“Dentro le Rems si ritorna alla logica del manicomio” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 giugno 2023 Il panorama delle persone internate nelle Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza (Rems) desta preoccupazione. D’altronde lo stesso consiglio d’Europa, recentemente, ha puntato l’indice soprattutto sulla questione delle persone in “lista d’attesa”, in particolare quella parte di “pazienti” che rimangono di fatto, illegalmente - dentro in carcere, nell’attesa di essere trasferiti presso le Rems. I dati numerici messi in risalto dalla relazione annuale del garante nazionale delle persone private delle libertà mettono in luce una situazione complessa che richiede una risposta adeguata e conforme con la ratio della legge che ha abolito i famigerati ospedali psichiatrici (opg) e introdotto appunto le Rems. Non come sostituti, non come mini opg, ma per un utilizzo del tutto diverso. Come emerge dalla relazione del Garante nazionale, attualmente ci sono 632 persone internate nelle 31 Rems funzionanti. Ciò che desta preoccupazione è il fatto che il 46,7 percento di queste persone si trova in misura di sicurezza provvisoria. Questo dato ha un impatto significativo sul numero di individui che, nonostante la misura definitiva, non riescono a trovare una sistemazione adeguata e l’attenzione necessaria. Inoltre, il numero complessivo di persone dichiarate destinatarie di misure di sicurezza supera di molto il numero di coloro che erano ospitati negli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) al momento della loro chiusura nel 2015. Mentre al tempo vi erano 698 pazienti ancora reclusi negli Opg, attualmente ci sono 632 persone nelle Rems e altre 65 in lista d’attesa. È importante notare che gli Opg ospitavano non solo coloro che erano in misura di sicurezza, ma anche coloro che avevano una malattia mentale o erano sotto osservazione psichiatrica. D’altra parte, le Rems accolgono esclusivamente persone internate in misura di sicurezza. La ragione di questo aumento significativo è ancora incerta. Secondo il Garante potrebbe essere attribuibile a un maggior ricorso a misure di sicurezza reclusive o a una reale sottovalutazione dell’aumento delle difficoltà e del disagio nella società contemporanea. Tuttavia, indipendentemente dalle cause specifiche, è fondamentale incoraggiare e potenziare il processo di graduale responsabilità territoriale per affrontare tali difficoltà in modo adeguato. Quindi, come evidenziato nella relazione annuale del Garante nazionale delle persone private della libertà, due sono le preoccupazioni rilevanti. Queste questioni riguardano sia il numero di persone accolte in misura di sicurezza provvisoria, che influisce sull’inadeguata sistemazione e attenzione di coloro che, sebbene definitivamente internati, non trovano una soluzione adeguata, sia il numero complessivo di persone sottoposte a questa misura, che supera di gran lunga il numero di coloro che erano ospitati negli Ospedali psichiatrici giudiziari al momento della chiusura di questi ultimi. L’incremento del numero di persone soggette a misure di sicurezza, che includono non solo coloro che richiedono una custodia di sicurezza, ma anche quelli con disagio o malattia di natura psichiatrica e quelli sottoposti ad osservazione psichiatrica, rappresenta una realtà significativamente diversa rispetto al passato. Attualmente, oltre alle persone già accolte nelle Rems, vi sono altre 675 persone in lista d’attesa e 42 persone illegalmente recluse in 25 carceri senza un titolo detentivo. Inoltre, si sono verificate segnalazioni di difficoltà negli istituti penitenziari riguardo alle persone con problemi comportamentali significativi e disturbi psichici evidenti, che non vengono adeguatamente gestiti nelle cosiddette ‘ Articolazioni per la tutela della salute mentale’ presenti in alcuni di questi istituti. Questo insieme di situazioni soggettive, ingiustificate da una base medica o giuridica, ma talvolta nostalgicamente rimpiante da alcuni, è senza dubbio incomparabile rispetto alla situazione precedente. Si aggiunge anche un’altra problematica. Lascia molta perplessità il collocamento in Rems fuori regione di pazienti, poiché in contraddizione con la necessaria presa in carico territoriale. Sì, perché le nuove residenze si fondano sui principi della territorializzazione della sanitarizzazione, nel senso che le Rems sono destinate ad accogliere, di regola, soggetti provenienti dal territorio regionale di ubicazione delle stesse e sono chiamate a svolgere eminentemente funzioni terapeutico- riabilitative, orientate a dare effettiva prevalenza al profilo della cura rispetto a quello della custodia, ragione per la quale il legislatore ha deciso di sottrarle dal circuito penitenziario affidandone la gestione al sistema sanitario regionale, all’interno del quale operano i servizi territoriali dei Dipartimenti di salute mentale, responsabili della presa in carico e degli interventi terapeutici. Parallelamente, ferma è la critica del Garante nazionale, già espressa in passato, verso strutture formalmente polimodulari che di fatto rischiano di costituire un aggregato coeso di problematicità che può richiamare il paradigma manicomiale. L’esempio è quello della “mega” Rems di Castiglione delle Stiviere. Una struttura che prima era un Opg, poi convertita in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza che ospita un totale di 160 posti letto. E ciò è un male. Le Rems sono nate per essere piccole comunità. In mancanza di quelle, nella regione Lombardia l’ex Opg è stato riconvertito in “Sistema polimodulare di Rems provvisorie”. Quindi, di fatto, è un’unica mega Rems. Come scrisse il Garante nazionale in un suo rapporto dell’anno scorso, tale situazione si riverbera “in modo preoccupante sulla qualità dei percorsi terapeutici offerti alle persone ristrette negli otto moduli e in special modo per coloro accolti nel modulo denominato Aquarius. Quest’ultimo un ambiente, almeno sulla carta, che garantisce il rispetto della pratica religiosa degli attuali internati di religione islamica. Per far fronte a tutte queste problematiche, il Garante nazionale ha più volte auspicato un migliore coordinamento tra le diverse amministrazioni regionali e una maggiore capacità di rapportarsi alle difficoltà da parte del complessivo insieme dei servizi territoriali di assistenza e supporto alla salute, avendo riscontrato quanto scarsi siano tuttora gli investimenti verso i settori più marginali della collettività, in particolare nelle strutture detentive, ma non solo in esse, e quanto carente sia nei fatti la garanzia di continuità di presa in carico di persone oggettivamente difficili e dai percorsi tortuosi. Sempre su queste stesse pagine de Il Dubbio, più volte si è ricordato che il problema principale: la previsione normativa del principio della Rems come extrema ratio non è stata accompagnata da adeguati investimenti nei servizi psichiatrici territoriali: nella maggior parte dei casi e per lo meno nell’ambito di alcune realtà regionali, le Autorità giudiziarie si sono trovate nella pratica impossibilità di prendere in considerazione valide alternative ai ricoveri in Rems, cui ricorrere nei casi in concreto portati alla loro attenzione. Il rischio è che a temi complessi, la politica risponda semplicemente con la costruzione di nuove Rems. Che in alcune regioni ce ne sia bisogno (pensiamo al discorso del rispetto della territorialità) è indubbio, ma c’è da investire sulla presa a carico da parte dei servizi psichiatrici territoriali. In fondo è lo stesso principio della Legge Basaglia, ancora non messa in pratica fino in fondo. Lavoro e formazione per quasi 2mila detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 20 giugno 2023 Trasformare tipologie di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria in vere e proprie occasioni occupazionali, con tanto di certificazioni professionalizzanti e idonee a sostenere i percorsi di reinserimento. Cassa delle ammende, insieme al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ha lanciato il Programma nazionale “Opportunità di lavoro professionalizzanti 2023”, rivolto a 1.500 detenuti per la durata di 7 mesi e un investimento complessivo di 8 milioni di euro. Gli interventi puntano a migliorare le condizioni di detenzione e favorire il reinserimento socio-lavorativo delle persone in esecuzione penale, al fine di ridurre la recidiva e migliorare la sicurezza e la coesione sociale. Gli inserimenti lavorativi riguardano diverse attività lavorative: operaio, piastrellista, imbianchino, idraulico e termoidraulico, elettricista, falegname, saldatore, fabbro, per quanto riguarda le professioni edili; addetto all’officina meccanica, cuoco e assistente cuoco, giardiniere, addetto alle aree verdi e alla manutenzione del verde, operaio agricolo e conducente di macchine agricole, vivaista, casaro; e poi ancora barbiere e parrucchiere, sarto, tipografo, assistente di biblioteca. Il Consiglio di amministrazione di Cassa Ammende ha inoltre finanziato 13 progetti di formazione professionale certificata e per tirocini lavorativi, nell’ambito di uno specifico piano avviato dalla stessa Cassa, assieme al Dap. I progetti coinvolgeranno complessivamente 385 detenuti negli istituti penitenziari di Arienzo, Grosseto, Padova, Salerno, Saluzzo, Santa Maria Capua Vetere, Vallo della Lucania e Vibo Valentia, per un investimento complessivo di euro 1.068.996. I corsi approvati, tutti certificati, riguardano le qualifiche professionali di sarto, elettricista, operatore di impianti termoidraulici, cuoco, operatore edile, dipintore/cartongessista, piastrellista/posatore, restauratore creativo, teatro, scrittura, pizzaiolo, nonché per le attività di catalogazione, gestione informatizzata dei dati e rielaborazione di dati con sistemi digitali. E poi ancora operatore di cucina, operatore del servizio bar, operatore edile, operatore per la lavorazione di calzature, operatore dell’accoglienza per eventi, laboratori di formazione teatrale, realizzazione di biblioteche innovative in rete con quelle del territorio. La scelta della tipologia di corsi da realizzare è stata effettuata direttamente dagli istituti penitenziari, sulla base di indagini di mercato effettuate sul territorio di riferimento, al fine di incrementare nuovi laboratori e opifici o valorizzare quelli esistenti. Riforma Nordio, mancano i giudici di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 20 giugno 2023 Allarme nei tribunali e preoccupazione al ministero: non bastano due anni per far entrare in funzione le 250 toghe supplementari previste dal ministro. E c’è il caso dei piccoli uffici giudiziari che la maggioranza vuole riaprire. Il principio si può condividere. Tra le novità previste dal disegno di legge Nordio, l’obbligo di ascoltare l’indagato prima di imporgli una misura cautelare e la competenza collegiale (non più monocratica) sul carcere preventivo possono essere considerati un passo in avanti. Ma persino negli uffici del ministero c’è preoccupazione sul modo in cui questi principi riusciranno a essere concretamente applicati. Si parte da un dato problematico: la pianta organica della magistratura presenta diverse scoperture. Per stare solo alle figure coinvolte da questo aspetto della “riforma”, manca oggi negli uffici giudiziari italiani il 14,5% dei giudici in organico. Al punto che, come dice una fonte in via Arenula, “abbiamo trovato quelli che preparano le bozze ma non abbiamo quelli che scrivono le sentenze”. Il riferimento è ai nuovi ingressi nell’ufficio del processo, uno strumento previsto nel Pnrr (che invece non stanzia risorse per assumere magistrati) che dovrebbe servire a ridurre i tempi della giustizia. Il problema principale, adesso, è che moltiplicando per tre il numero dei giudici competenti per l’arresto preventivo (oggi lo decide il solo gip), Nordio triplica anche le incompatibilità: nessuno di quei giudici potrà più pronunciarsi nel merito. Nei tribunali di medie dimensioni, dove lavorano tra i venti e i trenta giudici, è più che un problema, è un disastro annunciato. Nei tribunali piccoli, si prenda il caso di Urbino dove i giudici sono sei, presidente compreso, è semplicemente una novità impossibile da applicare. Il ministro lo sa e infatti nello stesso disegno di legge ha previsto un aumento di organico di 250 giudici di primo grado (non tutti destinati al nuovo collegio gip). E ha indicato in due anni (dall’approvazione della legge) il