“Date più telefonate ai detenuti, possono salvare la vita”, l’appello e l’interrogazione parlamentare L’Unità, 21 giugno 2023 Dopo la campagna promossa da Ristretti Orizzonti, Conferenza nazionale volontariato e giustizia e Sbarre di Zucchero per il mantenimento (dove ancora ci sono) o il ripristino di più telefonate dei detenuti ai loro familiari, è stata presentata una interrogazione parlamentare al Ministro della giustizia, come recita il testo, “per sapere quali iniziative urgenti intenda assumere il Ministro interrogato al fine di contrastare il numero elevato di suicidi negli istituti penitenziari italiani, tra cui il mantenimento della possibilità di effettuare videochiamate e telefonate quotidiane, così come avvenuto durante il periodo di emergenza sanitaria, senza tornare alle regole pre-pandemia, al fine di garantire per tutte le persone detenute un effettivo esercizio del diritto all’affettività in carcere; quali iniziative di competenza intenda assumere affinché sia pienamente garantito il diritto alla salute, anche psicologica, delle persone ristrette”. Ad oggi sono oltre 150 le Associazioni che hanno aderito all’appello - ancora sottoscrivibile inviando mail a sbarredizucchero@gmail.com - e centinaia i singoli cittadini. Nel testo dell’interrogazione, le associazioni Ristretti Orizzonti, la Conferenza nazionale volontariato giustizia, Sbarre di zucchero insieme ad altre 149 associazioni che si occupano del mondo carcerario raccontano di aver dato avvio ad una campagna volta a consentire ai detenuti ristretti nelle carceri italiane di poter continuare ad avere contatti a distanza tramite video chiamate e telefonate con i propri affetti così come disposto durante il periodo dell’emergenza Covid. Numerose le premesse da fare per la richiesta presentata al ministro della giustizia che riportiamo di seguito. “Nel 2022 negli istituti penitenziari italiani si sono suicidati 84 detenuti: è il numero più alto dal 1990, l’anno in cui è iniziata la raccolta dei dati; il tema dei suicidi in carcere è ormai una emergenza su cui occorre intervenire immediatamente e l’individuazione di forme di comunicazione che consentano ai detenuti di aumentare le connessioni con l’esterno del carcere può rappresentare un deterrente, come peraltro sostiene anche lo psichiatra Diego De Leo, studioso di suicidologia, il quale, come riporta un articolo del 4 maggio 2023 pubblicato sul sito “ristretti.org”, ha affermato che: “Aumentare le opportunità di comunicazione e le connessioni con il mondo “di fuori” non solo renderebbe più tollerabile la vita all’interno dell’istituto di detenzione, ma sicuramente aiuterebbe nel prevenire almeno alcuni dei troppi suicidi che avvengono ancora nelle carceri italiane”; secondo l’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario il trattamento del condannato e dell’internato è svolto anche “agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”; come riporta il già citato articolo pubblicato sul sito “ristretti.org”, il 4 maggio 2023, un detenuto ha scritto: “Poter telefonare ogni giorno a casa aveva aiutato la mia famiglia a ritrovarsi. Ora ritornare da una telefonata al giorno a una telefonata a settimana di dieci minuti significa riperdersi. Questo periodo lo ricorderemo con i miei cari per esserci persi di nuovo”; durante l’emergenza Covid è stata adottata una buona soluzione che ha contribuito a mantenere i detenuti più sereni grazie al rafforzamento dei loro affetti, introducendo la possibilità di effettuare videochiamate e telefonate quotidiane così da permettere alle persone detenute di chiamare casa molto più spesso, in alcune carceri anche ogni giorno, e, attraverso le videochiamate rivedere le loro case e le famiglie lontane; le regole pre-pandemia prevedono 10 minuti di telefonata a settimana e 6 ore di colloquio al mese, il che vuol dire, ad esempio, che un genitore detenuto può dedicare al figlio al massimo tre giorni all’anno. Camera dei deputati - Atti di controllo e di indirizzo Interrogazioni a risposta scritta: Grimaldi e Dori. - Al Ministro della giustizia. Per sapere - premesso che: le associazioni Ristretti Orizzonti, la Conferenza nazionale volontariato giustizia, Sbarre di zucchero insieme ad altre 149 associazioni che si occupano del mondo carcerario hanno dato avvio ad una campagna volta a consentire ai detenuti ristretti nelle carceri italiane di poter continuare ad avere contatti a distanza tramite video chiamate e telefonate con i propri affetti così come disposto durante il periodo dell’emergenza Covid; nel 2022 negli istituti penitenziari italiani si sono suicidati 84 detenuti: è il numero più alto dal 1990, l’anno in cui è iniziata la raccolta dei dati; il tema dei suicidi in carcere è ormai una emergenza su cui occorre intervenire immediatamente e l’individuazione di forme di comunicazione che consentano ai detenuti di aumentare le connessioni con l’esterno del carcere può rappresentare un deterrente, come peraltro sostiene anche lo psichiatra Diego De Leo, studioso di suicidologia, il quale, come riporta un articolo del 4 maggio 2023 pubblicato sul sito “ristretti.org”, ha affermato che: “Aumentare le opportunità di comunicazione e le connessioni con il mondo “di fuori” non solo renderebbe più tollerabile la vita all’interno dell’istituto di detenzione, ma sicuramente aiuterebbe nel prevenire almeno alcuni dei troppi suicidi che avvengono ancora nelle carceri italiane”; secondo l’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario il trattamento del condannato e dell’internato è svolto anche “agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”; come riporta il già citato articolo pubblicato sul sito “ristretti.org”, il 4 maggio 2023, un detenuto ha scritto: “Poter telefonare ogni giorno a casa aveva aiutato la mia famiglia a ritrovarsi. Ora ritornare da una telefonata al giorno a una telefonata a settimana di dieci minuti significa riperdersi. Questo periodo lo ricorderemo con i miei cari per esserci persi di nuovo”; durante l’emergenza Covid è stata adottata una buona soluzione che ha contribuito a mantenere i detenuti più sereni grazie al rafforzamento dei loro affetti, introducendo la possibilità di effettuare videochiamate e telefonate quotidiane così da permettere alle persone detenute di chiamare casa molto più spesso, in alcune carceri anche ogni giorno, e, attraverso le videochiamate rivedere le loro case e le famiglie lontane; le regole pre-pandemia prevedono 10 minuti di telefonata a settimana e 6 ore di colloquio al mese, il che vuol dire, ad esempio, che un genitore detenuto può dedicare al figlio al massimo tre giorni all’anno -: quali iniziative urgenti intenda assumere il Ministro interrogato al fine di contrastare il numero elevato di suicidi negli istituti penitenziari italiani, tra cui il mantenimento della possibilità di effettuare videochiamate e telefonate quotidiane, così come avvenuto durante il periodo di emergenza sanitaria, senza tornare alle regole pre-pandemia, al fine di garantire per tutte le persone detenute un effettivo esercizio del diritto all’affettività in carcere; quali iniziative di competenza intenda assumere affinché sia pienamente garantito il diritto alla salute, anche psicologica, delle persone ristrette. Riforma della giustizia, se si parte col piede sbagliato di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 giugno 2023 Dalle dichiarazioni d’accompagnamento traspare una conflittualità che lascia presagire poco di buono. Purtroppo anche questa “riforma della giustizia”, primo capitolo di un più ampio disegno politicamente targato e rivendicato dal governo Meloni e dal suo Guardasigilli Carlo Nordio, è partita con il piede sbagliato. Non tanto e non solo per i contenuti, quanto per le dichiarazioni d’accompagnamento da cui traspare un clima di conflittualità e da resa dei conti che lascia presagire poco di buono. Sostenere, come ha fatto il ministro della Giustizia, che al Parlamento spetta fare le leggi e ai magistrati rispettarle, è un’ovvietà che nessun giudice o pubblico ministero ha mai contestato. Ma aggiungere che i magistrati non possono criticarle così come i politici non possono criticare le sentenze sembra più che una forzatura; perché quasi non c’è sentenza su questioni di pubblico interesse che non abbia suscitato critiche (o entusiasmi, a seconda degli esiti) da parte dei politici, e perché non si capisce in base a quale logica i magistrati (al pari di avvocati, giuristi e ogni altro operatore del diritto) non possano dire la loro sulle norme che dovranno applicare. Non a caso è prassi che il Parlamento proceda alle audizioni di togati e professori, prima di decidere. Togliere legittimità alle voci critiche, tacciandole di “interferenze”, non pare un modo per confrontarsi, bensì per screditare una controparte. Vissuta come tale, anziché come un altro ramo delle istituzioni al servizio dei cittadini. Semmai bisognerebbe far capire perché - come nel caso specifico - non una delle controindicazioni all’abrogazione dell’abuso d’ufficio sia stata presa in considerazione o considerata degna di replica, che non fosse quella di un reato inutile e dannoso poiché a fronte di migliaia di iscrizioni sul registro degli indagati le condanne si contano sulle dita di due o tre mani. Un ragionamento a doppio taglio: se ne può infatti dedurre che è tutto da buttare, ma anche che i controlli di legalità funzionano. A costo, però, della paralisi burocratica, per la “paura della firma” che blocca la pubblica amministrazione e fa dire alla quasi totalità di sindaci e assessori (compresi quelli di sinistra, come Nordio ripete ad ogni occasione) che è giusto cancellare quel reato. Peraltro più volte riscritto e ridimensionato, l’ultima nemmeno tre anni fa. Tuttavia ci si potrebbe chiedere: da che deriva la “paura della firma”? Dal controllo giudiziario su ipotetiche violazioni che il più delle volte si rivelano inconsistenti, o da una cultura coltivata in questi decenni per cui basta una denuncia per finire non solo sotto inchiesta, ma anche sotto un immediato processo politico e mediatico, prima ancora del verdetto giudiziario? Forse è a partire da questa domanda che ognuno potrebbe fare la sua parte. La politica recuperando la propria responsabilità e autonomia, magari decidendo di lasciare al suo posto (oppure no, a seconda dei casi, ma comunque non per la semplice esistenza di un’indagine) chi è sottoposto a procedimenti penali prima che arrivino a qualche conclusione. La magistratura ricorrendo alla “buona pratica” (peraltro ora codificata dalla recente riforma Cartabia) di precedere all’iscrizione di una persona sul registro degli indagati quando risultano “elementi a suo carico” e non solo a seguito di un banale esposto; magari “specifici elementi indizianti”, come suggerisce il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Il mondo dell’informazione raccontando i fatti (e le notizie su indagini e processi) per quello che sono, e non per quello che una parte o l’altra vorrebbero farli apparire. Potrebbe essere un modo per evitare iniziative drastiche o dichiarazioni roboanti, che inevitabilmente alimentano il sospetto di doppi o tripli fini. Anche perché siamo solo a un disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri, e l’iter parlamentare potrebbe suscitare ulteriori appetiti. Discorso analogo per le intercettazioni. Il progetto del governo mette una stretta che lascia perplessi: si potrà pubblicare solo ciò che è trascritto nei provvedimenti del giudice, ma che succede - per dirne una - quando questi richiamano (come quasi sempre accade) le richieste del pubblico ministero che a loro volta attingono dalle informative di polizia giudiziaria? Come può non derivarne un’informazione mutilata, a partire dall’inquietante principio che un dato non più segreto e legittimamente acquisito non può essere reso pubblico? Forse sarebbe meglio fare leva su un autocontrollo (in primo luogo degli operatori dell’informazione) che non sempre c’è stato, sebbene l’ultima riforma abbia ulteriormente limitato possibili violazioni della privacy. E sarebbe consigliabile, da parte di tutti, qualche revisione culturale, prima che normativa. Per sfuggire alla logica del conflitto permanente e al rischio di affievolire garanzie, oltre che presunti abusi. Perché come ha rilevato il procuratore generale di Cagliari Luigi Patronaggio, “essere garantisti significa garantire un giusto processo agli indagati, ma pure garantire i diritti a tutti quei cittadini che hanno subito un’offesa e un danno da un comportamento illecito”. Sempre nel rispetto delle leggi, naturalmente. Anche quelle che cancellano i reati. Ma la giustizia impone cautela di Giovanni Verde Corriere del Mezzogiorno, 21 giugno 2023 Il ministro della Giustizia ha elaborato un disegno di legge per la riforma di alcuni punti che ritiene essere punti critici del nostro sistema di giustizia. Era ed è del tutto legittimato a farlo secondo la nostra Costituzione, in quanto “l’iniziativa delle leggi appartiene al governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale” (art. 71, che al secondo comma riconosce legittimazione alle proposte sottoscritte da almeno