Tragedia penitenziaria, altre due vittime: uno si impicca, l’altro muore nell’incendio in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 giugno 2023 Negli ultimi giorni, le carceri italiane sono state teatro di tragici eventi che hanno evidenziato la situazione critica in cui versano tali istituti. La morte di un detenuto per impiccagione nel carcere di Pescara e un altro grave episodio di un detenuto di 35 anni recluso per piccolo spaccio stupefacenti, che ha dato fuoco alla propria cella nel carcere di Terni morendo intossicato dal fumo, hanno sollevato nuovamente l’allarme riguardante le condizioni dei penitenziari. La notizia del suicidio di un detenuto italiano di 41 anni, originario di Avezzano, nel carcere di Pescara - dove qualche giorno prima un detenuto si è dato fuoco e ora è ancora in condizioni gravi - ha scosso gli stessi sindacati di polizia penitenziaria. Il personale ha reagito prontamente all’allarme, ma nonostante i tentativi di rianimazione da parte del medico e degli operatori del 118, non è stato possibile salvare la vita del recluso. La tragica morte ha scatenato una protesta tra i detenuti, che hanno rifiutato di rientrare nelle proprie celle, temendo una possibile rivolta. L’intervento delle forze dell’ordine esterne al carcere è stato necessario per presidiare l’area e garantire la sicurezza. La situazione all’interno del carcere di Pescara è stata descritta come “decisamente tesa” dal coordinatore regionale per l’Abruzzo della Fp Cgil Polizia Penitenziaria, Gino Ciampa. Secondo Ciampa, il personale penitenziario è stremato e il carcere affronta un sovraffollamento del 131%, con una mancanza di oltre il 30% delle unità di polizia penitenziaria previste. Nonostante le rappresentazioni fatte ai vertici politici e istituzionali, nessuna soluzione è stata trovata e la situazione sta sfuggendo di mano. Anche il sindacato Nazionale Fp Cgil Polizia Penitenziaria ha espresso preoccupazione per le condizioni di lavoro all’interno delle carceri italiane. Mirko Manna, membro del sindacato, ha sottolineato che le continue aggressioni ai poliziotti penitenziari e gli atti di autolesionismo dei detenuti rendono il lavoro all’interno degli istituti penitenziari estremamente difficile. Manna ha chiesto interventi immediati da parte del governo e ha sollecitato incontri istituzionali per affrontare la situazione. La morte di un detenuto straniero con problemi psichiatrici nel carcere di Terni ha ulteriormente evidenziato le criticità del sistema penitenziario italiano. Secondo il sindacato di polizia penitenziaria Sappe, si tratta di un’altra “tragedia annunciata” e una “sconfitta per lo Stato”. Il detenuto aveva dato fuoco alla propria cella e nonostante gli sforzi del personale penitenziario, che ha risposto prontamente all’incidente, il fuoco si è propagato rapidamente, creando un denso fumo nero. I poliziotti presenti e quelli arrivati in rinforzo hanno fatto il possibile per intervenire, mettendo a rischio la propria incolumità, ma purtroppo non sono riusciti a salvare la vita del detenuto. Il caso è stato descritto come un altro episodio tragico e un segnale della grave situazione che si vive all’interno delle carceri italiane. La situazione penitenziaria è caratterizzata da diverse criticità. Una delle principali è il sovraffollamento, che comporta un peggioramento delle infrastrutture e una carenza di personale penitenziario. Secondo Marielisa Serone D’Alò, responsabile diritti e pari opportunità del Partito Democratico in Abruzzo, e Daniele Marinelli, responsabile organizzazione del Partito Democratico nella stessa regione, il sovraffollamento rappresenta un grave problema che aggrava ulteriormente le difficoltà delle persone detenute, soprattutto di coloro che necessitano di assistenza sanitaria o che presentano fragilità mentali. È necessario affrontare il problema del sovraffollamento, garantire un’adeguata assistenza sanitaria e psicologica ai detenuti e migliorare le condizioni di lavoro del personale penitenziario. Questi interventi richiedono una riflessione profonda sulla funzione stessa della pena. Per quanto riguarda il sovraffollamento, è indispensabile adottare misure volte a ridurre il numero di detenuti, come ad esempio l’implementazione di alternative alla detenzione per reati non violenti e la promozione di politiche di reinserimento sociale. L’assistenza sanitaria e psicologica rappresenta un altro aspetto cruciale. È fondamentale garantire l’accesso a cure mediche adeguate per tutti i detenuti, compresi quelli con problemi psichiatrici. Ciò implica la presenza di personale medico qualificato e la disponibilità di strutture adeguate per la diagnosi e il trattamento di disturbi mentali. Inoltre, è importante fornire supporto psicologico ai detenuti, offrendo servizi di counseling e terapia per affrontare i traumi e le difficoltà emotive che possono sorgere durante la detenzione. L’appello per provvedimenti urgenti e efficaci viene sollevato da Rita Bernardini, membro dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, che si batte per i diritti umani. Bernardini sottolinea che la situazione attuale rischia di diventare veramente ingovernabile. Il sovraffollamento delle carceri è uno dei principali problemi che deve essere affrontato. Le proposte per affrontare questo tema sono già state avanzate - basti ricordare la proposta di legge del deputato Roberto Giachetti di Italia Viva - ma ci si chiede dove siano i responsabili di questa situazione critica. I dati allarmanti provenienti dal rapporto dell’associazione Antigone mettono in luce questa “mattanza” che sta affliggendo il sistema penitenziario italiano. Nei primi mesi del 2023, sono stati registrati 23 suicidi in carcere (ma da aggiornare con l’ultimo suicidio di queste ore), mentre l’anno precedente ha visto il triste primato di più suicidi in carcere di sempre, con un totale di 85 persone che si sono tolte la vita. Queste cifre sono sconcertanti: nel corso del 2022, più di una persona ogni quattro giorni ha deciso di mettere fine alla propria vita all’interno di un istituto penitenziario. Cinque dei suicidi sono avvenuti nel solo carcere di Foggia. I suicidi in carcere si verificano circa 23 volte più frequentemente rispetto ai suicidi avvenuti fuori dalle mura delle prigioni. Analizzando ulteriormente i dati, emerge che delle 85 persone che si sono suicidate nel 2022, 5 erano donne. Tra le persone straniere, ben 36 hanno deciso di togliersi la vita, di cui 20 erano senza fissa dimora. L’età media delle vittime era di 40 anni, con il più giovane dei suicidi registrato a soli 20 anni e il più anziano a 71 anni. Preoccupante è il fatto che la maggior parte di queste persone (50, quasi il 60%) ha compiuto l’atto estremo nei primi sei mesi di detenzione. In particolare, 21 suicidi sono avvenuti nei primi tre mesi, 16 nei primi dieci giorni e 10 addirittura entro le prime 24 ore dall’arrivo in carcere. Il rapporto di Antigone rivela anche un dato inquietante: delle 85 persone decedute per suicidio nel 2022, 28 avevano già fatto almeno un tentativo di suicidio in precedenza, con 7 di loro che avevano addirittura tentato il suicidio più di una volta. Inoltre, in 68 casi su 85 (pari all’ 80%), queste persone erano coinvolte in altri eventi critici. Vale anche la pena notare che 24 di loro erano state sottoposte alla misura della ‘ grande sorveglianza’ e di queste, 19 lo erano ancora al momento del tragico gesto. Antigone ricorda che recentemente due detenuti hanno perso la vita nel carcere di Augusta a causa di uno sciopero della fame, rispettivamente dopo 41 e 60 giorni di digiuno. È allarmante constatare che ogni giorno circa 30 detenuti sono in sciopero della fame, che è diventata una delle forme di protesta più utilizzate nelle carceri, talvolta accompagnata anche dallo sciopero della terapia. Nelle carceri salute mentale è sinonimo di sicurezza di Leo Beneduci* Il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2023 Nel 2010 erano oltre 1.500 i detenuti sottoposti a misura di sicurezza nei sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari - Opg (Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere), in sostituzione dei Manicomi Giudiziari di fine ‘800 e così rinominati dalla Riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 (l. 354/1975). Dopo alterne vicende non indenni da polemiche e ritardi, a partite dal D.lgs. 230 del 22 giugno 1999, la legge 81 del 2014 ha disposto, secondo alcuni in maniera imprecisa e contraddittoria, la chiusura al 31 dicembre 2015 degli Opg, di fatto avvenuta in via definitiva nell’aprile 2017 e l’istituzione delle REMS (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) caratterizzate dall’esclusiva gestone sanitaria e con ciò riabilitativa dei soggetti di cui è stata riconosciuta la pericolosità sociale per infermità di natura psichica; 31 le REMS oggi presenti sul territorio nazionale, con circa 590 individui alloccati, mentre all’interno di 35 istituti penitenziari sono in funzione le ATSM (Articolazioni Territoriali di Salute Mentale) per un totale di 61 reparti e 265 detenuti coinvolti, per una gestione che, anche in questo caso, avrebbe dovuto essere prettamente sanitaria e quindi riabilitativa. CMa i numeri citati di REMS + ATSM, seppure indicativi, rappresentano solo la punta dell’iceberg del problema (chi delinque è malato di mente o chi è malato di mente delinque?) della salute mentale in carcere, qualora si considerasse che le vere cifre del disagio psichico negli istituti penitenziari e che nessuno riesce a quantificare potrebbero essere fino a dieci volte superiori e che le cause interne sono ormai molteplici, tra l’altro spesso difettando assistenza medica specialistica e certificazioni sanitarie necessarie ad una allocazione degli interessati diversa da quella nelle sezioni detentive ordinarie e a costante contatto con gli altri