tempo necessario a metterli in servizio: fino ad allora questa parte della la “riforma” resterà congelata. Ma anche questo non basterà. Non si tratta infatti solo di ingaggiare nuovi giudici “ in un numero che è più o meno pari ai magistrati collocati fuori ruolo, lontani cioè degli uffici giudiziari “ , si tratta soprattutto di farli arrivare lì dove servirebbero davvero a limitare il problema delle incompatibilità. Cioè nelle sedi piccole e medio piccole. Che però, contemporaneamente, il governo immagine di aumentare, tornando indietro rispetto al taglio della geografia giudiziaria deciso nel 2012. I piccolissimi tribunali piacciono molto agli avvocati e trovano ascolto anche al ministero, sia il sottosegretario Delmastro che il ministro Nordio si sono espressi a favore. La Lega ha presentato l’unico disegno di legge sul tema e va oltre la riapertura dei vecchi uffici: inventa un tribunale tutto nuovo, il “tribunale della Pedemontana”. Due anni, poi, rischiano di non bastare per mettere al lavoro i nuovi giudici. Ora si fanno più concorsi per magistrati, forse addirittura troppi perché c’è chi partecipa più volte in attesa di conoscere l’esito e ci sono casi di vincitori di più concorsi. Nel testo del nuovo disegno di legge si parla adesso di un concorso per i nuovi 250 giudici di primo grado da bandire nel 2024 e da tenere l’anno successivo. Purtroppo però ci vogliono in media quattro anni dal momento in cui il concorso viene bandito a quello in cui i giudici, dopo il tirocinio, entrano effettivamente in funzione. E allora per evitare il disastro delle incompatibilità, le novità del disegno di legge andrebbero tenute ferme quattro, non due anni. Oppure bisognerebbe legare la nuova disciplina più rigorosa sulle misure cautelari all’effettivo ampliamento di organico. Probabile che alla camera, dove il testo comincerà il suo iter, arriveranno questi emendamenti. “Tensioni? Solo sciocchezze”: la maggioranza difende Nordio di Simona Musco Il Dubbio, 20 giugno 2023 I partiti di governo si compattano attorno al ministro: oggi la riforma alla Camera. In arrivo nuove strette sulle intercettazioni. “Nessuna critica, zero. La lega sostiene convintamente il provvedimento Nordio”. E nemmeno le stoccate del ministro della Giustizia contro i magistrati dell’Anm, accusati di interferenze e delegittimati nel loro ruolo di interlocutori, rappresentano un problema per il Carroccio. A dirlo, al Dubbio, è Giulia Bongiorno, che assieme ai colleghi di maggioranza prova a ricompattare il governo attorno al Guardasigilli, finito nel fuoco incrociato degli attacchi delle opposizioni e della magistratura dopo aver ottenuto l’ok del Consiglio dei ministri sulla fase 1 della riforma della Giustizia. Che oggi arriverà alla Camera, dove “il Parlamento, nella sua sovranità, deciderà come procedere”, ha sottolineato Carlo Nordio a margine di un convegno alla Milano Luiss Hub. Nessuna fibrillazione all’interno della maggioranza, dunque, e nessuna telefonata da parte della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, preoccupata, secondo i giornali, del clima di tensione generato dal suo ministro: “Guardate le dichiarazioni, non i retroscena”, dice ancora seccamente la presidente della Commissione Giustizia al Senato. Un clima sereno, come conferma dalle parti di Fratelli d’Italia un esponente di primo piano, mentre a chiudere il cerchio ci pensa il viceministro forzista Francesco Paolo Sisto: “Quella di Nordio con l’Anm è stata più una legittima difesa che un attacco. Si discute, si dibatte, ci si confronta, ma poi bisogna decidere. E a decidere è il Parlamento - ha detto a Radio 24 -. Quando il ddl è stato approvato in Consiglio dei ministri, mi risulta ci sia stata l’unanimità e un applauso. I retroscenisti fanno il loro mestiere, ma i fatti dicono che il governo è compatto intorno ad un provvedimento che ha un solo obiettivo: pensare al Paese reale e non all’intellighenzia che vuole imporre la propria visione talvolta astratta e spesso autoreferenziale”. Poi le parole contro il sindacato delle toghe: “Eravamo stati abituati, nei decenni precedenti, ad un’Anm molto invasiva, che pretendeva di decidere e spesso decideva toni e contenuti dei processi normativi - ha aggiunto Sisto. Ora, con il massimo rispetto istituzionale, l’associazione è stata, in linea con quanto ha detto il Presidente Mattarella, riportata nel proprio legittimo alveo. L’articolo 101 della Costituzione dice, non casualmente, che i magistrati sono soggetti soltanto alla legge, e così non può che essere”. Lo scontro con l’Anm sembra dunque destinato a crescere. Anche perché Nordio ha dichiarato in maniera chiara di avere un unico interlocutore in materia di riforme tra le fila della magistratura: il Csm. Ed è proprio a Palazzo dei Marescialli, come confermato dal vicepresidente Fabio Pinelli, che il Guardasigilli si rivolgerà presto per avere un parere sul testo, “nell’ambito dei rapporti di leale collaborazione istituzionale”, non appena ultimati “gli adempimenti formali”. Ma il lavoro di Nordio a via Arenula non è affatto finito e nuovi scontri con le toghe sono già prevedibili: come già dichiarato in Parlamento, l’intenzione è quella di mettere mano pesantemente alla materia delle intercettazioni, con un tetto alle spese di ciascuna procura che eviti gli “sprechi” e gli “abusi”. Ma non solo: l’obiettivo è limitare gli ascolti ai soli reati di mafia e terrorismo e imporre una stretta anche all’uso dei trojan. Un’intenzione che ha suscitato l’allarmismo delle opposizioni, secondo cui si farebbe un regalo alle mafie, ma che il ministro ha confermato ieri ad Agorà: “Interverremo per attuare completamente l’articolo 15 della Costituzione che afferma la libertà e la segretezza delle conversazioni. In questo momento siamo intervenuti parzialmente per tutelare il terzo, cioè la persona che viene citata nelle conversazioni di altri. Ma successivamente - ha sottolineato - interverremo anche per tutelare la dignità e la libertà delle persone che parlano e devono parlare fra di loro in riservatezza, perché la riservatezza è l’altro lato della libertà. Naturalmente senza compromettere le indagini per i grandi crimini della delinquenza organizzata”. Tema di scontro, con le opposizioni, è anche l’abolizione dell’abuso d’ufficio, destinata, secondo la segretaria dem Elly Schlein, “ad aprire la strada a conseguenze peggiori”. Un timore confermato anche da Gian Luigi Gatta, consigliere giuridico dell’ex ministra Marta Cartabia, secondo cui l’abrogazione dell’abuso d’ufficio lascia “intollerabili e irragionevoli vuoti di tutela”, come quello, individuato dalla Cassazione, che riguarda i casi di chi ‘ turba’ i concorsi pubblici, ha scritto sulla rivista “Sistema penale”. Ma sul punto anche il sottosegretario meloniano Andrea Delmastro Delle Vedove è categorico: “Interloquiremo con l’Europa e spiegheremo che nella battaglia contro la corruzione l’asticella del nostro codice è una delle più alte, non c’è altro Paese che ce l’abbia alta come la nostra - ha dichiarato a Repubblica -. Ma l’abuso è un reato definito “sussidiario”, e io lo contesto proprio per questo, per non parlare del rapporto impietoso tra imputazioni e condanne da cui nasce la paura della firma. Già in tempi normali, ma soprattutto con il Pnrr, l’Italia non se lo può permettere”. Il tema vero, ha aggiunto, “è che noi stiamo facendo una riforma liberale del diritto penale che non depriva i magistrati di alcun potere d’indagine, ma conferisce diritti in più al cittadino presunto innocente. Siamo disposti a dialogare con tutti, ma siamo orgogliosi della nostra proposta”. Riforma giustizia, Magistratura Democratica contro Nordio di Paolo Pandolfini Il Riformista, 20 giugno 2023 L’elenco dei magistrati, tutti pubblici ministeri, che si stanno stracciando le vesti in questi giorni contro le riforme volute dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, si è arricchito ieri di due nomi eccellenti: il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo e l’ex procuratore facente funzioni di Genova Francesco Pinto. Entrambi di Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, hanno deciso di schierarsi apertamente a favore del mantenimento del reato di abuso di ufficio e contro le modifiche restrittive che Nordio intende introdurre nella fattispecie del traffico di influenze illecite. Solitamente molto riservati, il primo con una intervista pubblicata dal Domani, il secondo invece dal Fatto Quotidiano, hanno stroncato senza appello le modifiche del Guardasigilli. Le argomentazioni di Ielo, che coordina un pool di dodici magistrati che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione dal lontano 2016, sono apparse contraddittorie. Ad iniziare dall’incipit dell’intervista: “L’abuso d’ufficio funziona, cancellarlo è un errore, darà il via libera ai faccendieri”. La realtà delle cose è l’opposto di ciò che afferma Ielo. Deve considerarsi, infatti, la difficoltà che incontra l’attività giudiziaria penale anche per fattispecie di reato di gran lunga meglio definite dell’abuso di ufficio, che dimostra esattamente il contrario di ciò che afferma Ielo, come risulta plasticamente dalle assoluzioni che la Procura di Roma e il pool pubblica amministrazione ha clamorosamente collezionato negli ultimi anni. L’elenco è sterminato. Vale la pena ricordare quella la recentissima del comandante generale dell’Arma dei carabinieri, il generale Tullio Del Sette, assolto in appello per il reato di rivelazione di segreti di ufficio contestatogli dallo stesso Ielo. Prima era stato il turno di Marcella Contraffatto, ex segretaria di Piercamillo Davigo, accusata di aver diffuso i verbali sulla Loggia Ungheria, del capo di gabinetto della Regione Lazio Maurizio Venafro, e degli ultimi tre sindaci di Roma, Gianni Alemanno, Ignazio Marino e Virginia Raggi. Come dimenticare, poi, la super mediatica indagine “Mafia Capitale” che fece il giro del pianeta, trattata da Ielo in prima persona, che ha visto evaporare l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso? Sulla stessa lunghezza d’onda di Ielo, anche Pinto: “Il favoritismo diventa legale: siamo al ‘liberi tutti’ per i faccendieri”. Pinto nelle scorse settimane era balzato agli onori delle cronache per la ‘turbo archiviazione’, dopo aver compiuto a suo dire “un esame molto approfondito della questione”, dei colleghi di Firenze, cominciando dal procuratore aggiunto Luca Turco, che stanno indagando sulla Fondazione Open. La vicenda è nota. A seguito di lunga controversia che ha registrato ben tre sentenze della Corte di Cassazione, l’ultima emessa lo scorso febbraio, venne sancito l’illegittimità, con obbligo immediato di restituzione a Marco Carrai, del materiale (mail e chat) che era stato sequestrato. Ciò, però, non sarebbe avvenuto perché Turco aveva inviato la predetta corrispondenza al Copasir e, inoltre, l’avrebbe utilizzata per richiedere un nuovo sequestro nel processo pendente davanti al Gup per gli asseriti illeciti finanziamenti della fondazione Open. Il Pm fiorentino lo aveva fatto prendendo spunto proprio dall’ultima sentenza della Cassazione che aveva sostenuto di non poter considerare questa prospettazione poiché “tale ipotesi (Open come articolazione di un partito, ndr) non era stata neppure formulata dalla pubblica accusa il cui vaglio sarebbe quindi precluso in questa sede”. Turco, in altre parole, si è adoperato al fine di supportare questa nuova pista investigativa (Open come mero soggetto politico, ndr) valorizzando numerose informative della guardia di finanza depositate a partire dal 2019 e, soprattutto, le mail e chat sequestrate che conterrebbero, a suo giudizio, prove inconfutabili. Non può non apparire paradossale, allora, che il pubblico ministero voglia dare prova della sua tesi utilizzando il materiale del quale vuole ottenere il sequestro annullato, finora, dalla Cassazione. Servirebbe, quindi, maggiore cautela nelle critiche ai disegni di legge proposti da Nordio che si limitano soltanto a registrare il dato fallimentare che emerge dalle pronunce giudiziarie in materia di reati contro la pubblica amministrazione, in particolare dalla Procura più importante che è quella di Roma che negli ultimi anni ha registrato quasi sempre assoluzioni. Una situazione che non potrebbe che migliorare a seguito dell’abrogazione dell’abuso di ufficio e delle modifiche al reato di traffico di influenze delle quali lo stesso Ielo, a ben riflettere, dovrebbe essere contento. Molto meglio i sindaci, anche