“Ora via Arenula aumenti le telefonate per i detenuti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 giugno 2023 In un’interrogazione il deputato di Avs Marco Grimaldi ha posto l’accento sulla salvaguardia della salute mentale di chi è privato della libertà. “Chiedo al ministro della giustizia di consentire più chiamate e videochiamate come ai tempi dell’emergenza pandemica”. È ciò che auspica il deputato Marco Grimaldi di Alleanza Verdi e Sinistra nell’interrogazione a risposta scritta, presentata venerdì scorso, dove solleva una questione di grande rilevanza e urgenza: il numero elevato di suicidi negli istituti penitenziari italiani e la necessità di adottare iniziative concrete per contrastare tale fenomeno. L’interrogazione ricorda che la redazione Ristretti Orizzonti, la Conferenza nazionale volontariato giustizia e Sbarre di zucchero, insieme con altre 149 associazioni che si occupano del mondo carcerario, hanno avviato una campagna per consentire ai detenuti ristretti nelle carceri italiane di mantenere i contatti a distanza con i propri affetti tramite videochiamate e telefonate, come già avvenuto durante il periodo dell’emergenza Covid. È importante sottolineare che nel 2022 si è registrato il numero più alto di suicidi tra i detenuti italiani dal 1990, l’anno in cui è iniziata la raccolta dei dati. L’interrogazione rivolta al ministro Nordio si evidenzia che la questione dei suicidi in carcere rappresenta ormai un’emergenza che richiede un intervento immediato. Secondo lo psichiatra Diego De Leo, esperto di suicidologia, l’aumento delle opportunità di comunicazione e dei legami con l’esterno non solo renderebbe più sopportabile la vita all’interno delle carceri, ma contribuirebbe anche a prevenire almeno alcuni dei numerosi suicidi che ancora avvengono nelle strutture detentive italiane. L’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario stabilisce che il trattamento del condannato e dell’internato deve agevolare opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia. Tuttavia, come riportato da un detenuto in un articolo pubblicato sul sito ristretti.org il 4 maggio 2023, il limite di una telefonata settimanale di dieci minuti ha avuto un impatto negativo sulla vita familiare, portando a una perdita dei legami affettivi che erano stati rafforzati durante l’emergenza Covid. Durante il periodo di emergenza sanitaria, è stata adottata una soluzione positiva per mantenere i detenuti più sereni e per favorire i legami affettivi, consentendo videochiamate e telefonate quotidiane. Tale iniziativa ha permesso alle persone detenute di chiamare casa più spesso e di rivedere le loro famiglie attraverso le videochiamate. Tuttavia, le regole pre-pandemia prevedono solo 10 minuti di telefonata a settimana e 6 ore di colloquio al mese, limitando significativamente il diritto all’affettività e alle relazioni familiari dei detenuti. Alla luce di queste considerazioni, il deputato Grimaldi sottolinea quanto sia fondamentale che il Ministero della Giustizia assuma iniziative urgenti per contrastare il numero elevato di suicidi nelle carceri italiane. È necessario che vengano adottate misure efficaci per garantire il diritto all’affettività e alla salute psicologica dei detenuti. In primo luogo, il mantenimento della possibilità di effettuare videochiamate e telefonate quotidiane rappresenta un aspetto fondamentale. Queste forme di comunicazione consentono ai detenuti di mantenere i legami con i propri affetti, di sentirsi meno isolati e di ricevere sostegno emotivo dall’esterno. È importante che tali iniziative non siano limitate al periodo di emergenza sanitaria, ma diventino una prassi costante all’interno del sistema penitenziario. Inoltre, occorre rivedere le regole pre-pandemia che limitano i tempi di telefonata e di colloquio tra detenuti e familiari. La restrizione di soli 10 minuti di telefonata a settimana e 6 ore di colloquio al mese non tiene conto dell’importanza delle relazioni familiari nel processo di recupero e reintegrazione sociale del detenuto. Dedicare più tempo alle comunicazioni familiari può favorire una maggiore stabilità emotiva e un senso di appartenenza che possono contribuire a prevenire situazioni di disagio e disperazione. Parallelamente, sempre nell’interrogazione parlamentare, si fa presente che è essenziale potenziare i servizi di supporto psicologico all’interno delle carceri. D’altronde emerge la necessità di investire su operatori sanitari e psicologi, fondamentali per affrontare le problematiche specifiche dei detenuti e fornire loro un sostegno adeguato. La salute mentale dei detenuti deve essere presa in considerazione con la stessa attenzione riservata alla salute fisica, garantendo un accesso equo e tempestivo ai servizi di assistenza e cura. Il fenomeno dei suicidi nelle carceri italiane richiede una risposta immediata e globale da parte del Ministero della Giustizia. È necessario garantire ai detenuti il diritto all’affettività, alla salute mentale e alle opportunità di reintegrazione sociale. Oltre che promuovere misure deflattive per ridurre il sovraffollamento. Da ricordare anche l’appello promosso dalle “ragazze di Torino”, sottoscritto da 144 detenute del carcere “Lorusso e Cutugno”, dove si chiede di approvare la proposta di legge Giachetti, quella della liberazione anticipata speciale. Solo attraverso un impegno costante e misure che realizzino ciò che indica la Costituzione, la via maestra, sarà possibile ridurre il numero di suicidi nelle carceri e offrire una prospettiva di speranza e cambiamento per coloro che sono privati della propria libertà. Negli anni tante proposte e zero fatti. Ma 10 minuti a settimana sono pochi Il diritto all’affettività in carcere è una questione sollevata da tempo, ma in questi ultimi sette anni, con sei governi diversi, alla fine il Parlamento non ha preso in considerazione le varie proposte, a partire dai decreti per la riforma Orlando scaturiti durante gli Stati generali dell’esecuzione penale del 2015, grazie all’impulso dell’ex guardasigilli del Pd. Lo scopo era per arrivare a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto. Così come sono rimaste nel limbo le proposte di legge sull’affettività elaborate dalle regioni Toscana e Lazio. Da parte di molti giuristi, d’altronde, arrivano da tempo richiami sia all’articolo 2 della Costituzione italiana, che riguarda i diritti inviolabili della persona, sia agli articoli 3 e 8 della Convenzione nazionale dei diritti dell’uomo, che vietano i trattamenti inumani e degradanti e tutelano il diritto al rispetto della vita privata e familiare. La liberalizzazione delle telefonate rientra anche tra le proposte della commissione presieduta da Marco Ruotolo (ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Roma Tre) voluta dalla precedente ministra della Giustizia Marta Cartabia. Una liberalizzazione per i detenuti appartenenti al circuito di media sicurezza qualora non vi siano “particolari esigenze cautelari, per ragioni processuali o legate alla pericolosità”. In particolare, la proposta prevedeva la possibilità di acquistare al sopravvitto apparecchi mobili “configurati in maniera idonea e funzionale con le dovute precauzioni operative (senza scheda e con la possibilità di chiamare solo i numeri autorizzati) per evitare qualsiasi forma di utilizzo indebito”. Per cui il detenuto sarebbe libero di utilizzare l’apparecchio nei tempi e con le modalità indicate dall’Amministrazione (es. solo nella camera di pernottamento). Ma anche il documento della commissione Ruotolo è finito nel nulla. Come ha ricordato l’associazione Antigone tramite un documento dello scorso anno dove ha elaborato delle proposte, la previsione di una telefonata a settimana di una durata massima di 10 minuti appare oggi assai datata. Nel 1976, quando le chiamate erano rare e care, la telefonate potevano durare un massimo di 6 minuti. Nel 2000, il tempo fu portato agli attuali 10 minuti, ma all’epoca i telefonini erano ancora poco diffusi. “Appare evidente come in considerazione dei tempi correnti, la revisione della normativa relativa alle telefonate sia più che necessaria”, ha chiosato l’associazione. C’è un veto su Rita Bernardini a Garante dei detenuti? di Angela Stella L’Unità, 22 giugno 2023 Sono iniziate presso il Ministero della Giustizia le audizioni per designare il nuovo Collegio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. I tre nuovi componenti assumeranno l’incarico ricoperto in questi ultimi sette anni - benché il mandato sia di cinque - da Mauro Palma. Emilia Rossi, Daniela De Robert. La questione, quanto mai importante e delicata, sarebbe gestita in prima persona dal capo di Gabinetto del Ministro Nordio, Alberto Rizzo. Nei giorni scorsi quest’ultimo avrebbe incontrato prima l’uscente Palma, il quale avrebbe offerto la propria disponibilità ad affiancare per un periodo i nuovi arrivati, dopodiché sarebbero iniziate le audizioni. Come ha affermato lo stesso Palma nell’illustrare la sua ultima Relazione al Parlamento, “è avviata la procedura per indicare un nuovo Collegio che prenderà il nostro posto e che garantirà la continuità, pur nelle differenze che il carattere e le culture di ognuno di noi può porre, del cammino avviato; proprio perché non si tratta di esprimere una posizione politica, bensì di adempiere a una funzione di garanzia. La politica aiuta, coopero, ma non detta regole alle Istituzioni di garanzia”. Ma la designazione dei componenti del nuovo Collegio del Garante dei detenuti sarà presa davvero sulla base di considerazioni di puro merito o la politica metterà il suo zampino? Sul punto la normativa è abbastanza chiara: i membri del Collegio “sono scelti tra persone, non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani, e sono nominati, previa delibera del Consiglio dei ministri, con decreto del Presidente della Repubblica, sentite le competenti commissioni parlamentari”. Inoltre la legge designa il Garante anche quale Meccanismo nazionale di prevenzione della tortura (National Preventive Mechanism - Npm) nell’ambito del Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (Opcat). Ricordiamo brevemente qualche punto del curriculum di Palma: già Presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti (CPT) del Consiglio dell’Europa, consigliere di diversi ex Ministri della Giustizia sul tema carcerario, ex Presidente della Commissione di esperti istituita dal Consiglio d’Europa per definire le Linee guida per affrontare il sovraffollamento detentivo in Europa. Dunque per il know how richiesto e per il curriculum del Garante uscente, ci vorrà una figura alla sua altezza. Al momento il nome più sponsorizzato per la figura apicale è quello di Felice Maurizio D’Ettore, Professore ordinario di istituzioni di diritto privato, che ha concluso la scorsa legislatura come deputato di Fratelli d’Italia. Contattato al telefono ha preferito non commentare per rispetto della procedura di selezione. Un altro nome circolato in questi giorni è quello dell’ex responsabile giustizia del Movimento Cinque Stelle, Giulia Sarti, deputata della XVIII legislatura. Ma quest’ultima ci ha detto di non essere stata audita e che probabilmente la scelta ricadrà su tre nomi molto tecnici. In realtà, il nome che sta facendo più rumore è quello di Rita Bernardini, ex parlamentare radicale, e attuale Presidente di Nessuno Tocchi Caino. Audita già da Rizzo, e con un curriculum di tutto rispetto in materia di carcere, sembrava, secondo fonti di via Arenula, che avesse superato il colloquio con l’avallo dello stesso Ministro Nordio, il quale l’avrebbe espressamente richiesta per far parte del Collegio. Ma poi ci sarebbe stata una marcia indietro. Alcune fonti parlamentari del centrodestra ci hanno riferito che “ci sarebbe un altolà dai piani altissimi”. Il Quirinale? Le persone che abbiamo sentito sul punto ci hanno risposto, in pratica, tutte allo stesso modo: “non possiamo né confermare né smentire”. Ma se fosse vero, perché il Capo dello Stato non vorrebbe Rita Bernardini in quel ruolo? Qualcuno sostiene per i vecchi attriti avuti dall’ex parlamentare radicale con l’attuale segretario generale della presidenza della Repubblica, Ugo