ristretti, in ragione di rapporti tra Asl e enti penitenziari tutt’altro che idilliaci. Qualche anno fa, stante l’insolito aumento di risse ed aggressioni che oggi, invece, costituiscono l’amara consuetudine dei sistema, conducemmo una rilevazione informale in 20 infrastrutture penitenziarie, da cui emerse che ad oltre il 60% dei detenuti venivano somministrati farmaci contenenti sostanze psicoattive, così che per tali soggetti la sofferenza per la detenzione veniva “superata” attraverso fasi di prevalente sedazione a cui però seguivano momenti di iperattività e spesso di reazione rabbiosa alle regole di convivenza interna, nell’abbraccio mortale tra il costante malessere psicologico ed una risposta che, laddove esistente, risultava solo a carattere farmacologico, cronicizzando patologie ed effetti. Oggi, per nulla migliorate le condizioni di vivibilità interna, con le sezioni detentive a volte vere e proprie piazze di spaccio, al commercio/consumo tra detenuti di prodotti di origine terapeutica ma con finalità ormai in prevalenza “ricreative” quali Depalgos, Pegabalin, Xanas, Tavor e persino Brufen (sminuzzato ed inalato) si è aggiunto l’accresciuto afflusso di stupefacenti dall’esterno, che le carenze di organici e di strumenti professionali scarsamente contrasta. La conseguenza più grave? La finalità risocializzante della pena detentiva è venuta meno e se nell’ambito delle REMS a fronte delle cure praticate risultano percentuali rilevanti di recuperi alla vita civile, per i malati che escono dal carcere per fine pena il destino è comunque segnato, oltre a farne facili prede delle associazioni criminali; c’è davvero da chiedersi per chi è affetto da infermità di natura psichica quanto gli attuali istituti penitenziari siano diversi dal vecchio manicomio criminale. Fare molto di più di quel poco e niente che oggi si fa riguarda, quindi, anche il superamento nei fatti del vecchio slogan penitenziario, di moda negli anni 90, che il Trattamento (rieducativo) è Sicurezza (interna ed esterna per la Collettività) per sostituirlo, in termini di prevenzione e cure effettive, con quello che la Salute mentale è Sicurezza. *Segretario Sindacato Polizia Penitenziaria “Bambini senza sbarre” al via la 7ª edizione de “La Partita con mamma e papà” agensir.it, 1 giugno 2023 Dal 1° giugno, negli istituti penitenziari italiani, si disputa la 7ª edizione de “La Partita con mamma e papà”, l’incontro tra i genitori detenuti e i loro figli, all’interno della annuale campagna “Carceri aperte”, che fa accedere negli istituti le famiglie a partecipare a un evento atteso e “relazionale”. “La possibilità di giocare una partita con la mamma detenuta o con il papà e di condividere questo momento ludico, normale per tutti gli altri bambini, risulta eccezionale per i figli dei genitori detenuti e le loro famiglie e rimane a lungo nella loro memoria”, spiega l’Associazione Bambini senza sbarre Ets, che organizza l’iniziativa in collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. “La Partita con mamma papà” e “Carceri aperte” si inscrivono nella campagna europea “Non un mio crimine ma una mia condanna” del network europeo Cope (Children Of Prisoners Europe), che vuole sensibilizzare sul tema dell’inclusione sociale e delle pari opportunità per tutti i bambini e ha l’obiettivo di portare in primo piano il tema dei pregiudizi di cui spesso sono vittime i 100mila bambini in Italia (2,2 milioni in Europa) che hanno la mamma o il papà in carcere e per questo sono emarginati. Obiettivo principale di Bambinisenzasbarre, perseguito da vent’anni, è il “mantenimento del legame tra bambino e genitore detenuto”, diritto sancito dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Per raggiungere questo obiettivo Bambinisenzasbarre ha creato, negli anni, strumenti specifici, dallo “Spazio Giallo” in carcere, al colloquio esclusivo, dai gruppi di parola al laboratorio artistico, all’azione molto coinvolgente dell’incontro tutto particolare “giocato dentro come se fosse fuori” (dal carcere). “La Partita con mamma e papà” è iniziata otto anni fa con l’adesione di 12 istituti, 500 bambini e 250 papà detenuti e si è tenuta tutti gli anni salvo la sospensione di due anni a causa della pandemia. Nel 2022 è stato raggiunto il numero di 82 incontri giocati in altrettante carceri e città, da Belluno a Palermo, da Roma a Cagliari, da Napoli a Bari, coinvolgendo migliaia di bambini e loro genitori detenuti, oltre agli agenti di polizia penitenziaria, gli educatori, soggetti del terzo settore operanti nelle carceri, la cittadinanza, i media locali e nazionali. Bambinisenzasbarre onlus è impegnata nella cura delle relazioni familiari durante la detenzione di uno o entrambi i genitori, nella tutela del diritto del bambino alla continuità del legame affettivo e nella sensibilizzazione della rete istituzionale e della società civile. Bambinisenzasbarre è attiva in rete sul territorio nazionale col suo “Sistema spazio Giallo” operativo dentro e fuori dalle carceri. Opera direttamente in Lombardia (Milano, Bergamo, Lodi, Voghera, Vigevano, Pavia), in Toscana, Campania e Calabria e supervisiona le attività dei partner in rete a Brescia, Varese, in Piemonte, Marche, Basilicata, Puglia e Sicilia. “Sulle riforme della giustizia siamo alle rifiniture finali”, dice il viceministro Sisto di Ermes Antonucci Il Foglio, 1 giugno 2023 Le riforme promesse dal Guardasigilli Carlo Nordio ancora non si vedono, ma il vice Francesco Paolo Sisto rassicura: “Nella prima metà di giugno andremo al Consiglio dei ministri”. Verso modifiche su abuso d’ufficio, intercettazioni e misure cautelari. Anche il mese di maggio è terminato e della tanto annunciata riforma della giustizia non c’è traccia. “Entro maggio presenteremo il primo pacchetto di riforme, in senso garantista”, aveva detto il ministro Carlo Nordio a marzo. Il “pacchetto” avrebbe dovuto comprendere interventi mirati su abuso d’ufficio, traffico di influenze illecite, prescrizione, intercettazioni, custodia cautelare, appellabilità delle sentenze di assoluzione. Agli inizi di maggio, non vedendo arrivare neanche una sola bozza dei provvedimenti annunciati, il buon senso ha indotto a spostare idealmente la scadenza alla fine del mese. Anche maggio è finito, però, e nulla è arrivato, segno che c’è qualcosa, nello scadenzario immaginato da Nordio, che non sta funzionando. Colpa delle tensioni interne ai partiti di maggioranza su alcune questioni chiave, ma soprattutto del peso giocato dai magistrati collocati fuori ruolo al ministero. Arrivato a Via Arenula, come abbiamo già raccontato su queste pagine, Nordio ha fatto piazza pulita delle toghe di sinistra che occupavano le posizioni di potere. Subito dopo, però, le ha sostituite con altri magistrati, seppur di area conservatrice: Alberto Rizzo e Giusi Bartolozzi (capo e vicecapo di gabinetto), Antonio Mura (capo dell’ufficio legislativo), Giovanni Russo (capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziario), Luigi Birritteri (capo del Dipartimento degli affari di giustizia), e via discorrendo. È proprio Bartolozzi, deputata di Forza Italia nella passata legislatura, a svolgere il ruolo di primo piano nelle dinamiche ministeriali. A esercitare, in altre parole, un grande ascendente sul Guardasigilli. Tanto da essere definita da diverse voci la “zarina” di Via Arenula. Non solo. Chi è solito frequentare i corridoi del ministero riferisce di non aver mai percepito, addirittura neanche ai tempi di Bonafede, una tale influenza sul Guardasigilli da parte dei magistrati distaccati. Un altro fronte delicato è rappresentato dai delicati equilibri tra le forze di maggioranza. Mentre Forza Italia si è sempre schierata al fianco delle proposte di riforma di Nordio, Lega e Fratelli d’Italia hanno mostrato in alcuni casi una certa insofferenza alle idee - ritenute drastiche - del ministro (entrambi i partiti intendono tutelare la propria immagine securitaria). Così, non si è ancora compreso se fra i partiti della maggioranza sia stata effettivamente raggiunta un’intesa sui temi che dovrebbero dar forma al primo “pacchetto” di riforme: abuso d’ufficio (da abolire o da modificare?), prescrizione (si torna alla cosiddetta “riforma Orlando”?), misure cautelari (è fattibile e soprattutto conviene in ottica garantista attribuire a un organo collegiale il potere di adottare i provvedimenti restrittivi della libertà dei cittadini?), intercettazioni (cosa si intende, nella sostanza, garantire la privacy dei soggetti terzi?). E se questa è la situazione ora, Dio solo sa cosa accadrà quando sul tavolo saranno affrontate le riforme costituzionali, come la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, e la modifica del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Senza dimenticare che è stato rinviato al 31 dicembre il termine per emanare i decreti attuativi della riforma Cartabia sul Csm e sull’ordinamento giudiziario. Interpellato dal Foglio su questa situazione, il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, rassicura: “Siamo alle ultime rifiniture legislative prima di approdare al Consiglio dei ministri”. “La fase di scelta dei provvedimenti è compiuta - aggiunge - In queste ore semplicemente si sta verificando la completezza dei richiami normativi: si sta svolgendo il necessario lavoro di drafting per calare le norme nel sistema legislativo. Nella prima metà di giugno andremo al Consiglio dei ministri, poi si svolgerà il percorso parlamentare”, conclude Sisto. “Senza abuso d’ufficio mafie più libere”: pm sulle barricate di Valentina Stella Il Dubbio, 1 giugno 2023 Le toghe agitano lo spettro della criminalità organizzata per tentare di bloccare la riforma. Caiazza: “Così confermano che questo reato è una rete a strascico”. Pittalis (Fi): “Solita bufala”. L’abuso di ufficio non va modificato: ce lo chiede non solo l’Europa ma anche la mafia. No, non si