del Pd, favorevoli all’abrogazione del reato, e un vecchio comunista come Fausto Bertinotti che, intervistato sempre ieri dal Foglio, ha saggiamente individuato in questo reato “una inutile e dannosa minaccia all’attività amministrativa”. La giustizia di Penelope. Mini-riforma, pezze e vecchi scontri di Danilo Paolini Avvenire, 20 giugno 2023 Non è un buon medico quello che, al cospetto di un malato grave, rischia di intervenire con decisione tale da comprometterne ulteriormente le condizioni. E non lo è, parimenti, quel medico che pretende di curare il paziente solo con placebo e rassicurazioni. Figuriamoci, poi, se i due medici in questione si mettono a litigare al capezzale del malcapitato. È ciò che accade da più di 30 anni davanti a quel grande malato che è la giustizia italiana. Tutti, infatti, ne vedono e ne denunciano ritardi e lacune, nessuno oserebbe affermare che i tribunali del nostro Paese funzionano in maniera almeno sufficiente. Eppure la giustizia continua a essere campo di battaglia politico, anziché terreno di confronto (anche aspro, purché sia autentico) per una vera riforma organica. S’è detto e scritto, nei giorni scorsi, che con la scomparsa di Silvio Berlusconi si sarebbe chiusa un’epoca, caratterizzata anche da scontri furiosi sulla materia giudiziaria tra i partiti, tra alcuni partiti e la magistratura associata, talvolta addirittura tra istituzioni. Ebbene, a oggi la chiusura di quell’epoca sembra francamente ancora di là da venire, mentre si susseguono azioni e circostanze che certo non agevolano l’avvento di una fase nuova in cui tutte le parti in causa si assumano la responsabilità di cambiare ciò che non funziona. Non aiuta, per esempio, che qualcuno nello staff del ministro Carlo Nordio abbia definito “il migliore omaggio che possiamo fare a Silvio Berlusconi” il fatto di portare in Consiglio dei ministri, il giorno dopo il funerale dell’ex premier, il testo che abolisce il reato di abuso d’ufficio e detta nuove norme su intercettazioni, custodia cautelare e traffico d’influenze. Tanto che lo stesso Guardasigilli ha definito “stravagante” quella frase. Non aiuta, poi, che il ministro Nordio rifiuti l’Associazione nazionale magistrati come interlocutore e liquidi le sue osservazioni come “interferenze” sull’azione di governo. Non aiuta, tuttavia, nemmeno l’atteggiamento della stessa Anm, che non sembra oggi molto diverso da quello assunto nel 1997 contro la Bicamerale presieduta da D’Alema o, appena l’anno scorso, contro la riforma Cartabia, solo per fare due esempi (sui molti possibili) distanti tra loro nel tempo. Non aiuta, infine, lo stato di confusione in cui sembra piombato il Pd, il maggior partito di opposizione, che con i suoi sindaci coerentemente apprezza l’intervento sull’abuso d’ufficio mentre i vertici nazionali annunciano barricate. Oggi la riforma Nordio dovrebbe approdare in Parlamento. Si tratta di una riforma parziale, di un “pezzo” di riforma, come tutte quelle che l’hanno preceduta. Poteva fare eccezione quella della già citata Marta Cartabia, che aveva dalla sua una maggioranza straordinariamente ampia (era il governo Draghi) e teneva dentro le istanze di quasi tutti, seppure composte in un necessario compromesso. La stessa ministra la definì “la riforma migliore possibile”, alle condizioni date. E come sempre, chi è arrivato dopo ha promesso di smontarla, in tutto o in parte. È per questo che il nostro ordinamento giudiziario, così come la legislazione penale, hanno assunto nel tempo l’aspetto di quelle coperte lavorate ai ferri con tante pezze di colori diversi. O della tela di Penelope. L’attuale ministro, per ora, è intervenuto su alcuni aspetti che presentano evidenti criticità e che troppo spesso hanno rovinato la vita di persone non colpevoli. Si può pensare di definire meglio il reato di abuso d’ufficio, anziché cancellarlo del tutto? Probabilmente sì. Si può salvaguardare la riservatezza delle comunicazioni, la reputazione delle persone e la loro vita privata senza togliere alla magistratura uno strumento investigativo spesso (non sempre) essenziale come le intercettazioni telefoniche e ambientali? Sì. Basteranno due anni e l’assunzione di 250 magistrati per garantire che solo collegi di tre giudici decidano sulle richieste di custodia cautelare senza mandare in crisi gli uffici Gip? Forse no. Sarebbe auspicabile che, da oggi, in Parlamento ci si confronti su questi aspetti concreti, senza sventolare le solite bandierine, senza blindature, senza pregiudizi. Perché la giustizia, oltre che uno dei tre poteri dello Stato democratico, dovrebbe essere anche un servizio al cittadino. Cara Schlein, sul garantismo non arretriamo: sfidiamo Nordio di Giorgio Gori* Il Foglio, 20 giugno 2023 Vorrei parlare di giustizia. Non solo dell’abuso d’ufficio, di cui pure dirò. Partendo da una ricorrenza evocativa. Quarant’anni fa, in questi giorni, Enzo Tortora veniva arrestato e precipitava nell’incubo che ha rovinato la sua vita e quella della sua famiglia. Conoscete la vicenda. Uno degli uomini più popolari d’Italia si trovò trasformato in un mostro, accusato da due camorristi di essere un sodale di Raffaele Cutulo, un trafficante di droga e di armi. Era totalmente innocente, ma questo non gli risparmiò sette mesi di carcere, più di un anno ai domiciliari, una condanna di primo grado a dieci anni di reclusione, e il massacro operato “ con pochissime eccezioni “ da tutti i mezzi di informazione. La storia di Tortora colpisce, ma non è certo la sola. Penso a quella di Giuseppe Gulotta, condannato all’ergastolo e detenuto per 22 anni prima di essere scagionato. E ad altre ancora. Ma restando a Tortora, ciò che meno si ricorda è come, partendo dalla sua esperienza, si fece combattente politico per una giustizia giusta, per tutti. Con il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, che raccolse l’80,5% di “sì”, o la battaglia in favore delle vittime di malagiustizia. “Battaglie” ammoniva “che riguardano la libertà e la dignità degli esseri umani, riguardano la civiltà di un paese”. Purtroppo il “caso Tortora” non ha cambiato la giustizia italiana, e neppure il suo rapporto con i media. Lì siamo, se negli ultimi dieci anni i cittadini reclusi in attesa di giudizio sono stati costantemente il 35 per cento dei detenuti, contro il 22 della media europea, e più di 12 mila sono stati assolti o prosciolti negli ultimi 3 anni dopo essere finiti in carcere da innocenti. E se un giudizio penale continua a durare il triplo la media europea. E se il tasso di sovraffollamento delle carceri “che in Italia è mediamente del 119% - raggiunge in Lombardia il 151, con punte del 184 a San Vittore e del 178 nel carcere di Bergamo. E se in un solo anno, nel 2022, ben 84 detenuti si sono suicidati negli istituti penitenziari italiani. E se tante persone, in molti casi nemmeno toccate dalle indagini, vengono ogni giorno infangate sui giornali e nelle tv, prima di qualunque sentenza, anche attraverso la pubblicazione di intercettazioni del tutto irrilevanti. Se l’omicidio della povera Giulia Tramontano tracìma sui media attraverso l’oscena pubblicazione delle sue chat private. Se questa è la situazione, io penso, semplicemente, che il Partito Democratico dovrebbe essere in prima fila per una giustizia diversa e più giusta, e innanzitutto in difesa dell’art.27 della Costituzione, che fissa un principio fondamentale dello stato di diritto: la non colpevolezza dell’imputato fino a sentenza definitiva. Veniamo da un trentennio in cui la vicenda personale di Silvio Berlusconi, protagonista di decine di processi e di una reiterata strumentalizzazione della funzione legislativa a proprio personale vantaggio, non ha facilitato il procedere di una riflessione ancorata ai principi garantisti sanciti dalla Costituzione. Ma adesso Berlusconi non c’è più, adesso è il tempo di fare un passo. Di fronte a proposte che non sono perfette, ma che segnano un cambiamento, nella direzione auspicata anche da Enzo Tortora, noi non ci possiamo fermare solo ad un riflesso dettato dal nostro essere all’opposizione del governo Meloni. Abbiamo il dovere di ragionare nel merito. Sono perciò grato a Elly Schlein per questa occasione di confronto. Non entro nel dettaglio delle singole misure proposte. Dico solo che in un Paese in cui si fa un uso abnorme della carcerazione preventiva, pare appropriato che si introducano misure volte a limitarne l’applicazione. E che di fronte alla pubblicazione indiscriminata di intercettazioni e conversazioni private, anche quelle più irrilevanti, un argine a me pare opportuno, e non lo chiamerei bavaglio. E così per l’inappellabilità delle assoluzioni di primo grado, limitatamente ai reati meno gravi. Infine l’abuso di ufficio. Su questo punto condivido l’opinione della grande maggioranza dei sindaci del Pd, che da anni si battono per l’abrogazione del reato. A tutelare i cittadini ci sono molte altre norme penali che definiscono e puniscono con precisione i singoli reati contro la Pubblica Amministrazione: corruzione, peculato, turbativa di appalti, omissione di atti d’ufficio, ed altri. (...)Mi piacerebbe che la sinistra, il Pd in testa, si riappropriasse della vocazione garantista che ha caratterizzato la sua storia fino a Tangentopoli e a Berlusconi. Abbiamo l’occasione per fare un passo in questa direzione, io spero che si faccia. *Sindaco di Bergamo, Partito Democratico Abuso d’ufficio? Battaglia di sinistra, dice il sindaco di Parma Michele Guerra di Marianna Rizzini Il Foglio, 20 giugno 2023 “La paralisi delle amministrazioni blocca interventi urgenti su sanità, scuola e politiche del lavoro, andando a colpire le fasce più deboli”, ci dice il primo cittadino di centrosinistra. “I sindaci lo chiedevano da molti anni, come peraltro è stato ribadito nel corso dell’ultima assemblea Anci”, dice Michele Guerra, sindaco “civico” di Parma, eletto nel giugno del 2022 alla testa di una coalizione larga di centrosinistra (dalla sinistra al Pd a Italia Viva), alludendo all’intervento del ministro della Giustizia Carlo Nordio sul reato di abuso d’ufficio, con cancellazione prevista nel disegno di legge approvato qualche giorno fa dal Consiglio dei ministri. “Nel 93 per cento dei casi le inchieste per abuso d’ufficio non arrivano nemmeno al giudizio”, ha detto il sindaco dem di Bari e presidente Anci Antonio Decaro. Ma ieri, durante l’intervento di apertura della direzione Pd, la segretaria Elly Schlein ha ribadito una linea tiepidissima in proposito. “Parlano prima di tutto i numeri, non per niente ricordati dall’Anci”, dice Guerra, già assessore nella Parma de-grillizzata di Federico Pizzarotti e già sostenitore di Stefano Bonaccini alle primarie del Pd. “E i numeri dimostrano”, dice Guerra, “che, nella grandissima maggioranza dei casi, rispetto all’accusa di abuso d’ufficio, il tutto si conclude con un nulla di fatto. I sindaci sono in prima linea e devono certo circondarsi di persone capaci che possano aiutarli a identificare preventivamente rischi e limiti della propria azione, ma questo è un paese dove la classe dirigente è impaurita e bloccata”. “Bisogna invece”, dice il sindaco di Parma, “ricostruirla, una classe dirigente anche giovane: è fondamentale. E bisogna avere, a mio avviso, il coraggio di dire che, dal punto di vista giuridico ma anche politico, l’abolizione del reato di abuso di ufficio viene incontro a un’esigenza molto sentita sul territorio. Sono d’accordo con l’ex ministro per la Funzione pubblica Franco Bassanini: la riforma dell’abuso d’ufficio è una battaglia di sinistra. La paralisi delle amministrazioni blocca interventi urgenti su sanità, scuola e politiche del lavoro, andando a colpire le fasce più deboli. E’ la velocità amministrativa che, al contrario, le garantisce”. La contrarietà di una parte della dirigenza Pd rispetto alla riforma e ora cancellazione dell’abuso d’ufficio, dice Guerra, “ha rischiato e rischia di far sentire inascoltati molti amministratori che si impegnano tutti i giorni sul campo e che avevano più volte segnalato il problema, chiedendo almeno di ragionare su una rimodulazione. Ora si parla di cancellazione: meglio così, dico io. E non si è meno di opposizione a questo governo dicendolo, fermo restando il mio rispetto per il dibattito interno al Pd. Ma, in un momento in cui c’è bisogno di rinsaldare il rapporto tra segreteria Pd e base territoriale, non so se sia utile porre distinguo, come in questo caso, su un argomento che sta così a cuore alla base territoriale. Al