Zampetti. Quando era Segretario della Camera, infatti, Zampetti fu oggetto di alcuni atti di sindacato ispettivo promossi da Bernardini in tema di “contratti e trasparenza”. Questa ipotesi sarebbe però da scartare perché andrebbe a sminuire l’indipendenza decisionale di Mattarella. Altre fonti ci raccontano che invece a perorare la sua bocciatura presso il Quirinale sarebbe una parte del Partito Democratico. Rita Bernardini infatti non raccoglierebbe molte simpatie tra i dem, non solo come persona ma come storica figura del Partito Radicale. A dimostrazione di questo difficile rapporto è notizia di ieri che la maggioranza del Pd che amministra la città di Torino non ha per il momento accolto una mozione per intitolare a Marco Pannella una strada del capoluogo piemontese. Tra via Arenula e Palazzo del Quirinale, dunque, avrebbero trovato un escamotage. E cioè che non si possono avere due ex parlamentari nel Collegio del Garante: quindi se passa D’Ettore, automaticamente sarebbe scartata Bernardini. Eppure non c’è nessuna legge o norma regolamentare che impedisca la nomina di due ex parlamentari nel Collegio. Siamo nel campo delle ipotesi (e degli spifferi) di Palazzo. Ma se davvero Rita Bernardini - che oltre alle competenze ha messo a disposizione anche il suo corpo, da decenni, con decine di scioperi della fame, per tutelare i diritti dei detenuti - non venisse scelta, saremmo inflessibili e minuziosi nel vagliare i titoli di quelli che saranno nominati al suo posto. L’impresa della Carità nella cura dei pazienti psichiatrici autori di reato di Lorenzo Guzzetti Il Riformista, 22 giugno 2023 La cronaca nera si occupa dei singoli casi, ma serve trovare uno spazio culturale che si faccia carico di analizzare le falle del nostro sistema e le relative soluzioni. Che un quotidiano dedichi spazio al tema della salute mentale non è certo comune, considerato lo stigma sociale che ancora caratterizza il nostro modello sociale. Certamente non è popolare accendere un faro su una grande tematica di questa disciplina, ovvero la cura della salute mentale per gli autori di reato. La cronaca nera si occupa dei singoli casi, ma serve trovare uno spazio culturale che si faccia carico di analizzare le falle del nostro sistema e le relative soluzioni. In principio furono i manicomi criminali, chiusi con la riforma del 1975 e rimpiazzati dagli Opg (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) i quali, tuttavia, si sono dimostrati ancora insufficienti alla riabilitazione dell’individuo che ha commesso il reato. Per questa ragione, dal 2012, sono state introdotte le Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) spostando così le competenze della medicina penitenziaria dal Ministero di Grazia e Giustizia a quello della Sanità. In sintesi subordinare la detenzione alla riabilitazione, fissando il numero massimo di persone ospitabili. Obiettivo delle Rems era quello di essere strutture non solo detentive, ma anche riabilitative. Si è così creato un primo grosso problema legato all’insufficienza dei posti disponibili rispetto alle istanze di ricovero: circa settecento persone con pericolosità sociale non trovano ospitalità nelle Rems e nemmeno adatta collocazione nelle altre strutture di ricovero. Spesso esaurita una detenzione impropria nelle carceri ordinarie, il malato si trova senza cure. Le carceri ordinarie per altro da tempo soffrono l’elevata presenza di persone con disagio psichico, che aggravano le già complesse condizioni di trattenimento degli altri detenuti, e di lavoro per il personale e la polizia penitenziaria. Le Rems in Italia sono solo trenta e ci sono lunghe “liste d’attesa” determinate dai numeri elevati e da un cortocircuito istituzionale tra tribunali, direzioni sanitarie e direzioni generali delle strutture. Il lavoro con questa tipologia di persone con malattia psichiatrica è complesso in ogni tipologia di struttura, e non assimilabile a quello con altri pazienti privi di questa ulteriore severità. Non considerarlo sarebbe come assimilare un ricovero in medicina a quello in terapia intensiva. Le conseguenze sono un appesantimento delle condizioni di vita di malati che giungono a gesti estremi, delle famiglie lasciate sole, degli operatori carcerari, e di operatori sanitari sempre meno numerosi. Il Terzo Settore a volte riesce a dare le risposte a cui le istituzioni faticano ad arrivare. Bisognerebbe fare emergere questi modelli positivi per trarne elementi di replicabilità. È il caso della Fondazione Adele Bonolis As.Fra. Onlus realtà del territorio brianzolo dal 1957. Opera a Vedano al Lambro, nell’ambito della salute mentale offrendo servizi psichiatrici residenziali ad alta intensità di cura. Come ricorda il Presidente, Alessandro Pirola, la Fondazione affronta la complessità di cura nella certezza che la persona abbia sempre potenzialità da esprimere e sia essa stessa una risorsa per la comunità. La struttura oggi offre accoglienza a ottanta ospiti residenziali, circa cinquanta pazienti in accoglienza diurna, gestisce sette alloggi di housing assistito, e ne sta costruendo altri sei strumentali al recupero dell’autonomia e al reinserimento sociale e lavorativo. Qui molti ospiti sono autori di reato con misure alternative alla detenzione, restrittive o con trascorsi in tal senso. Questi utenti sono sempre stati una caratteristica peculiare della Fondazione Adele Bonolis e si sono sviluppate competenze specifiche. Le doppie diagnosi, psichiatria e dipendenze, e la consapevolezza che i soggetti autori di reato hanno complessità non proprie dei “normali” ospiti psichiatrici, comportano un carico di lavoro aggiuntivo nella loro cura e gestione. La Fondazione da sempre ha suggerito modalità operative e amministrative in una logica di coinvolgimento e dialogo ampio e interistituzionale, con la politica, la magistratura, il sistema penitenziario, e i luoghi di cura per acuti per portare proposte che garantirebbero appropriatezza terapeutica, una gestione più adeguata delle patologie, e un potenziale recupero sociale degli autori di reato contribuendo a prevenire drammatici fatti di cronaca anche recente. L’invito del Presidente Pirola è chiaro, occorre che le istituzioni conoscano queste realtà, le valorizzino, le valutino e avviino in una ottica sussidiaria modelli sperimentali di assistenza e cura che partano dal rapporto relazionale tra chi cura e chi è curato. Chi sta vicino al bisogno è in costante sviluppo. Entro l’anno la Fondazione inaugurerà ulteriori alloggi per l’autonomia - iniziativa largamente autofinanziata che ha visto anche un importante contributo della Fondazione Cariplo - e l’erogazione di due giornate formative tematiche sulla cura psichiatrica agli autori di reato offerte alla comunità professionale territoriale. Il privato sociale c’è, dunque, ma è giunto il tempo che anche le Istituzioni pubbliche facciano maggiormente la loro parte. Dossier giustizia: tre giudici per ogni atto, si teme la paralisi del sistema di Sarah Martinenghi La Repubblica, 22 giugno 2023 Dalla violenza di genere agli arresti, il triplice collegio previsto dal ddl del governo manderà in crisi i tribunali già col personale ridotto all’osso. Basandosi sui dati del 2022, ultimi disponibili, se il ddl Nordio fosse approvato, a Roma i giudici collegiali sarebbero stati costretti a esprimersi su 875 procedimenti, sempre in relazione agli arresti. A Roma i gip sono 40, di cui 5 ruoli vacanti (per distacco), senza contare un paio di esoneri. Dunque, in media al momento decidono su 25 convalide annue. Se la riforma entrasse in vigore dovrebbero occuparsi di 75 convalide, oltre al lavoro ordinario di udienze preliminari e intercettazioni e agli arretrati ancora dovuti alle chiusure per il Covid. E c’è il rischio che per colmare le carenze di altri tribunali laziali i gip potrebbero anche doversi spostare. (andrea ossino) Milano, codice rosso in 5 giorni - Aspettare 4 o 5 giorni per un provvedimento di custodia cautelare in carcere che dovrebbe essere emesso in 24 ore, è un rischio. C’è una contraddizione tra l’esigenza di velocità prevista dal “Codice rosso” a tutela delle vittime di reati di genere e la miniriforma della giustizia penale voluta dal ministero”. Lo spiega Fabrizio Filice, gip del tribunale di Milano. Preoccupa il collegio di tre giudici invece di uno per decidere sul carcere: “Ora posso emettere l’ordine di cattura oggi stesso e domani va in esecuzione. Così invece allunghiamo i tempi, un rischio enorme per le vittime”. I dubbi riguardano anche l’organico: nella sezione gip-gup, appena 31 toghe presenti su 39. Napoli, piante organiche allo stremo - Nel circondario di Napoli l’introduzione del gip collegiale per decidere sulla custodia in carcere rischia di portare i tribunali “alla paralisi”. Nel capoluogo la pianta organica conta 321 magistrati, i gip sono una cinquantina, ma devono fare i conti con una mole di lavoro enorme. “Mancano 54 giudici”, evidenzia la presidente Elisabetta Garzo. A Santa Maria Capua Vetere, su 91 giudici, 42 prestano servizio nelle sezioni penali e 9 hanno le funzioni di gip. Ad Aversa Napoli Nord i gip sono 12 su 88 giudici: “Ma nel nostro ufficio - dice il presidente Pierluigi Picardi - c’è è un giudice ogni 11mila cittadini, a Napoli uno su tremila”. A Nola e Torre Annunziata, infine, solo 5 gip per tribunale. Bologna, la macchina verso il blocco - Inapplicabile. La riforma della giustizia approvata dal governo “metterebbe in ginocchio i tribunali della regione”, dicono dall’Anm dell’Emilia-Romagna. Il nodo critico è quello relativo alle misure cautelari che dovranno essere prese da un collegio tre di giudici invece di uno. Nei 9 tribunali emiliano romagnoli ben 7 hanno solo 3 gip (4 Reggio Emilia e 10 Bologna) e al netto di ferie, malattie e imprevisti, se anche uno solo dei giudici fosse assente sarebbe impossibile decidere sulla richiesta d’arresto. La giustizia rischia il blocco totale nei piccoli tribunali: Modena, Rimini, Ravenna, Ferrara, Forlì, Parma o Piacenza. Ma grosse difficoltà le creerebbe anche a Bologna. Bari, personale già sotto stress - A Bari l’ufficio dei gip-gup (18 unità) è già in “grandissima difficoltà”, spiega il procuratore Roberto Rossi: “Lavorano 10-12 ore al giorno, spesso anche sabato e domenica”, perché le richieste di misure cautelari, depositate e in attesa di essere evase, sono molte. Inoltre, la Dda di Bari ha competenza anche sulle province Bat e Foggia dove l’escalation di omicidi e reati di mafia ha sollecitato una risposta dello Stato. Ma la quantità di misure cautelari (personali e patrimoniali) richieste intasa l’ufficio gip, che si occupa anche dei reati ordinari e ha subito un’ulteriore pressione con l’applicazione del Codice rosso e l’emissione di misure cautelari entro 24 ore dalle richieste dei pm. Firenze, il nodo dell’incompatibilità - Marilena Rizzo, presidente del tribunale di Firenze: “Noi, essendo un ufficio grande, non saremo soggetti a paralisi come sicuramente quelli più piccoli, ma un giudizio collegiale prevede delle incompatibilità, dovendo per ogni procedimento separare gip da gup ed essendoci incompatibilità negli uffici. Dove ci sarà un numero di giudici risicato si creeranno problemi. Purtroppo siamo in un momento in cui siamo in carenza di organici. Se in questi due anni saranno implementati, il problema si risolve. Altrimenti si acuisce”. L’organico teorico al tribunale di Firenze è di 91 magistrati, compresi i presidenti di sezione, con 14 gip, di cui 2 presidenti di sezione. Palermo, a caccia di gip - A Palermo le richieste di misure cautelari della dda sono tantissime, sostenute dal lavoro di indagine di reparti di polizia specializzati. L’ufficio del gip è già in sofferenza, con 25 giudici sulla carta, e un deficit del 33%. Per dare seguito a tutte le misure con una struttura collegiale ci vorrebbe il triplo dei gip. Nei mesi scorsi, alla vigilia delle elezioni regionali, la procura ha chiesto misure cautelari urgenti per bloccare due politici che cercavano voti incontrando i boss. Misure cautelari sono state fatte anche nei confronti dei favoreggiatori di Matteo Messina Denaro: se n’è fatto carico il presidente dell’Ufficio gip Alfredo Montalto, per