tratta di un errore di battitura o concettuale ma della sintesi di un pensiero che alberga nella mente di molti magistrati e del Movimento 5 Stelle per i quali l’articolo 323 del codice penale non va toccato. Lo abbiamo toccato con mano ascoltando le audizioni che si stanno tenendo in Commissione Giustizia della Camera in merito a quattro proposte di legge su “Disposizioni in materia di abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite”. Ormai è diventata prassi sempre più estesa quella di bloccare alcune riforme utilizzando il totem della mafia. Lo stiamo vedendo con le misure di prevenzione, lo abbiamo visto con l’ergastolo ostativo. Mettere mano ad alcuni strumenti nati per combattere la criminalità organizzata significherebbe per alcuni - magistrati, parenti delle vittime, politici - indebolire la lotta alla mafia o addirittura in alcuni casi essere fiancheggiatori. Ma, come ci disse due anni fa in una intervista il pubblico ministero della Dda di Reggio Calabria e attuale segretario di Magistratura democratica, Stefano Musolino, il metodo targato Caselli di combattere la criminalità organizzata è ormai “finito, è antistorico. La mafia è un fenomeno cronicizzato che deve essere affrontato con una legislazione che tenga insieme le ragioni della sicurezza sociale, insieme ai diritti dei soggetti coinvolti nei processi”. Cosa c’entra tutto questo però con l’abuso di ufficio? Prendiamo le dichiarazioni del capo della Procura di Palermo, Maurizio De Lucia, colui che ha condotto le indagini per catturare il super boss Matteo Messina Denaro, rese qualche giorno fa durante l’audizione in Commissione giustizia della Camera: “Oggi non è utilizzabile l’intercettazione nella quale emerga una condotta di abuso d’ufficio perché il legislatore ne impedisce l’utilizzabilità per reati che in astratto non potevano essere intercettati” e questo “ha un significato importante, perché in terre a forte infiltrazione mafiosa una preziosa fonte per acquisire illeciti nei confronti della Pa sono proprio le indagini di mafia, nella misura in cui le intercettazioni fatte con quel regime evidenziano comportamenti non corretti nella Pa o condotte di pubblici amministratori quantomeno contigui con le organizzazioni mafiose”. E quindi “non poter utilizzare lo strumento del 323 cp (abuso d’ufficio, ndr) nei confronti di questi soggetti e sviluppare indagini per questo reato oggettivamente impone una limitazione anche alle indagini in tema di criminalità organizzata”. “La dichiarazione del dottor De Lucia dimostra proprio come si sia diffusa nella prassi giudiziaria un uso strumentale delle contestazioni”, ci dice il presidente dell’Unione Camere penali, Gian Domenico Caiazza. Per Caiazza, “o c’è una ipotesi di favoreggiamento alla mafia, per esempio, già evidente nelle indagini e allora vengono contestati altri reati” o altrimenti “continua a prevalere l’idea che la contestazione dell’abuso di ufficio sia una rete a strascico. Questo è proprio il motivo per cui ne chiediamo l’abrogazione. Contestiamo l’idea di una norma estremamente generica che si vuole utilizzare in modo strumentale come una rete a strascico per pescare per cercare altri reati dei quali non si ha conoscenza ma che potrebbero venir fuori. Non si può esercitare così l’azione penale”, ammonisce il penalista. “E la risposta del dottor De Lucia - prosegue Caiazza - spiega anche la ragione per la quale poi c’è una assoluzione per il reato di abuso del 90 per cento. Perché in realtà lo si usa strumentalmente per cercare altro. La risposta di De Lucia è pertanto una ragione in più per eliminare il reato di abuso d’ufficio”. Abbiamo raccolto anche il parere dell’onorevole Pietro Pittalis (Forza Italia) primo firmatario di una proposta di legge per l’abrogazione dell’articolo 323 cp: sostenere che così di vada ad indebolire la lotta alle mafie “è la solita bufala che rispolverano ad ogni riforma in materia di giustizia. Agitano lo spauracchio dell’indebolimento del contrasto alle organizzazioni criminali e alla lotta alla mafia ingenerando inutili allarmismi e disinformazione. Questo atteggiamento lo comprendiamo se arriva come loro abitudine certificata dal Movimento 5 Stelle, spiace sentirlo anche da autorevoli magistrati. Anche perché non si vede quale connessione possa esserci tra l’abuso di ufficio e i reati che riguardano le organizzazioni criminali: corruzione, traffici illeciti o frodi, ad esempio. Insomma, siamo su un versante molto ben chiaro e distinto da quello che è appunto questo vecchio armamentario che ad ogni riforma viene rispolverato”, conclude Pittalis. Regeni, l’ultima carta: gli atti alla Consulta. Il giudice: “Dall’Egitto abuso e ostruzionismo” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 1 giugno 2023 Il giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi: “È incostituzionale impedire il processo agli 007”. Il pantano in cui è bloccato il processo per il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni non è dovuto ai cavilli del codice di procedura penale, bensì alla scelta “antidemocratica e autoritaria delle autorità egiziane di sottrarre i propri cittadini alla giurisdizione italiana”, determinando “una inammissibile “zona franca” di impunità”. Così ha scritto il giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi nel provvedimento con cui ha inviato il fascicolo alla Corte costituzionale, verificare se sia contraria a ben sei articoli della Costituzione la norma che impedisce di procedere senza gli imputati in aula “anche quando è provato che l’assenza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria e al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza” delle persone accusate. Provocando “situazione di ostruzionismo o abuso del diritto”. È ciò che accade - denuncia il magistrato - da oltre due anni, cioè da quando la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio del generale Sabir Tariq, dei colonnelli Mohamed Athar Kamel e Helmi Uhsam, nonché del maggiore Magdi Ibrahim Sharif, accusati del rapimento (l’ultimo anche delle percosse e dell’uccisione) del ricercatore friulano trovato cadavere al Cairo il 3 febbraio 2016. Dopo che la Cassazione ha bocciato la tesi - su cui hanno continuato a insistere l’avvocata della famiglia Regeni e l’Avvocatura dello Stato - che i quattro militari della Sicurezza nazionale siano dei “finti inconsapevoli” protetti dall’Egitto che non ha mai comunicato gli indirizzi per notificare la fissazione del’udienza, il procuratore Francesco Lo Voi e l’aggiuto Sergio Colaiocco hanno giocato l’ultima carta rimasta: la questione di incostituzionalità. Eccezione accolta dal giudice, che in un’ordinanza di oltre trenta pagine non ha risparmiato aspre critiche alle autorità del Cairo; contribuendo a ribadire gli aspetti politico-diplomatici che in questa vicenda stanno condizionando in maniera decisiva quelli giudiziari. Già sottolineati dalla Cassazione, che aveva invitato a muoversi “le competenti autorità di governo”. Ora è il gup a stigmatizzare l’insuperaiblità del “muro” eretto dall’Egitto, e a evidenziare che “non vi è processo più “ingiusto” di quello che non si può instaurare per volontà di una autorità di governo”, in questo caso straniera. Tanto più in un caso come quello di Regeni che in Italia “ha mobilitato pressoché tutte le forze politiche e sociali, e non vi è partito politico o associazione umanitaria che non si sia espressa nel senso che questo processo “deve” essere celebrato. Perché ripugna al senso comune di giustizia che un fatto così grave non possa essere oggetto di processo”. Nel suo ragionamento Ranazzi richiama i principi costituzionali del giusto processo, della tutela giudiziaria dei diritti e dell’obbligatorietà dell’azione penale, nonché varie sentenze della Consulta e della Corte europea dei diritti dell’uomo per sostenere che l’assistenza sancita dalle Convenzioni internazionali è diventata anch’essa un diritto (in questo caso negato) garantito dalla Costituzione. A partire da quella contro la tortura, sottoscritta pure dal Cairo, che “non solo è stata ignorata dalle autorità di governo e giudiziarie egiziane, ma “osteggiata” in modo palese”. Per il procuratore Lo Voi, l’istanza del suo ufficio “era l’unica possibilità rimasta per poter celebrare il processo, salvo ipotizzare modifiche legislative di cui non si vede alcuna proposta”. In attesa che si pronunci la Consulta, in autunno o all’inizio del prossimo anno, l’udienza preliminare resta sospesa; ai genitori di Giulio resta quello che papà Claudio definisce “un piccolo sorriso di speranza”. “Regeni, la Consulta dica se il processo si può fare” di Errico Novi Il Dubbio, 1 giugno 2023 Il Gup di Roma invia gli atti alla Corte costituzionale come chiesto dai pm. Va stabilito se è legittima la norma che impedisce di giudicare gli 007 fin qui coperti dal Cairo. “Questa paralisi ripugna”, scrive il magistrato. Qui certo non si potrà tacciare la magistratura di giurisdizione creativa. Non si potrà contestare al gup di Roma Roberto Ranazzi, al procuratore Francesco Lo Voi e all’aggiunto Sergio Colaiocco una qualche pretesa di “supplenza indebita” nei confronti della politica. Certamente non in relazione alle parole con cui lo stesso Lo Voi ieri ha spiegato il senso dell’ultima mossa compiuta dalla giustizia italiana per tentare di mandare a processo gli 007 egiziani presunti assassini di Giulio Regeni, ossia la remissione alla Consulta della norma che impedisce di procedere nei confronti di stranieri “assenti” il cui Stato d’origine non “cooperi” al loro reperimento: “Era l’unica possibilità per poter celebrare il processo, salvo modifiche legislative di cui al momento, per la verità, non si vede alcuna proposta...” . Ecco, nelle poche, asciutte parole del capo della Procura di Roma c’è il senso di quanto avvenuto ieri: il gup Ranazzi ha appunto rimesso alla Corte costituzionale la