cinquantamila elettori). La Costituzione non annovera tra gli organi costituzionali legittimati a proporre leggi il Consiglio superiore della magistratura e meno che mai l’Associazione nazionale dei magistrati, nè esiste legge costituzionale che lo preveda. E c’è una ragione. I giudici sono soggetti alla legge, recita l’art. 101, secondo comma; e la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge, ribadisce l’art. 111, primo comma. Nell’equilibrata ripartizione tra i poteri dello Stato voluta dalla nostra Carta, è il Parlamento che detta le regole, così che spetta al governo e ai suoi componenti ed eccezionalmente ad altri organi ed enti di fare le proposte, là dove è riservato ai giudici il compito della applicazione della legge in una situazione di “soggezione”. Lasciamo da parte che l’evoluzione di questi anni ha eroso il sistema e che c’è stato uno sconfinamento, in quanto alla “soggezione” alla legge si è andata sostituendo (in maniera, direi, inevitabile) la “cooperazione” alla creazione del diritto. Per amore del “bon ton” istituzionale partiamo dall’idea che l’assetto sia quello voluto dai costituenti, secondo i quali ai magistrati può competere soltanto una sorta di “moral suasion”, in quanto, non diversamente dagli accademici o dagli avvocati o da qualsiasi cittadino acculturato e appassionato ai problemi della giustizia, non può essere loro negata la libertà di rappresentare la preoccupazione che le leggi proposte possano avere effetti indesiderati e indesiderabili. Di più. I magistrati godono al riguardo di una posizione privilegiata, perché hanno un Csm che per legge può rendere pareri, con i quali può esprimere per il tramite istituzionale le preoccupazioni della magistratura. Ai magistrati (così come agli accademici, agli avvocati, agli “opinion makers” e a qualsiasi cittadino) deve essere consentito di segnalare alla pubblica opinione che il provvedimento oggi varato dal governo potrebbe avere costi nella lotta alla corruzione e compromettere la libertà dell’informazione, che è il sale della democrazia; ma dovrebbero usare particolare moderazione, posto che c’è il Csm che può farlo con maggiore forza persuasiva. Toccherà al Parlamento fare le scelte definitive. E se farà scelte sbagliate, viviamo per fortuna in democrazia. Gli elettori sapranno trarne le conseguenze. Ridotta a questi termini non ci sarebbe ragione per parlare di “scontro” tra governo e magistratura associata. Dovremmo dolerci per la tendenza di costruire artificiosamente contrasti istituzionali, perché le notizie normali non fanno…notizia. Resta, però, il sospetto che se il ministro ha parlato di “indebite interferenze”, ci sia stato qualcosa di più e di diverso; che l’Associazione dei magistrati o i suoi rappresentanti non si siano limitati a segnalare le controindicazioni rispetto alla proposta riforma, ma abbiano in qualche modo preteso di condizionare il Parlamento, chiamato a darle eventualmente veste di legge. Se così fosse, le critiche non sarebbero espressione della libertà di opinione, ma della pretesa di condizionare il governo nelle sue scelte, attribuendosi la magistratura la veste di una sorta di “contropotere”. Ricostruzione che non appare del tutto fantasiosa, pensando all’evoluzione dei rapporti tra politica e magistratura a partire da tangentopoli. Un’evoluzione pericolosa, perché può costituire la base per riforme di ben altro genere, delle quali abbiamo attualmente qualche esempio in Europa. La proposta di legge costituisce un indizio di ciò che può accadere. Il governo avrebbe sentito il bisogno di sopprimere il delitto di abuso di atti di ufficio (che nella forma di atto doloso potrebbe anche restare), se l’utilizzazione di questa incriminazione fosse stata prudente e parsimoniosa? E se il ricorso all’indagine e all’incriminazione non fosse giustificato per il fatto che da noi indagini e processo sono sempre doverosi (così che abbiamo trasformato il processo in sanzione)? E la feroce vignetta di Giannelli non disvela l’ipocrisia sottostante alla pretesa di vedere nell’obbligatorietà dell’azione penale un tabù di cui non possiamo fare a meno (tra i pochi nel mondo occidentale)? Il governo avrebbe sentito il bisogno di vietare la divulgazione di atti processuali, se troppo spesso non si fossero rese pubbliche notizie sulle vite private anche se prive di rilevanza penale? Da Salvini a FdI, il centrodestra corre a blindare il ddl di Carlo Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 21 giugno 2023 Il capo della Lega: “È solo l’inizio, poi toccherà alle carriere dei giudici”. Il meloniano Maschio conferma. Da Palazzo Chigi l’ordine è “tutti col ministro”. Adesso Giorgia Meloni ci crede. La riforma della Giustizia è in campo e non vuole disperderla. Carlo Nordio è dunque meno solo. Ha dalla propria parte il partito della premier, che l’ha candidato e che affida a una batteria di parlamentari dichiarazioni rassicuranti per il guardasigilli. Il quale sente il sostegno, stavolta chiaro, della Lega, la quale parla, con Matteo Salvini, di riforma che è solo “all’inizio”, e intanto elogia Nordio per aver riportato, con l’addio all’abuso d’ufficio, “un po’ di serenità nei Tribunali e nelle famiglie”, soprattutto di chi, come i sindaci, vive “col terrore della firma”. È scontato il sostegno di Forza Italia, che schiera le prime linee parlamentari sulla giustizia, Tommaso Calderone e Pierantonio Zanettin. E come se non bastasse, da Giuseppe Santalucia, il presidente Anm divenuto pietra dello scandalo, arriva, nella serata di lunedì, un messaggio più distensivo: nessuna “interferenza”, assicura, e sull’abuso d’ufficio dice di confidare che “attraverso il confronto la riforma possa essere migliorata”. Dopo mesi di sospetto isolamento, di colpi bassi ipotizzati persino tra i collaboratori di Nordio, di aria di sfiducia o almeno di freddezza tra Palazzo Chigi e via Arenula, il ministro della Giustizia sembra ora finalmente blindato. Pronto a difendere nelle Camere il proprio ddl (quasi certamente si parte dal Senato dove a momenti la riforma, ottenuta la bollinatura del Mef, dovrebbe essere depositata). Nordio anzi già prepara ulteriori provvedimenti, per esempio sulle intercettazioni, unico tema sul quale si registri una pur circoscritta puntualizzazione dalla maggioranza, l’alert della salviniana Giulia Bongiorno, che dichiara al Corriere della Sera: “La Lega è rigorosa: mai, mai ridurremo uno strumento indispensabile per la lotta alla criminalità”, e ci si dimentichi di cancellarlo “per qualche reato”. Ma è un avviso che non arriva a trasmettere un senso di minaccia. Intanto perché la stessa Bongiorno difende per il resto la riforma di Nordio, e spiega pure perché il suo partito ha dato l’ok all’abrogazione tout court dell’abuso d’ufficio: “Il terrore della firma è una certezza”, mentre il “vuoto di tutela” (reclamato anche da giuristi immuni da sospetti di politicizzazione, come Gian Luigi Gatta) è, per la leghista, solo “un’ipotesi”. E poi c’è “la seconda parte della riforma”, in cui “si potranno rimodulare gli altri reati” contro la Pa. Il tutto incorniciato dall’endorsement totale di Salvini alla linea del guardasigilli. In un quadro simile, si spiega il fair play che stavolta proprio Nordio esibisce, quando dice che ha cambiato idea su molte cose “ma mai sul pensiero liberale”, e che “la frase ‘ non ho le tue idee ma lotterò perché tu le possa sostenere’ è il vangelo per noi liberali, soprattutto in questi giorni di polemiche”. Toni da tregua armata, quanto meno, persino con l’Anm. La strada, per il ministro, per Meloni e l’intero centrodestra è facilitata non solo da giudizi come quelli espressi sul Dubbio da Sabino Cassese (“le toghe travalicano la separazione dei poteri”) e sul Foglio da Luciano Violante, che parla di “proteste smisurate dell’Anm”. Pesa anche l’insistente campagna pro Nordio dei sindaci dem. Basti pensare al barese Andrea Decaro, presidente dell’Anci, il quale saluta “con sincera gioia” l’assoluzione definitiva di Uggetti e lo definisce “il simbolo del trattamento ingiusto che troppo spesso subiscono gli amministratori quando un’inchiesta irrompe nella loro vita, macchia la loro immagine, spezza le loro carriere”. Fino al messaggio, chiarissimo, per Elly Schlein: “Bisognerebbe tener presente anche storie come questa, nei giorni in cui si dibatte in maniera accesa del rapporto fra amministratori e giustizia”. Inutile dire che il governatore campano Enzo De Luca continua ad attaccare a testa bassa i vertici del suo (ex?) partito per le critiche al ddl Nordio. La segretaria del Pd prova a non annaspare fra le contraddizioni, quando ieri alla Camera giochicchia con le frasi del guardasigilli sulla giungla delle norme fiscali e dice che “legittimano l’evasione”. Da FdI le repliche sono, come detto, polifoniche. Sulla svista di Schlein, per dire, interviene non un big, ma un uomo- macchina come Lino Ricchiuti, numero due del dipartimento Imprese di via della Scrofa: “La sinistra è capace di travisare le seguenti parole di Nordio: “Se l’imprenditore onesto decidesse di assoldare un esercito di commercialisti dicendo loro io pago fino all’ultimo centesimo di imposte e pago voi e voi mi dovete far dormire sonni tranquilli, non ci riuscirebbe, perché comunque qualche violazione verrebbe trovata’“. Parole”, dice l’esponente di FdI, “limpide, che tuttavia la sinistra usa per accusare il ministro di difendere gli evasori”. Quando a muoversi, oltre al dialogante Luca Ciriani, ministro di Meloni ai Rapporti col Parlamento, sono anche le seconde linee, è segno che l’ordine di tutelare il guardasigilli sotto attacco parte dai vertici. Se ne ha conferma anche dalle parole di Ciro Maschio, presidente FdI della commissione Giustizia della Camera, che allude agli “altri tasselli in arrivo” sulla giustizia, compresa la “separazione delle carriere” e addirittura “il sistema elettorale del Csm”. Prospettico come Salvini, che pure accenna alla necessità di intervenire sulle carriere dei giudici e chiarisce che sulle intercettazioni non c’è alcun dissenso sostanziale della Lega, anzi: “In un paese civile non leggi sui giornali intercettazioni che riguardano la vita privata senza nessuna rilevanza penale”, scandisce, “io voglio sapere chi è un criminale, non chi va a letto con chi e cose simili: è indegno spiattellare sui giornali notizie senza nessuna rilevanza penale”. Nordio è blindato. Forse non ci sperava più nemmeno lui. Nordio confonde la libertà di critica con le interferenze di Glauco Giostra Il Domani, 21 giugno 2023 Il ministro delegittima al confronto l’Anm, non capendo che il primo a interferire con le toghe è stato proprio lui con l’iniziativa disciplinare contro i giudici di Milano. Fu un’interferenza, ad esempio, anche quella dei magistrati del pool di Milano quando, nel 1994, minacciarono di andarsene in caso di approvazione del decreto Biondi. Non si condivide, infatti, l’idea del ministro secondo cui “Il magistrato non può criticare le leggi come il politico non può criticare le sentenze” per “un principio elementare della divisione dei poteri”: svolgere una fondamentale funzione dello Stato non può privare il cittadino del diritto-dovere di manifestare il proprio pensiero. Cominciamo da un’ovvietà: le novità contenute nel recente progetto di riforma della giustizia possono essere opinabili, taluna anche molto opinabile, ma tutte rispettabili: né sorprende, né preoccupa, pertanto, tenuto conto della rilevanza dei valori in gioco, che il confronto sia serrato, talvolta acceso. Siamo ancora nella fisiologia della dialettica in uno Stato di diritto. Ciò che preoccupa è il fatto che il dibattito pubblico registri, per dirla con un felice neologismo coniato da Giovanni Giudici, uno sbinariamento inquietante. Infatti, una novità normativa poco convincente potrà alla prova della realtà o della mutata sensibilità politica essere cambiata; un dibattito pubblico “malato”, invece, costituisce un’allarmante “extrasistole” democratica, che sarebbe pericoloso sottovalutare perché alla lunga potrebbe condurre ad altre patologie “circolatorie”, e nei casi più gravi, ad un infarto democratico. Lo “sbinariamento” si è registrato quando il ministro Nordio ha parlato di indebita interferenza da parte dell’Anm, il cui presidente aveva espresso “critiche severissime” nei confronti delle scelte governative. In questa sede non interessa naturalmente il merito delle critiche, ma la delegittimazione al confronto sentenziata dal ministro, secondo cui soltanto il Csm avrebbe titolo ad essere eventualmente suo dirimpettaio dialettico sul tema. La sortita ministeriale proprio non convince. L’interferenza - Non convince quando pretende di togliere la parola all’associazionismo giudiziario. Basti ricordare che il Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCJE), nel recente parere n.25 (2022) dedicato alla “libertà di espressione dei giudici”, insiste proprio sulla valorizzazione del ruolo svolto dalle libere associazioni dei magistrati nel dibattito pubblico in materia di giustizia. Non convince là dove parla di interferenza. Compie un’interferenza chi esercita il potere conferitogli per ostacolare il legittimo esercizio di un