aiutare i suoi giudici già carichi di lavoro. Genova, panchina corta per l’ordinario - Nel tribunale di Genova l’ufficio gip-gup è cronicamente sotto organico. I giudici dovrebbero essere 15, i magistrati mancanti attualmente sono 3, e questo costringe la presidente di sezione e la aggiunta a occuparsi del lavoro ordinario, in primis naturalmente ordinanze di misure cautelari. Dal palazzo di giustizia vengono emesse in media 2-3 misure al giorno. Sebbene nessuno al momento si senta di commentare il ddl del governo, in un contesto in cui i giudici sono meno di quanto stabilito e per evitare incompatibilità bisognerebbe fare i salti mortali, c’è preoccupazione soprattutto per quanto riguarda le misure relative al codice rosso. Torino, preoccupazione per lo stop all’abuso d’ufficio - Abolire l’abuso d’ufficio “creerebbe un vuoto”. Sono 226 i procedimenti penali iscritti per questo reato nel 2022 nelle procure del Piemonte. E nell’anno in corso sono già 97, con 6 sentenze pronunciate e due rinvii a giudizio. Ma non è certo una questione di numeri, per il procuratore generale Francesco Saluzzo, che sottolinea l’importanza di questi fascicoli d’indagine come “sentinelle”, che spesso portano a scoprire “condotte più gravi come la corruzione o la concussione”. “Si tratta di una norma che rappresenta un presidio di legalità e un argine all’illegalità”. Anche qui perplessità suscita poi l’ipotesi di riforma delle misure cautelari che diventerebbero collegiali. Nordio: “Riforma della giustizia, vado avanti. Mai legittimati gli evasori” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 giugno 2023 Intervista al ministro della Giustizia: “Confitti con i magistrati? Spero di no, vorrei che si abbassassero i toni da parte di tutti. Sulle intercettazioni ripristiniamo la Costituzione” Nordio: “Riforma della giustizia, vado avanti. Mai legittimati gli evasori”. Carlo Nordio, da ex magistrato divenuto ministro della Giustizia sembra aver aperto una nuova stagione di conflitto con i suoi colleghi d’un tempo... “Penso e spero proprio di no. I miei propositi li esprimo e li scrivo da 25 anni, e derivano proprio dal desiderio di avere una giustizia più efficiente e dal grande rispetto per la magistratura, di cui mi sento ancora di far parte. Del resto, amantium irae, amoris integratio est: i litigi degli amanti sono un’integrazione dell’amore”. Ma lei ha accusato i magistrati di interferenza. Davvero pensa che non debbano commentare le leggi, come i politici le sentenze? “C’è modo e modo di dissentire dai disegni di legge e dal tenore delle sentenze. Nel caso di questa riforma sono stati usati termini molto forti ancor prima che il testo fosse noto, così come in altri momenti alcuni politici hanno commentato certe sentenze come eversive. Vorrei che si abbassassero i toni da parte di tutti”. Le sue dichiarazioni sul fisco però sembrano andare in un’altra direzione; non teme che possano incoraggiare chi non paga o non vuole più pagare le tasse? “Ho letto che la segretaria del Pd Elly Schlein sostiene che legittimo gli evasori fiscali, ma è stata tratta in inganno da alcuni giornali che hanno volutamente alterato le cose dette da me alla Luiss. Poiché tra le poche qualità che mi riconosco c’è quella di esser chiaro, non dirò di essere stato travisato: hanno proprio alterato le mie parole, pronunciate tra l’altro davanti al procuratore di Milano, e a vari generali della Guardia di finanza. Il discorso, pur fatto a braccio, è registrato: dico che il nostro sistema tributario è così impazzito che anche l’imprenditore più onesto che paghi tutte le tasse è sempre esposto ad indagini. È questo sistema che favorisce gli evasori, non chi come me lo denuncia. L’evasione si combatte con una semplificazione normativa e un rapporto più certo e leale tra Stato e contribuente. Ed è questo il senso della riforma illustrata dal viceministro Leo”. Lei ha accusato il pool di Mani pulite di aver innescato il conflitto con la politica con l’avviso di garanzia a Berlusconi “notificato a mezzo stampa” nel 1994. S’è dimenticato le leggi ad personam? “Una cosa è cominciare, un’altra è alimentare. Certamente Berlusconi ha perso tempo e opportunità con leggi ad personam, tra l’altro inutili, che io stesso ho più volte criticato nei miei editoriali dell’epoca. Ma la valanga di procedimenti cui è stato sottoposto, e un invito a comparire notificato a mezzo stampa durante una conferenza internazionale, hanno innescato un corto circuito funesto. La nemesi poi ha voluto che fosse vittima di una interpretazione retroattiva, contra personam, della legge Severino”. Tornando alla sua riforma, perché non una delle critiche all’abrogazione dell’abuso d’ufficio da parte di pressoché tutti i magistrati intervenuti è stata accolta? “Per le ragioni spiegate da altri autorevolissimi giuristi, da Sabino Cassese a Luciano Violante. Perché tutti i sindaci e gli assessori ne sono oppressi, senza aver fatto nulla di male; perché il cittadino è la vittima finale di questa amministrazione difensiva che non dà risposte in tempi rapidi; e perché se su 5.000 processi arrivano solo 9 condanne, tra l’altro per reati connessi, significa che la norma, dopo venti anni di cambiamenti, è un fallimento”. Secondo il procuratore Raffaele Cantone spesso fatti di corruzione si scoprono proprio attraverso le indagini sull’abuso d’ufficio... “Cantone è un bravissimo magistrato e gode della mia massima stima. Ma rappresenta bene il detto di Senofane, che se un triangolo potesse parlare descriverebbe Dio fatto a triangolo: cioè ognuno vede le cose sotto la lente più o meno deformante delle proprie funzioni. E infatti gli amministratori la vedono in modo opposto. Come la separazione delle carriere: per molti magistrati è una catastrofe, per gli avvocati una panacea. Il legislatore deve avere una prospettiva più ampia e perseguire l’interesse collettivo”. Per evitare la “paura della firma” da parte degli amministratori, la politica non dovrebbe considerare un avviso di garanzia (o anche una condanna in primo grado) un impedimento a proseguire il lavoro, anziché abolire il reato? “Magari fosse possibile, ma è una battaglia perduta. Infatti interverremo, più avanti, con una riforma del codice di procedura penale, anche sull’informazione di garanzia, nel senso da lei auspicato”. Non temete censure da parte dell’Unione europea sull’abolizione di questo reato e per l’ulteriore restringimento del traffico d’influenze? “No. Abbiamo spiegato in modo convincente al commissario europeo Didier Reynders quale sia l’arsenale complessivo dei nostri reati punibili, che non lasciano vuoti di tutela. Ciò non toglie che, come ha annunciato la senatrice Giulia Bongiorno, l’intero complesso dei reati contro la pubblica amministrazione debba essere rivisitato. Lo abbiamo già fatto con il traffico di influenze, adeguando meglio la fattispecie ai principi di tassatività, specificità e chiarezza. Attualmente è così evanescente da essere inapplicabile. Il nostro Ufficio legislativo ha fatto un lavoro certosino, valutando i pro e i contro di ogni innovazione, secondo un determinato indirizzo politico che, come sempre, è il frutto di valutazioni tra le varie componenti. Alla fine il testo ha ottenuto l’assoluta unanimità, e al Consiglio dei ministri c’è stato persino un piccolo applauso”. Perché è necessario un collegio di tre giudici per ordinare un arresto in carcere? Non bastava il tribunale del riesame collegiale? “Perché il tribunale del riesame, che molto spesso annulla le ordinanze di custodia cautelare, interviene quando il danno è già stato fatto. Dieci giorni di prigione per chi non doveva esser incarcerato sono una sofferenza atroce. Meglio prevenire che rimediare”. L’interrogatorio prima dell’arresto prevede numerose eccezioni: la montagna ha partorito un topolino? “A noi sembra un principio di civiltà e razionalità. Certo, l’intero sistema della carcerazione preventiva andrà rimodulato, ma questo avverrà quando realizzeremo un codice liberale come quello che Giuliano Vassalli, eroe pluridecorato della Resistenza e grande giurista, aveva voluto, e che invece gli è stato snaturato sin dal primo momento”. Perché si potranno pubblicare solo le intercettazioni riportate in un provvedimento del giudice? “Perché l’articolo 15 della Costituzione è tassativo sulla segretezza delle comunicazioni, che eccezionalmente può essere limitata da un provvedimento motivato del giudice. Quel che resta fuori è pettegolezzo, ed è un oltraggio alla stessa Costituzione. Mi stupisce che tanti che la definiscono la più bella del mondo dimentichino questo principio. La segretezza è l’altra faccia della libertà, il voto è segreto proprio perché dev’essere libero”. Ma se altri atti non più segreti contengono elementi di interesse pubblico, perché non si possono divulgare? “Proprio perché lo dice l’articolo 15 della Costituzione. E poi questo concetto di interesse pubblico è così vaporoso che può comprendere anche le sfere più intime degli individui. Lo stesso vale per certi atti che pur sono inseriti nel fascicolo processuale, come la cartella clinica della vittima o le fotografie pedopornografiche. Vogliamo pubblicare anche quelle?”. Orlando: “Nordio eviti cortocircuiti istituzionali e non ostacoli le intercettazioni” di Liana Milella La Repubblica, 22 giugno 2023 L’ex ministro della Giustizia: “Il Guardasigilli vuole mandare alcuni messaggi a settori sociali più direttamente interessati a forme di criminalità economica” Andrea Orlando, esternazioni da editorialista quelle di Nordio contro la “stampa faziosa” o da ministro? “Un ministro ha tutto il diritto di partecipare ad eventi pubblici e regalare commenti sagaci. Dovrebbe però evitare cortocircuiti istituzionali e definire un nesso tra ciò che dice come brillante conversatore e ciò che fa come ministro”. Intercettazioni, Nordio attenta alla libertà di captare i reati e imbavaglia la stampa? “Da anni si evocava l’esigenza di intervenire, lo facemmo e ci furono polemiche. Ma tenemmo aperto il confronto con tutti: stampa, avvocatura, magistratura. Si raggiunse un buon punto di equilibrio. Non lo dico io, ma il Garante della Privacy, che ha escluso ci siano state violazioni da allora su questo fronte. Si è responsabilizzato il capo delle procure per le fughe di materiale e credo che questa sia la principale ragione della diminuzione dei casi. Nordio dovrebbe spiegare su quale casistica successiva alla riforma intenda intervenire, anche per sapere se ci sono stati illeciti disciplinari che eventualmente avrebbero dovuto essere sanzionati”. Il procuratore Melillo ribatte che “non ci sono ascolti inutili”... “Melillo ha espresso una verità storica. Per le tipologie di reato per cui si prevedono le intercettazioni tale strumento è stato determinante”. Che ne pensa delle norme rispetto ai social? “Proprio dal confronto al tempo della riforma emerse un dato: è pericoloso rendere non pubblicabile ciò che è sostanzialmente pubblico. Ed è velleitario farlo al tempo dei social, rischia di alimentare una gestione torbida di informazioni riservate”. Sull’evasione fiscale quello di Nordio è un libera tutti? “Il segnale è rivolto agli evasori: l’evasione non è colpa loro, ma delle leggi farraginose. Usa un argomento parzialmente vero, non per proporre una semplificazione ma per costruire una giustificazione morale. Sa che quelle norme non possono essere depenalizzate ma ne evoca la possibilità. Si allinea alla parola d’ordine del “pizzo di Stato” della sua leader. Un chiaro messaggio politico ed elettoralistico”. Nordio consiglia agli italiani di infrangere i codici? “Vuole mandare alcuni messaggi a settori sociali più direttamente interessati a forme di criminalità economica. Lo fa a senso unico promuovendo una sorta di garantismo di classe: se sei un pubblico ufficiale e affidi senza gara a un parente una opera pubblica per un importo fino a 150mila euro non sei in alcun modo sanzionabile, se sei un evasore sei giustificato dalla complessità del fisco, ma se organizzi una spiaggiata rischi fino a 4 anni di carcere”. Cancellare l’abuso d’ufficio va contro l’Ue. Voi che farete? “Mi pare che Nordio abbia già ammesso il problema e affermato che se, l’Europa