questione, dallo stesso giudice ritenuta non manifestamente infondata, relativa all’articolo 420 bis del codice di procedura penale, e in particolare alla attualmente prevista “improcessabilità” dell’imputato assente e irreperibile in quanto “coperto” dalle autorità del proprio Paese. In gioco c’è il busillis che ha tenuto fin qui nelle sabbie mobili il giudizio nei confronti dei quattro agenti dei Servizi del Cairo ritenuti, dai pm, responsabili della morte di Giulio Regeni: Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Nei loro confronti la Procura diretta da Lo Voi ipotizza il sequestro di persona e, nei riguardi del solo Sharif, anche le lesioni e il concorso in omicidio. Ieri dunque il giudice per l’udienza preliminare ha accolto l’istanza con cui l’ufficio inquirente aveva chiesto, nella precedente udienza del 3 aprile, di sottoporre alla Consulta la questione di costituzionalità del 420 bis nella parte in cui non prevede deroghe alla “improcessabilità” qualora sia impossibile notificare gli atti all’imputato straniero a causa della mancata cooperazione del suo Paese. Nella propria ordinanza il gup rilancia e corrobora le ragioni della Procura, in particolare quando scrive: “Ripugna al senso comune di giustizia che un fatto così grave non possa essere oggetto di un processo”. Lo Voi si è limitato ad aggiungere: “Vedremo cosa deciderà la Corte: all’esito del giudizio di costituzionalità, ci regoleremo di conseguenza: abbiamo questa ulteriore strada da percorrere, dopo che le precedenti non hanno portato, purtroppo, ad alcun risultato utile: la situazione di impantanamento è tale che non si riusciva a venirne fuori”. Ed è esattamente così, come segnala la stessa ordinanza di Ranazzi. È sempre stato così anche all’epoca in cui la Procura della Capitale era guidata dal predecessore di Lo Voi, Michele Prestipino. Certo, non si può dare per scontato che il giudice delle leggi ritenga derogabili le norme attualmente sancite, dal codice di rito, per il processo in assenza. Ma neppure è il caso di spingersi in previsioni negative. Intanto l’avvocata della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, guarda al giudizio di costituzionalità appena avviato dal gup di Roma come a una “speranza in più”. E aggiunge: “Confidiamo sia la volta buona, definitiva, per veder sancito che questo processo si può e si deve fare. Noi diciamo sempre che Giulio ‘ fa cose’: ci auguriamo che Giulio possa favorire di fatto una modifica normativa tale da non lasciare impuniti i reati di questa gravità quando gli Stati non collaborano”. Ma Ballerini non manca di fare appello a una particolare “vigilanza” anche in questa nuova fase del cammino intrapreso dalla famiglia Regeni per veder puniti gli assassini di Giulio: “Ci auguriamo che il popolo giallo e la scorta mediatica stiano con noi con le antenne dritte”. Ha quindi rievocato altri fantasmi: “In passato abbiamo dovuto presentare una denuncia per intralcio alla giustizia dal momento che le nostre (sue e dei familiari di Giulio, ndr) telefonate erano palesemente ascoltate”. Sempre l’avvocata Ballerini, prima ancora che il gip emettesse la propria ordinanza, aveva chiamato in causa le persone accorse in mattinata a piazzale Clodio: “Stanno a dimostrare che non è una storia di famiglia: è una storia che riguarda la dignità di questo Paese e la sicurezza di tutti i cittadini nel mondo”. E certo non è privo di significato che tra il “popolo giallo” radunatosi nel sit- in vi fosse, oltre all’attore Pif, anche un’ex Terza carica dello Stato come Roberto Fico, fra i pochissimi rappresentanti delle istituzioni ad essersi battuti, in questi anni, perché Regeni avesse davvero verità è giustizia, come reclama quel braccialetto giallo indossato ancora oggi, a sette anni di distanza dell’assassinio di fine gennaio 2016, da decine di migliaia di persone, ogni giorno, in tutta Italia. Valerio Fioravanti, il terrorista nero, firma sull’Unità: è polemica di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 1 giugno 2023 I familiari delle vittime: inaccettabile. Il direttore dello storico quotidiano appena tornato in edicola: “I suoi articoli nella pagina appaltata a Nessuno tocchi Caino. Ma gli chiederò di scrivere ancora per un milione di ragioni” “Mi dicono che sui social sia scoppiata una polemica per il fatto che l’Unità ospita articoli di Valerio Fioravanti...”. É l’incipit dell’editoriale di domani che ha appena finito di scrivere Piero Sansonetti, il direttore de l’Unità, lo storico quotidiano fondato nel 1924 da Antonio Gramsci, da pochissimo tornato nelle edicole. Ma altro che polemica, è scoppiato un putiferio lunedì scorso, 29 maggio, che era anche il giorno del 72° compleanno di Sansonetti. É uscito infatti quest’articolo: “Democrazia VS Guantanamo, uno a zero: il carcere super-duro non ha funzionato”, firmato da Valerio Fioravanti. Non un omonimo, ma proprio lui, Giusva il Tenente, il terrorista nero dei Nar, i Nuclei Armati Rivoluzionari, oggi sessantacinquenne e uomo libero grazie ai benefici della legge Gozzini, nonostante le decine di condanne ricevute: in tutto otto ergastoli, 134 anni e 8 mesi di carcere per 95 omicidi di cui è stato giudicato colpevole in via definitiva, tra cui gli 85 morti della stazione di Bologna (2 agosto 1980), la strage che Fioravanti - a differenza degli altri delitti - ha sempre negato di aver compiuto. Su Twitter si è scatenata la tempesta: “Gramsci dovrebbe scoperchiare la tomba e venirvi a cercare uno per uno”, scrive Daniele. E ancora, Gennaro: “Io mi auguro che l’Unità di Sansonetti fallisca domattina”. “Ma cosa può mai spingere ad acquistare una gloriosa e simbolica testata per poi farne scempio?”, domanda Furio. “Un insulto alla storia della sinistra italiana”, twitta Andrea. “Autore materiale”, commenta Mario Luca unendo il tutto, definendo così il terrorista nero che ora scrive sui giornali ma ha lasciato dietro di sé una lunghissima scia di sangue: Roberto Scialabba e Maurizio Arnesano, Enea Codotto e Luigi Maronese, l’appuntato di polizia Francesco Evangelista (detto Serpico) e il giovane Antonio Leandri ucciso per errore. La fidanzata di Antonio, Fiorella Sanfilippo, giusto pochi giorni fa ha esternato a Walter Veltroni sul Corriere della Sera tutta la sua amarezza: “Non hanno mai chiesto scusa”. Perchè in questo coro d’indignazione non ci sono soltanto le voci dei lettori affezionati a l’Unità. “Noi siamo schifati”, ha dichiarato al ilfattoquotidiano.it Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di Bologna. Durissimo anche Federico Sinicato, avvocato dei familiari delle vittime della strage di piazza Fontana a Milano e piazza della Loggia a Brescia: “Tutti i detenuti e i condannati hanno diritto ad avere una progettualità di vita, secondo i principi costituzionali. Tuttavia questo non significa che tutti possano fare tutto. Ci sono anche la dignità e i diritti delle vittime che vanno difese. Offrire spazi mediatici a una persona che si è macchiata del reato di strage non è accettabile”. Ed ecco allora che torniamo al direttore Sansonetti e al suo editoriale: “Prima di tutto vi dico che Fioravanti ha scritto in queste settimane sulla pagina che abbiamo appaltato a “Nessuno Tocchi Caino”. Posso dirvi che sono molto, molto orgoglioso di ospitare sull’Unità il lavoro di “Nessuno Tocchi Caino” così come fino a un paio di mesi fa l’ho ospitato - con molti articoli di Fioravanti - sul Riformista. Poi vi dico che nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, se si presenterà l’occasione, chiederò a Fioravanti di scrivere anche sull’Unità. Perché? Per un milione di ragioni. Vi dico le più semplici. Perché Fioravanti è Caino. Perché Fioravanti è una persona. Perché Fioravanti è un essere umano...”. Insomma, Fioravanti - spiega Sansonetti - lunedì scorso ha scritto sulla pagina gestita direttamente dalla storica ong che si occupa da anni dei diritti dei detenuti, guidata da Sergio D’Elia (ex Prima Linea), presso cui Fioravanti lavora come dipendente fin dal 1999, quando ottenne la semilibertà dopo 18 anni di carcere. Eppure lo stesso l’aver trovato un suo articolo sul giornale fondato da Antonio Gramsci, che fu arrestato e incarcerato dal regime fascista nel 1926, ha scosso le coscienze di molti: “Fioravanti ha scontato la sua pena e ha diritto di rifarsi una vita ma mi fa schifo che scriva sull’Unità”, il tweet di Melania. Così, il direttore (che nel frattempo ha lasciato il Riformista a Matteo Renzi) per difendersi dagli attacchi cita degli episodi: “1981, mese di luglio, nel carcere di Rebibbia un gruppo di detenuti dà vita a uno spettacolo teatrale. L’Antigone. Tra i protagonisti Salvatore Buzzi, che è lì dentro per avere ucciso con 43 coltellate un collega. Tra gli spettatori ci sono Pietro Ingrao, Stefano Rodotà, don Di Liegro (che ha organizzato lo spettacolo) Oscar Luigi Scalfaro... Ingrao andò lì, e strinse la mano a Buzzi. Con grande naturalezza”. E infine, a proposito dell’Unità, rivela: “Ero condirettore del giornale, nei primi anni novanta, e il direttore era Walter Veltroni. Beh, fu proprio Walter a decidere di pubblicare un articolo di Valerio Fioravanti e di Francesca Mambro sulla prima pagina”. Perciò, conclude Sansonetti: “Possibile che ci siano larghi settori di sinistra che oggi, nel 2023, siano così arretrati, in termini di civiltà, rispetto ai dirigenti del Pci degli anni ottanta e novanta? Possibile che dobbiamo pensare a Ingrao o a Veltroni come “marziani”, come personaggi del futuro remoto?”