altro potere, non chi, come singolo o come portavoce di una associazione, si avvale del diritto di critica. Altra cosa sarebbe se il magistrato o una componente associativa della magistratura minacciasse gravi conseguenze ove fosse varata una certa norma in corso di approvazione da parte del parlamento. Fu un’interferenza, ad esempio, quella dei magistrati del pool di Milano quando, nel 1994, minacciarono di andarsene in caso di approvazione del decreto Biondi. Sull’opposto versante, allorquando il Ministro sottolinea criticamente un uso distorto delle intercettazioni da parte della magistratura inquirente o l’eccessivo numero di errori giudiziari esprime legittimamente una sua opinione; quando invece esercita -come avvenuto di recente - il suo potere di iniziativa disciplinare nei confronti di magistrati responsabili di una decisione da lui non condivisa (non condivisione che era libero di esprimere e di motivare), compie un’interferenza sull’esercizio della giurisdizione. Insomma, interferenza è uso di un potere per condizionarne un altro, non già manifestazione del proprio pensiero, anche fortemente dissenziente. Non si condivide, infatti, l’idea del ministro secondo cui “Il magistrato non può criticare le leggi come il politico non può criticare le sentenze” per “un principio elementare della divisione dei poteri”: svolgere una fondamentale funzione dello Stato non può privare il cittadino del diritto-dovere di manifestare il proprio pensiero. Il dibattito pubblico è il respiro della democrazia e ha bisogno di tutte le voci e di tutte le idee. Va da sé, o dovrebbe andar da sé, che più alte sono le funzioni ricoperte, più fortemente raccomandabile risulta il senso della misura: è un elementare dovere di rispetto delle istituzioni. Vogliamo allora confidare che passate espressioni scompostamente al di fuori del vocabolario istituzionale provenienti da figure apicali della politica (“sentenza vergognosa” ,”la magistratura è il cancro di questo Paese”, il “Csm è roba da manette”, è stata un’azione giudiziaria “criminale”, “magistrati, vergogna! Dovete andare in galera”) abbiano incontrato almeno la silenziosa disapprovazione del ministro. Spangher: “La riforma ricuce certi strappi, ma lo squilibrio nel penale resta” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 giugno 2023 Il professore: “Il guardasigilli prova a compensare l’assimilazione tra mafia e reati contro la Pa, anche con l’addio al 323. Sulle misure cautelari torna la logica del referendum”. Prime riforme di Nordio e scontri con l’Anm. Ne parliamo con Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale alla Sapienza di Roma, già laico del Csm. Professore, che succede tra l’Anm e Nordio? Prima di rispondere a questa domanda, occorre fare una premessa. Il processo penale italiano ha un marchio indelebile: il doppio binario applicato prima al terrorismo e poi alla criminalità organizzata. Questo modello processuale, che ha esercitato sempre una forte attrazione nelle emergenze, ha avuto la sua acme con la legge Spazzacorrotti, che ha attratto nel processo di criminalità organizzata anche quello economico, estendendo ad esempio l’uso del trojan insieme agli altri strumenti repressivi. Quindi? Con la riforma Cartabia si è deciso di fare una sorta di spostamento: scollegare la criminalità medio bassa dal processo di criminalità organizzata, rafforzando i poteri del gip e riducendo quelli del pm. La Cartabia ha cercato di creare una linea premial, con la messa alla prova, il lavoro di pubblica utilità, e così via, per la fascia medio bassa della criminalità. Come si collega questo alla riforma di Nordio? In questo schema, il ministro interviene prima su abuso di ufficio e traffico di influenze, come primo tentativo di ridisegnare un certo tipo di fattispecie criminose diverse sempre da quelle di criminalità organizzata. Poi si interviene sulla legittimazione del pm ad appellare. Ad essere interessati sono i reati a citazione diretta a giudizio, ex articolo 550 cpp, quelli che, come raccontano molti avvocati, non vengono già di norma appellati. Comunque ci si continua a muovere sulla stessa scia della Cartabia, lasciando l’appellabilità ai reati più gravi. Ma quindi quella parte della riforma è inutile, visto che si tratta di reati già non appellati? Non direi così: rappresenta una breccia per poi ampliare la forbice dei reati. Ma qualcuno sostiene che la Corte costituzionale sarà costretta a intervenire nuovamente... Non credo. Rileggendo la famosa decisione del 2006 sulla legge Pecorella, si capisce che la Corte lascia degli spazi, e questi potrebbero essere proprio quelli dei reati meno gravi. La Commissione Lattanzi prevedeva l’inappellabilità generalizzata... Ma voleva controbilanciarla con la tassatività dei motivi di appello. Così non è stato e quindi non si è proseguito con la riforma, anche se poi è stata inserita la specificità dei motivi di impugnazione per la difesa. La cosa che oggi però lascia perplessi è che si è rotto l’equilibrio tra l’inappellabilità delle sentenze dibattimentali e quella delle sentenze di non luogo a procedere. Manca altresì sempre su questo tema una disciplina del rito abbreviato. Qual è il problema sull’abbreviato? Il pm ha raccolto materiale, ha esercitato l’azione penale. In udienza preliminare io imputato chiedo il rito abbreviato sulle carte dell’accusa, sanando anche le sue nullità. Vengo assolto ma il pm impugna. E io sono costretto a subire un appello, nonostante abbia chiesto un abbreviato secco sulle sole carte dell’accusa, con il rischio di essere condannato. Quindi nella riforma ci sono delle lacune. Altre perplessità? Sempre su questo tema, se nella relazione introduttiva si parla di assoluzione, l’articolato parla di proscioglimento. I due termini non combaciano perfettamente, quindi bisognerà capire meglio questo passaggio. Sul contraddittorio preventivo per il cautelare? Le situazioni in cui non è possibile una previsione di contraddittorio sono nel caso di pericolo di fuga o di inquinamento delle prove o quando, per tipologia di reati molto gravi, non è possibile rinviare la misura cautelare. In pratica, in qualche modo, si è voluto riproporre quanto previsto dal quesito referendario, poi bocciato e del cui comitato promotore Nordio era presidente, che eliminava la possibilità di procedere con la custodia cautelare per il rischio di “reiterazione del medesimo reato”. Si tratta della fattispecie più discutibile, perché si ipotizza che tu abbia commesso un reato e si ipotizza di conseguenza che potresti commetterlo nuovamente. Il presidente Anm Santalucia ci ha detto: “Si tratta di un piccolo ddl che tocca pochi istituti ma le modifiche sono peggiorative”. Concorda? Questo moltiplicarsi di interventi parcellizzati, che intervengono su particolari settori del codice di rito, ci porta a vivere quotidianamente in una situazione di affanno: regimi provvisori, varie interpretazioni giurisprudenziali, atteggiamenti nei vari Uffici. Non esistono norme buone o cattive, dipende da come le interpreti e le applichi. Il processo penale è una macchina in continua evoluzione, però bisogna stare attenti a fare rattoppi in modo non organico. Come legge lo scontro tra il ministro e l’Anm? L’Anm viene da una stagione molto difficile. Prima dettava la linea alla classe politica e confezionava le riforme. Poi si è fortemente indebolita a causa della vicenda Palamara, anche nei rapporti con la politica, benché al ministero della Giustizia ci siano decine di magistrati al legislativo. Però ora rappresentano la parte più prudente della magistratura, mentre quelli che avevano comandato prima, ora sono nella parte minoritaria. Santalucia cerca di tenere insieme tutte le anime. Non c’è grande sintonia tra Nordio e l’Anm, di cui lui non ha mai fatto parte. Si tratta di una situazione che non conviene portare avanti a entrambi. Il professor Cassese in un’intervista al Dubbio ha detto: una cosa è che l’Anm si esprima “durante un’udienza parlamentare, su richiesta di una commissione, altro è assumere un atteggiamento battagliero, fare dichiarazioni, essere presente tutti i giorni sui media”. Che ne pensa? Io, da liberale, non sono contrario a che la magistratura, sia associata che come singoli, entro certi limiti, come quello di non denigrare l’interlocutore, esprima le proprie opinioni. Dico questo forse perché quando ero al Csm io ho visto di peggio. Poi non è detto che le voci della magistratura siano omogenee, basti ascoltare quando riuniscono il loro direttivo centrale. Si farà la separazione delle carriere? Non credo. Perché l’Anm l’avrà vinta? Non penso solo per questo: penso che il progetto di riforma verrà incardinato, ma poi bisognerà vedere se reggeranno gli equilibri politici per una riforma costituzionale che prevede determinate maggioranze. Misure di prevenzione. Quella lezione della Consulta rimasta inascoltata di Fabrizio Costarella* e Cosimo Palumbo** Il Dubbio, 21 giugno 2023 Il rapporto tra processo penale e procedimento di prevenzione - pensato dal Legislatore come improntato a piena autonomia ed indifferenza - è stato ridisegnato dalla Corte Costituzionale, con la nota sentenza 24/ 19, che è intervenuta anche sulle modalità di accertamento degli “elementi di fatto” posti a base del giudizio di pericolosità sociale (quantomeno, di quella “generica”). Pur nella autonomia tra i due distinti giudizi, occorre oggi, per mutuare le parole della Consulta, “un pregresso accertamento in sede penale, che può discendere da una sentenza di condanna oppure da una sentenza di proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga in motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e della sua commissione da parte di quel soggetto”. Mentre l’esistenza di una sentenza di proscioglimento nel merito per un determinato fatto impedisce che esso possa essere assunto a fondamento della misura. La Cassazione, già con la decisione Sez. 1^ n. 24707/ 2018 ric. Oliveri, aveva già avviato una riflessione sulla riconosciuta “prevalenza” degli esiti assolutori sul fatto specifico rilevante in sede di prevenzione, tale da rappresentare un evidente limite al principio normativo di autonomia. La Corte aveva osservato che il giudizio di prevenzione è strutturato - prima della parte più propriamente prognostica - come giudizio cognitivo teso a ricostruire le condotte del proposto, secondo un metro di accertamento che, per essere affrancato da un soggettivismo che contrasterebbe con la natura comunque giurisdizionale del procedimento, deve essere analogo a quello penale, dove si ricostruisce il rapporto tra fatto concreto e fattispecie astratta. Se la ricostruzione preliminare (funzionale alla formulazione della prognosi di pericolosità in prevenzione) venga smentita dagli esiti definitivi di un giudizio penale, viene in rilievo, se non proprio un contrasto tra giudicati, una violazione del generale principio di non contraddizione, che è uno dei cardini dell’ordinamento. E il conflitto va risolto a favore dell’accertamento penale, che si realizza in un contesto dotato di maggiori garanzie, il cui rispetto rende anche più affidabile l’esito della decisione. Principio ribadito dalla sentenza 19880/2019, secondo cui “il giudice della prevenzione può ricostruire in via autonoma la rilevanza penale dei fatti accertati in sede penale che non abbiano dato luogo a una sentenza di condanna a condizione però che non sia stata emessa una sentenza irrevocabile di assoluzione in quanto la negazione penale di un fatto impedisce di assumerlo come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità” e, ancora di recente da Cass. pen., Sez. I, Sent. 4489/ 23, anche con riferimento alle sentenze assolutorie penali rese con la cosiddetta “formula dubitativa”. Dal principio di perfetta autonomia tra i due giudizi, dunque, l’evoluzione giurisprudenziale delle misure di prevenzione ha prima preso atto della necessaria interferenza dei diversi accertamenti (del resto, è frequentissima una sorta di “osmosi probatoria” tra gli stessi), sino a riconoscere gli effetti del giudicato agli accertamenti penali, tanto di condanna quanto di assoluzione. Al termine di tale percorso di allineamento costituzionale del procedimento di prevenzione, non è difficile scorgere all’orizzonte - complice anche la formulazione dell’art. 578- ter cpp introdotto dalla riforma Cartabia - l’introduzione di una “pregiudiziale penale” all’azione di prevenzione. Unica evoluzione in grado di affrancare almeno gli aspetti procedurali dell’istituto da quell’ambito di “terribilità” nel quale, con un accertamento altrimenti vago ed indefinito, si comprimono e si negano diritti costituzionalmente garantiti quali quello di libertà di circolazione, di comunicazione, di iniziativa economica. E, tuttavia, la lezione del Giudice delle Leggi e di quello di legittimità pare, a chi scrive, ancora largamente inascoltata dalla giurisprudenza di merito, se è vero che nei nostri Tribunali vengono spesso ignorati gli esiti assolutori penali, anche di quelli che escludono radicalmente la sussistenza del fatto o della responsabilità, con effetti a volte paradossali. È il caso, ad esempio - e ci riferiamo a vicende