ce lo chiederà, riscriverà il reato. Ci sono convenzioni internazionali sottoscritte che ci impongono di prevedere figure di reato idonee a contrastare questi illeciti”. Tre giudici anziché uno per autorizzare un arresto, ma senza avere i giudici, è una boutade? “Se lo immagina questo governo con tutta la sua retorica “legge e ordine” al primo caso di fuga a causa dell’entrata in vigore della norma? Penso che si userà la scusa degli organici, che non saranno adeguati nell’arco dei prossimi due anni, per spostare più in là la palla”. Fronte comune con M5S sulla giustizia? “Al falso garantismo di Nordio non va contrapposto il giustizialismo ma la strada maestra indicata dalla Costituzione”. Sisto: “Sì alle modifiche ma la riforma si deve fare” di Pierpaolo La Rosa Il Tempo, 22 giugno 2023 Intervista a Francesco Paolo Sisto, viceministro alla Giustizia e senatore di Forza Italia. Cosa cambierà con la riforma del Guardasigilli Carlo Nordio? “Si tratta di un primo, importante, significativo step di una riforma più generale del diritto penale sostanziale e processuale, che ha lo scopo di restituire al cittadino la fiducia nella giustizia. Come? Adeguando la normativa ai problemi reali del Paese, quelli a cui teneva tanto Silvio Berlusconi, cancellando l’abuso d’ufficio per aiutare i sindaci nei percorsi di legalità, tipizzando il traffico di influenza per dare alla politica meno incertezze, migliorando l’assetto della custodia cautelare perché il carcere possa davvero essere una eccezione, incidendo sull’informazione di garanzia perché torni ad essere uno strumento per meglio difendersi e non il segno rosso della condanna mediatica, e limitando l’appello dei pubblici ministeri alle sentenze di assoluzione, in ossequio al principio dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”. Sono, poi, in procinto di essere varati, nella seconda parte del 2023, interventi sulla prescrizione, sulle intercettazioni, sui reati contro la Pubblica amministrazione. Subito dopo si passerà alle riforme costituzionali, come la separazione delle carriere”. L’Associazione nazionale magistrati ha attaccato duramente le misure. Si può parlare di interferenza? “È legittimo che ciascuno possa esprimere la propria opinione sulle scelte del legislatore, ed in tale veste abbiamo ascoltato tutti i protagonisti, e più volte, sui temi della riforma. Però, poi, esaurita la discussione, il Parlamento è chiamato a decidere, e su questi percorsi non sono ammesse esitazioni perché questa maggioranza ha ricevuto il consenso degli italiani, sulla scorta di un programma condiviso dagli elettori, che di conseguenza necessariamente deve essere realizzato. Il ministro Nordio, a mio avviso, ha agito in più che legittima difesa, in linea con quanto il presidente della Repubblica ha indicato: le leggi le scrive il Parlamento, la magistratura, ai sensi dell’articolo 101 della Costituzione, alla legge è soggetta”. Per la segretaria del Pd, Elly Schlein, la riforma della giustizia è “la montagna che ha partorito il topolino, con pochi interventi spot”. “Sarebbe estremamente opportuno che l’onorevole Schlein esaminasse le articolazioni della riforma della giustizia che il centrodestra intende realizzare, come scandite nel cronoprogramma già condiviso. Schlein avrebbe immediatamente la certezza che quelli che definisce “interventi spot” sono soltanto l’inizio, pur qualificato, di terapie ragionate e ragionevoli, mirate a far sì che finalmente la giustizia diventi a misura di cittadino e non sia più, come dalla sinistra per anni sostenuto in Parlamento, commisurata alla figura centrale del pm. Un processo in cui, seguendo la Costituzione, il cittadino percepisca il giudice terzo ed imparziale, come l’articolo 111 indica, in posizione di equidistanza tra accusa e difesa”. C’è spazio per modificare il testo nel percorso parlamentare? “Assolutamente sì. Questo è un governo che rispetta il Parlamento, che non intende sminuire le sue prerogative, che non si sottrarrà ad un dibattito approfondito e serrato nelle Aule, perché il risultato finale sia rispettoso dei ruoli di ciascuno. Se proprio devo esprimere una previsione sui tempi, mi auguro che subito dopo l’estate il provvedimento possa essere licenziato dalle due Camere”. Ma per le intercettazioni ci si ferma qui? “In questa prima fase ci siamo occupati del problema della pubblicazione incontrollata delle captazioni e della tutela dei terzi estranei all’indagine. Nella seconda parte della riforma, il tema intercettazioni sarà affrontato nelle sue componenti strutturali”. Oggi è previsto il Comitato di presidenza di Forza Italia. Il partito è unito? “Dopo la drammatica scomparsa del nostro Presidente, le parole chiave di Forza Italia devono essere due: unità e continuità, perché tutti insieme appassionatamente si possa fare quadrato, forti dei valori e dei principi che Silvio Berlusconi ci ha affidato”. Affondo di Melillo, lettera a Nordio: “Più strumenti per intercettare” di Liana Milella La Repubblica, 22 giugno 2023 Il procuratore nazionale Antimafia chiede al governo tecnologie più sofisticate per combattere la criminalità organizzata. Coincidenze. Casuali certo. Ma determinanti. Accade che, nell’arco della stessa ora, due facce della giustizia si palesino agli italiani. C’è un ministro, l’ex pm Carlo Nordio, che parla davanti ai costruttori. Regala loro, gratificato da quattro applausi, ciò che si aspettano. Via l’abuso d’ufficio. Giustizia “conciliativa” anziché processi per evasione fiscale. Stretta sulle intercettazioni. E c’è all’opposto il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Gianni Melillo, per la prima volta davanti alla commissione parlamentare Antimafia della presidente Chiara Colosimo. Che lo ringrazia per la sua presenza e che, ad audizione finita, diffonderà alla stampa proprio i passaggi di Melillo sulle intercettazioni. Là dove il procuratore dice che non è ipotizzabile “alcun arretramento su questo versante”. E aggiunge: “Personalmente non conosco intercettazioni inutili perché sono disposte da un giudice con un provvedimento motivato procedendo per reati gravi”. Gesto rilevante quello di Colosimo. Non un retroscena, ma un fatto. L’Antimafia di Colosimo, voluta dalla premier Meloni proprio là dove sta seduta anche a costo di una tempesta politica per via del suo passato (l’amicizia con il Nar Ciavardini), diffonde subito alla stampa le precise parole di Melillo sugli ascolti che contrastano con la stretta invocata dal suo ministro della Giustizia. E cosa dice Melillo? Un’affermazione netta la sua, non è questo il momento di abbassare la guardia sui mezzi con cui lo Stato garantisce la legalità. Intercettazioni comprese. Tant’è che cita subito la lettera di allarme - che Repubblica riproduce in questa pagina - inviata il 14 giugno a palazzo Chigi e firmata da tutti i procuratori distrettuali italiani proprio sulle intercettazioni. E dove si parla “dell’urgente necessità della più rapida messa in opera delle infrastrutture e dei sistemi informatici necessari ad assicurare al massimo grado l’integrità, la sicurezza e la piena funzionalità dei sistemi di intercettazione delle comunicazioni”. Ascolti da potenziare, non certo da limitare, adeguandoli agli enormi mezzi tecnologici di cui già dispone la criminalità che mette le mani, come dice il magistrato, sui fondi del Pnrr, come dimostrano le inchieste di Eppo, la procura europea che lavora con quella di Melillo. L’ex procuratore di Napoli spiega di essersi già seduto al tavolo della presidenza del consiglio “secondo le logiche e con i metodi della leale collaborazione istituzionale”. Quindi nessuna guerra, i magistrati parlano già con palazzo Chigi. Perché “una corretta cooperazione istituzionale è strumento prezioso per dare maggiori garanzie ed efficienza”. E qui Melillo pronuncia la frase della giornata: “Personalmente, non conosco intercettazioni inutili”. E aggiunge di non riuscire “a immaginare spostamenti di risorse da un versante investigativo ad un altro, dovendo il sistema della prova digitale essere potenziato nel suo complesso sia sul versante delle garanzie che su quello dell’efficacia delle indagini”. Melillo chiede di “poter proiettare nel cyberspace le indagini sui più gravi delitti, prima che il gap già maturato nel contrasto dei più gravi fenomeni criminali diventi irreparabile, come da tempo chiedono le nostre forze di polizia”. Il tono di Melillo non è certo guerrafondaio perché “ci sarà bisogno di tutti per fare questo duplice salto, sottraendo una materia così delicata ai pericoli propri dei furori polemici e delle grossolane semplificazioni”. Ma nemmeno mezz’ora prima il Guardasigilli ha polemizzando duramente con la stampa “ostile e faziosa”, pronta a stravolgere le sue idee. Perché “quando si toccano nervi scoperti, come la giustizia troppo lenta e l’incertezza dei rapporti giuridici, ci sono reazioni bizzarre con interpretazioni divergenti”. E ancora: “Anche io sono un giornalista ma vi è differenza tra commento ostile e l’alterazione di ciò che è stato detto e viene riportato in modo alterato”. La platea è dalla sua parte, e parte la “ola” quando dice che “la ricchezza prima di essere distribuita va creata”. Per questo lui si appresta ad eliminare l’abuso d’ufficio perché produce “un effetto pernicioso a danno del cittadino”. Nega di aver parlato a favore dell’evasione fiscale, ma di aver chiesto “poche e coerenti leggi” e ripropone la giustizia “conciliativa” che teorizza così: “Oggi un imprenditore onesto che assoldasse una schiera di commercialisti per fare la dichiarazione dei redditi pagando fino all’ultimo tributo, non dormirebbe sonni tranquilli”. E quindi meglio che “concili”. Melillo smantella il totem delle intercettazioni. Le mafie usano il dark web di Giulia Merlo Il Domani, 22 giugno 2023 Il procuratore antimafia contro le semplificazioni della polemica tra Nordio e pm. Mancano garanzie per l’indagato su ciò che non è intercettazione in senso classico, ha spiegato. L’attuale stato delle infrastrutture per le intercettazioni “sia dal punto di vista dell’assetto architettonico che gestionale” non sono più adeguati, e il sistema rischia di cedere. Con una conseguenza: acuire la sensazione che, come diceva Giovanni Falcone, le mafie “abbiano sempre una lunghezza di vantaggio su di noi”. Nessuna polemica, ma un allarme rivolto tanto al parlamento quanto al ministero della Giustizia: parlare di intercettazioni nella loro accezione tradizionale ormai non ha più senso, perchè il mondo e soprattutto la tecnologia è già andata molto più avanti e sono ben altri gli strumenti di indagine senza garanzie. L’intervento del procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, in audizione in commissione Antimafia, è una scossa che tenta di spostare il baricentro del dibattito pubblico sulle intercettazioni, da “sottrarre ai furori polemici ma anche alle semplificazioni grossolane”. Mancano infrastrutture - L’attuale stato delle infrastrutture per le intercettazioni “sia dal punto di vista dell’assetto architettonico che gestionale” non sono adatti, è la prima constatazione di Melillo. In altre parole, la macchina della giustizia ha un sistema vecchio e malandato, che rischia di cedere. Per questo la procura nazionale antimafia e tutti i distretti hanno mandato una nota a via Arenula per sottolineare “la gravità dello stato delle infrastrutture che reggono il sistema delle intercettazioni e l’urgenza di decisi interventi”. Con una conseguenza: acuire la sensazione che, come diceva Giovanni Falcone, le mafie “abbiano sempre una lunghezza di vantaggio su di noi”. Soprattutto perché i nuovi campi in cui si spingono le moderne organizzazioni criminali sono il dark web e le criptovalute, mentre il dibattito politico si concentra ancora sulle intercettazioni telefoniche. Nessuna garanzia - “Le garanzie e l’efficienza devono crescere insieme, senza un arretramento sul ricorso alle intercettazioni, personalmente non ne conosco di inutili”, ha aggiunto Melillo, con una specificazione che suona come una risposta a distanza alle posizioni del ministro Carlo Nordio, che più volte in passato ha ripetuto che “i mafiosi non parlano al telefono” e che una parte dei 200 