di là della dialettica politica interna, è importante far capire che si sta nel mondo reale”. Parma è, come si è detto, la città de-grillizzata per antonomasia, e Guerra è il sindaco civico del dopo: alle ultime amministrative il M5s parmense, viste le percentuali, non si è presentato. Com’è stata vista, da Parma, la presenza della segretaria pd Schlein nella piazza anti-precariato dell’ex premier Giuseppe Conte, sabato scorso, nel giorno delle polemiche per le frasi di Beppe Grillo sulla resistenza precaria con passamontagna? “Io non ci sarei andato, in piazza”, dice Guerra, “però credo che non si possa non parlare con il M5s, se si vuole costruire un centrosinistra di governo. Non c’è bisogno di rincorrerlo, ecco”. Il messaggio, per Schlein, intanto, è di “non dare per scontati i sindaci e neanche l’operato prezioso del corpo dirigente della Pa”, dice Guerra, “corpo dirigente fatto di persone che non hanno voce pubblica, ma che dovranno attivarsi in concreto in vista della messa a terra dei progetti via Pnrr”. Processo a Cospito, la sentenza slitta al 26 giugno. Il pg chiede l’ergastolo di Valentina Stella Il Dubbio, 20 giugno 2023 L’anarchico al 41bis potrebbe ottenere uno sconto di pena dopo l’apertura della Consulta. Il procuratore: “Non merita nulla”. È stata aggiornata al prossimo 26 giugno l’udienza del processo che vede imputati Alfredo Cospito e la sua ex compagna Anna Beniamino per il ricalcolo della pena per l’attentato alla scuola allievi carabinieri di Fossano, nel cuneese, avvenuto del 2006. Le esplosioni avvennero in orario notturno, e come sottolineato dalla difesa “non fu utilizzato materiale esplosivo ad alto potenziale” e il gesto “non solo non ha causato alcun morto, ma neppure alcun ferito”. Il giudice ha aggiornato a lunedì prossimo giorno in cui è prevista la sentenza. Il processo era stato sospeso a dicembre in quanto i giudici torinesi avevano chiesto che la Corte costituzionale si pronunciasse sul quarto comma dell’articolo 69 cp “nella parte in cui vieta al giudice di considerare eventuali circostanze attenuanti come prevalenti sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., nei casi in cui il reato è punito con la pena edittale dell’ergastolo”. La Consulta aveva dichiarato incostituzionale questa parte, aprendo la via per uno sconto di pena a Alfredo Cospito. Nonostante questo l’accusa ha chiesto comunque l’ergastolo per Cospito: “Non merita sconti” ha detto in particolare il pg Saluzzo, sottolineando che se l’attentato a Fossano non ebbe “l’effetto voluto, che era colpire un numero indeterminato di carabinieri, fu solo per un caso”. “La Corte costituzionale - ha aggiunto - ha aperto la strada alla possibilità di bilanciare attenuanti e aggravanti anche per il reato di strage politica. Ma nessuno di noi è obbligato a praticare sconti che non siano dovuti. E Cospito non merita nulla”. Per l’imputata Anna Beniamino, la richiesta è stata di 27 anni e un mese di reclusione. Diversa la valutazione da parte del legale di Cospito, Flavio Rossi Albertini: “Partiamo da un punto a nostro favore che è la decisione della Corte Costituzionale che ritiene praticabile il giudizio di prevalenza. La precedente Corte d’Assise d’Appello il 5 dicembre scorso ha emesso un’ordinanza con cui ritiene non solo sussistente l’attenuante ma anche che la stessa debba prevalere sulla recidiva reiterata. Oggi la Corte Costituzionale lo consente per cui speriamo che anche questa Corte mantenga la stessa linea interpretativa rispetto le richieste difensive per cui abbatta la pena nei termini di una proporzionalità adeguatezza e individualizzazione rispetto ai fatti effettivamente compiuti o attribuiti al mio assistito”. Il suo assistito ha preso la parola in videocollegamento dal carcere “duro” di Sassari, assistito dall’altra avvocata Maria Teresa Pintus. L’anarchico ha parlato per circa dieci minuti ed è stato richiamato dalla presidente affinché terminasse. “La mia vicenda è stata usata come una clava dal governo per colpire la cosiddetta opposizione “ ha detto l’uomo che piano piano si sta riprendendo da un lungo sciopero della fame “. Il 41 bis che mi avete inflitto è un trattamento sanzionatorio incostituzionale che contraddice le vostre stessi leggi, che stravolge il senso stesso della mia carcerazione imponendomi la censura insensata che limita il mio diritto alla difesa - ha aggiunto - è evidente a tutti come la mia vicenda processuale sia stata usata come una sorta di clava da parte politica, il governo, contro un’altra parte politica, la cosiddetta detta opposizione”. “Questi fatti sono strettamente legati a questo processo perché sono il prodotto delle dinamiche politiche passate che hanno portato alla nostra accusa e a una condanna spropositata per strage politica”. “Voleva uccidere, ergastolo per Cospito”. La procura rigetta la teoria della “lieve entità” di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 20 giugno 2023 La richiesta dei magistrati per l’anarchico accusato dell’attentato alla scuola carabinieri di Fossano. “Si voleva uccidere. E si voleva uccidere molto più di un carabiniere. Non si è trattato di 4 o 5 buchetti sul muro”. La pianificazione e l’esecuzione dell’attentato alla scuola allievi carabinieri di Fossano sono, per la Procura generale di Torino, la rappresentazione plastica di quella “strage politica” di cui sono accusati gli anarchici Alfredo Cospito e Anna Beniamino. Il 6 giugno 2006 davanti alla caserma deflagrarono due ordigni artigianali, simili a quelli “usati in Medioriente” e secondo un “meccanismo in crescendo”: il primo meno impattante a fare da esca, il secondo “rafforzato” carico di bulloni per colpire. Il caso decise che non vi fossero vittime. “L’imputato non era in grado di intervenire e bloccare l’operazione, una volta azionata la miccia non si tornava indietro”, ricordano il procuratore generale Francesco Saluzzo e il sostituto Paolo Scafi. Che al termine delle due ore di requisitoria ribadiscono la richiesta di condanna all’ergastolo (con isolamento diurno per 12 mesi) per Cospito e a 27 anni e un mese di reclusione per Anna Beniamino. Insomma, nessun passo indietro da parte dei magistrati che insistono sul massimo della pena per l’anarchico insurrezionalista, considerato l’ideologo della Fai/Fri. Piuttosto, sottolineano: “Cospito non merita alcuno sconto”. Facendo così riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale, che rispondendo a un’eccezione di legittimità sollevata dalla Corte d’assise d’appello aveva aperto la strada al bilanciamento tra l’attenuante della “lieve entità” e l’aggravante della “recidiva specifica” e di conseguenza a un verdetto alternativo rispetto al fine pena mai. “L’attentato - aggiungono - non ha fatto vittime perché i carabinieri non hanno capito cosa fosse successo al momento della prima esplosione. Altrimenti quando è deflagrato il secondo ordigno vi sarebbero stati almeno venti militari nel raggio di azione”. Chiosa Saluzzo: “L’atteggiamento della Procura generale non è di vendetta dello Stato nei confronti di Cospito, lo Stato non ha nulla di cui vendicarsi, lo Stato non si vendica nei confronti di alcuno. L’unica valutazione è sui fatti”. Puntano, invece, al riconoscimento dell’attenuante della “lieve entità” i difensori degli imputati. L’avvocato Flavio Rossi Albertini, che assiste Cospito, rimarca che oltre ai morti “non ci furono nemmeno grossi danni e che l’unica parte lesa è il cassonetto dell’immondizia”. Per poi ripetere che l’attentato non “avrebbe mai messo in pericolo l’ordinamento dello Stato”. “Quell’azione - è la punzecchiatura dell’avvocato Gianluca Vitale, difensore di Beniamino - fu talmente pericolosa per la sicurezza dello Stato che all’epoca se ne accorsero appena le cronache locali”. Da ultimo: “Confidiamo che la Corte mantenga la linea del “fatto lieve” e che decida di conseguenza”. I due imputati ascoltano in video-conferenza dalle carceri in cui sono rinchiusi. Entrambi prendono la parola prima che il processo si avvii a conclusione, scatenando così gli applausi dei compagni a cui è stato permesso di entrare in aula come rappresentanti del centinaio di anarchici che fin dal mattino stavano presidiando con striscioni e cartelli il Palazzo di giustizia. Il processo riprenderà il 26 giugno, quando è in programma la sentenza. Il procuratore ignora la Consulta: “Cospito non merita sconti: ergastolo” di Frank Cimini L’Unità, 20 giugno 2023 La Corte costituzionale aveva aperto alla possibilità di concedere le attenuanti, ma il Pg di Torino non molla. La sentenza slitta al 26. L’anarchico in aula: “Mia vicenda usata come una clava dal governo”. Alla ripresa del processo a carico dell’anarchico Alfredo Cospito il procuratore generale di Torino Piero Saluzzo fa l’irriducibile. Se ne frega ampiamente della decisione della Corte Costituzionale sulla possibilità di concedere le attenuanti e ribadisce la richiesta di ergastolo. “Cospito non merita sconti. L’attentato di Fossano non ebbe l’effetto voluto che era di colpire un numero indeterminato di carabinieri, ma fu solo per un caso. Cospito non merita nulla”. Per la coimputata Anna Beniamino la richiesta è di 27 anni di reclusione, come in precedenza. Il processo è stato aggiornato al 26 giugno per le repliche e per la sentenza. L’udienza è stata caratterizzata dalle dichiarazioni spontanee di Cospito: “La mia vicenda è stata usata come una clava dal Governo. Il 41 bis è la vera faccia della Repubblica”. L’anarchico ha citato i casi di detenuti morti negli ultimi tempi e ha spiegato di sentirsi moralmente responsabile del decesso di due persone entrate in sciopero della fame sull’onda della canea mediatica che si era sviluppata intorno al suo caso. “La mia vicenda usata come una clava contro un’altra parte politica, la cosiddetta opposizione. Il mio trasferimento in un’altra sezione in previsione dell’arrivo dei parlamentari del Pd è un esempio lampante di come il 41 bis sia stato strumentalizzato a fi ni politici”, ha concluso definendo ridicole le insinuazioni su un’alleanza tra mafiosi e anarchici. L’avvocato Flavio Rossi Albertini ha spiegato: “È un punto a nostro favore la decisione della Corte Costituzionale che ritiene praticabile il giudizio di prevalenza delle attenuanti. speriamo che questa corte d’Assise di Appello mantenga la stessa idea interpretativa per cui abbatta la pena nei termini di una proporzionalità adeguatezza e individualizzazione rispetto ai fatti effettivamente compiuti e attribuiti al mio assistito”. Cospito dopo il lunghissimo sciopero della fame ha ancora problemi a un piede ma sta meglio e cerca di recuperare una condizione accettabile ha aggiunto il legale secondo il quale Cospito non è particolarmente fiducioso ma attende l’esito del processo. Durante l’udienza arriva da Bologna una notizia non certo rassicurante. La procura ha aperto una inchiesta per associazione terroristica a carico di un gruppo di anarchici che avrebbe preso parte alla mobilitazione per Cospito all’epoca dello sciopero della fame. Gli anarchici sotto inchiesta sarebbero almeno sei. Cospito e il suo difensore intanto attendono che il Tribunale di Sorveglianza di Roma fissi la data dell’udienza sul ricorso contro il 41bis presentato dopo che il ministro della Giustizia Carlo Nordio non aveva risposto all’istanza apposita. Il ricorso era stato presentato il 23 marzo scorso. Evidentemente i giudici non hanno fretta perché Cospito, avendo interrotto lo sciopero della fame, non è più in pericolo di vita. Non considerano urgente l’udienza e la decisione sulla quale, in verità, sia Cospito sia il difensore non si fanno molte illusioni. In realtà a revocare il 41bis può essere solo Nordio, che però non vuole arretrare rispetto a quanto deciso da Marta Cartabia il 22 maggio del 2022. Cospito: “Processo usato come clava dal governo Meloni contro l’opposizione” di Carmine Di Niro L’Unità, 20 giugno 2023 Si riapre oggi il processo nei confronti di Alfredo Cospito, l’anarchico che attende il verdetto dei giudici sull’attentato alla caserma dei Carabinieri di Fossano (Cuneo) del 2006, quando Cospito e la sua compagna Anna Beniamino piazzarono due ordigni a basso potenziale nei pressi della struttura nella notte tra il 2 e il 3 giugno, esplosioni che non causarono vittime o feriti. Saranno la Corte d’Assise d’Appello, presieduta dalla giudice Alessandra Bassi, e una nuova giuria popolare a esprimersi circa il reato di strage politica contestato a Cospito. Strage che per il legale