reali - di chi, assolto nel processo penale “per non aver commesso il fatto” (con restituzione dei beni già sottoposti a sequestro preventivo), non può riaverli perché rimangono in sequestro nel procedimento di prevenzione, “prudentemente” e parallelamente avviato dalla Procura. O di chi viene sottoposto a procedimento di prevenzione, con sequestro anticipato di tutti i beni, sulla scorta di un giudizio di pericolosità ritenuta sussistente, in larga parte, nonostante una sentenza di assoluzione “per non aver commesso il fatto”. Un “fatto” c’è, per il Tribunale della prevenzione e poco importa che l’abbia commesso un altro. *Avvocato del Foro di Catanzaro **Avvocato del Foro di Torino Il provvedimento del Garante sui dati sanitari di Messina Denaro è un monito per tutti i media di Vitalba Azzollini* Il Domani, 21 giugno 2023 Il Garante della Privacy ha irrogato una serie di sanzioni a seguito della pubblicazione di dati sulla salute di Matteo Messina Denaro. Nell’esercizio del diritto di cronaca, la diffusione di dettagli sanitari di un individuo, anche se noto, incontra una serie di limiti- Non assume rilievo il fatto che l’interessato non se ne sia lamentato, come pure la già avvenuta circolazione di notizie sul suo stato di salute. L’autorità ha anche evidenziato una “assenza di sensibilità giuridica e deontologica che, invece, ci si aspetterebbe dagli operatori dell’informazione”. Un monito per tutti i media. Nel gennaio scorso, eravamo stati tra i primi a lamentare la divulgazione di dati sulla salute di Matteo Messina Denaro, subito dopo il suo arresto. Avevamo rilevato come, nell’esercizio del diritto di cronaca, la diffusione di dettagli relativi alla salute di una persona, che si tratti di un efferato omicida o di un individuo incensurato, incontra una serie di limiti, previsti dalla normativa privacy e dalle regole deontologiche per l’attività giornalistica. Puntualmente, il 18 gennaio il Garante per la protezione dei dati personali era intervenuto nei confronti di alcuni soggetti (Adnkronos, Daily Italia News, Palermo Today, La Cronaca24). In base al Codice deontologico, allegato al Codice Privacy, il giornalista deve astenersi “dal pubblicare dati analitici di interesse strettamente clinico”, “specie nei casi di malattie gravi o terminali”. La notorietà di un individuo non legittima la diffusione di suoi dati “particolari”, quali sono quelli sul suo stato di salute. La pubblicazione è ammessa solo qualora quei dati siano “essenziali”, cioè strettamente attinenti alla finalità della notizia nell’ambito della quale sono raccolti, e sempre nel rispetto della “dignità della persona”. Il Garante aveva, quindi, emesso provvedimenti di limitazione provvisoria del trattamento, riferita ad ogni ulteriore diffusione dei dati sanitari di Messina Denaro, nonché di ogni altra analoga informazione riportata in eventuali articoli pubblicati. La limitazione è un provvedimento a carattere temporaneo che, per consolidare i relativi effetti, dev’essere seguito da un ulteriore provvedimento definitivo, assunto in base a un esame del merito. E così è stato. Il 18 aprile scorso, il Garante ha adottato provvedimenti sanzionatori, recentemente pubblicati, nei confronti dei soggetti verso i quali era intervenuto nel mese di gennaio. Motivazioni e sanzioni - Il Garante afferma innanzitutto che, “nel corso del procedimento, non sono emersi nuovi elementi tali da modificare le valutazioni preliminari già espresse”. Tuttavia, l’esame dei provvedimenti sanzionatori merita attenzione per le giustificazioni presentate dai destinatari degli stessi, nonché per la valutazione che ne ha fatto l’autorità, esponendo anche principi generali in tema di informazione. La difesa adottata si è imperniata su tre punti fondamentali, tra gli altri: nessuna lamentela è pervenuta dal soggetto interessato in merito alla diffusione di informazioni relative al suo stato di salute; indicazioni dettagliate su quest’ultima erano già state diffuse da altre agenzie e comunicati stampa; la rilevanza della notizia dell’arresto di un pluripregiudicato appartenente a cosche mafiose farebbe sì che l’informazione sui suoi dati sanitari rivesta un rilievo sociale tale da prevalere rispetto alla tutela della privacy dell’interessato. Riguardo al primo punto, il Garante ha affermato che sono “prive di ogni valore le considerazioni circa l’assenza di lagnanze da parte dell’interessato”: ciò che assume rilevanza è la “diffusione di dati sulla salute, anche mediante la pubblicazione non autorizzata di documentazione sanitaria”, diffusione che si pone “in contrasto con le basilari norme poste dall’ordinamento a tutela della dignità della persona”. Quanto al secondo punto, l’autorità ha reputato parimenti “privi di significato i riferimenti alla già avvenuta circolazione di notizie sullo stato di salute dell’interessato”, aggiungendo che la pubblicazione di uno specifico referto sanitario “acquisito con modalità non precisate ha ampliato notevolmente la portata mediatica” di tali notizie, presentate “nella loro integrità ed ufficialità medica”. Il terzo punto delle argomentazioni difensive, secondo il Garante, evidenzia la mancata comprensione, da parte degli autori della pubblicazione, della “portata lesiva” della circolazione della cartella clinica di Messina Denaro. Le sanzioni stabilite per i soggetti coinvolti hanno importi differenti (2.500 e 15mila euro). La modulazione dell’ammontare, come spiegano i diversi provvedimenti, è determinata dall’applicazione di circostanze aggravanti, quali la lesività, per la dignità e la riservatezza dell’interessato, della diffusione dei dati sulla sua salute, e la particolare natura dei dati trattati. Nonché di circostanze attenuanti, come le finalità perseguite da chi ha effettuato la pubblicazione, riconducibili all’esercizio del diritto di cronaca e alla libertà di informazione; l’interesse della collettività alla conoscibilità della notizia; eventualmente la ridotta diffusione della notizia tramite la specifica testata; la tempestiva rimozione dell’articolo; le condizioni sul piano economico, organizzativo e professionale di chi ha operato la pubblicazione. La sensibilità giuridica e deontologica - Un passaggio dei provvedimenti del Garante riveste una particolare importanza. Nella pubblicazione dei dati sanitari di Messina Denaro, nonché nelle giustificazioni sottostanti, l’autorità rileva una “assenza di sensibilità giuridica e deontologica che, invece, ci si aspetterebbe dagli operatori dell’informazione”. Al riguardo, possono svolgersi alcune considerazioni. È vero che la libertà di stampa (art. 21 della Costituzione) è uno dei cardini degli ordinamenti democratici e che il legislatore italiano, in attuazione della normativa europea (Regolamento 2016/679, GDPR), ha previsto che il trattamento di dati personali per finalità giornalistiche goda di un regime derogatorio alla disciplina ordinaria. Tuttavia, la libertà di informazione non è assoluta, nonostante in alcuni casi si pretenda di interpretarla in questo modo, così come non è assoluta nessuna libertà prevista dall’ordinamento. Chi pubblica una notizia deve sempre operare un bilanciamento fra il diritto di informare e i diritti di cui è titolare chi è oggetto della notizia, quali quelli alla riservatezza e alla dignità persona. *Giurista Reati ostativi, il permesso premio non presuppone il compimento della revisione critica da parte del detenuto di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2023 Sufficiente è l’avvio di tale ravvedimento e se riconosciuto dal giudice non può essere pretermesso per i precedenti dei familiari. In caso di reati ostativi alla fruizione di benefici penitenziari e in assenza di prova dell’impossibilità della collaborazione con la giustizia, la possibilità di concedere un permesso premio all’ergastolano recluso da più di 25 anni è legata all’accertamento dell’assenza di rischi di ricostituzione di legami con la realtà della criminalità organizzata. A nulla rileva la sola sussistenza di precedenti penali in capo ai familiari dell’ergastolano che chiede la fruizione del permesso premio. Rilevante invece, ai fini di una decisione negativa da parte del giudice, è la possibilità che il detenuto possa trovarsi in un ambiente connesso al clan di appartenenza o a nuovi clan di cui va accertata l’estraneità dei familiari del richiedente il beneficio. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 26557/2023 - ha annullato la decisione di rigetto del reclamo del detenuto contro il diniego del permesso premio in quanto i giudici avevano dato peso rilevante alla circostanza dei pregressi precedenti penali dei familiari che questi avrebbe incontrato al di fuori del carcere, senza però tenere conto che tutti erano risalenti nel tempo e non indicavano attuali rapporti con la criminalità organizzata. Inoltre la sentenza, ora annullata con rinvio, contraddittoriamente indicava come intrapreso il cammino di pentimento del condannato al carcere duro, ma facevano rilevare che tale percorso di revisione critica non era stato concluso. La Cassazione sul punto precisa che è invece sufficiente la stabile intrapresa di tale revisione del proprio operato criminale. L’unico punto che invece meritava approfondimento da parte del giudice era quello della ricostituzione in area tarantine di piccoli clan familiari dopo il discioglimento della più antica e più potente cosca cui apparteneva il detenuto e nell’ambito della quale questi aveva commesso i gravissimi reati che lo avevano condotto in carcere. Infatti, i giudici invece di individuare il concreto rischio di adesione dell’ergastolano alle nuove formazioni criminali di taglio familiare, si erano limitati a sottolineare l’esistenza di precedenti penali in capo ai familiari del richiedente da lì derivando apoditticamente la sussistenza del rischio di ricostituzione di legami con il crimine organizzato. Questa è il punto che il giudice del rinvio dovrà appurare compiutamente. Infine, fa rilevare il ricorso, e la Cassazione conviene sul punto, che la richiesta di trascorrere il tempo del permesso premio con la famiglia non riguardava l’area geografica di provenienza del detenuto. Ciò sarebbe piuttosto sintomo di assenza del rischio di ricostituzione di un ruolo all’interno della criminalità organizzata da cui proveniva il condannato. E anche tale punto sarà oggetto di vaglio in sede di rinvio. Bologna. Disabile e con ritardi mentali: ma è detenuto e lo Stato lo abbandona di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 giugno 2023 Il caso di Derouiche Lassad, giovane tunisino affetto da gravi disabilità neurologiche, recluso nel carcere di Bologna. È incompatibile, ma rimane dentro perché è un derelitto. Ha gravi disabilità neurologiche, un viso deformato a causa dell’infermità e ha anche un ritardo mentale. Che senso ha tenere in carcere un detenuto con queste evidenti vulnerabilità? Recluso, tra l’altro, per scontare una pena di un anno. Senza una fissa dimora, ha già tentato di impiccarsi in cella, senza un tutore e privo di qualsiasi rete sociale, essendo un migrante con questa disabilità che, una volta uscito di prigione, rischia di ripiombare nell’illegalità. Un caso che Il Dubbio ha potuto rilevare nel carcere Dozza di Bologna. Roberto Cavalieri, garante regionale dell’Emilia Romagna, interpellato dal nostro giornale, ha fatto sapere che ne è già a conoscenza e ha inviato le opportune segnalazioni per risolvere questa situazione, rappresentativa di un carcere che diventa contenitore dei derelitti della nostra società, quella che dovrebbe farsi carico di queste vicissitudini, tra l’altro non rare. Di fatto, il caso di Derouiche Lassad, così si chiama il ragazzo di origine tunisina, rappresenta il fallimento dello Stato sociale e anche quello di diritto. Sociale perché è privo di sostegno; di diritto, perché nonostante l’evidente incompatibilità con il carcere, il tribunale di sorveglianza ha rigettato sia la richiesta di differimento pena obbligatorio nei confronti di una persona affetta da questa malattia neurologica, sia quella facoltativa per grave infermità, come prevede l’articolo 147, numero 2, del codice penale. Il ragazzo sconta un anno di reclusione per un cumulo di pene per i reati di tentata rapina, resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. Reati non gravi, considerando che non è propriamente pericoloso, dal momento che fin dalla nascita presenta problemi neurologici di spasticità diffusa, strabismo, asimmetria del volto a causa dei muscoli e difficoltà nella deambulazione. A ciò si aggiunge un lieve ritardo mentale. Per fare un esempio, riesce a contare solamente fino a cinquanta, non ha il senso del tempo e nemmeno riesce a contare il proprio fine pena o a leggere una mappa o un percorso. In sostanza, tutte vulnerabilità debilitanti per l’esterno, che però sono quintuplicate nell’ambiente penitenziario. Pochi giorni dopo il suo ingresso in carcere, è stato sorpreso con una corda al collo dal proprio compagno di cella. Ha commesso anche gesti autolesionistici. Grazie ai mediatori culturali del carcere, si è riusciti a ricostruire la sua storia. È arrivato in Italia a bordo di