milioni l’anno vengono spesi “per intercettazioni inutili sui cittadini normali”, mentre andrebbero spostate “sulle indagini sulla grande criminalità organizzata”. Con una specificazione in più da parte di Melillo: non sono inutili “perché disposte da un giudice con un provvedimento e per reati gravi”. Garanzia che invece non è estesa a tutta una serie di atti d’indagine su strumenti informatici, che sono ancora più invasivi delle intercettazioni ma che invece non sono ugualmente tutelati: uno su tutti, l’acquisizione dello smartphone, che contiene tutte le informazioni più sensibili riguardo al proprietario, dai suoi spostamenti, ai messaggi e fotografie e email. E questa acquisizione, che rientra nella disciplina del sequestro, “avviene senza alcuna proporzionalità, visto che non è prevista una soglia di gravità minima del reato né un controllo preventivo del giudice”. Tradotto: esistono strumenti ben più invasivi nelle mani degli inquirenti e che oggi non offrono alcuna garanzia per gli indagati, perché non ricadono nella nozione classica di intercettazioni. Le intercettazioni telefoniche, infatti, sono controllate attraverso l’archivio delle intercettazioni in cui vengono conservate. Un cellulare sequestrato no, anche se contiene informazioni potenzialmente ancora più invasive anche della sfera personale dei terzi. Il contesto politico - Eppure, le intercettazioni e la loro rimodulazione sono uno dei cavalli di battaglia politici di Nordio. Il ministro ha promesso in autunno un nuovo ddl che riformi in modo organico la materia, che nel decreto legge presentato la scorsa settimana viene presa in considerazione solo sulla questione della loro pubblicazione. La questione - ridotta ormai a intercettazioni sì o no - continua ad animare lo scontro tra toghe e ministero e ha toccato il suo apice in gennaio, quando Nordio in audizione alla Camera ha invitato il parlamento a “non essere supino e acquiescente alle posizioni dei pm antimafia”, che si erano espressi contro la loro limitazione ipotizzata dal ministro, anche se con la specificazione di non riferirla ai reati di mafia e terrorismo. Lontano dalle schermaglie in favore di telecamere, tuttavia, esiste un lavorio nascosto, a partire dal tavolo di lavoro voluto dalla presidenza del Consiglio dei ministri e di cui fa parte anche la procura nazionale antimafia. Anche il ministro Nordio, nella parte meno ripresa del suo intervento a Taormina in cui portava avanti il botta e risposta con l’Associazione nazionale magistrati, ha ammesso che “siamo indietro di anni sulle tecnologie che usano le grandi organizzazioni criminali; lo stesso trojan è superatissimo. La criminalità organizzata usa dei sistemi che oggi non riusciamo a intercettare perché non abbiamo i soldi per farlo”. Una visione della realtà non lontana da quella di Melillo, dunque. Eppure la priorità del ministero sembra rimanere quella della riforma delle intercettazioni tradizionali - riducendone il numero e quindi i costi e limitandone la diffusione sulla stampa, che pure con la riforma Orlando del 2020 si è decisamente ridotta - con l’effetto di trasformarle in un totem dal sicuro appeal mediatico. Abbattuto il quale, però, il sistema giustizia sarà ancora di molte lunghezze indietro sia alle organizzazioni criminali che si muovono nel cyberspazio, sia rispetto alle aspirazioni di garanzia della sfera personale dei cittadini. Intercettazioni: il problema non è se, ma come di Paolo Pandolfini Il Riformista, 22 giugno 2023 “Non conosco intercettazioni inutili”, ha detto il numero uno dell’Antimafia Giovanni Melillo, ma allora bisogna introdurre norme, che impongano il divieto di “subappaltare” le indagini a soggetti privati, ai fornitori dei virus spia. “Si tratta di temi - prosegue Melillo - dei quali ho parlato già intorno a un tavolo di lavoro voluto dalla presidenza de Consiglio dei ministri. Da un lato su questi temi c’è bisogno di maggiori garanzie e dall’altro lato di maggiore efficienza, ma vorrei che fosse chiaro che si tratta di accrescere insieme garanzie ed efficienza senza alcun arretramento sul versante delle intercettazioni”. Melillo ha poi specificato che “vi sono attività di indagini oltremodo delicate e invasive che sono già proprie delle intercettazioni e nel contempo c’è un deficit nella nostra capacità di penetrare nelle reti digitali che sono ambienti ormai consueti di grandi e piccole reti criminali. C’è bisogno di tutti per fare questo salto sottraendo una materia così delicata sia ai pericoli dei furori polemici sia alle semplificazioni grossolane”. Parole condivisibili che devono, però, fare i conti che la realtà. Tanto per fare un esempio, la scorsa settimana è stato chiamato come testimone al tribunale di Perugia, nel processo nei confronti dell’allora Pm romano Stefano Fava, il colonnello della guardia finanza Gerardo Mastrodomenico. Fava è imputato per la campagna mediatica, a maggio del 2019, ai danni dell’ex procuratore della Capitale Giuseppe Pignatone e dell’aggiunto Paolo Ielo che sarebbe stata realizzata facendo pubblicare alcuni articoli, circostanza già smentita dagli stessi giornalisti, su presunti conflitti d’interesse dei due magistrati. Mastrodomenico, ora comandante provinciale della guardia di finanza di Messina, all’epoca dei fatti era il comandante del GICO di Roma che ha eseguito le intercettazioni, a mezzo trojan, delegate dalla Procura di Perugia e la cui illecita divulgazione determinò un terremoto al Csm con le dimissioni di ben cinque consiglieri. Non senza imbarazzo, Mastrodomenico ha dovuto confessare di non sapere nulla dell’utilizzo del trojan e che tutto, nella sostanza, era delegato alla società appaltatrice del virus spia. Alle domande dell’avvocato Luigi Panella, difensore di Fava e uno dei massimi esperti del trojan che ha portato nei mesi scorsi la questione fino alla Corte Costituzionale quale difensore dell’ex parlamentare Cosimo Ferri, ha ammesso che, a maggio del 2019, il GICO da egli comandato aveva usato il trojan soltanto una volta. “Non avevamo - ha dichiarato Mastrodomenico - alcuna significativa esperienza nell’uso di questo strumento investigativo”. Rispondendo a degli aspetti specifici chiesti dal difensore, Mastrodomenico ha dichiarato che i suoi uomini avevano scritto a fianco ad alcune conversazioni “molto importante” anche se gli interlocutori non furono identificati, non fornendo al contempo spiegazioni sul mancato deposito di alcune conversazioni. Il presidente del collegio, Alberto Avenoso, è allora intervenuto esclamando: “Non credo che il teste abbia le cognizioni tecniche per rispondere”. E Mastrodomenico: “È esattamente così… il dato come lo restituiva la macchina noi lo abbiamo riversato all’autorità giudiziaria”. Panella ha poi chiesto perché numerosi progressivi avessero una durata anche di molto inferiore a quella prevista dal software e perché i file delle programmazioni non avessero un ordine cronologico, come tutti i documenti elaborati dai computer. Ma anche per tali aspetti il teste ha fatto scena muta sicché Avenoso ha dovuto ancora una volta prendere atto che Mastrodomenico “non ha le cognizioni tecniche”. Ad ulteriori domande del difensore, Mastrodomenico ha quindi ammesso che su questi aspetti dell’uso del trojan “nessuno operatore di Pg del Gico è in grado di dare spiegazioni”. L’alto ufficiale, prima essere congedato dal tribunale, non ha neppure risposto alla osservazione del difensore in ordine a quanto aveva dichiarato il procuratore di Perugia Raffaele Cantone davanti alla Commissione Giustizia circa la sprogrammazione, ad opera del Gico, della registrazione dell’ormai famosa cena al ristorante da Mamma Angelina che vedeva la presenza di Pignatone. A questa domanda Mastrodomenico ha risposto alterandosi “quello che ha detto Cantone chiedetelo a Cantone”. Vanno bene, dunque, le considerazioni del procuratore nazionale antimafia ma è quanto mai urgente una riflessione sulla preparazione del personale di polizia giudiziaria, a cui si delegano delicate indagini, ad utilizzare tali strumenti per le intercettazioni. Senza dimenticare se sia opportuno introdurre norme, una volta per tutte, che impongano il divieto di “subappaltare” le indagini a soggetti privati, nel caso specifico i fornitori dei virus spia. Utilizzabili da qualche anno per un catalogo sconfinato di reati. Venezia. Uccise la compagna, si suicida in carcere di Antonella Gasparini Corriere del Veneto, 22 giugno 2023 Alexandru Ianosi, in carcere per l’omicidio di settembre 2023, sarebbe stato a processo il 4 luglio prossimo. Una decina di giorni fa aveva chiamato i suoi legali, Francesco Neri Nardi e Chiara Di Leo: “Sto male, ho paura di fare una cazzata”, aveva detto. E ieri mattina gli agenti della Polizia penitenziaria l’hanno trovato impiccato alle sbarre del bagno della sua cella. Si è tolto la vita in carcere l’uomo che il 23 settembre del 2022 ha ucciso con 85 coltellate la compagna nella loro casa di via Mantegna a Spinea. Alexandru Ianosi, 36 anni di origini rumene, si è suicidato ieri a Santa Maria Maggiore. È la seconda vittima di un gesto estremo all’interno del penitenziario lagunare in due settimane. Il 6 giugno si era ucciso Bassem Degachi, 39enne di origini tunisine, a cui era appena stata revocata la semilibertà a causa di un’ordinanza d’arresto per un traffico di droga di 5 anni fa che - fatalità - proprio ieri è stata annullata dal tribunale del riesame. Ianosi, detenuto dallo scorso anno per aver massacrato la moglie 45enne Lilia Patranjel, sarebbe andato a processo il 4 luglio e rischiava l’ergastolo per omicidio aggravato dai maltrattamenti. L’uomo, reo confesso, dieci giorni fa aveva detto di stare male e temere di compiere un’azione sconsiderata. Per questo era stato messo nella zona controllata e i suoi avvocati lo avevano incontrato più volte di recente. Voleva vedere il figlio di appena 4 anni e nutriva sensi di colpa per quello che aveva fatto. Aveva già provato a ottobre a infilarsi un bastone nell’occhio. Le indagini del pm Alessia Tavarnesi avevano raccontato un delitto efferato e terribile. Lui, al culmine dell’ennesima lite con la moglie, quella notte aveva preso un coltello e l’aveva colpita ovunque, vegliandola poi per ore prima di chiamare i carabinieri e consegnarsi. Moltissime le ferite sul corpo della donna anche alle mani e alle braccia, segno che Lilia aveva provato a difendersi. “L’ergastolo non era scontato, c’erano dei margini difensivi”, dicono i legali, sconvolti. Ianosi però non ha retto ed è stato trovato morto in bagno. La procura farà tutte le verifiche, mentre gli avvocati attendono eventuali mandati dai famigliari. Venezia. “In cella non rimango”. Disperato, si uccise, ma l’arresto non era valido di Antonella Gasparini Corriere del Veneto, 22 giugno 2023 Il suicidio del tunisino Bassem Degachi, detenuto per spaccio: l’ordine d’arresto è stato revocato dopo il decesso. Lo scorso 6 giugno si è impiccato dopo che in carcere, dove era già detenuto ma in regime di semilibertà e con la prospettiva di un affidamento ai servizi sociali dopo l’estate, gli avevano notificato una nuova ordinanza di arresto per un traffico di droga a Mestre tra il 2018 e il 2019. Ieri quella stessa ordinanza è stata annullata dal tribunale del riesame di Venezia. Il perché si saprà solo quando i giudici depositeranno le motivazioni, ma il cuore della discussione di ieri mattina dell’avvocato Marco Borella, che rappresentava non solo lui ma anche altri indagati, ha riguardato proprio l’attualità delle esigenze cautelari, che dopo 4 anni per la difesa non c’erano. L’uomo sarebbe tornato in carcere nonostante le prospettive di affidamento ai servizi sociali tra qualche mese. Bassem quella mattina ha chiamato più volte la moglie preannunciandole il gesto e scusandosi. Poi ha fatto una corda e si è impiccato. Il suo corpo già è stato tumulato con rito islamico nel suo Paese. “La morte di un detenuto è sempre una sconfitta per lo Stato - ribadisce Giovanni Vona, segretario del sindacato Sappe del Triveneto - Da più di un mese siamo in stato di agitazione a Santa Maria Maggiore. Carenza di personale, turni massacranti, nessun incentivo per la sede disagiata. In meno di tre