. Ma la polemica, quasi sicuramente, continuerà. Fioravanti continuerà a scrivere per l’Unità, anche se c’è chi vuole mettergli il bavaglio di Piero Sansonetti L’Unità, 1 giugno 2023 Mi dicono che sui social sia scoppiata una polemica per il fatto che l’Unità ospita articoli di Valerio Fioravanti. Non l’ho seguita bene perché non sono molto attivo sui social. Tanto più ora che per motivi misteriosi Twitter mi ha espulso. Però ho capito la sostanza della contestazione: Valerio Fioravanti è stato un terrorista fascista. Non solo un terrorista e non solo un fascista. Le due cose insieme, e questa sarebbe la cosa insopportabile. Terrorista e fascista sono le due parole proibite. Sono l’espressione del male, dell’infamia, dell’abominio. Nel conformismo dilagante è così. E la cosa straordinaria è che oggi questo conformismo è molto più diffuso di quanto non lo fosse negli anni di fuoco, negli Ottanta, nei Novanta, quando la violenza dominava la politica e il paese. Allora mi limito a poche osservazioni. Prima di tutto vi dico che Fioravanti ha scritto in queste settimane sulla pagina che abbiamo appaltato a “Nessuno Tocchi Caino”. Sapete chi è Caino? Beh, questo ve lo spiego un’altra volta. Posso dirvi che sono molto, molto orgoglioso di ospitare sull’Unità il lavoro di Nessuno Tocchi Caino così come fino a un paio di mesi fa l’ho ospitato - con molti articoli di Fioravanti - sul Riformista. Poi vi dico che nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, se si presenterà l’occasione, chiederò a Fioravanti di scrivere anche sull’Unità. Perché? Per un milione di ragioni. Vi dico le più semplici. Perché Fioravanti è Caino. Perché Fioravanti è una persona. Perché Fioravanti è un essere umano. Perché Fioravanti ha una biografia. Perché Fioravanti è sapiente. Perché non trovo non dico una ragione, ma nemmeno un centesimo di millesimo di ragione per immaginare di dovere esercitare una censura nei confronti di Fioravanti. E infine perché ho sempre apprezzato quel brano della Bibbia che ci racconta di quando Dio si schierò a protezione di Caino. Infine vorrei citare alcuni episodi. 1981, mese di luglio, nel carcere di Rebibbia un gruppo di detenuti dà vita a uno spettacolo teatrale. L’Antigone. Tra i protagonisti Salvatore Buzzi, che è lì dentro per avere ucciso con 34 coltellate un collega. Tra gli spettatori ci sono Pietro Ingrao, Stefano Rodotà, don Di Liegro (che ha organizzato lo spettacolo) Oscar Luigi Scalfaro. Eravamo in quella fase della nostra vita nella quale ovunque si sparava. C’erano più di 2000 omicidi all’anno (oggi sono meno di 300), impazzava la lotta armata e la mafia uccideva quasi tutti i giorni. Ingrao andò lì, e strinse la mano a Buzzi. Con grande naturalezza. C’è un altro episodio, raccontato giorni fa sul Dubbio dal mio amico Damiano Aliprandi. È una lettera scritta da Tina Anselmi - partigiana, combattente, politica incorruttibile - al ministro Silvio Gava, suo compagno di partito, a favore di Giovanni Ventura. Il quale era accusato, insieme a Franco Freda, di avere eseguito l’attentato che provocò la strage di Piazza Fontana. Ma vi voglio anche raccontare di Fioravanti e di Francesca Mambro e l’Unità. Ero condirettore del giornale, nei primi anni Novanta, e il direttore era Walter Veltroni. Beh, fu proprio Walter a decidere di pubblicare un articolo di Valerio Fioravanti e di Francesca Mambro sulla prima pagina dell’Unità. Tralascio, ovviamente, le cose che disse Marco Pannella di Fioravanti e della Mambro, perché sono più ovvie per chiunque abbia conosciuto o solo sentito parlare di Pannella e della sua cristallinità leggendaria. Ora io faccio solo due osservazioni, in forma di domande. La prima è questa: possibile che ci siano larghi settori di sinistra che oggi, nel 2023, siano così arretrati, in termini di civiltà, rispetto ai dirigenti del Pci degli anni Ottanta e Novanta? Possibile che dobbiamo pensare a Ingrao o a Veltroni come “marziani”, come personaggi del futuro remoto? La seconda domanda parte da una constatazione. Il patrimonio di conoscenza di Valerio sul sistema della giustizia e sul sistema carcerario americano è altissima. Lui è una fonte straordinaria di conoscenze. E secondo voi sarebbe un gesto intelligente - o magari qualcuno pensa che sarebbe un gesto antifascista - cancellare queste conoscenze per mettere la mordacchia a Fioravanti? Sulla base di che cosa? Di un’idea di etica? Vi prego: spiegatemi su cosa si basa questa etica. Terni. Detenuto dà fuoco al materasso e muore soffocato di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 1 giugno 2023 Ha dato fuoco al materasso e ha atteso che il denso fumo lo accompagnasse alla morte. Si è chiusa così la vita di Abdelilah Ait El Khadir, 35 anni, marocchino. Il cadavere del detenuto viene trovato nel bagno della cella dagli agenti della penitenziaria che, nel tentativo di salvarlo, restano intossicati e sono costretti ad andare in ospedale. Sull’ennesimo suicidio nel penitenziario di Sabbione ci sono due indagini: una del pm, Raffaele Pesiri, l’altra della direzione di un carcere messo a dura prova da una raffica di eventi di difficile gestione. La cruda cronaca racconta di Abdelilah, un detenuto che ha sofferto di disturbi psichiatrici, con un passato da tossicodipendente e conti aperti con la giustizia. Diversi mesi fa è stato assegnato a Terni dal provveditorato regionale della Toscana e da due giorni è tornato a Sabbione dopo l’ennesima udienza in Liguria. Nessuna avvisaglia nelle ore precedenti il suicidio. Abdelilah è nella cella dell’accoglienza. Viene spesso ospitato qui perché affronta continui viaggi per le udienze dei processi che lo vedono imputato per reati di droga. Dopo l’ennesimo processo in trasferta è rientrato a Sabbione da qualche ora. Nel pomeriggio di martedì sembra tranquillo, niente fa presagire il gesto estremo che gli costerà la vita. A tarda sera nella sezione accoglienza il poliziotto di turno sente un forte odore di fumo. Apre lo spioncino e viene invaso dal denso fumo e da un calore insopportabile. Chiede aiuto ai colleghi e a fatica riesce a entrare nella cella. Il corpo di Abdelilah è a terra nel bagno. Viene tirato fuori da quella cella invasa dal fumo sprigionato dal materasso ignifugo ma per lui non c’è più nulla da fare. Il corpo senza vita viene trasferito in obitorio perl’autopsia. Per cinque poliziotti della penitenziaria intossicati il viaggio al pronto soccorso dell’ospedale. Anche alcuni detenuti vengono trattati dal personale dell’infermeria del carcere. “La morte di un detenuto è una sconfitta per lo Stato - dice amareggiato Donato Capece, segretario generale Sappe. La via è quella di un ripensamento della funzione della pena e del ruolo del carcere. Anche la consistente presenza di detenuti con problemi psichiatrici è causa di gravi criticità per quanto attiene l’ordine e la sicurezza”. A Sabbione, che ospita 510 detenuti, ben oltre limite della capienza regolamentare, il personale è ridotto all’osso. Ogni giorno un evento critico o tragico. “La situazione è drammatica - dice Giuseppe Caforio, garante dei detenuti dell’Umbria. Alle carenze croniche di personale, particolarmente grave quella di Terni che ha il peggior rapporto fra numero di poliziotti penitenziari e detenuti, si aggiunge un flusso incessante di detenuti trasferiti da altre carceri con gravissimi problemi psichiatrici. Non si può più assistere a questa strage silenziosa e restare inermi. È il tempo che le promesse di implementazione di personale diventino realtà immediata e concreta”. Per Caforio “è improcrastinabile l’apertura di almeno due Rems in Umbria entro l’estate accanto al rafforzamento dell’assistenza sanitaria psicologica e psichiatrica”. Per Walter Verini, capogruppo del Pd in commissione antimafia “la situazione del carcere di Terni rischia di esplodere. Siamo intervenuti più volte - dice - direttamente col dap e col Governo che assicura, promette, ma nei fatti niente sull’aumento di personale di polizia, sociosanitario, interdisciplinare”. All’imam, Mimoun Mimoun El Hachimi, il compito di avvisare la mamma del giovane detenuto. Che dopo l’autopsia partirà per l’ultimo viaggio nel suo paese. Pescara. Si suicida in carcere, detenuti in rivolta di Alessandra Di Filippo Il Centro, 1 giugno 2023 È un 41enne di Avezzano. Tensione alle stelle dopo la notizia, un recluso sale sul tetto: richiamati tutti gli agenti in servizio Tensione alle stelle, ieri pomeriggio, nel carcere di San Donato dove, nel giro di 4 giorni, si è consumato il secondo dramma. Un detenuto di 41 anni, originario di Avezzano, Luca Maiorano, si è tolto la vita all’interno della sua cella, impiccandosi. La scoperta è stata fatta attorno alle 16. Ma appena i compagni della sezione giudiziaria, una settantina in tutto, sono venuti a sapere quello che era successo, è scoppiato il caos. Urla, spintoni. Uno dei detenuti è riuscito a salire sul tetto di un casotto della struttura. Gli altri si sono rifiutati di tornare nelle celle. Immediatamente, per evitare che la protesta potesse allargarsi e degenerare, sono stati richiamati in servizio tutti gli agenti della penitenziaria e insieme sono riusciti a riportare la situazione alla normalità. Ci sono volute però oltre tre ore. Nel frattempo, di supporto all’esterno è stato richiesto l’intervento dei carabinieri e della polizia che hanno circondato la casa circondariale. È stato allertato il magistrato di sorveglianza. A causa della protesta, per diverso tempo, un furgone con un detenuto che doveva rientrare è rimasto bloccato all’esterno. Già da giorni, nella struttura, c’era agitazione. Venerdì scorso, un 40enne di origine marocchina si è dato fuoco per protesta. Si è salvato grazie all’intervento tempestivo delle guardie. “Tutto questo sta succedendo”, spiega Nicola Di Felice, segretario regionale dell’Osapp, “perché come andiamo ripetendo ormai ogni giorno c’è un sovraffollamento dei detenuti del 50% e di contro non c’è il personale. E non parlo solo dei poliziotti della penitenziaria. C’è carenza di medici, infermieri, specialisti. A San Donato, ad esempio, c’è un’altissima presenza di detenuti con patologie psichiatriche che non possono avere tutte le cure che servirebbero. “Così”, prosegue, “non si può andare avanti. La situazione è al limite. Le istituzioni, la