Le barriere alla verità e alla giustizia sono un riflesso del trattamento dannoso basato sulla razza e sullo status migratorio. Tuttavia, mentre le speranze di ritrovare vivi i 76 dispersi diminuiscono, la richiesta alle autorità di fornire verità e garantire giustizia alle vittime e alle loro famiglie sta diventando sempre più forte”. Un anno dopo. A un anno dalla tragedia, le autorità non hanno fatto alcun tentativo di rimpatriare i resti delle vittime e almeno ventidue corpi sono ancora in un obitorio in Marocco. Madrid e Rabat continuano a non fornire un elenco completo dei nomi delle vittime né delle cause che hanno determinato la morte né mettono a disposizione della giustizia i filmati delle telecamere a circuito chiuso che potrebbero dare il via a un’indagine seria. Inoltre non hanno indagato adeguatamente sulle azioni della polizia, che potrebbe essere responsabile di avere commesso crimini e violazioni dei diritti umani ai sensi del diritto internazionale. Nel dicembre 2022 i pubblici ministeri spagnoli hanno archiviato l’inchiesta sulle morti affermando di non avere trovato prove di condotta criminale da parte delle forze di sicurezza nazionali. Allo stesso modo le autorità marocchine non hanno avviato alcuna indagine sull’uso della forza da parte dei poliziotti di frontiera e hanno reso praticamente impossibile per le famiglie e le ONG locali effettuare le ricerche dei dispersi e dei morti. Le richieste scritte con cui Amnesty International ha sollecitato i governi marocchino e spagnolo a condividere le informazioni finora sono rimaste senza risposta. Gli abusi alla frontiera. Nel frattempo le autorità spagnole continuano a condurre pratiche illegali ai confini, come le espulsioni collettive, che spesso comportano l’uso eccessivo della forza. Sul lato marocchino, e come risultato della cooperazione in materia migratoria tra i due paesi, le autorità continuano a impedire agli africani sub-sahariani di raggiungere il territorio spagnolo per presentare domanda di asilo. Nel novembre 2022 Tendayi Achiume, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di razzismo, xenofobia e intolleranza, ha detto che i fatti di Melilla del giugno 2022 rivelano lo status quo dei confini dell’Unione Europea, vale a dire la violenza mortale messa in atto dagli Stati per tenere fuori le persone di origine africana e in generale le popolazioni non bianche. La testimonianza. “Siamo solo immigrati e siamo esseri umani, non siamo animali. Abbiamo bisogno di rispetto come chiunque altro”, ha detto ad Amnesty International Aboubida, una donna del Sudan che ha tentato di varcare il confine a Melilla ma è stata picchiata, colpita con gas lacrimogeni ed infine le è stata negata la possibilità di essere visitata da un medico. “Quello che è successo a Melilla è un promemoria del fatto che le politiche migratorie razziste, che mirano a rafforzare i confini e a limitare i percorsi sicuri e legali per le persone che cercano protezione in Europa, hanno conseguenze reali e mortali. È difficile sfuggire all’elemento legato al razzismo quando si leggono i fatti di Melilla ed è difficile sfuggire al modo disumanizzante in cui i neri vengono trattati ai confini dell’Europa, sia quando sono vivi, sia quando sono dispersi e sia quando sono morti”, continua Agnès Callamard.