un’imbarcazione assieme a suo fratello, che ha problemi analoghi. Si è subito dedicato all’elemosina, ma a causa della sua infermità neurologica e dell’abuso di alcol, è diventato ingestibile. Nessuno è stato in grado di ospitarlo a lungo. Ha trascorso un periodo in una comunità di Trapani gestita da un parroco, ma anche lì è diventato ingestibile a causa del suo comportamento. Il tribunale di sorveglianza, riconoscendo che la sua infermità lo rende incompatibile con il carcere, si trova costretto a non concedere alcun differimento della pena. Il motivo? Derouiche non ha un riferimento territoriale né un alloggio e soprattutto è privo di qualsiasi fonte di reddito. È un derelitto. E quindi rimane in carcere fino a quando non avrà scontato l’intera pena. Il tribunale aggiunge anche che il differimento è improponibile perché c’è il rischio di recidiva. Tuttavia, il ragazzo uscirà comunque a fine dicembre. Senza alcun aiuto, rischia di ricadere nell’illegalità e il carcere sarà inevitabilmente pronto ad “accoglierlo”. Il Garante delle persone private della libertà dell’Emilia Romagna, raggiunto da Il Dubbio, afferma che il problema principale riguarda il periodo successivo alla liberazione dal carcere. Pertanto, ha inviato una segnalazione al tribunale di sorveglianza, alla direttrice del carcere di Bologna e al garante del comune. Durante il colloquio tra il garante regionale Cavalieri e il detenuto, avvenuto il 16 giugno scorso, sono emerse una serie di preoccupazioni che richiedono un’approfondita indagine da parte delle autorità competenti. Tuttavia, la difficoltà del detenuto nell’esprimersi in modo chiaro e coerente durante il colloquio ha reso necessario basarsi principalmente sui documenti presentati e una visita alla sua cella. Questa mancanza di chiarezza nella comunicazione, secondo il garante, rende ancora più importante un’indagine approfondita da parte delle autorità competenti. Nel sollevare questa segnalazione alle autorità competenti, si evidenziano alcune questioni che richiedono una verifica e una raccolta di ulteriori informazioni. In primo luogo, è necessario verificare se il detenuto abbia una residenza anagrafica e, nel caso in cui non ne abbia una, è richiesta una richiesta formale al Comune di Bologna per ottenere tali informazioni. In secondo luogo, si suggerisce la nomina di un tutore legale o un amministratore di sostegno da parte del Tribunale Civile di Bologna per garantire una maggiore tutela del soggetto che soffre di una grave disabilità. Questo potrebbe includere la ricerca di una sistemazione abitativa una volta terminata la pena e l’assicurazione di cure continue anche dopo la sua espiazione. Infine, nella segnalazione alle autorità, si sollecita anche la richiesta di un permesso di soggiorno per motivi sanitari. Questo solleva l’importante questione su come affrontare il futuro di questa persona una volta completata la sua pena. È fondamentale considerare che i reati commessi sono ormai datati nel tempo e, come indicato dagli atti, il detenuto non presenta problemi disciplinari significativi. La segnalazione del garante regionale Cavalieri mette in luce la necessità di un’attenzione urgente da parte delle autorità competenti per affrontare questa complessa situazione. Il caso di Derouiche rientra nella schiera dei detenuti con una pena di un anno. Come ha recentemente affermato il garante nazionale Palma durante la presentazione della relazione annuale al parlamento, “la loro presenza in carcere interroga il nostro tessuto sociale: sono vite connotate da una marginalità che avrebbe dovuto trovare altre risposte, così da diminuire l’esposizione al rischio di commettere reati”. Si pone quindi la domanda su cosa fare in queste situazioni. Il garante ritiene che sia giunto il momento di agire per togliere al carcere ciò che va al di là delle sue possibilità di azione. “Per queste fragilità e i reati di minore rilevanza che portano a pene molto basse, è necessario prevedere strutture diverse con un legame più stretto con il territorio”, riflette Palma, confidando che il Parlamento saprà impegnarsi, cogliendo anche lo stimolo proveniente da alcuni Sindaci, al fine di segnare un cambio di passo rispetto alle difficoltà e alle fragilità che si vivono attualmente all’nterno del sistema penitenziario. Il caso di Derouiche è emblematico proprio per questo motivo. Rappresenta tutte quelle vulnerabilità che la società non è in grado di prendersi cura. Gestire personalità come la sua non è un pranzo di gala, ma neppure impossibile se si investono maggiori risorse, professionalità e assistenza sul territorio. Ciò è importante non solo per il benessere delle persone come Derouiche, ma anche per la nostra stessa sicurezza. Velletri (Rm). Tragedia nel carcere, 43enne ucciso dal compagno di cella di Stefano Cortelletti Il Messaggero, 21 giugno 2023 La vittima è un 3enne di origini brasiliane, colpito a morte al culmine di una lite da un detenuto con problemi psichiatrici. Ucciso in carcere a Velletri dal compagno di cella al culmine di una lite. La vittima è Marcos Schinco, 43 anni, di origini brasiliane ma residente da tempo a Latina, nel 2015 era stato arrestato per aver rubato i soldi da alcuni parcometri in via Fabio Filzi a Latina, mentre nel 2016 in stato di alterazione psicofisica aveva aggredito i poliziotti intervenuti per sedare una rissa tra tossicodipendenti, danneggiando anche l’auto di servizio. Schinco condivideva la cella con Federico Brunetti, 26 anni, con problemi psichiatrici, in procinto di essere trasferito in una Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. In passato aveva già aggredito gli agenti di polizia penitenziaria. Ieri la lite, poi l’assassinio sulla cui esatta dinamica non è stata ancora fatta chiarezza. I carabinieri del Nucleo Investigativo del Gruppo di Frascati sono intervenuti per i rilievi tecnico-scientifici su richiesta del pubblico ministero della Procura di Velletri Giovanni Taglialatela. Per il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio e portavoce della Conferenza dei garanti territoriali, Stefano Anastasìa, occorre “adeguare l’offerta di assistenza psichiatrica in carcere alle necessità delle persone che vi sono costrette, non moltiplicando le celle di isolamento, ma il personale e le professionalità che vi sono impegnate”, e “bisognerebbe moltiplicare le risorse e la presa in carico sul territorio, se necessario anche in strutture residenziali, delle persone che è sbagliato trattenere in carcere o in Rems”. “Il gravissimo fatto di sangue accaduto nella casa circondariale di Velletri - spiega Anastasia - ci obbliga a una riflessione seria sul problema della salute mentale in carcere. L’autore del reato, che viene da una storia importante di abuso di sostanze, sono anni che passa di carcere in carcere, dal carcere all’ospedale, ed è stato anche in Rems. Dunque, il problema non è dove metterlo, ma quali risposte dare alle sue condizioni di disagio psichico, certamente aggravato dal continuo trasferimento da struttura a struttura e dai ripetuti isolamenti a cui è stato costretto”. Velletri (Rm). Anastasìa: “L’omicidio nel carcere impone una riflessione sui detenuti con problemi di salute mentale” regione.lazio.it, 21 giugno 2023 I problemi specifici dell’assistenza psichiatrica a Velletri sono stati oggetto di una sua segnalazione del Garante alla Asl solo tre settimane fa. “Il gravissimo fatto di sangue accaduto nella casa circondariale di Velletri ci obbliga a una riflessione seria sul problema della salute mentale in carcere. L’autore del reato, che viene da una storia importante di abuso di sostanze, sono anni che passa di carcere in carcere, dal carcere all’ospedale, ed è stato anche in Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr). Dunque, il problema non è dove metterlo, ma quali risposte dare alle sue condizioni di disagio psichico, certamente aggravato dal continuo trasferimento da struttura a struttura e dai ripetuti isolamenti a cui è stato costretto”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio e Portavoce della Conferenza dei garanti territoriali, Stefano Anastasìa, alla notizia dell’omicidio di un detenuto commesso dal suo compagno di cella, nel carcere di Velletri. “Il problema non è che le Rems sono poche, come dicono i nostalgici dei manicomi e degli ospedali psichiatrici giudiziari, ma che le carceri non sono attrezzate a gestire gravi problemi di salute mentale e fuori non ci sono sufficienti strutture di accoglienza”, prosegue Anastasìa, ricordando che i problemi specifici dell’assistenza psichiatrica a Velletri sono stati oggetto di una sua segnalazione alla Asl solo tre settimane fa. “Da una parte bisognerebbe adeguare l’offerta di assistenza psichiatrica in carcere alle necessità delle persone che vi sono costrette, non moltiplicando le celle di isolamento, ma il personale e le professionalità che vi sono impegnate; dall’altra - conclude Anastasìa - bisognerebbe moltiplicare le risorse e la presa in carico sul territorio, se necessario anche in strutture residenziali, delle persone che è sbagliato trattenere in carcere o in Rems”. Napoli. Cancellato dall’accoglienza, ghanese ammazzato di botte in strada di Adriana Pollice Il Manifesto, 21 giugno 2023 A Pomigliano d’Arco dal 2012, Frederick Akwasi Adofo era finito a vivere in strada. Aveva subito altre aggressioni, la più grave a dicembre: gli autori furono subito rilasciati. I carabinieri cercano due ragazzi. In città tre episodi gravi in meno di 7 giorni e l’allarme della Dia, ma il sindaco non vede la camorra. Frederick Akwasi Adofo aveva 43 anni, originario del Ghana, dormiva su una panchina vicino al supermercato di via Principe di Piemonte a Pomigliano d’Arco, centro industriale nell’hinterland partenopeo. Domenica notte due ragazzi si sono avventati su di lui riducendolo in fin di vita. Frederick si è trascinato per qualche metro fino ad accasciarsi all’interno di un cortile condominiale. Sono stati dei passanti a dare l’allarme: trasportato all’ospedale di Nola è deceduto per le gravissime ferite. A indagare sono i carabinieri che si sono mossi a partire da quanto ripreso dalle telecamere della zona. A Pomigliano era arrivato nel 2012 come richiedente protezione internazionale, in una delle tante ondate migratorie: il suo gruppo era finito nell’ex hotel Valleverde, aveva preso la licenza media con il programma di inserimento poi però cancellato. Rimasto per strada, si arrangiava chiedendo l’elemosina, dando una mano con le buste della spesa. Nella zona lo conoscevano tutti, la sua panchina ieri è stata trasformata in un altare con fiori, ceri e biglietti d’addio. Nel pomeriggio un presidio organizzato dal gruppo comunale di minoranza Rinascita. Era benvoluto ma questo non l’ha protetto dalla violenza. Una residente ha raccontato: “Sabato gli ho comprato il solito panino e la pepsi. A quei maledetti auguro una vita di sofferenze, anche se probabilmente i giudici faranno come la volta scorsa quando picchiarono Frederick e lui ebbe i punti in testa, furono subito rilasciati. Sono dei minorenni delle palazzine 219”. L’avevano preso di mira in un’escalation che è finita a dicembre con un’aggressione grave prima del pestaggio che ne ha causato la morte. “Se davvero sono coinvolti dei minori, è chiaro che c’è una voragine educativa da colmare: questa è una responsabilità che dobbiamo assumerci” il commento di Marco Iasevoli, consigliere comunale di minoranza. A Pomigliano si è votato lo scorso maggio, a 83 anni Lello Russo ha cominciato il suo settimo mandato sorretto da una coalizione di 11 sigle che ha inglobato tutto, il centrodestra e pezzi di Pd e 5S. “L’amministrazione si farà carico dei funerali - ha spiegato Russo -. Pomigliano è una città accogliente e generosa”. Un tono rassicurante che cozza contro quello della minoranza che chiede un consiglio straordinario e alla Prefettura il Comitato per l’ordine e la sicurezza. Da rinascita, Vito Fiacco attacca: “La situazione è insostenibile nonostante ci sia chi neghi la presenza di serie attività criminali”. Avevano invitato al presidio anche Russo: “Mo’ ti spiego una cosa - la risposta -: io sono il sindaco e tu non sei nessuno, tu puoi partecipare io devo aspettare le indagini perché non posso sapere se era un criminale o magari uno che spacciava qualcosa pure a te”. Al presidio gli attivisti di Pap, spiega Domenico Modola: “C’è gente che non considera i senza fissa dimora persone con una loro dignità. L’assenza delle istituzioni è grave, le segnalazioni erano state fatte. Chiediamo giustizia per Frederick”. Alessio Malinconico di YaBasta: “Non ci sono centri a bassa soglia per chi è in condizioni di disagio. E le politiche di accoglienza non funzionano”. I ripetuti attacchi farebbero pensare a una gang. Ma l’allarme è alto: la scorsa settimana un commerciante è stato ferito alla testa da due rapinatori a mano armata, che hanno anche esploso colpi in aria. Nelle stesse ore un tatuatore è stato gambizzato, erano le 14 ed era nei pressi di una scuola. Infine, la morte di Adofo: l’aggressione è avvenuta lungo una strada che porta alla 219, dove le indagini del 2021 hanno svelato la guerra tra i clan Ricciardi