politica devono intervenire e farsi carico dei gravissimi problemi che ci sono. Ricordo che San Donato è dentro la città. Se accade qualcosa, ci vanno di mezzo tutti. Da Roma devono farsi sentire anche sulle questioni riguardanti la giustizia. Pescara ha diritto ad avere un carcere funzionale”. Anche per Giuseppe Di Domizio, segretario provinciale del Sinappe, “quello che è successo e sta succedendo dipende dalla carenza di personale a tutti i livelli. Per non parlare delle condizioni della struttura, che cade a pezzi”. I detenuti si ribellano “perché non hanno attività da fare, non hanno nulla. E questo perché non c’è il personale. I pochi in servizio non riescono a garantire i servizi neppure quelli minimi, non riescono a sopperire alle loro esigenze”. Pescara. Detenuto si dà fuoco in cella: è una delle vittime dei pestaggi a Santa Maria Capua Vetere di Giuseppe Cozzolino fanpage.it, 1 giugno 2023 Si è dato fuoco in cella, riportando ustioni sul 70% del corpo: si tratta di uno dei detenuti che, il 6 aprile 2020, era stato vittima dei violenti pestaggi avvenuti all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. La notizia è emersa durante il processo attualmente in corso proprio su quei pestaggi: processo nel quale l’uomo è anche parte civile. La vicenda è avvenuta infatti qualche giorno fa, nella sua cella all’interno del Pescara dove nel frattempo è stato trasferito. Le sue condizioni sono gravi: portato al Policlinico di Bari, ha riportato ustioni sul 70% del corpo. Nei prossimi giorni era atteso in tribunale per rendere l’esame come parte offesa nel processo contro i presunti responsabili della vicenda. L’uomo, oggi difeso dall’avvocato Lucio Marziale, era stato costretto a muoversi sulle ginocchia, poi colpito a manganellate in testa, quindi fatto rialzare e inginocchiare nuovamente, per poi essere riportato in cella mentre altre persone continuavano a pestarlo: la circostanza è emersa durante le visioni dei filmati dei pestaggi durante le scorse udienze, e lo stesso avrebbe dovuto a breve deporre come parte offesa nelle prossime udienze, dopo essersi costituito parte civile al processo in corso. Roberto Donatiello, presidente della Corte d’Assise davanti alla quale si sta tenendo l’iter giudiziario che vede imputate oltre cento persone del carcere di Santa Maria Capua Vetere, ha accolto “con tristezza” la notizia del ricovero in gravi condizioni dell’uomo. Non è chiaro il motivo né l’esatta dinamica della vicenda, sulla quale indagano le forze dell’ordine pescaresi. Palermo. Assolto ma “dimenticato” ai domiciliari per due anni: l’avvocato era morto La Repubblica, 1 giugno 2023 Accusato di stalking, era stato dichiarato incapace di intendere e di volere. Ma nessuno l’ha mai liberato. Ora farà causa allo Stato. Un detenuto dimenticato agli arresti domiciliari per quasi due anni, anche se era stato assolto nel processo penale. La vicenda riguarda un uomo di 49 anni, con qualche problema mentale, arrestato il 25 settembre 2020 a Giardinello, in provincia di Palermo, con l’accusa di stalking. Otto mesi dopo, il 19 maggio del 2021, l’uomo era stato assolto in primo grado per incapacità di intendere e volere, e per lui era stata disposta la misura di sicurezza del ricovero in una struttura assistita, in cui però non è mai stato trasferito. Nessun cambiamento anche dopo la conferma della sentenza in appello, avvenuta il 20 ottobre 2021. Il protagonista di questa storia è rimasto agli arresti domiciliari: di fatto dimenticato, anche perché nel frattempo era morto il suo difensore e nessuno si era curato di lui. Sono stati i carabinieri a rendersi conto della situazione del quarantanovenne, che vive in condizioni disagiate, in campagna. I militari hanno chiesto e ottenuto la nomina di un difensore d’ufficio per cercare di aiutarlo. Ad assisterlo ora sono gli avvocati Rocco Chinnici, Luigi Varotta e Francesco Foraci, che hanno ottenuto la revoca dei domiciliari e ora preannunciano che faranno causa allo Stato per l’ingiusta detenzione patita dall’ex imputato dimenticato dallo stesso Stato. Modena. “Carcere, pochi educatori ma bilancio positivo” di Emanuela Zanasi Il Resto del Carlino, 1 giugno 2023 È un giudizio con più luci che ombre quello espresso dalla Camera Penale di Modena e dall’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’ insieme agli esponenti modenesi dei Radicali Italiani Pietro Borsari e Andrea Nicoli al termine di una visita ispettiva all’interno della casa circondariale modenese. “Una carenza rimane quella dell’area educativa e su questo può avere pesato la mancanza di un direttore stabile per lungo tempo - ha spiegato l’avvocato Tatiana Boni, responsabile dell’osservatorio carceri della Camera Penale - ci sono solo quattro educatori per 313 detenuti definitivi ma è positiva la convenzione con Unimore che dà modo anche ai detenuti di accedere ai corsi universitari”. La delegazione è entrata all’interno delle sezioni. “Si tratta di una struttura penitenziaria che ha i suoi anni e che andrebbe riqualificata in diversi punti - ha aggiunto Boni - aspetto questo che dipende molto da fondi del ministero”. Un altro neo è l’accesso al lavoro da parte dei detenuti, ancora, secondo l’osservatorio, riservato a pochi. Altro punto debole, comune però a quasi tutte le carceri italiane, è il sovraffollamento; sono 463 (di questi 313 definitivi e i rimanenti in misura cautelare) le persone detenute al Sant’Anna su una capienza regolamentare di 372. Attese lunghe dunque, anche di diversi mesi, per le richieste avanzate al magistrato di sorveglianza. “Il bilancio è sostanzialmente positivo dal punto di vista strutturale - ha aggiunto Roberto Ricco, presidente della Camera Penale - la manutenzione ci sembra buona in tutte le sezioni, i progetti e le attività educative sono in aumento e c’è un maggiore avvicinamento del mondo del lavoro al carcere”. “Devo fare un plauso alla direzione e al comandante perché stanno gestendo l’istituto con serietà e professionalità - ha detto al termine della visita Sergio D’Elia, segretario di ‘Nessuno tocchi Caino’ - c’è un’area sanitaria che è raro trovare in altre carceri italiane, parliamo di luce, pulizia e decoro”. Rimini. Carcere, gravi carenze riscontrate nella visita dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino” chiamamicitta.it, 1 giugno 2023 Venerdì 26 maggio una delegazione di “Nessuno Tocchi Caino” con la Presidente, Rita Bernardini, il Segretario, Sergio d’Elia e la Tesoriera, Elisabetta Zamparutti, Le Camere Penali di Rimini, Il Garante dei Detenuti di Rimini, l’Avv. Galavotti, una delegazione della Serenissima Repubblica di San Marino e di Radicali Rimini hanno effettuato una visita ispettiva alla casa circondariale di Rimini. “Durante la visita - scrivono Jacopo Vasini Segretario Radicali Rimini e Filippo Vignali di Nessuno Tocchi Caino - ampio spazio è stato riservato all’incontro con la nuova Direttrice la Dottoressa Mercurio Palma, assoluta novità per la struttura riminese dopo anni di incarico vacante e con i capi ispettori della Polizia Penitenziaria. Durante l’incontro sono emerse gravi carenze nell’organico della Polizia Penitenziaria, mancano circa 40 agenti. Questa situazione - prosegue la nota - costringe gli agenti a turni di 8 ore e a un piano ferie dimezzato creando una situazione di ulteriore stress a un lavoro delicato e difficile, con il rischio concreto di burnout e malattia. La mancanza di 40 agenti può comportare che vi sia 1 solo agente per due sezioni creando una mole di lavoro ai limiti dell’umano per l’agente in turno. Come a ogni visita denunciamo le terribili condizioni igienico-sanitarie della sezione 1: celle piccole e sporche, bagni adibiti a cucina, senza doccia, bidet e acqua calda. Condizioni peraltro messe nero su bianco dall’USL e dal Magistrato di Sorveglianza e riconosciute da una sentenza che qualifica la detenzione in quella sezione come una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Durante la visita e i colloqui con il personale - continua la nota di Jacopo Vasini Segretario Radicali Rimini e Filippo Vignali di Nessuno Tocchi Caino - ci è stato confermato che i fondi per la ristrutturazione ci sono, ma a causa dei tempi della burocrazia la ristrutturazione della sezione 1 dovrà aspettare ancora. Sollecitiamo al più presto la partenza dei lavori di ristrutturazione affinché nessun essere umano debba vivere in situazioni igienico sanitarie precarie. Salutiamo favorevolmente la nomina di un magistrato di sorveglianza ad hoc, dopo anni di condivisione di questa figura con altri istituti di pena. Attualmente la casa Circondariale di Rimini ospita 136 detenuti a fronte di una capacità massima di 118 unità, con l’arrivo della stagione estiva questi numeri sono destinati ad aumentare data l’affluenza di turisti in riviera e l’aumento dei crimini compiuti. Riteniamo quindi - conclude la nota degli esponenti Radicali - urgente l’invio di rinforzi per coprire la mancanza di agenti di polizia penitenziaria all’interno della Casa Circondariale”. Milano. I giovani detenuti del Beccaria diventano artisti: pennelli e colore per rinascere Il Giorno, 1 giugno 2023 Alla Basilica di San Celso in mostra i quadri realizzati dai ragazzi del carcere minorile nell’ambito del progetto educativo della Fondazione Francesca Rava. È stata inaugurata alla Basilica di San Celso di Milano e sarà visitabile fino al 2 giugno, “L’anima nel colore”, mostra collettiva realizzata con le opere dei ragazzi detenuti al carcere minorile Beccaria. L’esposizione è curata dalla Fondazione Francesca Rava, con il sostegno dello studio legale Dentons, il patrocinio della Camera Minorile di Milano, il Dipartimento per la Giustizia Minorile del ministero di Giustizia. La mostra rientra nell’ambito delle iniziative del progetto Palla al Centro, che ha l’obiettivo di individuare percorsi di rinascita per i giovani detenuti e sensibilizzare sul tema del disagio giovanile. In particolare, le opere esposte sono state realizzate all’interno del Laboratorio di Arte, spazio creativo del Beccaria nato su iniziativa della Fondazione Francesca Rava nel 2021, e guidato dalla docente Albania Pererira. Uno spazio all’interno del quale i ragazzi hanno la possibilità di avvicinarsi alla bellezza e all’arte ed esprimere le proprie emozioni, sperimentando la creatività astraendosi dalla realtà detentiva. Le attività offerte ai detenuti dal laboratorio non riguardano solo il corso di pittura, ma si estendono anche all’esterno, attraverso l’organizzazione di visite a musei, la partecipazione a concerti e l’incontro con le istituzioni. L’inaugurazione della mostra è stata preceduta da una tavola rotonda sul progetto Palla al Centro e il ruolo dell’arte nei percorsi educativi dei giovani autori di reato. Un incontro che è stato anche l’occasione per ascoltare la testimonianza un giovane detenuto-artista, la cui opera è esposta nella basilica. “Non avevo mai dipinto in vita mia - ha raccontato il ragazzo - Il primo giorno di laboratorio ho detto subito all’insegnante che non sapevo fare niente. Ma dopo aver realizzato il mio primo quadro, le ho chiesto: ma l’ho fatto davvero io?”