settimane due suicidi, una tentata evasione e aggressioni continue. Fatti gravi che parlano da soli”. E ieri è arrivata un’altra tragedia a Venezia. A impiccarsi nel bagno della cella è stato Alexandru Ianosi, il 36enne rumeno che il 23 settembre scorso aveva ucciso con 85 coltellate la compagna 45enne Lilia Patranjel, moldava, nella loro casa di Spinea. Una decina di giorni fa aveva chiamato i suoi legali, Francesco Neri Nardi e Chiara Di Leo: “Sto male, ho paura di fare una cazzata”, aveva detto. Milano. È minorenne, ma resta a San Vittore: “Valutiamo ricorso alla Cedu” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 22 giugno 2023 Il giovane è stato arrestato nei mesi scorsi a Milano con l’accusa di aver rapinato, nei pressi della stazione Centrale, un cittadino bulgaro con la complicità di altre due persone. Il detenuto è minorenne, ma è recluso con gli adulti. Quella di D. Y. è una storia in cui si intrecciano ritardi e confusione. Il giovane è stato arrestato nei mesi scorsi a Milano con l’accusa di aver rapinato, nei pressi della stazione Centrale, un cittadino bulgaro con la complicità di altre due persone. In occasione dell’identificazione è emerso che D. Y ha meno di diciotto anni. “Lo scorso 8 giugno - dice al Dubbio l’avvocata Federica Liparoti, difensore di fiducia del ragazzo marocchino -, in sede di incidente probatorio da me richiesto davanti al Tribunale di Milano, sono comparsi i periti nominati per accertare l’età del mio assistito, indagato per rapina. Sin dal primo momento D. Y. ha detto di essere minorenne”. Per confermare con precisione l’età è stato effettuato un esame medico. Da qui il Gip, a seguito delle indagini peritali, ha confermato la minore età e ha dichiarato la propria incompetenza chiedendo l’intervento del Gip presso il Tribunale per i minorenni di Milano, con l’immediata restituzione degli atti al pubblico ministero. A questo punto l’avvocata Liparoti ha sollecitato il trasferimento del minore presso un Istituto penitenziario minorile. “Nonostante siano trascorsi più di dieci giorni dall’accertamento giudiziale della minore età - aggiunge Federica Liparoti -, D. Y. si trova ancora recluso a San Vittore, sebbene l’ordinamento penale e penitenziario italiano vietino la reclusione di soggetti minorenni presso istituiti destinati ad adulti. Il legislatore italiano ha istituito gli Istituti penitenziari minorili per assicurare l’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, quali la custodia cautelare dei minorenni sottoposti ad indagine per alcuni gravi reati. Gli Ipm ospitano minorenni o ultradiciottenni, fino a 25 anni, qualora il reato cui è riferita la misura sia stato commesso prima del compimento della maggiore età. Si differenziano dalle carceri ordinarie poiché dovrebbero garantire ai minori, la cui personalità è ancora in via di sviluppo, il diritto a un’armonica crescita psico- fisica, allo studio, alla salute, con particolare riguardo alla non interruzione dei processi educativi in atto e al mantenimento dei legami con le figure significative. La Cedu nel 2022 ha già condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione per aver trattenuto un giovane migrante del Gambia di sedici anni per quattro mesi in un centro per adulti. Stiamo valutando quindi di presentare ricorso alla Cedu per ottenere un analogo risarcimento”. Alla fine della scorsa settimana l’avvocata Liparoti ha ricevuto dall’ufficio matricola del ministero della Giustizia la comunicazione con la quale si rilevava la richiesta al Centro giustizia minorile di Milano per l’assegnazione di D. Y. ad un istituto minorile, senza però l’indicazione della struttura e i tempi per effettuare il trasferimento. Fino a ieri ancora nessuna novità. Sulla vicenda è intervenuto il Coa di Milano. “Siamo molto preoccupati - afferma l’avvocata Beatrice Saldarini, presidente della Commissione carcere - e auspichiamo che venga presto trovata una soluzione. Resta lo sconcerto al cospetto di un caso che attesta la crisi perenne in cui versa il nostro sistema penitenziario, che in questo caso si abbatte su un ragazzo”. Analogo il commento del presidente del Coa milanese, Antonino La Lumia: “L’Ordine degli avvocati di Milano con la sua Commissione continuerà a vigilare, affinché il carcere sia luogo della legalità dove si rispettano i principi costituzionali e le disposizioni legislative che vi hanno dato attuazione”. Il segretario e la tesoriera del Partito Radicale, Maurizio Turco e Irene Testa, con l’avvocata Simona Giannetti, consigliera generale di Milano, hanno sollecitato le Autorità del Garante Regionale per le persone private della libertà e per i Minori e Adolescenti per un intervento a favore del ragazzo detenuto nel carcere di San Vittore. “In assenza di disponibilità in Ipm - dicono - il minore venga inserito in una comunità”. Biella. Non fu tortura ma per l’abuso di autorità servono pene più severe di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2023 Mezzi eccessivi e inutilmente violenti, ma orientati a contenere i detenuti in grave stato di alterazione non ad umiliarli. Condotte dei pubblici ufficiali che dovrebbero comunque essere punite più severamente. Nel carcere di Biella lo scorso febbraio, per contenere tre detenuti stranieri in grave stato di alterazione, sono stati usati mezzi impropri eccessivi e inutilmente violenti, ma non si è trattato di tortura. Perché possa scattare il reato, introdotto in Italia solo nel 2017, nella forma della tortura cosiddetta di stato, è, infatti, necessario che le condotte siano state messe in atto dai pubblici ufficiali in maniera gratuita, per umiliare la persona, trattandola al pari di una cosa, offendendo così in modo ingiustificato e significativo la sua dignità. Con queste motivazioni il Tribunale del riesame di Torino, annulla le misure cautelari, nei confronti di alcuni agenti della polizia penitenziaria di Biella, disposte, in esecuzione di un’ordinanza del gip, per il fumus del reato di tortura di stato. Il gip, su richiesta dei pm, aveva, infatti, ordinato l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari a carico del vicecomandante pro-tempore, riservandosi, all’esito degli interrogatori, sull’applicazione delle richieste di misure interdittive nei confronti di altri ventisette agenti coinvolti. Mezzi eccessivi ma non finalizzati all’umiliazione - Nel mirino della procura era finito il trattamento riservato a tre “nuovi arrivati” nel carcere biellese, uno dei quali immobilizzato con del nastro adesivo, oltre che con le manette, privato dei pantaloni e picchiato. Misure giudicate eccessive anche dai medici, chiamati dagli stessi agenti penitenziari. Azioni che, precisano i giudici Torinesi nell’ordinanza, integrerebbero i trattamenti inumani e degradanti puniti dal reato di tortura, se fossero messi in atto in un contesto “oggettivamente e soggettivamente teso ad umiliare la persona offesa a deriderla per una situazione che obiettivamente la mortifica ad un livello di res (non ha caso si dice “legato come un salame”). Nello specifico però il detenuto si trovava in uno stato di grave alterazione psico-fisica dovuta anche ad una crisi di astinenza e aveva assunto un comportamento aggressivo e autolesionista, battendo più volte la testa contro il muro. Pene più dure per reati contigui - Abbandonata dunque l’ipotesi della tortura il Tribunale del riesame non esclude i reati di lesioni e abuso di autorità. Ma va oltre, Sottolineando l’importanza culturale e di efficacia general/preventiva della norma che ha introdotto il reato di tortura. Proprio nel rispetto della ratio della legge, sarebbe più che opportuno che fattispecie contigue alla tortura di Stato e deputate a punire abusive inammissibili condotte violente da parte dei pubblici ufficiali, come è l’abuso di autorità, fossero punite in modo più severo di quanto avviene attualmente. Comunque “in maniera tale da consentire l’irrogazione per i responsabili non solo di sanzioni disciplinari, ma anche dell’applicazione di misure cautelari fra cui, appunto, quelle interdittive”. Perché - concludono i giudici - in carcere si va perché si è puniti non per essere puniti. Torino. Veleni al Ferrante Aporti, la direttrice sbatte la porta dopo essersi divisa tra Torino e Bari di Carlotta Rocci La Repubblica, 22 giugno 2023 Vernaglione se ne va: redini a Pappalardo, dirigente regionale già noto per le sue posizioni No Vax. “Istituto allo sfascio” dice lui. Ma lei un mese fa ha chiesto il trasferimento: rapporti deteriorati. Simona Vernaglione da oggi non è più direttrice del carcere minorile di Torino. Ci sono stati, in passato, problemi organizzativi, episodi anche violenti, e dichiarazioni politiche precise del nuovo governo che vorrebbe evitare doppi e tripli incarichi nelle carceri italiane. Ma quella del Ferrante Aporti sembra soprattutto una storia di veleni interni. Una comunicazione ufficiale di ieri firmata dal dirigente del centro per la giustizia minorile per Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria, Antonio Pappalardo, annuncia con esecutività immediata da oggi “la revoca dell’incarico di direttore reggente alla dottoressa Vernaglione” e l’assunzione ad interim dello stesso Pappalardo del ruolo di direttore. La comunicazione, recapitata anche alla procura dei minori, arriva dopo un’altra lettera del direttore generale del personale del Dipartimento per la giustizia minorile, Giuseppe Cacciapuoti, che chiede al dipartimento di individuare un nuovo dirigente che sostituisca quello uscente e incarica il dirigente interdistrettuale di adottare qualunque misura necessaria a garantire funzionalità e sicurezza del Ferrante Aporti, non escludendo che il dirigente faccia temporaneamente le veci del direttore. Fonti vicine alla procura e agli ambienti dell’Ipm di via Berruti e Ferrero, però raccontano una versione diversa. La direttrice non è stata cacciata: ha chiesto, invece, già a inizio giugno di essere sollevata dall’incarico per urgenti motivi personali e di salute causati dallo stress provocato proprio dal deteriorarsi dei rapporti con i vertici piemontesi del centro per la giustizia minorile e per episodi poco piacevoli che si sarebbero verificati nell’ultimo periodo. La direttrice, dunque, non lascerebbe per negligenza ma per esasperazione. La gestione del minorile torinese, bisogna dirlo, non è mai stata semplice. A novembre un gruppo di detenuti aveva devastato alcune aree, a gennaio si era verificata un’evasione, a maggio un detenuto ha denunciato di aver subito una violenza sessuale. Più volte i sindacati hanno denunciato carenza di organico e la mancanza di una dirigenza dedicata ed esclusiva. L’ex direttrice, infatti, guida anche l’ufficio trattamento detenuti di Bari e fino a ieri ha viaggiato su e giù per l’Italia per gestire il doppio incarico. Ma se l’obiettivo del guardasigilli Carlo Nordio è “non lasciare carceri senza un direttore a tempo pieno”, la figura di Pappalardo, dirigente amministrativo già all’onor delle cronache per le sue decise posizioni No Vax, non va affatto in questa direzione. Lui ricopre già il doppio incarico: è a capo del centro per la giustizia minorile per Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria e ha lo stesso ruolo per l’area del Triveneto. “Questo nuovo compito - spiega lui - mi è stato conferito dopo il secondo giorno consecutivo di contemporanea assenza di tutti i vertici del carcere, praticamente abbandonato a se stesso. Eredito un istituto allo sfascio su tutti i fronti”. Pappalardo ringrazia vertici penitenziari e civili come se la sua nomina fosse definitiva anche se, sulla carta, dovrebbe essere solo temporanea. Reggio Emilia. Al via le candidature per l’incarico di Garante dei detenuti di Stella Bonfrisco Il Resto del Carlino, 22 giugno 2023 La figura del Garante dei detenuti è un passo importante per la Casa Circondariale, che finalmente avrà al suo interno un’autorità di garanzia indipendente. Il prossimo 30 giugno è la data entro la quale è possibile presentare al Comune di Reggio Emilia la candidatura per l’incarico di Garante comunale dei detenuti. Una figura più volte sollecitata dal presidente della Commissione Parità e Diritti della Regione Emilia