dell’anarchico, Flavio Rossi Albertini, non ha motivo di essere contestata: quegli ordini non ferirono o uccisero nessuno. Di diverso avviso l’accusa, che sostiene come la trappola non si rivelò mortale solo perché i Carabinieri confusero il boato della prima esplosione con un incidente d’auto, restando quindi in caserma. A decidere su Cospito sarà la Corte d’Assise d’Appello, presieduta dalla giudice Alessandra Bassi, e una nuova giuria popolare. Discussione che torna in Aula dopo uno stop di sei mesi dovuto all’attesa della decisione della Consulta sull’ergastolo ostativo. I giudici della Corte Costituzionale si sono espressi a favore dell’imputato, autorizzando la possibilità di riconoscergli l’attenuante della lieve entità. Proprio contro l’ergastolo ostativo e il 41 bis Cospito aveva proclamato un lungo sciopero della fame: dal 20 ottobre al 19 aprile, per 182 giorni, l’anarchico aveva fatto parlare di sé e delle condizioni dei detenuti al 41 bis interrompendo la sua alimentazione. Un digiuno interrotto solo dopo il verdetto della Consulta, che aveva ritenuto illegittimo l’articolo del codice che vietava al giudice “di considerare eventuali circostanze attenuanti come prevalenti sulla circostanza aggravante della recidiva nei casi in cui il reato è punito con la pena edittale dell’ergastolo”. Il procuratore generale di Torino Piero Saluzzo aveva chiesto l’ergastolo per Cospito, che ora rischia dopo la scelta della Consulta una condanna tra i 20 e i 24 anni di reclusione. Nella sua richiesta di ergastolo per l’anarchico, il pg Saluzzo ha rimarcato che Cospito “non merita sconti” sottolineando che se l’attentato a Fossano non ebbe “l’effetto voluto, che era colpire un numero indeterminato di carabinieri, fu solo per un caso”. “La Corte costituzionale” ha aggiunto “ha aperto la strada alla possibilità di bilanciare attenuanti e aggravanti anche per il reato di strage politica. Ma nessuno di noi è obbligato a praticare sconti che non siano dovuti. E Cospito non merita nulla”. Per l’imputata Anna Beniamino, detenuta nel carcere di Sanremo, la richiesta è stata di 27 anni e un mese di reclusione Cospito e la compagna Anna Beniamino dovrebbero comparire in video collegamento dal carcere: Beniamino, difesa dall’avvocato Gianluca Vitale, è detenuta a Rebibbia mentre Cospito, dopo il trasferimento nel periodo più critico per la sua saluta nel carcere milanese di Opera, è tornato a Sassari. Nel suo intervento, nove minuti di dichiarazioni spontanee, Cospito ha sottolineato che il 41 bis che gli è stato inflitto “è un trattamento sanzionatorio incostituzionale che contraddice le vostre stessi leggi, che stravolge il senso stesso della mia carcerazione imponendomi la censura insensata che limita il mio diritto alla difesa” ha osservato “è evidente a tutti come la mia vicenda processuale sia stata usata come una sorta di clava da parte politica, il governo, contro un’altra parte politica, la cosiddetta opposizione”. “Il mio trasferimento all’ultimo momento da una sezione ad un’altra in previsione dell’arrivo dei parlamentari Pd ne è un esempio lampante che “ha aggiunto Cospito nelle sue dichiarazioni “dimostra come sta stata strumentalizzato il Dap e il 41 bis per fini politici”. “Questi fatti sono strettamente legati a questo processo perché sono il prodotto delle dinamiche politiche passate che hanno portato alla nostra accusa e a una condanna spropositata per strage politica. Tapparmi ora la bocca nell’unico momento in cui mi posso difendere vorrebbe dire avallare questa deriva pericolosa e totalitaria”, ha detto ancora l’anarchico ricordando, poi, le morti di detenuti che erano richiusi anch’essi in regime di 41 bis morti che “sono legate all’impunità del regime in cui da un anno mi tocca lottare e sopravvivere per non soccombere”, ha concluso l’anarchico. Cospito ha infine dichiarato che “il 41 bis è un regime carcerario utilizzato per mettere il bavaglio a una generazione di mafiosi che lo Stato ha usato e poi tradito rinchiudendoli qui sino alla morte per tappare loro la bocca ed evitare che emergano i segreti oscuri della Repubblica”. La sentenza era attesa ieri, ma è stata rinviata invece al 26 giugno. Marche. Volontariato in carcere, il Garante: “Realtà insostituibili” anconatoday.it, 20 giugno 2023 Il Garante Giancarlo Giulianelli fa il punto della situazione con i rappresentanti delle associazioni di volontariato che operano negli istituti penitenziari marchigiani. “Realtà insostituibile” come la definisce “che opera con dedizione sopperendo in molti casi alle numerose criticità che gravano sull’intero sistema”. Nel corso dell’incontro prese in esame diverse problematiche sulle quali si sta lavorando per trovare una soluzione. In primo piano, ancora una volta, la questione sanitaria collegata in modo diretto alla carenza di personale. A Montacuto e Barcaglione si registrano delle disfunzioni per quanto riguarda la prenotazione delle visite esterne in relazione a patologie che richiedono controlli periodici. A monte di tale situazione l’impossibilità di poter garantire una scorta, considerato il non sufficiente numero degli agenti di polizia penitenziaria presenti negli istituti. Altra questione quella legata all’attività dei patronati che, anche dopo l’emergenza pandemica, hanno difficoltà ad entrare in carcere e non c’è quindi la possibilità di attivare le certificazioni necessarie per le invalidità, gli aggravamenti delle patologie, le pensioni da attivare in presenza di condizioni particolari. Anche il Sio (Sportello informativo e di orientamento) di Ancona stenta a soddisfare tutte le esigenze a cui, nei limiti delle possibilità, fa fronte il volontariato largamente inteso. In sede di Conferenza nazionale del volontariato in carcere sarà affrontata, quanto prima, anche la questione inerente le telefonate che i detenuti possono fare alle famiglie, ipotizzandone una alla settimana invece che ogni quindici giorni come previsto attualmente. Per quanto riguarda le attività trattamentali, mentre in alcuni istituti possono vantare un andamento costante e positivo, in altri stentano a partire o sono assenti, sia per mancanza di fondi che di spazi adeguati. In primo piano i casi di Marino del Trono e Fermo, sui quali più volte si è soffermato il Garante. Da considerare, non da ultimo, che per quanto riguarda l’istituto di Ascoli Piceno viene a mancare ormai da tempo una titolarità effettiva nella direzione, che viene esercitata contemporaneamente con quella di Fermo. Nota positiva è che sono state finalmente nominate in pianta stabile le educatrici. Nel complesso attraverso tutti gli interventi è stata ribadita la necessità di iniziative che tendano ad aumentare la qualità della vita in carcere e che diano sostanza alla sua valenza rieducativa. “E’ un presupposto fondamentale “ dice il Garante “ se vogliamo dare una seconda opportunità a chi ha sbagliato e se vogliamo che il suo reinserimento nella società sia effettuato con equilibrio e consapevolezza onde evitare ulteriori errori”. Velletri (Rm). Detenuto ucciso dal compagno di cella con problemi psichiatrici di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 20 giugno 2023 L’aggressore era in attesa di essere trasferito presso una struttura Rems. Fra i due non c’erano mai stati problemi. Tragedia nel carcere di Velletri. Un detenuto è stato ucciso dal compagno di cella con problemi psichiatrici sembra al culmine di una lite per motivi tuttora da chiarire. Gli agenti della polizia penitenziaria sono subito accorsi, nella giornata di lunedì scorso, ma la vittima era già deceduta. Sulle indagini c’è il massimo riserbo. La notizia di quanto accaduto dietro le sbarre è stata resa nota dai sindacati della Penitenziaria. L’omicidio è stato commesso da un recluso che aveva già aggredito un poliziotto in passato, “nel contesto di una situazione penitenziaria sempre più critica e allarmante”, commenta Maurizio Somma, segretario nazionale per il Lazio del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe mentre per il segretario generale Donato Capece è necessario ripensare completamente la questione penitenziaria: “Quanto accaduto nel carcere di Velletri deve necessariamente far riflettere per individuare soluzioni a breve ed evitare che la polizia penitenziaria sia continuo bersaglio di situazioni di grave stress e grande disagio durante l’espletamento del proprio servizio. Il disagio mentale, dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, è stato riversato nelle carceri, dove non ci sono persone preparate per gestire queste problematiche, mancano strutture adeguate e protocolli operativi. La polizia penitenziaria non ce la fa più a gestire questa situazione e nei prossimi giorni valuterà se indire lo stato di agitazione”. Secondo Capece “l’effetto che produce la presenza di soggetti psichiatrici è causa di una serie di eventi critici che inficiano la sicurezza dell’istituto oltre all’incolumità del poliziotto penitenziario. Queste sono anche le conseguenze di una politica miope ed improvvisata, che ha chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari senza trovare una valida soluzione su dove mettere chi li affollava. Gli ospedali psichiatrici giudiziari (opg) devono riaprire, meglio strutturati e meglio organizzati, ma devono di nuovo essere operativi per contenere questa fascia particolare di detenuti. Da quando sono stati chiusi, le carceri si sono riempite di detenuti affetti da gravi problemi psichiatrici. Ormai in ogni carcere decine e decine di detenuti con gravi problemi psichiatrici vengono ospitati normalmente nelle sezioni detentive, e spesso sono ubicati nelle celle con altri detenuti che non hanno le stesse difficoltà. Di conseguenza, i poliziotti penitenziari, oltre a essere costretti a gestire la sicurezza delle carceri in grave carenza di organico, come avviene nel Lazio, devono affrontare da soli questi squilibrati senza alcuna preparazione e senza alcun aiuto. Non è corretto soltanto ammettere l’esistenza della questione dei detenuti con problemi psichiatrici e poi far solo finta di aver risolto un problema che invece sta esplodendo sempre di più nella sua drammaticità”. Il sindacato sottolinea infine Il Sappe evidenzia infine “come questi detenuti sono responsabili di vero e proprio vandalismo all’interno delle celle, dove vengono disintegrati arredi e sanitari, ponendoli nella condizione pure di armarsi con quanto gli capita per le mani e sfidare i poliziotti di vigilanza. Il carcere non può custodire detenuti di questo tipo, a meno che non vi sia un notevole incremento di organico della Polizia Penitenziaria e di specialisti di patologie psichiatriche”. Secondo Massimo Costantino, segretario generale della Fns Cisl Lazio il recluso “era in attesa di essere collocato in Rems: il problema di queste strutture non riguarda l’Amministrazione penitenziaria e tantomeno il personale dato che le competenze sono esclusivamente delle Asl . Occorre intervenire e modificare la legge sulle Rems perché, cosi come scritta, a rischiare sono solo il personale di Polizia Penitenziaria e i dirigenti e funzionati del Corpo”. Per la Fns Cisl Lazio “tali detenuti non devono stare in carcere ma in strutture ospedaliere idonee curati e non certo vigilati a vista dalla polizia penitenziaria, a cui non spetta tale compito ma ad altre strutture e professionalità- e qui che la politica e le Asl sono assenti cioè fanno finta di nulla- occorre fare ancora tanto da quando sono state chiusi gli Opg - come se il problema non esistesse, scaricando il problema alla Penitenziaria”. Napoli. Clochard picchiato a morte da due persone. Al vaglio le telecamere della zona La Stampa, 20 giugno 2023 Le telecamere di sorveglianza della zona hanno ripreso tutta la scena dell’omicidio e potrebbero aiutare i carabinieri a individuare gli autori dell’aggressione mortale. Si indaga anche su una baby gang della zona. Non è stato ancora identificato l’uomo, molto probabilmente un clochard, vittima di un pestaggio a Pomigliano D’Arco (Napoli). Secondo una prima ricostruzione dei carabinieri, sarebbe stato pestato in strada, forse da due giovani. Avrebbe camminato per qualche metro fino ad accasciarsi all’interno di una corte condominiale, luogo in cui è stato soccorso ancora in vita. Non è, quindi, stato picchiato mentre dormiva. L’uomo è morto al pronto soccorso, nell’ospedale di Nola. Al momento non sono note le motivazioni: i carabinieri stanno ricostruendo i momenti immediatamente antecedenti il suo pestaggio. La