. “Il carcere non è un luogo qualsiasi - ha detto l’insegnante del laboratorio Albania Pereira - è un luogo a sé, di forte impatto e ricco di emozioni e di energie, dove l’arte si adatta senza difficoltà. Per i ragazzi detenuti vivere la bellezza è di estrema importanza, dal momento che la percezione dell’armonia provoca in loro emozioni positive. Non è l’opera che conta, ma il processo che avviene per la realizzazione della stessa”. “Avvicinare i ragazzi carcere minorile all’arteterapia è fondamentale - ha spiegato Mariavittoria Rava, presidente Fondazione Francesca Rava - Pennelli e tele non sono solo strumenti d’arte nelle mani dei giovani, ma anche un modo concreto per far intraprendere loro un percorso di rinascita, che passa attraverso la conoscenza di sé e dei propri talenti, anche tramite l’apertura al dialogo con un esterno popolato di modelli positivi”. “Le opere d’arte sono pezzi unici - ha sottolineato Francesca Perrini, direttore del Centro per la Giustizia Minorile per la Lombardia - perché creati da ragazzi unici e in questa unicità vorremmo riuscire ad agganciarli, sperando di costruire un ponte verso quello che le loro vite saranno quando usciranno dal Beccaria”. Raffaella Messina, vice direttrice del Beccaria ha posta l’accento sulla forza educativa offerta dalla creatività: “Il laboratorio d’arte ha lo scopo di dare degli strumenti espressivi a ragazzi che normalmente fanno fatica con il verbale, mentre invece hanno una ricchezza interiore che viene espressa in modo sorprendente proprio attraverso il gesto artistico”. Napoli. Celle rivestite di azzurro nel carcere di Secondigliano: “È l’opera dei detenuti” di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 1 giugno 2023 Premiato l’impegno all’interno dei padiglioni del carcere. C’è un azzurro più azzurro che in questi giorni brilla a Napoli. Non è quello dei vicoli della Sanità o dei Quartieri, non è lo stesso che sventola dai drappi di balconi e terrazze, e nemmeno quello degli effetti speciali sparati dai laser dello stadio Maradona. È il colore avvolgente che abbaglia entrando nel carcere di Secondigliano. Reparto Ionio, Polo Universitario: è qui la festa. Nella sezione che ospita detenuti di alta e media sicurezza la gioia per il terzo scudetto è esplosa puntualmente in contemporanea con i caroselli di gioia che gremirono le strade e le piazze la sera del 4 maggio, quando con un pareggio a Udine l’undici di Spalletti conquistò la matematica sicurezza del terzo scudetto. Da allora, i reclusi si sono dati da fare trasformando l’intero padiglione in una galleria decorata con maglie, sciarpe, teli e bandiere sulle quali campeggia quel numero magico - il “3” - che campeggia sullo scudetto tricolore. Hanno fatto tutto da soli, con quello che avevano o che è stato consentito di poter far entrare in una struttura carceraria - l’Istituto “Pasquale Mandato”, una cittadella penitenziaria di circa 384 mila metri quadrati che ospita 1180 reclusi e 160 “semi-liberi” - che si sta distinguendo per le iniziative assunte dal DAP e da una direzione intelligente e illuminata. Il Polo Universitario è una di queste, e può senza retorica definirsi un esperimento riuscito. Anzi, un successo: con i suoi oltre ottanta iscritti (due dei quali hanno già conseguito luna laurea grazie al protocollo d’intesa stilato nel 2019 tra il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria regionale e l’Università Federico II) offre 12 differenti corsi di laurea; il polo ospita anche il progetto “Parole in libertà”, nato con la collaborazione del “Mattino” e della “Fondazione Polis”, con il contributo fondamentale del ministero della Giustizia e dell’Ufficio del Garante dei detenuti della Campania (un identico e parallelo corso di giornalismo va in scena settimanalmente anche all’interno del carcere di Poggioreale). Ma torniamo alla “galleria azzurra” del carcere. Non tutti gli ospiti dello Ionio-Polo Universitario sono reclusi napoletani. Ci sono tanti siciliani, calabresi e pugliesi, non pochi dei quali convivono facendo i conti con condanne già passate in giudicato o con la più severa delle pene: l’ergastolo ostativo. Chi scrive fa parte del pool di giornalisti che Il Mattino ha scelto per dedicare due ore e mezzo settimanali all’incontro, alla discussione e a quella che è una vera e propria riunione di redazione durante la quale si scelgono i tempi e gli autori-reclusi; ed è testimone diretto di quell’entusiasmo iniziato a montare già dall’inizio dell’anno, quando il Napoli ha dimostrato di saper premere sull’acceleratore di un campionato vissuto con il cuore in gola e contrappuntato da successi, fino alla fine. E l’esplosione di gioia esplosa con lo scudetto aveva i volti di Francesco, di Gaetano, di Fiore, di Joanderson, Luigi Michele, Pasquale, Francesco e tutti gli altri che, al di qua di sbarre e cancelli, hanno saputo vivere la gioia finale quasi fossero persone libere. Oggi il corridoio dello “Ionio” è una specie di street gallery che assomiglia più ad un museo di pop-art che ad un carcere. Dietro la costruzione di questo successo, che ha la stessa valenza di uno scudetto sportivo, c’è l’impegno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e la capacità di una direttrice, Giulia Russo, che con il suo staff sta compiendo un piccolo-grande miracolo: rendere concreto e compiuto il dettato costituzionale nella parte in cui afferma che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. “Ed è a quello che puntiamo - spiega Giulia Russo - creando percorsi concreti di rieducazione e risocializzazione”. Fatti, non parole. “Qui - prosegue la direttrice - c’è chi ogni giorno fa i conti con i propri errori e con le occasioni mancate. Il carcere, in fondo, resta un segmento della nostra società: per questo è importante puntare a favorire momenti di rielaborazione e rivisitazione del passato fornendo ai detenuti tutti gli strumenti utili. Così la parola “inclusione” si riempie di significati: e in questo senso sono stati realizzati eventi importanti, a cominciare dal concerto che Stinga ha voluto dedicare ai nostri ospiti, realizzando quella vicinanza tra “ultimi” in una sintesi spettacolare. La stessa che, nel loro piccolo, hanno creato i detenuti dello Ionio, con il loro museo azzurro”. “Tutte le cose che ho perso”: la giornalista Katya Maugeri racconta la vita in carcere delle donne abitarearoma.it, 1 giugno 2023 Il secondo lavoro che arriva dopo il suo “Liberaci dai nostri mali” sempre dedicato allo stato delle carceri italiane. Per la prima volta un volume interamente dedicato alla lettura di genere del fenomeno carcerario, con un focus sulla detenzione al femminile e con un approccio nuovo: le storie autobiografiche, ciascuna scandita dal numero di cella, sono raccontate in prima persona e rendono le detenute soggetto e non oggetto della ricerca sociale. Attraverso testimonianze forti e suggestive, si passa all’analisi di argomenti inediti che sono un grido di denuncia sociale: impossibile continuare a ignorare la peculiare realtà carceraria femminile in Italia senza dar voce a chi la vive in prima linea. Una delle funzioni privilegiate del giornalismo è proprio quello dell’inchiesta sociale, specie quando da essa possano sorgere vere e proprie indagini su aspetti da troppo tempo sottaciuti o assimilati a fenomeni più generali, creando emarginazione e discriminazioni a più livelli, a partire da quella di genere. Katya Maugeri nel suo secondo libro inchiesta, ci propone un percorso introspettivo all’interno di solitudini intrise di rabbia, desideri di riscatto con il retrogusto amaro della sconfitta. Negli istituti penitenziari femminili si respira un surrogato di vita: bastano le voci narranti di sette “celle” per capire che “le donne non smettono mai di raccontarsi”. Questo libro, che si fregia della prefazione del magistrato Francesco Maisto, Garante dei detenuti, della postfazione della sociologa Eleonora de Nardis e del prezioso contributo di Sandro Libianchi presidente del Coordinamento nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane (Co.N.O.S.C.I.) è esempio di alto giornalismo sociale grazie allo sguardo e all’impegno di Katya Maugeri che restituisce il giusto peso al valore delle storie. La persistenza di Ultima Generazione di Giansandro Merli Il Manifesto, 1 giugno 2023 Battaglia sul clima. Diciotto mesi di disobbedienza civile non violenta degli ecoattivisti: 120 proteste, 2mila denunce, 90 fogli di via. “Siamo pronti ad andare in carcere. È inaccettabile far finta di nulla davanti al collasso del pianeta”. Non si sono fermati mai. Da quando a dicembre 2021 hanno avviato le azioni di