Romagna. “Entro l’estate - ha detto l’Assessore al Welfare Daniele Marchi - sarà dunque nominato dal Consiglio comunale il garante dei detenuti, come già esiste in altri capoluoghi della regione. Le candidature non sono subordinate a uno specifico titolo di studio, ma sarà tenuto conto di eventuali esperienze di volontariato nell’ambito carcerario”. Un passo importante per Casa Circondariale di Reggio Emilia, che finalmente avrà al suo interno un’autorità di garanzia indipendente che vigilerà sul rispetto dei diritti dei detenuti, presidiando anche aspetti già messi in evidenza dall’Associazione Antigone, che lo scorso 7 giugno ha visitato l’Istituto Penitenziario di Reggio Emilia, prendendo atto di condizioni di vita non accettabili: gravi problemi d’infiltrazione che compromettono pesantemente la salubrità degli ambienti, muffe diffuse su soffitto e i pavimenti, muri scrostati e pozze d’acqua. Mancanza di acqua calda nelle docce. E soprattutto l’aspetto legato al sovraffollamento. “Al momento della visita sono presenti 368 persone detenute, a fronte di una capienza regolamentare di 292 posti”, ha osservato Giulia Fabini, presidente di Antigone Emilia Romagna. “I condannati in via definitiva sono 285 e gli stranieri presenti sono 201: dato che supera il 50% delle presenze”. “Sono diversi ormai i progetti che stiamo portando avanti con il Comune e con la città. Progetti che per i detenuti sono tasselli importanti nel loro percorso di riflessione, riscatto e riparazione”, ha spiegato la direttrice dell’Istituto penitenziario di Reggio Emilia, Lucia Monastero. “Il carcere è una città nella città e non va soltanto visto come luogo di espiazione di una pena, ma soprattutto come opportunità di cambiamento. E il cambiamento è possibile solo in presenza di bellezza, che solo la cultura, il lavoro e la socialità possono stimolare. Ecco il significato delle iniziative che oggi andiamo a inaugurare all’interno del carcere: uno spazio dedicato al cinema e al teatro. Ed ecco perché abbiamo voluto tappezzate le pareti della sala d’attesa dei familiari, quello che non solo simbolicamente è il confine tra ‘dentro’ e ‘fuori’, con l’opera dell’artista Elena Mazzi, già presente in altre istituzioni cittadine, realizzata per rappresentare e combattere la violenza contro le donne da parte di uomini maltrattanti. Inserendo questo gesto in un altro progetto, detto Sinapsi, rivolto agli autori dei delitti di genere”. La direttrice Lucia Monastero ha poi voluto mettere in evidenza il lavoro fatto dai detenuti stessi per allestire gli spazi ora dedicati alla visione dei film e delle rappresentazioni teatrali, portate in scena dalle compagnie nate alla Pulce attraverso un progetto affidato all’Associazione Mamimò. Con l’opera del laboratorio di falegnameria che ha prodotto le cornici per i manifesti di alcuni film che decorano le pareti, fino al lavoro di ridipintura dei muri. La sala è dotata di un grande schermo di ultima generazione e dell’impianto di climatizzazione. Genova. I detenuti diventano accompagnatori in spiaggia di persone con disabilità di Alberto Bruzzone La Repubblica, 22 giugno 2023 Il progetto “Genoa Sea Inclusion” è dedicato al recupero sociale, coinvolge 18 reclusi e si svolge sulle otto spiagge libere della città, quattro a Ponente e quattro a Levante. È partito a tutti gli effetti, anche con l’inaugurazione ufficiale della “Spiaggia dei Bambini” di Voltri, il progetto “Genoa Sea Inclusion”, promosso dal Comune di Genova e dedicato al recupero sociale di alcuni detenuti della Casa circondariale di Marassi. Sono diciotto in tutto e sono coinvolti nell’estate cittadina con il ruolo di accompagnatori di persone con disabilità sulle spiagge libere genovesi, grazie al percorso avviato dagli assessorati al Lavoro, al Demanio Marittimo e ai Servizi Sociali in partnership con Bagni Marina Genovese, Società Salvamento Nervi, Casa Circondariale di Marassi e associazioni del territorio. Le persone con disabilità, quindi, possono contare per tutta l’estate, da giugno a settembre, sul supporto e la collaborazione di accompagnatori qualificati per entrare in spiaggia, fare il bagno e usufruire dei servizi su otto spiagge libere genovesi, di cui quattro a Ponente e quattro a Levante, tutte con particolari condizioni di accessibilità per persone disabili. Tra le spiagge coinvolte, oltre a quella di Voltri, c’è anche quella di Vernazzola. Ieri mattina l’assessore comunale Mario Mascia ha ribadito l’importanza di questo progetto, in occasione del taglio del nastro della “Spiaggia dei Bambini” di Voltri, che è giunta al ventesimo anno consecutivo di vita: “La “Spiaggia dei Bambini” - afferma - in questi vent’anni si è evoluta allargando la sua offerta di servizi dagli infanti e adolescenti ai disabili, anche non minorenni e magari anziani, con postazioni e personale dedicati a facilitarne l’accesso fuori e sulla spiaggia. Questo incremento di accessibilità delle spiagge è stato il primo obiettivo del mio mandato assessorile e da quest’anno viene perseguito anche con il reinserimento e l’inclusione sociale, perché grazie al progetto “Genoa Sea Inclusion” di Comune di Genova e Bagni Marina Genovese è previsto il potenziamento della presenza di personale di salvamento e di assistenza dei bagnanti disabili, tra cui accompagnatori formati e reperiti tra detenuti della Casa Circondariale di Marassi”. Il servizio viene erogato tra le otto e le dieci ore al giorno, tutti i giorni da giugno a settembre, su turni di cinque ore. Ogni spiaggia, presidiata da un bagnino con la maglia rossa, ha un accompagnatore con la maglia bianca pronto e qualificato per aiutare le persone disabili in tutte le loro esigenze. Quanto alla “Spiaggia dei Bambini”, come ricorda Guido Barbazza, presidente del Municipio VII Ponente, “è un tassello importantissimo del mosaico di spiagge voltresi e di tutto il Municipio nel quale abbiamo una cospicua dotazione di spiagge libere. Stiamo lavorando bene, in sinergia con gli assessorati comunali, per sviluppare tutto il potenziale turistico, in gran parte ancora inespresso, di questo lembo estremo di Ponente della città”. Il progetto della “Spiaggia dei Bambini” è realizzato localmente dal Circolo Arciragazzi Prometeo e da Arciragazzi Liguria. Determinante anche il ruolo dell’associazione La Giostra della Fantasia e della cooperativa Agorà. Anima della “Spiaggia dei Bambini” è da sempre Yuri Pertichini, presidente del Circolo Arciragazzi Prometeo, che anche quest’anno si è battuto con tutte le sue forze affinché ogni cosa fosse pronta per la data di partenza. E non si è trattato di un percorso semplice, considerato lo stato della spiaggia di Voltri appena qualche settimana fa. Reggio Emilia. In carcere c’è una sala per cinema e teatro. “Abbattiamo le distanze” di Stella Bonfrisco Il Resto del Carlino, 22 giugno 2023 Ieri la visita al nuovo spazio nato dalla collaborazione tra la Pulce e il Comune. Registi e attori teatrali entreranno nella Casa circondariale e discuteranno. con i detenuti i contenuti degli spettacoli. “Utile per il reinserimento”. Ci saranno nuove opportunità culturali e di formazione per i detenuti della Casa circondariale di via Settembrini, con l’inaugurazione di una sala multimediale dedicata alla proiezione cinematografica e alla rappresentazione teatrale, attività curate all’interno del carcere dal Cinema Rosebud e dall’Associazione Mamimò. “Offrire ai carcerati occasioni di studio, svago, arricchimento personale è l’obiettivo della collaborazione che negli ultimi mesi si è man mano estesa anche ad ambiti e progetti che vanno al di là del welfare per ampliare l’offerta di servizi e opportunità a disposizione dei detenuti e rendere al contempo il carcere un luogo che è parte della vita della città. - ha detto Daniele Marchi, assessore al Welfare del Comune - I nuovi progetti che sono stati inseriti in carcere vogliono condividere con i detenuti opportunità che sono normalmente accessibili alla cittadinanza e viceversa sono precluse a chi vive all’interno delle mura carcerarie. Obiettivo è quindi cercare di ridurre alcune delle differenze, talvolta invalicabili, che separano la vita di ‘chi è dentro’ e di ‘chi è fuori’. Il reinserimento sociale è un tema cruciale per i detenuti e se in un carcere non esistono attività culturali, di relazione, formative, il rischio di recidiva è altissimo”. Marchi ha aggiunto che ammonta a oltre 100mila euro l’impegno annuale complessivo del Comune per le attività in carcere. L’assessora a Pari opportunità e Cultura Annalisa Rabitti è poi intervenuta dicendo che “la collaborazione tra Comune e Casa circondariale è sempre più serrata. Soprattutto quella di carattere culturale e dedicata a diritti e pari opportunità. Già da tempo è attiva anche quella con la biblioteca Panizzi”. Massimo Castagna, responsabile dell’area educativa del carcere reggiano, ha sottolineato l’importanza della sala multimediale come luogo di socializzazione e confronto: “Ai primi di luglio - ha detto Castagna - avremo registi, tra cui Luca Scivoletto, in visita e dialogo con i detenuti, per presentare i loro film e discuterne i contenuti. Ogni giorno una decina di persone in ‘esercizio penale’ esce dal carcere per andare a lavorare, dimostrando volontà di reinserimento. Inoltre c’è l’impegno di un gruppo di sei detenuti che il 25 giugno, in occasione del concerto Italia Loves Romagna, collaborerà alla raccolta ecologica della plastica”. Alla presentazione della sala multimediale ha partecipato inoltre il magistrato di sorveglianza Marco Bedini, Alessandra Campani di NonDaSola. Padova. Al Due Palazzi va in scena “L’Isola”, spettacolo con i detenuti dell’Alta Sicurezza difesapopolo.it, 22 giugno 2023 Il progetto di laboratorio promosso dal Teatro Stabile del Veneto e curato dalla compagnia Matricola Zero con la collaborazione di Gabriele Vacis nell’ambito di “Per aspera ad astra”. Il Teatro Stabile del Veneto-Teatro Nazionale presenta il debutto dello spettacolo teatrale L’Isola, che andrà in scena presso la Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova dal 27 al 29 giugno. Lo spettacolo è scritto e recitato dagli attori-detenuti della sezione Alta Sicurezza ed è il risultato del laboratorio curato dalla Compagnia Matricola Zero per lo Stabile del Veneto nell’ambito di Per aspera ad astra. Un progetto che si interroga su come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza, promosso da Carte Blanche/Compagnia Teatrale della Fortezza di Volterra, sostenuto da Acri con Fondazione Cariparo e giunto ormai alla sua quinta edizione A condurre il laboratorio sono state le registe dello spettacolo Alice Centazzo e Federica Chiara Serpe, Maria Celeste Carobene, Marco Mattiazzo e Leonardo Tosini. Un progetto sviluppato seguendo diversi percorsi paralleli, al fine di rendere l’esperienza artistica e culturale più completa e sfaccettata, a partire dal training teatrale condotto dal regista Gabriele Vacis affiancato dal tutoraggio di Cinzia Zanellato. Durante i giorni dello spettacolo sarà allestita una mostra di pittura e maschere in collaborazione con A&T, gli oggetti di scena sono a cura di area48 e laboratorio scolpiAMO e i costumi sono a cura della Accademia delle Belle Arti di Venezia. Copertina di Mattia Riami e foto di scena di Serena Pea. L’inviato Ue a Lampedusa: “La Ue accolga i migranti come ha fatto con gli ucraini” di Alessia Candito La Repubblica, 22 giugno 2023 Intervista a Juan Fernando Lopez Aguilar, presidente della commissione Libertà civili di Strasburgo: “La situazione nell’isola è inaccettabile, l’onere della gestione dei flussi non può ricadere solo sui Paesi di arrivo”. “Il bilancio di questa missione? Una sfida. La situazione qui a Lampedusa è banalmente non accettabile e non solo vogliamo cambiarla, ma ribaltarla”. Incontri con le ong che si occupano di soccorso in mare e assistenza a terra, interlocuzioni con Croce rossa, Guardia costiera, Finanza, prefettura di Agrigento, Comune. E poi, un naufragio costato almeno sei vite - inclusa, dicono i testimoni, quella di un bimbo - che di tutte le parole ascoltate è la ricaduta più drammatica e quasi quotidiana. Al termine della missione della commissione Libertà civili del