salma è stata sequestrata per l’autopsia. I carabinieri della compagnia di Castello Di Cisterna indagano per ricostruire la dinamica e risalire ai responsabili. Le telecamere di sorveglianza della zona hanno ripreso tutta la scena dell’omicidio e potrebbero aiutare i carabinieri a individuare gli autori dell’aggressione mortale. Si indaga anche su una baby gang della zona. Torino. I detenuti diventano operatori ecologici: aiuteranno a pulire la città di Gioele D’Urso torinotoday.it, 20 giugno 2023 I detenuti del carcere Lorusso e Cutugno verranno impiegati da Amiat per svolgere alcuni lavori di pulizia della città. È una delle possibilità previste da un protocollo che a breve la Città di Torino stipulerà con l’amministrazione carceraria e il provveditorato regionale. Verrà così data la possibilità a chi sta scontando una pena di avviare un’attività lavorativa fuori dal carcere. Il protocollo prevedrà due percorsi: il primo rivolto a chi deve scontare reati inferiori ai tre anni per progetti previsti dalla riforma Cartabia che creano forme alternative alla pena; il secondo invece volto a creare esperienze lavorative per i detenuti. Si tratta di un protocollo quadro al quale dovranno seguire accordi specifici con le diverse aziende, tipo per esempio Amiat. “C’è la piena disponibilità a questo tipo di iniziativa”, spiega Gianluca Riu, amministratore delegato di Amiat, “I dettagli potranno essere definiti nel protocollo ma noi potremo mettere a disposizione l’addestramento, i corsi di formazione obbligatori, dotazioni di disposizioni di protezione individuale, messa a disposizione degli spogliatoi, abbigliamento e organizzazione dell’attività sul territorio”. In totale potranno essere una trentina i detenuti che Amiat potrà coinvolgere. “La legge Cartabia del 2022 dà la possibilità della pena alternativa per chi sconta pene non superiori di tre anni e il detenuto non sia recidivo. Il lavoro di pubblica utilità è gratuito ed è rivolto alla comunità”, spiega Simone Fissolo, consigliere comunale del gruppo dei Moderati, che ha presentato una mozione specifica sul progetto, “Più volte il Sindaco ha suonato l’allarme della pulizia della Città. Unendo dunque le due necessità, da un lato sviluppare le politiche per contrastare l’aumento della recidiva dei detenuti, dall’altro aumentare la forza lavoro che si occupa della cura della Città. La politica se orientata alla persona e al bene comune risolve problemi e combatte l’esclusione sociale”. Un progetto simile era già stato attivato nel 2015 durante l’amministrazione comunale guidata da Piero Fassino. Ovviamente i detenuti faranno un lavoro di rafforzamento delle mansioni già svolte dagli operatori di Amiat. Padova. Dalla musica in carcere nasce la mostra dei detenuti-artisti Corriere del Veneto, 20 giugno 2023 Ideatore il direttore d’orchestra Nicola Guerini. Dall’esperienza dell’ascolto della musica classica dentro il carcere, nasce la mostra che domani viene inaugurata a Padova, a Palazzo Zuckermann (ore 11.30), nella Giornata Mondiale della musica. Si intitola I Segni dell’anima. Percorsi cromatici dentro il suono, curata da Silvia Prelz, Maurizio Longhin e Nicola Guerini, in collaborazione con Maurizio Bruno, la mostra è ispirata ai laboratori “I Suoni della Bellezza”, ideati dal direttore d’orchesta veronese Nicola Guerini nelle carceri. Musica che si trasforma in dipinti, ispira i detenuti, riesce a fare uscire emozioni che si trasferiscono sulla tela. In mostra a Padova le opere dei detenuti, quadri che parlano di dolore, fallimento, ma anche di commozione, sorrisi, voglia di rinascita. Guerini, direttore d’orchestra e divulgatore, da anni promuove l’ascolto della musica in carcere, come percorso educativo che genera empatia e libera emozioni. Il progetto, con la collaborazione del Rotary Club Verona e dell’Inner Wheel Padova, è divenuto protocollo con il Provveditorato di Padova per 16 istituti penitenziari del Triveneto. La mostra resterà aperta al pubblico fino a sabato 24 giugno, oltre 40 elaborati realizzati con tecnica mista, un grande mosaico nato dall’ascolto delle pagine di Mozart, Händel, Ravel, Debussy, Musorgskij, Barber e molti altri. Domani alle 17.30 in Sala Paladin di Palazzo Moroni l’incontro “Una pedagogia della Bellezza”, il racconto dei risultati del laboratorio di musica classica nelle carceri di Padova, Verona e Treviso “La musica è linguaggio universale che guida nei luoghi dell’anima - sottolinea il maestro Nicola Guerini. - È universale perché i suoi codici sono decifrabili da tutti indipendentemente dalla cultura, la lingua, la religione. Ma il suo insegnamento più grande è l’ascolto. Un ascolto consapevole che abbatte le barriere e si trasforma in dialogo per una nuova modalità di convivenza”. Livorno. “Racconti dal Carcere”, il libro a fumetti fatto dai detenuti livornopress.it, 20 giugno 2023 Con la realizzazione del volume “Racconti dal carcere. Storie a fumetti” si è concluso il laboratorio di grafica a fumetti condotto, dal novembre 2022 al maggio scorso, nella sezione di media sicurezza della Casa Circondariale di Livorno. “È questa” dichiara l’assessore Raspanti “una opportunità che è stata data alla popolazione penitenziaria sul nostro territorio e anche alla città di gettare un nuovo ponte verso l’esterno per creare occasioni di frequentazione, anche se mediata e, quindi, di comprensione reciproca maggiore. Il mondo del carcere è sempre un mondo misconosciuto e frainteso, è un mondo estremamente complesso, è un mondo che ha bisogno di uscire fuori, prima che arrivi il momento in cui il detenuto può uscire proprio perché quell’uscita fuori non diventi un evento traumatico che è il preludio di un nuovo ingresso, come succede nella maggior parte dei casi. L’importanza di queste iniziative, che sono iniziative di socializzazione, è quindi fondamentale e lo scopo deve essere quello di moltiplicarle a maggior ragione in un momento in cui la casa circondariale di Livorno sta affrontando un periodo davvero difficile di emergenza. Il progetto, realizzato dal Comune di Livorno insieme al comitato territoriale di Arci Livorno, al Garante dei diritti dei detenuti Marco Solimano, alla Casa Circondariale di Livorno, è stato curato da Daniele Solari e Francesca Nencioni. Scopo del percorso è stato quello di fornire ai partecipanti le basi del disegno prospettico ed anatomico per poi approfondire le regole dello storytelling applicato al fumetto, per poter creare un racconto breve ma incisivo che riuscisse a trasmettere le storie, i sogni e le aspettative dei partecipanti. La pubblicazione è stata presentata dall’assessore al Sociale Andrea Raspanti; dal Garante dei diritti dei detenuti Marco Solimano; dalla responsabile dell’Area Trattamentale della Casa Circondariale di Livorno Marcella Gori; dal presidente di Arci Livorno Alessio Simoncini. Presenti anche Daniele Solari e Francesca Nencioni che hanno condotto il corso. Fin dall’inizio è emerso nei partecipanti la voglia di raccontare storie dai forti elementi autobiografici, ma anche di rivalsa personale, dal viaggio verso l’Italia al sogno di diventare un calciatore di successo. “Questa pubblicazione “afferma il Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Livorno Marco Solimano “ci consegna storie, sofferenze, sogni, aspettative. Pezzi di vita raccontati attraverso tavole illustrate, un mezzo potente ed universale per comunicare e rappresentare le proprie esistenze ed i propri vissuti, una forma di comunicazione immediata e ricca di spunti e riflessioni”. Figli di coppie gay, la procura di Padova impugna 33 atti registrati dal 2017 ad oggi di Francesca Spasiano Il Dubbio, 20 giugno 2023 La decisione arriva dopo lo stop del Viminale alle trascrizioni: a rischio gli atti di nascita con due mamme. La conseguenza più clamorosa dello stop imposto dal Viminale alla registrazione dei bimbi nati da coppie omogenitoriali arriva a Padova, dove la procura ha impugnato 33 atti di nascita trascritti dal sindaco Sergio Giordani dal 2017, anno a partire dal quale l’amministrazione di centrosinistra ha scelto questa strada. I casi in esame riguardano tutti figli nati da due mamme: secondo quanto riporta Repubblica, in questi giorni sono arrivati gli atti giudiziari con i quali la procura chiede al tribunale di rettificare i documenti recanti anche la madre non biologica. Nell’atto di nascita resta l’unico genitore riconosciuto automaticamente, quello biologico. Via il cognome e il nome dell’altro, che potrà richiedere eventualmente l’adozione in casi particolari, secondo la sentenza della Cassazione del dicembre 2022 a cui il governo fa seguire la circolare del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi dello scorso marzo. La decisione del governo aveva già scaturito la rivolta dei sindaci, che da Milano a Roma hanno rivendicato la facoltà di proseguire nella trascrizione degli atti di nascita dei bimbi che non siano nati tramite maternità surrogata. Mentre la circolare del Viminale fa riferimento a tutte le ipotesi di filiazione. “Si tratterebbe di una crudeltà contro il supremo interesse del minore. Torno a ribadire l’urgenza di una legge: ci sono famiglie consolidate con figli che oggi rischiano di perdere uno dei due genitori”, aveva commentato Alessandro Zan, deputato e membro della segreteria nazionale del Pd con delega ai diritti, lo scorso aprile, quando la Procura di Padova aveva chiesto gli atti al Comune. “Sono sereno e convinto delle scelte fatte. Dal 2017 trascrivo gli atti di nascita delle bambine e dei bambini figli di due mamme. È un atto di responsabilità verso questi piccoli perché non accetto il pensiero che ci siano bambini discriminati fin da subito e appena nascono nei loro fondamentali diritti”, ha dichiarato in una nota il sindaco di Padova. Della registrazione di figli nati da coppie omogenitoriali si è parlato anche alla Camera in occasione della discussione generale sulla proposta di legge di Fratelli d’Italia che mira a rendere la maternità surrogata reato universale. Una tema strettamente legato al riconoscimento dei bambini nati tramite Gpa, i cui genitori potrebbero rischiare il carcere. “Nessun bambino rischia di essere discriminato, e noi naturalmente non lo permetteremo”, ha assicurato Carolina Varchi, relatrice della proposta di legge di Fratelli d’Italia. “La legge non depotenzierà in alcun modo questo istituto”, ha aggiunto Varchi con riferimento all’adozione in casi particolari. Un iter lungo e dispendioso secondo le opposizioni, che chiedono invece di legiferare in materia secondo il monito della Corte Costituzionale, che ha invitato il Parlamento ha sopperire al “vuoto di tutela” in cui si trova il minore nato da coppia omogenitoriale. “Si espone bimbi e bambine a un marchio di infamia”, ha sottolineato in Aula la dem Laura Boldini. Di stesso parere il segretario di +Europa Riccardo Magi, per il quale lo “stigma” del reato universale finirebbe inevitabilmente per marchiare i bimbi nati tramite Gpa come figli “del crimine”. “La maternità surrogata come reato universale è un abominio giuridico” di Francesca Spasiano La Stampa, 20 giugno 2023 Al via la discussione generale alla Camera sulla pdl di Fratelli d’Italia, le opposizioni promettono battaglia: “È incostituzionale”. A Montecitorio la protesta delle coppie che hanno fatto ricorso alla Gpa. “Abominio giuridico”; “legge bandiera”; “pura propaganda fatta sulla pelle dei bambini”; “omofobia istituzionale”. Così le opposizioni bollano la proposta di legge sulla maternità surrogata presentata da Fratelli d’Italia, che vorrebbe estendere la perseguibilità del reato anche quando questo è commesso all’estero da un cittadino italiano. Il cosiddetto “reato universale”, sul quale è cominciata la discussione generale alla Camera. “Questa proposta di legge non interviene sullo stato civile, ma su una sanzione penale già esistente nel nostro Paese. Non è retroattiva e nessun bambino verrà discriminato in Italia”, ha sottolineato Carolina Varchi, relatrice della pdl, alludendo a uno dei temi più dibattuti in relazione alla Gpa: la trascrizione all’anagrafe dei figli nati da coppie omogenitoriali. “Riteniamo assolutamente congruente con il nostro ordinamento - ha aggiunto l’esponente di Fdi - l’adozione in casi particolari e riteniamo che questa proposta di legge non possa in alcun modo depotenziare questo istituto. Troppi equivoci si sono addensati su questa proposta di legge, che ha l’obiettivo di tutelare la libertà e la dignità delle donne, e