e Mascitelli per il controllo delle piazze di spaccio in uno dei maggiori centri della movida nolano vesuviana. Durante la campagna elettorale il candidato sindaco dei Verdi è stato aggredito da persone a volto coperto finendo in ospedale. A gennaio 2022 tre auto dei vigili urbani vennero date alle fiamme davanti alla sede della Polizia locale. Lo scorso settembre il prefetto Palomba ha firmato 5 provvedimenti antimafia nei confronti di altrettante agenzie di pompe funebri. A maggio una potente bomba artigianale è esplosa sotto un’auto nel parco Partenope, rione 219. Eppure il sindaco Russo in campagna elettorale ha tuonato: “O la camorra a Pomigliano c’è e va combattuta, e non è così, o la camorra non c’è, come non c’è, e dobbiamo togliere la parola di mezzo”. Rinascita denuncia il “trasformismo” di una parte del campo rosso giallo che ha fatto cadere l’amministrazione Del Mastro: “Il sindaco sfiduciato ha denunciato pubblicamente le ragioni delle dimissioni dei 13 consiglieri, tre del Pd: continue e pressanti richieste di rimozione dei responsabili della polizia locale, troppo rigorosi nell’attuazione dei principi di legalità”. Padova. Ergastolano di 42 anni muore in carcere per un malore Il Messaggero, 21 giugno 2023 Una partita di calcetto, durante l’ora d’aria, per spezzare la monotonia di una giornata di caldo torrido. E il fisico di Denny Pruscino, 42enne ergastolano del Due Palazzi di Padova, non ha retto. Subito dopo essere rientrato in cella si è sentito male. A quel punto il detenuto è stato soccorso e portato in infermeria. Allo stesso tempo è stato avvisato il Suem 118. Ma è stato tutto inutile: l’uomo è giunto in ospedale in condizioni disperate ed è morto poco dopo. Denny Pruscino era in carcere per l’omicidio del piccolo Jason, il figlio appena messo al mondo dalla moglie, Katia Reginella. I tre abitavano a Piane di Morro, frazione di Folignano, in provincia di Ascoli Piceno Il delitto, avvenuto a cavallo tra il 23 e il 24 giugno del 2011, aveva scosso l’opinione pubblica, per l’assurdità della dinamica e del movente. Secondo la ricostruzione dei fatti, Il piccolo Jason, meno di due mesi di vita, piangeva insistentemente il giorno dell’omicidio. Indispettito da tale situazione, il padre l’avrebbe preso e scagliato più volte contro il divano. Poi, il corpicino del piccolo Jason stato messo in un sacchetto e abbandonato dai genitori vicino ad un bidone dell’immondizia. I giudici hanno stabilito che nella vicenda era coinvolta anche la moglie Katia, ritenuta anch’essa colpevole di omicidio volontario per non aver impedito tale atrocità. Al contrario, aveva perfino aiutato il marito a disfarsi del corpo di Jason, che forse respirava ancora quando è stato abbandonato tra i rifiuti. Non si saprà mai. Treviso. “L’Ufficio di esecuzione penale esterna è ormai al collasso” Corriere del Veneto, 21 giugno 2023 L’ente che si occupa di pene alternative conta 14 persone per 3 mila pratiche all’anno. Appena 14 tra assistenti sociali e agenti di polizia penitenziaria a gestire una mole di lavoro che nei primi sei mesi del 2023 si è già attestato a quota 1.550 pratiche istruite relative a detenuti in carcere o in comunità, condannati o imputati, che si avviano a pene alternative al carcere o a progetti di giustizia riparativa. In questi mesi “la tempesta perfetta” dell’introduzione della riforma Cartabia dell’accorpamento dell’ufficio di Belluno (che aggraverà il lavoro con ulteriori 350 casi a semestre) con quello di Treviso che ha sede in via Riviera Margherita, rischia di mettere letteralmente al collasso l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Treviso, per cui è previsto al massimo un rinforzo di un paio di operatori. Per questo ieri mattina i lavoratori della sede trevigiana, così come a Padova e Venezia, hanno incrociato le braccia. “Mancano delle figure della funzione amministrativa, chi legge la posta, chi la spedisce, a chi gestisce le paghe, le malattie del personale. Se manca questo tipo di personale tutto si paralizza” ha spiegato la direttrice dell’ufficio, Monia De Paoli. “Stante la carenza di organico e la carenza di mezzi per lavorare, dai telefoni, alle linee telefoniche, ai pc, alle stesse scrivanie, le sedie, la carta e quant’altro - ha sottolineato Paola Pontarollo, Rsu della Uepe di Treviso - questo ufficio non potrà più rispondere adeguatamente alle esigenze della cittadinanza cui si rivolge e ai tempi con cui la magistratura ci chiede di rispondere alle situazioni penali con cui lavoriamo. Saremo costretti ad incidere sulla qualità dell’intervento e ad ampliare le tempistiche, mettendo in difficoltà anche l’autorità giudiziaria”. Marta Casarin, segretaria della Fp della Cgil di Treviso, ha parlato, durante il presidio che si è svolto in mattinata all’esterno della sede di via Riviera Margherita di “collasso generale dello Stato”. Quello dell’ufficio esecuzioni penali è solo l’ultimo caso segnalato di pesanti carenze organiche nella pubblica amministrazione dopo il caso del carcere minorile, Inps, Inail e Agenzia delle Entrate. Bologna. Studi, formazione e lavoro. Il caso FID di Antonella Cortese Ristretti Orizzonti, 21 giugno 2023 È possibile ricostruire un’esistenza andata in frantumi? È possibile riavvolgere il nastro e liberarsi del danno fatto e della sofferenza inferta? Spesso siamo davanti a sliding doors ma non ne abbiamo contezza, avremmo potuto fare altre scelte ma abbiamo imbroccato la porta sbagliata, quell’azione che sembra bloccata in un fotogramma e che ci conduce ad una esistenza disidratata, al vuoto di una vita privata della libertà personale, chiusa da grate e chiavistelli, trascorsa in uno spazio-tempo anche difficile da immaginare. Gli studi e le statistiche, ma anche i diretti interessati, ci aprono ad una possibile soluzione che non è semplice e che non tutti hanno la possibilità di praticare e che si riassume in poche parole: studio, formazione e lavoro dentro il carcere ma soprattutto fuori. Nella nostra trasmissione - Liberi dentro Eduradio&Tv - queste parole riecheggiano di frequente perché sono i veri agenti di cambiamento, sono parole generative che assumono valore quando diventano concrete e quando vedono persone ristrette impegnarsi, avere accanto il sostegno dei tutor e dell’Amministrazione penitenziaria, dei colleghi di studio e di lavoro e la prospettiva di una continuità lavorativa una volta scontata la pena. In poche parole, una seconda chance. Una seconda possibilità che a Bologna viene offerta da ormai 10 anni nella Casa circondariale Rocco D’Amato grazie FID (Fare Impresa in Dozza), un’azienda meccanica nata per iniziativa di G.D, IMA e Marchesini Group, ai quali si è aggiunto il Gruppo FAAC, con lo scopo di agevolare il reinserimento nella società civile di persone in condizioni di oggettivo svantaggio. Sino ad oggi sono 30 i detenuti/collaboratori che, grazie ad un percorso formativo e a un lavoro regolarmente retribuito, hanno avuto l’opportunità di ritornare ad una vita “normale”, di reinserirsi nella società civile contribuendo de facto a destrutturare stigma e stereotipi, con la diretta conseguenza di diminuire i numeri della recidiva e aumentare la sicurezza delle nostre città. È evidentemente un gioco di sinergie e tutti sono chiamati all’appello. Lungi dal celebrare i 10 anni di FID, su espressa richiesta del CdM, (anche se sarebbe ingiusto non riconoscergli il merito di aver avuto spalle larghe e instancabile determinazione nel raggiungere questo traguardo temporale) il 23 giugno prossimo alle 17.30 presso il MAST auditorium di Bologna verranno presentati i risultati di una ricerca curata da Valerio Pascali e Alvise Sbraccia - “La fabbrica in carcere e il lavoro all’esterno. Uno studio di caso su fare Impresa in Dozza” - basata su metodi essenzialmente qualitativi e su interviste a tutti gli attori coinvolti. Lo studio è stato sviluppato in chiave comparativa, mantenendo aperto il dialogo con la letteratura sociologica sui temi delle valenze del lavoro all’interno del carcere, delle fasi di transizione in prossimità del fine pena, delle traiettorie di uscita dalla stessa e del rientro in società. Un progetto complesso e ambizioso che potrebbe magari non essere facilmente replicabile con le stesse modalità, ma che dimostra che lavorare in carcere e continuare fuori da parte dell’impresa non è una scelta estrema né un atto di buonismo, ma un agire etico che tende a reintegrare nella società civile chi ha commesso un errore e ne ha pagato le conseguenze attraverso la detenzione. D’altra parte, la nostra meravigliosa Costituzione sancisce con l’art. 1 che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e con l’art. 27 che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato Padova. Dal carcere ai lavori di manutenzione in classe: riparte il progetto “Detenuti per la scuola” padovaoggi.it, 21 giugno 2023 Questa iniziativa, nata nel 2019 e successivamente sospesa a causa della pandemia, è finalizzata alla rieducazione e al reinserimento sociale dei detenuti attraverso lavori di piccola manutenzione presso gli istituti scolastici della provincia. La Provincia di Padova ha riattivato il progetto di collaborazione denominato “Detenuti per la scuola”, dandogli nuova linfa e ancora maggiori ambizioni. Questa iniziativa, nata nel 2019 e successivamente sospesa a causa della pandemia, è finalizzata alla rieducazione e al reinserimento sociale dei detenuti attraverso lavori di piccola manutenzione presso gli istituti scolastici della provincia. Il nuovo protocollo d’intesa, tra la Provincia di Padova, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige (PRAP) e l’Associazione ODV-ETS O.C.V., prevede l’estensione del progetto a entrambi gli istituti carcerari presenti in Via Due Palazzi: la Casa Circondariale e la Casa di Reclusione. Oltre alle attività di tinteggiatura e piccole manutenzioni, si includerà anche la collaborazione per la manutenzione del verde. L’obiettivo principale di questa iniziativa è offrire alle persone detenute l’opportunità di formazione professionale e di esperienza lavorativa, favorendo così la loro rieducazione e il reinserimento nella vita sociale. “Grazie al lavoro dei detenuti delle carceri di via Due Palazzi di Padova - ricorda il Consigliere delegato all’Istruzione ed Edilizia scolastica, Alessandro Bisato - si sono ottenuti risultati significativi negli anni scolastici precedenti, con la tinteggiatura di numerosi locali presso gli istituti scolastici provinciali. Questo nuovo protocollo è una buona notizia per le scuole e per la capacità dell’Ente provinciale di non mancare mai di attenzione ai loro bisogni e anche al loro potenziale”. Per Attilio Favaro, presidente dell’Associazione O.C.V. (Operatori Carcerari Volontari), questo progetto si focalizza su un problema fondamentale, quello del dare un significato alla vita quotidiana di chi è in carcere: “Siamo felici e orgogliosi di poter dare il nostro contributo, saremo in un certo senso intermediatori di questo progetto, che ha il pregio di dare una spinta costruttiva alla vita delle persone detenute”. Provincia di Padova - Commenta Sergio Giordani, presidente della Provincia di Padova: “È estremamente positivo che la Provincia di Padova abbia rinnovato il suo impegno a valorizzare il reinserimento dei detenuti a beneficio della comunità. La riforma del sistema penitenziario è da diverso tempo al centro del dibattito pubblico, è importante che un territorio vivace e solidale come il nostro dia vita ad azioni concrete e mirate. Confidiamo che questa iniziativa possa essere presa come esempio anche da altre realtà territoriali e che possa essere replicata in altre regioni italiane”. Aggiunge il Provveditore Maria Milano: “Questo progetto ha il valore di responsabilizzare le persone detenute che in modo concreto vengono chiamate a ricomporre la frattura sociale derivata dalla commissione del reato rendendosi utili e attive a vantaggio della collettività”. Protocollo - I due Istituti penitenziari di Padova hanno espresso la loro disponibilità a partecipare al progetto, mentre la Provincia di Padova si impegna a individuare le scuole coinvolte e a garantire la regolarità dei lavori eseguiti. Inoltre, verrà fornito un supporto ai detenuti durante le attività, e sarà previsto un rimborso spese per i detenuti che parteciperanno al progetto. L’Associazione O.C.V. si occuperà della fornitura del materiale necessario e della copertura assicurativa. Gli istituti scolastici coinvolti nel progetto avranno il compito di concordare i lavori da effettuare con la Provincia, garantendo la sicurezza dei luoghi di lavoro e fornendo una relazione finale sui lavori svolti. L’accordo ha durata fino al 31 dicembre 2026, con possibilità di rinnovo previo accordo delle parti coinvolte. Aversa (Ce). Concluso il progetto di inclusione per 30 detenuti Il Mattino, 21 giugno 2023 Realizzato dalla Cooperativa Amira e promosso da Cassa delle ammende, Regione Campania e Ufficio del Garante. “Ricomincio da dentro”, il progetto di inclusione socio-lavorativa per trenta detenuti si è concluso con la consegna degli attestati. Il progetto è stato realizzato dalla Cooperativa Amira e promosso da Cassa