Parlamento europeo a Lampedusa, il presidente Juan Fernando Lopez Aguilar è netto: “Manca la solidarietà, la rete e la scala europea di risposta. Dobbiamo assicurare un bilanciamento fra responsabilità condivisa e solidarietà vincolante e obbligatoria”. In concreto, cosa significa? “L’onere della gestione dei flussi non può ricadere solo sui Paesi e i luoghi di primo accesso, come alcune isole greche, Lampedusa o le Canarie. Per rispondere all’emergenza non bastano fondi specifici, sono necessari anche trasferimenti non solo all’interno dello stesso Stato, ma di tutta la Ue, coordinati dalla Commissione. È urgente poi costruire canali sicuri e legali”. Ha ancora senso parlare di emergenza a Lampedusa? “Sì, nella misura in cui in quest’isola, come in altri luoghi di frontiera, la situazione non è gestibile secondo le regole previste dal trattato di Lisbona e in tempi consoni”. Da gennaio ci sono state più di mille vittime di naufragi. L’Europa sta facendo abbastanza? “Assolutamente no, bisogna fare meglio e di più, e soprattutto agire a livello europeo. C’è quasi una tragedia a settimana, con un bilancio di morti inaccettabile, e in ogni lingua dell’Unione sentiamo promettere “mai più”. Ci vuole un nuovo approccio e serve un programma europeo di ricerca e soccorso”. Partiamo dal primo punto... “Chi affronta il mare non fa una gita, sa di mettere a rischio la propria vita e quella dei propri cari. Le migrazioni sono un fenomeno umano e strutturale, bisogna far comprendere che non sono una minaccia, che l’obiettivo non può essere respingere. La Guardia costiera greca che traina un barcone pur di allontanarlo dalle proprie acque nazionali mostra il problema nel modo più crudo. Questa è una sfida europea e si vince solo con una solidarietà condivisa”. Secondo punto: programma europeo di ricerca e soccorso. Una nuova “Mare nostrum”? “Assolutamente sì, con il coinvolgimento di tutte le agenzie, un coordinamento e un commissario europeo”. Che ruolo avrebbero le ong? “Hanno un ruolo umanitario fondamentale che non può essere sottovalutato o disprezzato. Meritano il rispetto e, se possibile, l’appoggio istituzionalizzato della Ue. E non bisogna criminalizzare né perseguire legalmente chi fa soccorso in mare”. In che misura, dunque, i decreti Cutro e Piantedosi sono compatibili con la legislazione europea? “Posso dire che dal trattato di Lisbona in poi c’è un diritto europeo vincolante e nessuno Stato membro può assumere decisioni unilaterali senza affrontare la Commissione, che è “guardiana dei trattati”, ed eventualmente procedure di infrazione, sanzioni, multe o sentenze vincolanti della Corte europea di giustizia”. Il nuovo patto su immigrazione e asilo sembra puntare molto sulle cosiddette “riammissioni” anche in Paesi terzi... “Ci sono Paesi ossessionati dalle riammissioni, ma questo strumento è solo una parte dell’equazione e non la principale. Di certo è impensabile che avvengano in Paesi non sicuri e senza garanzie democratiche”. La Ue ha aperto le porte a milioni di rifugiati ucraini. Perché questa soluzione non è mai stata immaginata per altri? “La Ue ha accolto 11 milioni di ucraini e 4 sono rimasti. E non è stata logorata, al contrario. Ciò dimostra che il modello funziona e deve essere esteso”. Crede sia possibile? “Nell’Europarlamento ci sono sensibilità e orientamenti diversi. Il dossier Immigrazione è uno dei più divisivi. Ma c’è una maggioranza convinta che la soluzione possa essere solo europea nei valori, nell’adempimento del diritto internazionale umanitario e nella scala di risposta”. Piano Mattei? Il triangolo Italia-Algeria-Putin di Alberto Negri Il Manifesto, 22 giugno 2023 Nel rapporto diplomatico con i l Nordafrica - anche sulla Tunisia e sulla questione libica, per la guerra Nato del 2011 - si consumano le ambiguità del legame Francia-Italia. Con la visita in queste ore del ministero degli esteri algerino a Roma è stata riconfermata la partnership strategica tra Italia e Algeria: il Paese maghrebino fornisce il 40% del nostro gas e in pratica in un anno ha preso il posto della Russia. A sua volta il presidente algerino Tebboune, mentre infuria la guerra ucraina, in questi giorni ha incontrato Putin rinnovando il patto strategico tra i due Paesi che li lega da decenni: in primo piano la cooperazione energetica e soprattutto militare. In poche parole il regime algerino compra a tutto spiano armi da Mosca anche con i nostri soldi: il 50% dell’arsenale algerino è russo. Una “triangolazione” non voluta ma evidente. E anche un po’ paradossale, visto che tra Algeri e Roma c’è un meccanismo di consultazione strategico (così viene definito) e il presidente algerino Tebboune verrà a novembre in Italia per renderlo permanente. La sintesi è questa: l’Italia ha firmato un accordo con l’Algeria in funzione anti-russa mentre l’Algeria ha rafforzato l’accordo strategico che la lega alla Russia. Altro che Piano Mattei, il fondatore dell’Eni che come l’Urss fu sponsor della sanguinosa lotta di indipendenza algerina dalla Francia (un milione di morti) tra il 1954 e 1962. La ruggine tra Italia e Francia ha molto che fare con l’Algeria e non è un caso che siano stati i francesi nel 2011 a iniziare i raid aerei contro Gheddafi, allora il maggiore partner italiano in Nordafrica e nel Mediterraneo. Come sottolinea il politologo francese Marc Lazar in riferimento alla missione a Parigi della premier italiana: “Macron e Meloni sono costretti ad andare d’accordo per avere una posizione comune nella Ue sul fronte dell’ammorbidimento del patto di stabilità, anche se Macron vede come il fumo negli occhi la possibilità che la Meloni possa formare un partito conservatore in Italia in grado di influenzare il nuovo corso europeo”. Quella tra Italia e Francia, dice Lazar, è, di frequente, una “pace del momento”. In realtà la Francia è sempre un po’ infastidita dalla presenza italiana sulla sponda Sud, in particolare in Algeria dove gli imprenditori italiani ma anche i nostri Servizi sono stati assai attivi durante il periodo degli anni’90 di lotta drammatica tra il regime dei generali e l’estremismo islamico (200mila morti). Forse non è casuale che mentre il ministro algerino degli Esteri Ahmed Attaf iniziava il tour europeo dall’Italia (escludendo la tappa in Francia) la ministra francese degli Esteri, Catherine Colonna, abbia definito l’inno nazionale algerino “fuori dal tempo”, suscitando le ire delle autorità di Algeri. Attaf si è detto “sbalordito” delle parole della Colonna, aggiungendo che “per certi partiti o politici francesi si ha l’impressione che l’Algeria sia diventata un facile argomento da utilizzare a scopo politico”. Ma soprattutto irrita la Francia il cordone ombelicale tra Roma e Algeri che passa anche dalla Tunisia, altro caso scottante di fallimento mediterraneo dove la Meloni ha messo le mani portando di recente a Tunisi Ursula von der Leyen e l’olandese Rutte. All’Algeria - in attesa che torni a regime il gasdotto libico Greenstream - dal punto di vista energetico ormai siamo legati mani e piedi: i flussi in arrivo dal gasdotto Transmed, che collega l’Algeria all’Italia, passando per la Tunisia e arrivando a Mazara del Vallo, sono aumentati del 113%, per un totale di circa 25 miliardi di metri cubi di gas. Il ministro del Commercio algerino, Taieb Zitouni, ha appena annunciato in una conferenza stampa che l’interscambio tra i due Paesi ha superato i 20 miliardi di dollari (ovviamente in gran parte import italiano di gas), spiegando che l’Algeria è ora il principale partner commerciale dell’Italia in Nord Africa e nel mondo arabo. Ma questo “triangolo” Italia-Algeria-Russia non è certo l’unico paradosso della regione. C’è la Turchia di Erdogan, membro della Nato, che non ha nessuna intenzione di allentare i suoi legami con Mosca. E l’Egitto del generale golpista al Sisi - insignito della legione d’onore da Macron - ha ribadito l’equidistanza nel conflitto tra Mosca e Kiev, anche perché ha bisogno di grano russo e ucraino. È un dato di fatto che uno dei principali alleati americani in Nordafrica (l’Egitto riceve 1,5 miliardi di dollari l’anno di forniture belliche dagli Usa) non intenda rinunciare alla forte collaborazione economica, militare e geopolitica con Putin. La visione del mondo dalla sponda Sud è decisamente diversa dalla nostra. Markaris: “Un orrore il nostro mare pieno di vittime e trafficanti. L’Europa evita i problemi” di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 22 giugno 2023 Il giallista greco dopo il naufragio dei migranti di Pylos: prevalgono il denaro e la logica di Ponzio Pilato. Petros Markaris è uno dei pochi scrittori greci conosciuti nel mondo. Creatore del commissario Charitos, il Montalbano di Atene, si è sempre considerato di sinistra. Ieri è uscito in Italia il suo nuovo libro, “La rivolta delle cariatidi” (La Nave di Teseo). Il naufragio di Pylos, le centinaia di migranti affogati, le contraddizioni della Guardia costiera influenzeranno le elezioni greche di domenica? “No, arriverà prima comunque Nuova democrazia (il centrodestra del premier uscente Mitsotakis, ndr). L’unica incognita è se otterrà la maggioranza assoluta oppure no”. Come si risolve il problema dei migranti? “L’Europa è immersa nella logica di Ponzio Pilato. Se ne lava le mani. Su Grecia e Italia c’è la maggiore pressione migratoria e cosa fa l’Unione europea? Finge di aiutare con l’agenzia di confine Frontex. Ma è solo una scusa per continuare a non fare nulla e dare la colpa sempre a qualcun altro. Inorridisco a vedere il mare che ha dato vita alla civiltà trasformarsi in un mare di trafficanti e vittime. Siamo arrivati alle stragi e nessuno reagisce. Mi viene in mente un mio racconto dal titolo “L’epoca dell’ipocrisia”. Ecco ci siamo in mezzo, qui regna l’ipocrisia”. L’Europa sta proponendo multe da 20mila euro a chi non accetta la redistribuzione dei migranti. Aiuterà? “Siamo impazziti? Mettiamo il cartello del prezzo sulla morale? Sulla vita? Ormai, ogni valore è stato soppiantato dal denaro. La società è ossessionata dal denaro. Non esiste altro. Mi irrita un’Europa che mette confini anche alla morale. È bello aiutare le vittime della guerra ucraina, ma gli altri? Non hanno bisogno di aiuto?”. Se la soluzione non è l’Europa, quale dovrebbe essere? “La sinistra, lo sappiamo, è scomparsa quando da anti-sistema si è trasformata in forza di governo. L’Europa è piuttosto deludente: ha fallito durante la crisi greca, sta fallendo con la migrazione. Persegue solo una logica di compromessi che servono a salvare se stessa. È un’Europa che crede che la felicità arrivi dal denaro. D’altra parte, un’Europa senza intellettuali dove può andare?”. Sono scomparsi anche gli intellettuali? Non sarà troppo pessimista? “L’ottimismo, diceva lo scrittore tedesco Heiner Müller, “altro non è che mancanza di informazione”. Chi interveniva nel dibattito pubblico, chi spiegava gli accadimenti, non c’è più. Siamo arrivati a una generazione di pensatori abilissimi a promuoversi, a mostrare “profondità”. Peccato che abbiamo idee totalmente fittizie”. Perché? “Nel secolo scorso le rivendicazioni ideali o politiche venivano espresse nelle strade. I cortei si traducevano in problema sociale ed era necessario per la politica trovare una soluzione. Ora ci siamo ridotti a una logorroica polemica dentro i social network. Così la gente si sfoga e si tranquillizza da sé. Pensa di aver già fatto abbastanza con qualche post indignato. Invece, ecco il paradosso, finisce per arricchire il sistema economico-finanziario che conquista ancora più spazio per fare quello che conviene ed è utile a se stesso”. Ci sarà qualcosa di meglio rispetto alla Grecia misera degli Anni 60? “La povertà di allora era vissuta in modo straordinario, con valori intellettuali, morali e anche un gran senso di umorismo. Oggi la ricchezza della società è solo virtuale”. Dai suoi libri sul commissario Charitos sta per nascere una serie tv come successe al suo amico Camilleri... “Le nostre vite sono state incredibilmente parallele. Entrambi nasciamo sceneggiatori e approdiamo al giallo dopo i 50 anni. Io non vedo più da un occhio e lui era cieco. Ora la tv. Peccato se ne sia andato. Ce ne vorrebbero altri come lui”.