il concetto di maternità”. Di segno opposto l’intervento di Riccardo Magi, segretario di +Europa, che ha preso parola in Aula in qualità di relatore di minoranza. Dopo aver illustrato i motivi per i quali la proposta è da ritenersi una “forzatura politica” priva di una “reale portata normativa”, Magi ha rilanciato la propria proposta di legge sulla Gpa solidale, un testo elaborato dall’Associazione Coscioni e presentato qualche giorno fa anche a Palazzo Madama dal senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto. “C’è una parte di quest’Aula che vi considera genitori, non criminali”, ha detto Magi brandendo un cartello di protesta. Il messaggio è indirizzato alle famiglie che hanno fatto ricorso alla Gpa e che si sono riunite sotto Montecitorio insieme all’Associazione Coscioni per protestare contro il “reato universale”. La pdl firmata da FdI consta di un solo articolo e interviene sulla legge 40 del 2004, che punisce con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600mila euro a un milione di euro “chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità”. Per le opposizioni si tratta di un provvedimento incostituzionale, oltre che inapplicabile, perché pretenderebbe il primato del diritto nazionale su quello internazionale, laddove in alcuni paesi come il Canada e l’Inghilterra la pratica è considerata legale. Il reato inoltre potrebbe legarsi all’importazione di gameti per la fecondazione eterologa, ostacolando di fatto una pratica del tutto legale in Italia. A sollevare il tema è il deputato pentastellato Andrea Quartini, per il quale quella di Fratelli d’Italia è una “norma ultrainvolutiva e antiscientifica” che finirebbe per mettere al bando i percorsi di pma, dal momento che il rimborso alle cliniche che donano i gameti potrebbe considerarsi “commercializzazione”. Di furia ideologica ha parlato anche Chiara Appedino, che ha portato in aula l’esperienza delle coppie i cui figli sono stati registrati all’anagrafe quando era sindaca di Torino. “Gettate la maschera: gay, lesbiche e transessuali non vi piacciono. Sarebbe meno squallido se lo ammetteste”, ha accusato Appendino rivolgendosi ai banchi della maggioranza. Dai quali invece è emersa la posizione compatta di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, che definiscono la maternità surrogata “la schiavitù del terzo millennio”. “Un bambino ha diritto ad avere una mamma e un papà, due persone hanno diritto a volersi bene, e a volersi bene come vogliono. Ma non si può negare il rapporto tra madre e figlio”, ha scandito Stefano Candiani, Lega. “Ho sentito delle cose ignobili in quest’Aula”, ha attaccato per il Pd Alessandro Zan, che denuncia un “attacco potentissimo alle famiglie Lgbt+”. Di mercificazione del corpo della donna ha parlato invece Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra, che da “ecofemminista” ha ribadito la ferma condanna della Gpa, definendo tuttavia la proposta di FdI una “legge-manifesto senza nessuna conseguenza sul fenomeno”. Duro l’intervento di Laura Boldini, che invece ha parlato di “deriva ideologica alla polacca” e di legge da “Stato etico” che la “nazione Melonia vorrebbe estendere a tutto il globo terracqueo”. Rifugiati, più permessi: 384mila in Europa. Primi i tedeschi, Italia terza di Paola D’Amico Corriere della Sera, 20 giugno 2023 I dati Ismu: nel 2022 in Europa concesso il 40 per cento dei permessi di protezione in più rispetto all’anno precedente. Le crisi in Ucraina e Siria. I Paesi dell’Europa, nel 2022, hanno concesso ai rifugiati il 40% dei permessi di protezione in più rispetto all’anno precedente, accogliendo in tutto 384.245 richiedenti asilo su 850mila domande presentate e cioè il 45%. A fornire i dati è Fondazione Ismu (www.ismu.org) in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, che si celebra martedì 20 giugno. Il 44% degli stessi richiedenti ha ricevuto lo status di rifugiato (più 22% rispetto al 2022), il 31% ha ottenuto la protezione sussidiaria (più 48%) - il permesso ha cioè una durata di 5 anni ed è rinnovabile - e il 25% la protezione umanitaria che include anche la protezione speciale (più 72%). In Europa è la Germania il paese Ue che ha rilasciato il maggior numero di permessi di protezione (160mila, il 41% del totale dell’Ue) mentre l’Italia è terza con 40mila esiti positivi (il 10% del totale Ue), preceduta dalla Francia (50mila, 13%) e seguita dalla Spagna (36mila, 9%). Insieme, questi quattro Paesi hanno accolto il 73% delle richieste di protezione a livello europeo. La crisi Ucraina - Ai 384.245 permessi di protezione concessi nella Ue, sempre nel 2022, si aggiungono gli oltre 4 milioni di permessi per protezione temporanea rilasciati a cittadini ucraini in fuga dal conflitto. Ad aver registrato il maggior numero di beneficiari ucraini di protezione temporanea (1.561.700) è stata la Polonia, seguita dalla Germania (777mila) e dalla Repubblica Ceca (458mila). L’Italia, al quinto posto con 150mila permessi di protezione temporanea a ucraini in fuga. Il gruppo nazionale più numeroso che ha ottenuto una qualsiasi forma di protezione in Europa nel 2022 è quello dei siriani seguiti da afghani, venezuelani e iracheni, mentre in Italia sono stati soprattutto nigeriani, pakistani, afghani e bangladesi i gruppi più numerosi ad avere ricevuto esiti positivi alle domande di protezione. Sul totale delle decisioni positive, lo status di rifugiato “ il più alto riconoscimento di protezione - nel nostro Paese invece ha sempre registrato incidenze minori, 20% in media nei 10 anni considerati (21% nel 2022), mentre in Ue lo status di rifugiato è mediamente riconosciuto al 50% dei richiedenti a cui viene concessa una protezione (il 44% nel 2022). Ciò è dovuto in gran parte alla nazionalità dei richiedenti asilo che registrano tassi di riconoscimento molto differenti: bangladesi, pakistani, egiziani, tunisini e nigeriani, sebbene numericamente molto importanti nel nostro Paese tra i richiedenti asilo, ottengono esiti positivi alla domanda di protezione (qualsiasi tipo di protezione) inferiori rispetto a nazionalità numericamente più numerose in altri Paesi UE, come i siriani, gli afghani, colombiani e venezuelani. Considerando le due principali forme di protezione “rifugiato e sussidiaria - in Italia nel 2022 le nazionalità che hanno registrato la percentuale di status di rifugiato sul totale delle decisioni positive maggiore sono state quella afghana (75%), quella somala (42%), quella irachena (27%) e quella salvadoregna (24%). Sempre nel 2022, nel totale dei Paesi UE la percentuale maggiore con status di rifugiato si riscontra invece tra i turchi (91%), seguiti da eritrei (80%), cittadini della Repubblica Democratica del Congo (75%), guineani (70%) e ivoriani (67%). Nella UE, tra i paesi in cui ha prevalso il riconoscimento della protezione sussidiaria (concessa generalmente a chi proviene da paesi in guerra) ci sono oltre all’Ucraina (94% sul totale di esiti positivi), la Siria (63%) e il Mali (79%). Nel caso dei venezuelani “che sono stati accolti soprattutto in Spagna - si è registrata un’alta percentuale di permessi per motivi umanitari che è presente solo in alcune legislazioni nazionali. In Italia la protezione sussidiaria ha riguardato soprattutto ucraini, venezuelani, maliani e iracheni. Migranti. Il Tar: legittimo assegnare porti lontani alle Ong di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 giugno 2023 Respinti due ricorsi presentati da Medici senza frontiere. Il Tribunale amministrativo del Lazio ha respinto due ricorsi di Medici senza frontiere (Msf) dando ragione al Viminale. L’organizzazione non governativa aveva contestato l’assegnazione di porti lontani, quelli di Ancona e La Spezia, a seguito di due soccorsi effettuati nel Mediterraneo centrale, a centinaia di chilometri dal luogo di sbarco indicato dalle autorità italiane. Per il Tar è “evidente e innegabile” che spetti al ministero dell’Interno decidere in quale porto devono toccare terra i migranti salvati perché le “operazioni di soccorso vanno inquadrate nel più ampio e complesso contesto del fenomeno migratorio via mare”. La sentenza nega che il porto sicuro debba coincidere automaticamente con quello più vicino perché “manca una definizione chiara ed internazionalmente condivisa” dello stesso. Le autorità italiane si sarebbero dunque comportate in maniera corretta, anche perché la Geo Barents è una nave idonea ad affrontare in sicurezza il lungo tragitto e da bordo non erano state segnalate situazioni di urgenza. Non è la prima volta che in sede amministrativa il giudice dà torto alle Ong, a differenza di quanto avvenuto finora in tutti i procedimenti penali contro i soccorritori. La sentenza rischia di essere un duro colpo per le organizzazioni attive nel Mediterraneo centrale. Da dicembre dello scorso anno l’Italia ha messo in campo una nuova strategia per ostacolarne le missioni: indicare un porto lontano subito dopo il primo soccorso. A tutela di questa prassi sono poi state introdotte alcune misure punitive dal decreto Piantedosi di gennaio, successivamente convertito in legge (finora ha portato al fermo di quattro imbarcazioni per circa tre settimane ciascuna). In questo modo le navi umanitarie sono tenute lontano dalla zona di ricerca e soccorso per molti giorni e riescono a portare al sicuro un numero inferiore di persone. Nel frattempo, comunque, gli sbarchi sono aumentati. “Spiata dai servizi segreti”: Kaili denuncia l’Europarlamento di Simona Musco Il Dubbio, 20 giugno 2023 L’ex vicepresidente sarebbe stata “monitorata durante la sua attività con la commissione Pegasus, che indagava sull’utilizzo di software spia per sorvegliare eurodeputati e cittadini europei”. “Spiata dai servizi segreti”. È questa la denuncia che arriva nei confronti dell’Eurocamera dall’ex vice presidente del Parlamento europeo, Eva Kaili, arrestata e da pochi giorni di nuovo in libertà nell’ambito dell’inchiesta del Qatargate. Kaili è stata quattro mesi in cella e due ai domiciliari, accusata di aver fatto parte di un’organizzazione criminale finalizzata al riciclaggio di denaro, corruzione e concussione che prevedeva il pagamento di “ingenti somme di denaro” da Qatar e Marocco, per influenzare i processi politici comunitari. Secondo la politica greca, però, dietro l’indagine si celerebbe un gioco ben più complesso, nel cui ambito i servizi l’avrebbero “monitorata durante la sua attività con la commissione Pegasus, che indagava sull’utilizzo di software di spionaggio per sorvegliare eurodeputati e cittadini europei”. L’ex vice presidente aveva anticipato tali indiscrezioni già nell’intervista rilasciata dopo la sua scarcerazione al Corriere della Sera, al quale aveva sottolineato che “dal fascicolo giudiziario i miei avvocati hanno scoperto che i servizi segreti belgi avrebbero messo sotto osservazione le attività dei membri della commissione speciale Pegasus (Indaga sulle intercettazioni di leader europei fatte illegalmente dal Marocco, ndr.). Il fatto che i membri eletti del Parlamento siano spiati dai servizi segreti dovrebbe sollevare maggiori preoccupazioni sullo stato di salute della nostra democrazia europea. Penso sia questo il vero scandalo”. Nel corso dell’ultima riunione plenaria, lunedì scorso, la presidente del Parlamento, Roberta Metsola, ha annunciato che Kaili ha formalmente chiesto di verificare se sia stata violata la sua immunità ai sensi della regola 7 del Regolamento interno riferito alla commissione per gli affari legali (Juri) del Parlamento europeo. La regola prevede che tutti i deputati possano chiedere la difesa dell’immunità al’Europarlamento: “Nei casi in cui si presume che una violazione dei privilegi e delle immunità di un deputato o di un ex deputato da parte dell’autorità di uno Stato membro o dalla Procura europea si è verificata o sta per verificarsi - recita l’articolo - può essere presentata una richiesta di decisione del Parlamento in merito alla violazione o al rischio di violazione di tali privilegi e immunità”. Spiato anche il giudice Claise - A dar man forte alla tesi di Kaili due circostanze: l’esito dell’indagine svolta dalla Commissione e la notizia, diffusa dal quotidiano Rtbf, di un’attività di spionaggio anche a carico di Michel Claise, il giudice istruttore che l’ha fatta finire in cella. “La pubblicazione di questa notizia - hanno fatto sapere con una nota Sven Mary e Michalis Dimitrakopoulos, legali di Kaili - ha suscitato notevole interesse, anche se sono stati pochi i media specifici che attaccano sistematicamente la signora Kaili, accusandola di creare scenari di cospirazione. Ma la sconvolgente notizia che ne è seguita, secondo la quale anche il giudice istruttore Michel Claise sarebbe monitorato, li ha lasciati senza parole. Non c’è uno scenario complottista, sembra che la triste realtà sia che a Bruxelles, capitale d’Europa, si siano installati i conflitti geopolitici del Golfo Persico, del Nord Africa, della Penisola Arabica, di cui oggi è vittima la signora Eva Kaili, domani i giudici e i pubblici ministeri, dopodomani chi?”