delle ammende, Regione Campania e Ufficio del Garante con la collaborazione del Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria e dell’Uepe. Sono stati consegnati attestati ai 30 detenuti partecipanti, alla presenza dei familiari. Il progetto è consistito sia nel trasmettere a un gruppo di detenuti la conoscenza dell’arte del Giardinaggio sia nel creare momenti di aggregazione, condivisione e confronto fra i papà detenuti al fine di sostenere e favorire la genitorialità in carcere. “L’obiettivo principale del progetto - ha spiegato il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello - è stato quello di fornire ai partecipanti gli strumenti necessari per poter acquisire le competenze e le conoscenze utili per affrontare il mondo del lavoro una volta usciti dal carcere, con la convinzione che dietro al reato ci sono persone che vivono in una condizione di esclusione e marginalità e che non possono essere private dei propri diritti fondamentali”. “Il Progetto Ricomincio da dentro - ha sottolineato Manuela Capozzi, presidente della Cooperativa Amira - si è proposto attraverso azioni sinergiche per ridare dignità, risorse emotive e comportamentali ai detenuti che hanno partecipato. Ha coinvolto 30 detenuti di cui 5 con ‘fragilità’, è durato sei mesi con incontri individuali e di gruppo”. Il carcere di Aversa conta ad oggi 160 detenuti e 58 internati nella Casa lavoro. Catania. Detenute al lavoro nella cancelleria del tribunale gnewsonline.it, 21 giugno 2023 “Le pene devono tendere alla rieducazione del carcerato”, recita l’articolo 27 della Costituzione. Questo è il principio ispiratore del progetto Koiné che ha aperto le porte delle cancellerie del Tribunale di Catania a due persone detenute nel carcere di Piazza Lanza, ammesse al lavoro esterno. Il presidente del tribunale, Francesco Saverio Mannino, durante la presentazione dell’iniziativa, che si è tenuta presso il Palazzo di giustizia catanese, nel corso della conferenza dal titolo “Presidio della giustizia di comunità della Sicilia orientale”, ha puntato l’attenzione proprio sul principio costituzionale che questo progetto “vuole rendere efficace e concreto”. L’esperienza, ha proseguito Mannino, “mira a dare una veste di umanità alla collaborazione che si è instaurata tra i detenuti ammessi al lavoro nella cancelleria del tribunale e il personale che in questi uffici opera”. Le persone detenute hanno riassaporato “valori che magari erano andati persi”, grazie anche ai ‘colleghi’ che affiancandole le hanno aiutate “a capire il valore della libertà e del lavoro”. Perché potessero vivere nella più ampia tranquillità questa esperienza, la loro identità è stata coperta dall’anonimato: “Abbiamo capito cosa vuol dire essere libere - è stato il commento riferito da chi le ha incontrate - e non vogliamo più ricadere nell’errore commesso”. Il personale che con loro ha avuto modo di collaborare, ha parlato di una iniziale timidezza che poi nel tempo ha lasciato il posto a un atteggiamento più naturale e spigliato. Alla presentazione del progetto, ripartito dopo lo stop determinato dalla pandemia, hanno partecipato fra gli altri Gianfranco De Gesu, direttore generale Detenuti e trattamento del Dap, Gaetana Bernabò, magistrato di sorveglianza, e Ignazio Danzuso, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Terni. Rap dietro le sbarre, le canzoni le scrivono i detenuti ternitoday.it, 21 giugno 2023 “Notti e giorni sono identici, a cambiare siamo noi”. Il progetto della Usl Umbria 2 affidato alle cooperative Actl, Helios, Cerchio e Quadrifoglio. I brani sono interpretati dal rapper ternano Vynasa. “Qui la notte non diventa giorno e il giorno non diventa notte. Notti e giorni come se si fermasse il tempo. Sono identici ed uguali e il tempo qui ci inghiotte. Ma a cambiare siamo noi ogni momento”. Sono questi alcuni dei versi cantati dal rapper ternano Edoardo Fucile, in arte Vinyasa, che ha dato la sua voce a uno dei progetti realizzati nell’ambito del servizio di prossimità all’interno degli istituti penitenziari afferenti al territorio di competenza del dipartimento delle dipendenze della Usl Umbria 2, affidato alle cooperative Actl, Helios, il Cerchio e il Quadrifoglio. Dopo 6 mesi di laboratori tenuti da due educatori e da un musicista, i detenuti nel carcere di Terni possono ora ascoltare il prodotto del loro percorso: due brani, uno per la media sicurezza e uno per l’alta sicurezza, i cui testi sono stati scritti in modo collettivo proprio dai detenuti. I brani così nati sono incentrati sulla vita all’interno degli istituti di pena, sui rumori, sui suoni, sul passare del tempo e sulla vita, nati al termine di un percorso che è stato anche riflessione, condivisione di emozioni ed esperienze, conoscenza e riflessioni. Il laboratorio musicale si è configurato come uno spazio di gruppo, il cui obiettivo è stato quello di sperimentare una metodologia basata su confronti a tema e approfondimenti volti ad aumentare la consapevolezza delle problematiche tossicomaniche, avvalendosi di strumenti espressivi quali l’ascolto di brani musicali scelti dai detenuti. L’attività ha voluto evidenziare proprio come la musica rappresenti un linguaggio universale in grado di toccare e connettersi alle parti più intime e personali, portando conforto, facendo immergere le persone in ricordi e portarle fuori, al di là delle sbarre. Il laboratorio di musica rap ha voluto fornire ai detenuti competenze espressive e relazionali per riconoscere e canalizzare gli aspetti di sé più critici, le emozioni che hanno a che fare con la deprivazione della libertà, le emozioni di scontento e frustrazione, facilitando l’emergere di una richiesta di aiuto più consapevole e motivando al cambiamento. I due brani registrati saranno diffusi prossimamente. Favignana (Tp). “I colori della libertà” con le opere realizzate dai detenuti di Carlotta Lombardo Corriere del Mezzogiorno, 21 giugno 2023 “L’arte è uno strumento di riabilitazione”. Venerdì all’ex Stabilimento Florio verrà inaugurata la mostra permanente “Scoprire la luce della libertà”. Sabato esperti e studenti a confronto nella giornata di studi “Lo sguardo prigioniero”. Parlano degli abissi umani, della colpa e della pena, della paura e della solitudine, del desiderio e della speranza. Dipinti, disegni e sculture realizzati da detenuti di tutto il mondo e, da venerdì, esposti nell’ex Stabilimento Florio, a Favignana, ambita meta estiva delle isole Egadi (e tra tutte le isole carceri italiane, l’unica ad avere un penitenziario ancora attivo), in occasione de “I colori della libertà”, il 23 e 24 giugno, evento organizzato dal comune di Favignana con l’Associazione “Art and Prison”, la Fondazione Severino e il Centro di studi “Romano Guardini”per promuovere l’arte come strumento di riabilitazione e socializzazione. “La mostra si chiama “Scoprire la luce della libertà” e sarà permanente - spiega Peter Echtermeyer, presidente dell’Associazione Art and Prison che ha sede a Berlino e dal 2009 opera in ambito carcerario -. Le opere che abbiamo raccolto in tutto il mondo sono uno specchio della società: vogliamo dare voce alle donne, agli uomini e ai giovani che si celano dietro i quadri e costruire ponti attraverso i muri e le frontiere in un contesto interculturale”. In mostra, anche le opere realizzate da detenuti italiani nell’ambito delle attività promosse dalla Fondazione Severino, che da anni opera per la risocializzazione e il reinserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti attraverso la formazione e il lavoro, nell’ottica di favorire la funzione rieducativa della pena. “L’esposizione è occasione di riflessione sulla condizione umana e sulle possibilità di riscatto e di reinserimento sociale dei detenuti - dice Paola Severino, presidente della Fondazione -. All’interno delle strutture carcerarie ci sono persone che hanno una spiccata sensibilità e spesso un talento a loro stessi sconosciuto. L’obiettivo è quello di contribuire a scoprirle. Arte e creatività non possono rimanere imprigionati dietro nessuna barriera”. Sabato, dalle 9, si svolgerà anche la Giornata di studi “Lo sguardo prigioniero. Conoscenza dell’arte contemporanea nel carcere”, promossa dal Centro di Studi Romano Guardini con il patrocinio della Pontificia Università Gregoriana, a cui prenderanno parte esperti e studenti. Coordinatrice del progetto, è Yvonne Dohna Schlobitten: “Vogliamo entrare nella differenza tra il senso e la strumentalizzazione dell’arte dei detenuti per scoprire la potenzialità delle opere da loro realizzate - dice -. L’arte diventa così una forma di responsabilità. Una possibilità di un incontro reale delle persone dietro le opere e di superare i pregiudizi”. Genitori trattati come criminali di Alessia Crocini* La Stampa, 21 giugno 2023 Pensate di vedervi recapitare un giorno un atto giudiziario che vuole cancellarvi come genitore dei vostri figli. Non avete fatto nulla di male, i bambini stanno bene, vanno a scuola, fanno sport, suonano uno strumento, frequentano l’oratorio. La sera tornate a casa dal lavoro, nella coppia c’è chi cucina e chi carica la lavatrice. Vite ordinarie come quelle di tanti. Eppure, provate a sforzarvi e pensate a quella busta consegnata a mano, provate a sentirne il peso, la consistenza della carta e gli occhi che corrono sulle parole che vi dicono che non dovreste essere più la madre o il padre dei vostri figli. Questo è ciò che da ieri sta succedendo alle famiglie di Padova che hanno registrato i 33 certificati con il sindaco Giordani, coppie di donne con uno, due, tre figli che dal 2017 sono state riconosciute entrambe come madri dei loro figli e come tali si sono potute occupare di loro in tutti questi anni. Non si è madre o padre solo su un documento e una famiglia arcobaleno questo lo sa meglio di chiunque altro. Così come non si è madri e padri sono nei legami genetici. Ma nella vita di ogni famiglia l’amore di un genitore verso i propri figli non è sufficiente a proteggerli e tutelarli, ogni genitore sa che la vita è fatta anche di firme, autorizzazioni, documenti, responsabilità e burocrazia. Ora questi 33 bambini rischiano, a distanza di anni, di perdere legalmente una delle loro mamme, di veder spezzati i legami tra fratelli, di vedersi sottrarre parte della loro identità con la cancellazione di uno dei cognomi. E questo avviene con una furia ideologica che più di protezione dei bambini e della cosiddetta “famiglia tradizionale”, ha il sapore di una vendetta: colpire i figli per le “colpe” dei genitori. Chi parla per sentito dire ripetendo che c’è già la stepchild adoption a risolvere tutto (la stessa che nel 2016 le attuali forze di governo hanno fatto di tutto per cancellare dalla legge sulle unioni civili), non sa quale percorso kafkiano sia. La stessa Corte costituzionale l’ha ritenuta insufficiente, lunga e discriminatoria invitando il Parlamento a legiferare. E mi chiedo quale genitore eterosessuale sarebbe disposto ad affrontare un tribunale dei minorenni per adottare il proprio stesso figlio? Si sta tentando di cristallizzare la famiglia in un ideale astratto e lontano dalla realtà, un collante ideologico per tentare di tenere insieme i pezzi di un mondo che cambia, eppure basterebbe guardare dentro le storie di ognuna delle nostre famiglie di origine per ricordarci che i modi di essere famiglia sono sempre stati tanti e diversi tra loro. Senza dover necessariamente creare delle classifiche di dignità. Quando mio figlio a 2 anni si è ammalato gravemente e solo la mamma legale, che non ero io, poteva firmare i consensi per le sue cure e ricevere informazioni sulla sua salute, ricordo la signora che puliva il pavimento dell’ospedale pediatrico di Bari che capita la nostra situazione ci disse in dialetto “I figli sono di chi li cresce e li ama”. Non ho mai avuto dubbi che mio figlio fosse tale anche se non l’ho partorito, anche non se ha i miei occhi o il mio Dna. Mio figlio è mio perché l’ho amato talmente tanto da farlo arrivare al mondo insieme all’altra mamma. E lo Stato questo quando lo capirà? *Presidente dell’associazione Famiglie Arcobaleno Pace e accoglienza. Solo così fermeremo il dramma dei rifugiati di Chiara Cardoletti Il Domani, 21 giugno 2023 “Ci sono persone troppo pronte a ricorrere alla guerra e decisamente troppo lente a trovare soluzioni”. Non sono soltanto parole quelle pronunciate pochi giorni fa dall’Alto commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi. Rappresentano piuttosto la fotografia di una tendenza che da molti anni non conosce nessuna inversione, le cui conseguenze sono la devastazione e la fuga forzata di milioni di persone. La guerra in Ucraina e gli altri conflitti, senza dimenticare gli sconvolgimenti della crisi climatica, sono infatti le cause che hanno determinato lo sradicamento dalle loro case e dai loro paesi di 110 milioni di persone, 19 milioni in più rispetto all’anno precedente. Il 52 per cento dei rifugiati proviene da soli tre paesi: Siria, Ucraina e Afghanistan. E se questi numeri non fossero sufficienti a chiarire la gravità della situazione, allora va aggiunto che il 41 per cento delle persone costrette alla fuga sono bambini, il cui futuro rischia