. Secondo Rtbf, a seguito di sospetti di spionaggio, i telefoni di diversi membri della polizia e della magistratura del Belgio sono stati affidati agli agenti di polizia federale della “Computer Crime Unit”, che hanno sottoposto il tutto ad analisi approfondite e ripetute. E tra i vari telefoni risultati infettati c’è proprio quello di Claise. Secondo le informazioni raccolte da Rtbf, non è da escludere un’attività di spionaggio anche nello scandalo Qatargate. “Il fatto che il Marocco sia sospettato di aver ampiamente utilizzato Pegasus - scrive il quotidiano - alimenta questa pista. D’altro canto, alcune tracce di infezione sarebbero antecedenti allo scoppio del Qatargate, il che va contro l’ipotesi di un’azione diretta unicamente al dossier corruzione. In altre parole, se alcune persone sono state eventualmente spiate perché gravitano in questa particolare indagine, altre potrebbero essere state prese di mira perché rappresentano in ogni momento “obiettivi di alto valore” per un’organizzazione ostile”, tra questi il giudice Claise, che gestisce numerosi casi finanziari e di corruzione che coinvolgono Stati e organizzazioni straniere. Le conclusioni della Commissione Pegasus - Pochi giorni fa, la Commissione Pegasus aveva messo nero su bianco i rischi dello spyware, definiti non “solo una tecnologia” ma anche “uno strumento in una cassetta degli attrezzi più ampia, quella dei regimi autoritari”, secondo quanto detto da Sophie in ‘t Veld, relatrice della commissione. Le cimici spia, infatti, sono utilizzati come parte integrante di un sistema, e inserite, in linea di principio, in un apparato di garanzie che si rivelano però “spesso deboli e inadeguate. Ciò è per lo più involontario, ma in alcuni casi il sistema è stato in tutto o in parte piegato o progettato appositamente per fungere da strumento di potere e controllo politico - si legge nella relazione -. In tali casi, l’uso illegittimo dello spyware non è un incidente, ma rientra in una strategia deliberata”. Che coinvolgerebbe anche gli Stati e la magistratura: “La base giuridica per la sorveglianza può essere redatta in termini vaghi e imprecisi, in modo da legalizzare l’uso ampio e illimitato dello spyware - si legge -. Il controllo ex ante sotto forma di autorizzazione giudiziaria alla sorveglianza può essere facilmente manipolato ed eviscerato di qualsiasi significato, in particolare in caso di politicizzazione, o di appropriazione della magistratura da parte dello Stato. I meccanismi di vigilanza possono essere mantenuti deboli e inefficaci e sottoposti al controllo dei partiti al governo. I mezzi di ricorso e i diritti civili possono esistere sulla carta, ma diventano nulli in caso di ostruzioni da parte degli organi governativi. Ai ricorrenti viene negato l’accesso alle informazioni, anche per quanto riguarda le accuse a loro carico che avrebbero giustificato la loro sorveglianza. I pubblici ministeri, i magistrati e la polizia si rifiutano di indagare e spesso impongono alle vittime l’onere della prova, attendendo che dimostrino di essere state prese di mira con spyware. Ciò lascia le vittime in una situazione di stallo, in quanto viene loro negato l’accesso alle informazioni”. E anche i media svolgono un ruolo, trasformandosi in “canale per campagne diffamatorie utilizzando il materiale ottenuto con spyware”. Il tutto in nome di una “sicurezza nazionale” “spesso invocata come pretesto per eliminare la trasparenza e la responsabilità”. Arabia Saudita. La mancata promessa di abolire la pena di morte per i minorenni al momento del reato La Repubblica, 20 giugno 2023 Amnesty International: pene capitali aumentate di sette volte negli ultimi tre anni. Minori condannati a morte nonostante le leggi in vigore. Nonostante l’impegno delle autorità saudite a porre fine all’uso della pena di morte contro gli autori di reato minori di 18 anni, sette giovani sono a rischio di una esecuzione imminente dopo che una corte d’appello ha confermato la condanna, denuncia Amnesty International. Il caso dei sette ragazzi. I sette uomini condannati a morte erano tutti minori di 18 anni quando hanno commesso il reato, uno aveva addirittura 12 anni. A tutti è stata negata l’assistenza legale durante il periodo di carcerazione. Le loro condanne capitali sono state confermate da una corte d’appello tra marzo 2022 e marzo 2023. Sei di loro sono stati arrestati per accuse legate al terrorismo, il settimo per rapina a mano armata e omicidio. Tutti hanno subito processi iniqui viziati da confessioni estorte con la tortura. La denuncia di Amnesty International. Le autorità saudite hanno promesso di limitare l’uso della pena di morte e hanno adottato una serie di riforme che vietano l’esecuzione di persone minori al momento del reato. Ma l’imminente esecuzione di questi sette ragazzi contraddice tutte le promesse che Riad ha fatto fino a oggi. Spesso le famiglie non vengono informate quando la Corte Suprema e il Re ratificano le condanne a morte e capita che vengano a conoscenza dell’esecuzione dei loro cari direttamente dai media. I dati delle esecuzioni. L’Arabia Saudita è uno dei principali carnefici del mondo. Nel 2022 il regno ha giustiziato 196 persone, il numero più alto di esecuzioni annuali che Amnesty International abbia registrato nel Paese negli ultimi 30 anni. Questo dato è tre volte superiore al numero di esecuzioni effettuate nel 2021 e almeno sette volte superiore al 2020. In questo 2023 il Paese ha giustiziato 54 persone per una vasta gamma di crimini, tra cui omicidio, traffico di droga e reati connessi al terrorismo, dove per terrorismo spesso si intende l’avere semplicemente partecipato a delle manifestazioni. Le riforme legislative ignorate. I sette ragazzi sono stati tutti condannati per crimini per i quali non è prevista una pena fissa nella Sharia, ma la sua definizione è lasciata alla discrezionalità dei giudici. Sono le cosiddette punizioni ta’zir. Nel 2018 l’Arabia Saudita ha introdotto una legge sui minori che ha stabilito una condanna massima di dieci anni di carcere per chiunque abbia meno di 18 anni all’atto di commettere un reato per il quale la pena è di tipo ta’zir. Un ordine reale del 2020” scrive Amnesty “ha inoltre vietato ai giudici di imporre condanne capitali discrezionali a individui con un’età inferiore ai 15 anni nel momento in cui hanno commesso un crimine. Nel maggio 2023 la Commissione saudita per i diritti umani ha confermato con una lettera ad Amnesty International che l’applicazione della pena di morte per i reati di tipo ta’zir è stata completamente abolita. Nel novembre 2022 il paese ha ricominciato a compiere esecuzioni per reati legati alla droga, mettendo fine a una moratoria su questo genere di crimini in vigore da gennaio 2020. Processi iniqui. Sei dei sette giovani attualmente a rischio esecuzione stati condannati con accuse di terrorismo, anche per aver preso parte a proteste antigovernative o per avere partecipato ai funerali delle persone uccise dalle forze di sicurezza durante le manifestazioni. Sei dei sette condannati appartengono alla minoranza sciita, che subisce abitualmente discriminazioni nel paese, tra cui processi irregolari e iniqui. Yousef al-Manasif, per esempio, aveva tra i 15 e i 18 anni al momento del presunto reato ed è stato condannato a morte da un tribunale penale specializzato nel novembre 2022. La sentenza, che Amnesty International ha esaminato, sostiene che al-Manasif “ha partecipato a sit-in e a proteste che mettono in pericolo la coesione e la sicurezza dello Stato”. La sua famiglia ha detto che non ha potuto vederlo per oltre sei mesi dopo l’arresto, anche perché il ragazzo è stato tenuto in isolamento. La corte d’appello ha confermato la sua condanna nel marzo 2023. Processi senza avvocati. Un altro imputato, Abdullah al-Darazi, aveva 17 anni al momento del presunto reato. È stato condannato “per avere partecipato a disordini ad al-Qatif, cantato slogan contro lo stato, causato il caos e attaccato funzionari della sicurezza con bombe molotov”. Ha detto alla corte di essere stato trattenuto in custodia cautelare per tre anni e di non avere potuto consultare un avvocato durante le indagini e la carcerazione. Amnesty International, che ha consultato i documenti del processo, ha esaminato le dichiarazioni in cui al-Darazi chiedeva al giudice una valutazione medica indipendente per provare le torture a cui era stato sottoposto. Il tribunale ha ignorato le sue richieste e nell’agosto 2022 ha confermato la condanna a morte. Il numero delle esecuzioni è maggiore di quello ufficiale. Nella stessa lettera ad Amnesty International di maggio, la Commissione saudita per i diritti umani ha rivelato che 196 persone sono state giustiziate nel 2022. Si tratta di un numero molto maggiore rispetto a 148, che sono le esecuzioni ufficiali riportate dall’agenzia di stampa saudita e registrate dalla stessa Amnesty nel 2022. Stati Uniti. Esce dal braccio della morte dopo 28 anni. “Prova terribile” di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 20 giugno 2023 Barry Jones, meccanico dell’Arizona, è stato liberato dopo che un giudice ha annullato la condanna del 1994 per aggressione sessuale e morte di una bambina di 4 anni: era la figlia della sua fidanzata. Ha trascorso quasi metà della sua vita nel braccio della morte, in attesa dell’iniezione letale. E sotto il peso di accuse infamanti: nel 1994 era stato condannato per l’aggressione sessuale e l’omicidio di una bambina di 4 anni, figlia della sua fidanzata. Barry Jones era finito dietro le sbarre in Arizona che aveva 35 anni e ne è uscito ora, a 64 compiuti. Una “prova terribile”, l’ha definita. La libertà per lui ha avuto subito il sapore degli affetti ritrovati: “È una sensazione incredibile poter riabbracciare la mia famiglia dopo 29 anni” sono state le sue prime parole una volta fuori, mentre si faceva fotografare circondato da figli e nipoti, addosso una maglietta azzurra con la scritta Free bird, come il celebre grido di libertà dei Lynyrd Skynyrd. Un traguardo raggiunto dopo anni di umiliazioni e battaglie legali: perché Jones, un meccanico, ha sempre negato la sua colpevolezza. La sua odissea giudiziaria è iniziata nel maggio 1994 quando la fidanzata Angela Rene Gray di ritorno dal lavoro trovò sua figlia Rachel come svenuta. Jones le accompagnò in auto all’ospedale, dove la bimba fu dichiarata morta per una lacerazione dell’intestino. Il giorno prima Rachel era stata accudita da Jones, e l’uomo fu subito accusato per quella ferita mortale. Fu condannato in Arizona dopo pochi mesi e nel luglio 1995 con la pena capitale. Il suo destino sembrava segnato. Ma nel 2018, quando il caso approdò a una corte federale, i nuovi difensori scoprirono “con l’aiuto di un medico legale - che le ferite erano state inferte alla bambina prima delle ore passate da sola con Jones. E divenne chiaro anche che gli investigatori e i suoi precedenti avvocati non avevano condotto indagini adeguate. Così due sentenze del tribunale federale, nel 2018 e nel 2019, hanno stabilito che l’imputato dovesse essere scarcerato o riprocessato. Decisioni confermate in appello ma impugnate dallo stato dell’Arizona ha fatto ricorso. Il caso è arrivato alla Corte Suprema che l’anno scorso si è pronunciata per ridurre la capacità dei detenuti di impugnare le loro condanne presso il tribunale federale per inefficace assistenza legale nei procedimenti giudiziari statali. L’unica via d’uscita per Jones e i suoi legali è stata quella di un patteggiamento. In base all’accordo, una volta annullata la condanna a morte, Jones si è dichiarato colpevole di omicidio di secondo grado per non essere stato in grado di cercare tempestivamente cure mediche per la bambina. È stato condannato a 25 anni di carcere, già ampiamente scontati. È il 12esimo detenuto dal 1970 a uscire dal braccio della morte in Arizona - secondo Equal Justice Initiative - dove restano però ancora 110 condannati.