di essere segnato da reclutamenti forzati e matrimoni precoci e compromesso per sempre. Martedì 20 giugno si celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato, un’occasione per esprimere solidarietà a rifugiati, sfollati e apolidi ed elogiarne la resilienza ma anche per parlare di soluzioni. Purtroppo, la comunità internazionale sembra esserne a corto. I leader mondiali continuano a non riuscire a risolvere i conflitti in corso, lasciando milioni di persone nell’impossibilità di tornare a casa. Eppure le soluzioni esistono, richiedono un paziente lavoro nello spirito di riconciliazione e condivisione delle responsabilità che ha ispirato anche il Global Compact sui rifugiati. Mettere fine alle guerre - Prima di tutto, bisogna tornare al dialogo con l’obiettivo di porre fine alle guerre, l’unico vero antidoto alle migrazioni forzate. È necessario poi migliorare le condizioni dei paesi di primo asilo e di transito, investendo in Africa e in altre parti del mondo. In questo senso il piano Mattei può rappresentare un quadro di collaborazione tra Europa e Africa al fine di promuovere la crescita economica e gli investimenti in aree strategiche e contribuire così anche allo sviluppo e alla stabilizzazione delle popolazioni locali e dei rifugiati nei paesi più fragili e lungo le rotte migratorie. Inoltre, proprio perché gli esili diventano sempre più lunghi i rifugiati vogliono e devono essere messi nella condizione di riprendere in mano la loro esistenza. Questo vuol dire riconquistare una nuova autonomia e non vivere solamente di aiuti umanitari. Ogni rifugiato porta con sé un bagaglio di qualità umane, competenze e talento. Accoglierli, superando pregiudizi e paure, significa offrire loro la possibilità di ricominciare a contribuire attivamente. Vera accoglienza - La definizione “rifugiato” non implica una condizione perenne bensì esprime uno status giuridico che si riflette nel diritto alla protezione internazionale. Dietro l’espressione “rifugiato” ci sono medici, ingegneri, sportivi. Persone che vogliono partecipare allo sviluppo delle società nelle quali hanno trovato protezione. D’altronde, l’Europa e l’Italia invecchiano sempre di più. Il contributo dei rifugiati e degli immigrati è importante anche per tenere in piedi le nostre economie e garantire la sostenibilità delle politiche sociali, dei sistemi sanitari e delle pensioni. Siamo fieri ad esempio dei risultati di Welcome, un programma che in cinque anni ha permesso l’attivazione di oltre 22mila percorsi professionali in oltre 500 aziende, con quasi 9.300 rifugiati inseriti nel mondo del lavoro nel 2022. Le imprese italiane hanno costante bisogno di forza lavoro e molti fra i rifugiati che arrivano nel nostro paese hanno le competenze che il mercato richiede. In questo senso, apprezziamo la scelta delle forze parlamentari e del governo di aver inserito nella legge n. 50/2023 una quota di ingressi per lavoro per rifugiati e apolidi e siamo pronti a costruire i primi corridoi lavorativi. Si tratta di un’altra misura da affiancare al reinsediamento, ai corridoi umanitari ed educativi, e quando possibile, al ritorno a casa, quello che molti rifugiati desiderano di più. Offrire soluzioni adeguate e tempestive, lungo le rotte migratorie, è l’unica risposta per prevenire le tragedie che si ripetono, con il loro carico di morti. Droghe. Ecco i mostri del proibizionismo Usa sconfitto di Marco Perduca Il Manifesto, 21 giugno 2023 Il 26 giugno il Governo Meloni celebrerà la “giornata mondiale contro le droghe” con un incontro che, oltre alla Presidente del Consiglio, il Presidente della Camera e il sottosegretario Mantovano prevede “esperienze di giovani e genitori”, testimonianze di sportivi e la partecipazione di due esperti americani: Kevin Sabet e Luke Niforators. Dal 1989 il 26 tale data viene presentata dalle Nazioni Unite come la “Giornata internazionale contro l’abuso di droga e il traffico illecito” e non “contro la droga”; l’Ufficio dell’Onu competente per materia non ha dimostrato negli anni particolare flessibilità sulla questione, ma si è guardato bene dallo scadere nella demagogia. È vero che il Dipartimento italiano si chiama per le politiche antidroga, Dpa, ma trattandosi di una ricorrenza internazionale con tanto di ospiti stranieri si doveva evitare la demagogia. Un incontro con Lorenzo Fontana e Alfredo Mantovano non poteva che farci tornare indietro nel tempo, non tanto quando il primo aveva le deleghe per le politiche antidroga nel 2019, piuttosto quando il secondo era sottosegretario agli interni e nel 2011 il Dpa, diretto da Giovanni Serpelloni, firmava accordi con l’Istituto nazionale sull’abuso di droghe degli Usa, (Nida), scioccando l’Italia con slide di cervelli di minori bruciati dalla cannabis. Negli ultimi 10 anni negli Stati Uniti è partita un’onda riformatrice che ha reso disponibile la cannabis medica quasi dappertutto, legalizzato quella ricreativa in 22 Stati e regolamentato gli psichedelici in quasi una decina di giurisdizioni. La Presidenza del Consiglio, per non macchiare la propria reputazione di atlantismo, ha pensato bene di invitare gli unici due “esperti” a stelle e strisce che criticano “dati alla mano” il radicale cambio di scenario proibizionista a casa loro. Chi segue il dibattito negli Usa sa che Sabet gioca il ruolo dello contrarian, dando il là ai conservatori, proprio come sul riscaldamento globale o l’efficacia dei vaccini, per mantenere accesa la fiammella dello scetticismo alimentandola con sistematiche comparsate televisive che, com’è ragionevole ipotizzare, verranno garantite anche da noi visto la “nuova” Rai. Quelle rare volte che in Italia si parla di “droghe” poche sono le testate o le competenze che consentono di inquadrare il fenomeno nella sua complessità aiutando a comprendere quel che accade nel mondo. Tutti gli indicatori istituzionali confermano la mancanza di progresso nell’eradicazione delle sostanze illecite, ciò non significa che in alcune regioni del mondo non ci siano inversioni di tendenza, gli Usa sono una di queste. A settembre del 2021 uno studio del Jama (Journal of the American Medical Association) ha documentato che, malgrado la facilità di reperimento della cannabis medica e non, il consumo minorile della cannabis è ai minimi storici, mentre nel 2022 la percentuale di minorenni che ha fatto uso di alcol negli ultimi 12 mesi è stata del 52%, un aumento del 47% rispetto ai livelli pre-pandemici. Malgrado resistano, da noi quanto là, “esperti” che insistono nell’affermare che la marihuana è una droga di passaggio, da 40 anni non ci sono studi scientifici che convalidino tale tesi. Ricerche recenti segnalano piuttosto che negli Stati dove la cannabis è prescrivibile per la cura del dolore diminuisce il ricorso a oppiacei (leciti e illeciti). Se resiste un mercato illegale della pianta è perché è stata imposta un’eccessiva pressione fiscale e perché ci sono contee di stati legalizzatori che non hanno aderito alla riforma. Ultimo ma non ultimo, i prezzi calmierati non sono concorrenziali. Questo Governo non sposerà atteggiamenti pragmatici e neppure di riduzione del danno; non bisogna accettare le favole da chi, come Sabet e soci, ha costruito la propria carriera su mezze verità e manipolazione di dati. Germania. La Consulta: i salari troppo bassi per chi lavora in carcere sono incostituzionali di Andrea M. Jarach Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2023 Due detenuti in Germania, rispettivamente in Baviera e in Nord-Reno Vestfalia, non hanno voluto accettare che il loro lavoro dietro le sbarre fosse retribuito appena 2 euro l’ora, mentre nel Paese vige un salario minimo di 12 euro. Per questo hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale e le toghe porporate martedì hanno dato loro ragione: i salari applicati nelle carceri tedesche, a seconda delle qualificazioni, tra 1,37 e 2,30 euro l’ora sono incostituzionali. I giudici hanno motivato la pronuncia con il principio che il carcere deve sottendere alla risocializzazione e per questo il lavoro, così come la coscienza che esso ha un valore, è determinante. Uno stipendio irrisorio oltre a tutto è incompatibile con il carico che si pone ai condannati di affrontare i costi di giustizia e risarcire le vittime. Con salari medi da appena 15 euro al giorno, è il ragionamento delle toghe porporate, hanno giusto i soldi per che comprarsi da bere e gli articoli igienici. Anche se il lavoro porta struttura nella quotidianità, non possono risparmiare e spesso escono dal carcere con un carico di debiti, venendone risucchiati. In quasi tutti i Länder è imposto l’obbligo di lavorare in carcere e i detenuti prestano la loro opera in officine all’interno delle prigioni per delle imprese esterne, o anche per il funzionamento carcerario nei servizi di lavanderia o pulizia dell’istituto. Dalla riforma della Germania in un sistema federale nel 2006 sono venute meno regole unitarie per le carceri e i Länder hanno ciascuno le proprie norme. L’emittente pubblica Ard ha evidenziato che i giudici costituzionali già nel 1998 avevano sottolineato come i compensi ai detenuti fossero troppo bassi e perciò vennero elevati aumentando la base di calcolo dal 5 al 9% dell’indennità media delle pensioni legali. Da circa vent’anni però il loro ammontare non è stato più ritoccato. Alla vigilia della decisione della Corte il sindacato dei detenuti aveva appoggiato le richieste dei ricorrenti. Il sistema in vigore è uno “sfruttamento”, ha dichiarato il portavoce Manuel Matzke alla Bayerischer Rundfunk. Il mondo economico impiega la realtà carceraria come una “zona economica speciale”, ha aggiunto, mentre i carcerati devono anche partecipare attraverso le imposte alle elevate spese di detenzione. La Corte nell’accogliere le istanze dei detenuti ha tuttavia lasciato aperto quanto debba effettivamente crescere il loro salario. Il compito spetta ai legislatori a Monaco e Düsseldorf che devono riformulare le leggi regionali entro fine giugno 2025. Per la sua portata la decisone è però un precedente che grava su tutti i Länder, che in difetto si troveranno a dover affrontare a loro volta dei ricorsi. La Presidente del secondo senato di Karlsruhe, Doris König, ha indicato che le leggi dovranno fissare e dichiarare espressamente di quali prestazioni godranno i detenuti. Oltre al salario concreto, potranno essere contemplati anche contributi di indennità di disoccupazione o previdenziali. Con ciò non è ancora detto che il salario minimo orario per i carcerati salirà effettivamente in modo marcato fino a raggiungere quello legale. Tuttavia, la giudice König, imponendo al legislatore di osservare il legame con i principi di dignità umana e del welfare state, ha sottolineato che “non dev’essere sottovalutata la percezione del salario da parte degli stessi detenuti, perché il ritenersi insufficientemente riconosciuti nella loro mansioni può avere effetti negativi alla loro risocializzazione”. Honduras. Scontro tra gang in un carcere femminile, morte 41 donne di Gabriella Mazzeo fanpage.it, 21 giugno 2023 In seguito a un violento scontro tra gang rivali in un carcere femminile in Honduras sono morte 41 donne. Almeno 25 detenute sono decedute in seguito a gravi ustione riportate dopo un incendio, mentre in 16 sono morte crivellate dai proiettili. Scontro tra gang in un carcere femminile in Honduras: almeno 25 detenute sono morte per ustioni, mentre altre 16 sono decedute in seguito a una serie di colpi di arma da fuoco. Sono in tutto 41 le donne coinvolte nello scontro. Altre carcerate sono state portate d’urgenza nell’ospedale Escuela de Tegucigalpa: almeno 5 sarebbero ricoverate in gravi condizioni. Stando a quanto reso noto, il caos sarebbe scoppiato quando alcune donne hanno chiuso le affiliate della gang locale in un carcere e dato fuoco ai locali. Nelle prime immagini diffuse dai media del posto, si vede una delle detenute con un passamontagna in volto e un’arma stretta in un pugno. Non è ancora chiaro, però, di quale delle due gang facesse parte. I corpi saranno riconosciuti tramite Dna per comunicare la tragedia alle famiglie. L’edificio dove si è verificato l’incendio è completamente distrutto ed è stato ridotto in cenere dal rogo. Nella struttura vi erano circa 900 detenute in tutto. Lo scontro si è verificato tra le gang rivali Mara Salvatrucha e la Barrio 18. La viceministra alla Sicurezza Julissa Villanueva ha fatto sapere su Twitter che il governo “non tollererà atti di vandalismo e altre irregolarità e violenze”. Per sedare i disordini, ha poi continuato, è stato autorizzato l’intervento immediato di vigili del fuoco, polizia e militari”. Nel frattempo, i medici dell’ospedale Escuela de Tegucigalpa sono impegnati nelle cure salvavita per le 5 sopravvissute ricoverate. Le pazienti, stando a quanto reso noto, restano in condizioni molto serie. Non si hanno notizie invece delle altre detenute (nel carcere vi erano circa 900 donne). Il bilancio delle vittime, secondo le autorità, potrebbe aumentare ulteriormente nelle prossime ore. Nel corso del primo intervento, infatti, per gli agenti è stato difficile determinare una stima delle persone decedute nello scontro.