disobbedienza civile non violenta, gli attivisti di Ultima Generazione (Ug) sono andati dritti come un treno. Nonostante insulti, critiche, attacchi, denunce, teoremi giudiziari. Dopo alcune incomprensioni iniziali hanno ottenuto maggiore riconoscimento da storiche organizzazioni ambientaliste, come Greenpeace o Legambiente, e movimenti più recenti, su tutti i Fridays For Future. “Hanno capito che non siamo ragazzini sprovveduti, che facciamo sul serio. È la persistenza”, dicono nel cortile di uno spazio sociale romano dove sono ospiti. Quest’estate andranno in giro per lo Stivale a parlare di collasso climatico, siccità, incendi. Sono convinti di incontrare pubblici disposti a sentire le loro ragioni e persone con voglia di mettersi in gioco. Anche perché, sostengono, le dimensioni del disastro stanno diventando sempre più concrete, come mostrano il crollo del ghiacciaio della Marmolada, la frana di Ischia e le alluvioni nelle Marche o in Emilia-Romagna. Secondo l’Istat la preoccupazione per i cambiamenti climatici ha fatto un balzo nel 2022: riguarda il 56,7% della popolazione contro il 52,2% dell’anno precedente. Così Ug spera di convincere sempre più persone dell’urgenza di agire, per portare già dall’autunno le forme di disobbedienza su un livello più alto e di massa. “Si stanno avvicinando in tanti, anche se poi non tutti entrano nella “resistenza civile”. È questo il concetto che ci anima: siamo in guerra, ci stanno ammazzando, la crisi ecologica è enorme. Noi vogliamo combattere, in modo non violento”, dice Carlotta Muston, 33 anni. Ha fatto interposizione in Palestina - dove “ho scoperto di essere bianca”, racconta - e attraversato movimenti femministi e anti-razzisti. Lavorava come consulente per università e Ong, a partita Iva. Ha lasciato tutto per la battaglia sul clima. Nei primi 18 mesi Ug ha realizzato 120 azioni. Tanti blocchi stradali, dal traforo del Monte Bianco alle strade della capitale, e mani incollate sulle opere d’arte, la Primavera di Botticelli o le Forme uniche della continuità nello spazio di Boccioni. Una zuppa di piselli lanciata su un Van Gogh e otto chili di farina sull’auto dipinta da Andy Warhol. Gli attivisti si sono incatenati nella Cappella degli Scrovegni e al passaggio del giro d’Italia. Hanno imbrattato le vetrine di Eni e si sono calati dalla tangenziale Est di Roma. Le azioni più eclatanti sono state i litri di vernice tirati con gli estintori su Senato, ministero della Transizione ecologica, Teatro alla Scala e Palazzo Vecchio. E poi il carbone vegetale gettato nelle fontane della Barcaccia, di Trevi e dei Quattro Fiumi per colorarle di nero. Hanno collezionato oltre 2mila denunce, 125 fogli di via (una 90ina a Roma), 250 sanzioni amministrative, 20 Daspo urbani. La Digos, che è riuscita a prevenire solo due iniziative, li tampina sotto casa e li bracca negli spostamenti. Continua a distribuire denunce per le violazioni dei fogli di via. Loro continuano a disobbedire anche a questi. In totale sono un centinaio gli attivisti che hanno partecipato in prima persona alle azioni. Altrettanti sostengono la campagna in forme differenti. L’obiettivo è ottenere il massimo risultato comunicativo da un numero contenuto di partecipanti. Una strategia che però ha un costo soggettivo molto alto. Le persone più attive hanno ricevuto fino a 50 denunce. Le accuse di blocco stradale, imbrattamento, danneggiamento e manifestazione non autorizzata si stanno accumulando. Per molti potrebbero aprirsi le porte del carcere. A Padova, intanto, in cinque sono accusati di associazione a delinquere. “È una cosa che sapevamo dall’inizio. Farsi arrestare è parte della disobbedienza a cui ci ispiriamo. Mostrare che persone comuni sono disposte a sacrificare la libertà in nome di un bene superiore è un punto di forza”, racconta Davide Nensi. Ha 23 anni ed è nato a Treviso. Fino a poco tempo fa studiava astronomia a Padova. L’ha mollata per dedicarsi a tempo pieno a Ug. Tra i modelli di riferimento ha i Freedom Riders, che nel 1961 sfidarono la segregazione razziale sugli autobus statunitensi, e Act Up, che dalla fine degli anni ‘80 si batte per i diritti delle persone sieropositive. “La lotta contro il collasso climatico dà un senso più grande alla mia vita. Non mi sono mai sentito così libero come quando sono finito in cella la prima volta, per dei blocchi stradali”, aggiunge Nensi. Dall’inizio del 2023 l’organizzazione ha concentrato le azioni su una singola richiesta: stop a tutti i sussidi pubblici ai combustibili fossili. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) a livello globale nel 2022 sono stati il doppio del 2021: mille miliardi di dollari. Ug nasce nell’autunno di due anni fa come una costola di Extinction Rebellion, per passare all’azione con maggiore flessibilità e determinazione. Nell’aprile seguente si autonomizza per entrare nella rete A22. “Un gruppo di progetti interconnessi impegnati in una folle corsa: provare a salvare l’umanità”, recita il sito. Vi partecipano Dernière Rénovation (Francia), Letze Generation (Germania e Austria), Just Stop Oil (Uk) e altre reti da Stati Uniti, Svizzera, Svezia, Norvegia, Nuova Zelanda, Australia. Realtà unite dalla pratica del conflitto non violento e sostenute dal Climate Emergency Fund. Un crowdfunding globale messo su dal regista di Don’t look up Adam McKay per raccogliere donazioni - anonime, affinché nessuno possa esercitare influenze - a sostegno di chi si batte per “risvegliare il pubblico sugli effetti dell’emergenza climatica”. Per questi attivisti il dibattito sulle sue cause è chiuso, come del resto per la stragrande maggioranza degli scienziati. Il punto è capire come invertire la rotta rompendo quella sorta di rimozione collettiva, che chiamano anche “dissonanza cognitiva”, che permette alle persone di andare avanti con il business as usual nonostante ciò che accade al pianeta. Una parte del lavoro è l’analisi dei sentimenti delle persone comuni, di cui hanno grande rispetto, e poi la cura emotiva del gruppo, “necessaria perché siamo una comunità basata sul conflitto”. “Ci accusano di catastrofismo o millenarismo. Ma non diciamo che sta finendo il mondo. Diciamo che stanno venendo meno le condizioni che ci hanno permesso di vivere come fatto finora. E che siamo l’ultima generazione in grado di fare qualcosa”, dice Tommaso Iuas, 30 anni. Ha studiato scienze politiche e lavorato come operaio agricolo. Quando ha percepito sulla propria pelle gli effetti del cambiamento climatico ha riconsegnato il decespugliatore e si è licenziato per “entrare nella resistenza civile”. “I percorsi che ci hanno portato alla stessa scelta sono diversi. Per me a monte c’era una grossa sensazione di malessere e impotenza politica”, racconta Simone Ficicchia. La questura di Pavia ha chiesto di metterlo sotto sorveglianza speciale, ma il tribunale di Milano ha stabilito che “non è socialmente pericoloso”. Studiava storia. Ha abbandonato l’università per l’attivismo. Ha 21 anni. “I miei genitori parteciparono al G8 di Genova. Io ero nella pancia. Mia madre non sapeva ancora di essere incinta”, racconta. Tra i testi di riferimento dei ragazzi ricorre spesso Deep Adaptation, un saggio pubblicato nel 2018 da Jem Bendell, professore dell’università britannica della Cumbria. Sostiene che i cambiamenti climatici porteranno al collasso sociale, politico ed economico. Di fronte a questa catastrofe gli attivisti sono convinti che qualsiasi strumento di protesta sia legittimo, ma debba rimanere nel marco della non violenza. Per ragioni etiche e strategiche. “Se vogliamo scardinare un sistema strutturalmente oppressivo e violento dobbiamo prefigurare da subito l’alternativa”, dice Muston. Le fa eco Iuas: “La non violenza serve a spiazzare il potere che da te si aspetta una reazione di altro tipo. Ed è necessaria a evitare le degenerazioni seguite sempre alle rivoluzioni violente”. Quella per cui si battono gli attivisti di Ug è davvero una trasformazione rivoluzionaria: ripensare rapidamente le basi del modo di produzione capitalista, del rapporto tra economia e ambiente, dell’estrattivismo. Per questo, rispetto ad altre campagne di disobbedienza civile “tematiche”, vincere sarà più difficile. “Razionalmente sappiamo che non otterremo a breve ciò che chiediamo, ma speriamo di innescare una reazione più grande, che vada oltre noi - dice Nensi - In ogni caso protestare è semplicemente la cosa giusta: è inaccettabile continuare a far finta di nulla”. Gpa reato universale? Filomena Gallo: “Un pasticcio inapplicabile e un’idea di società irreale” di Eleonora Martini Il Manifesto, 1 giugno 2023 Parla l’avvocata e giurista, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni: “Per essere un reato universale, la Gestazione per altri dovrebbe essere percepita come illecito a livello globale. Ma se è normata in altri Paesi, è impossibile. La logica del governo Meloni è costruire un’Italia con cittadini sani, che possono procreare in modo naturale e che siano di sesso diverso”. “Siamo alla follia”, è il commento sconsolato dell’avvocata e giurista Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, alla notizia del primo sì parlamentare alla proposta di legge che dichiara la Gestazione per altri (Gpa) reato universale. Perché una “follia”? Forse le persone dovrebbero sapere che un reato per essere universale deve essere percepito tale a livello globale. Come i crimini di guerra, la pedofilia, la pirateria… Il solo fatto che la maternità surrogata sia lecita e normata in alcuni Paesi, rende impossibile qualificarla come reato universale. E ammesso che l’Italia da sola avesse l’ambizione di fare da apripista? Intanto ci sono trattati e norme internazionali che l’Italia ha sottoscritto e che impongono proprio ciò che è alla base del diritto: per punire un reato commesso all’estero quel fatto deve essere reato anche nel Paese dove si è consumato. Fd’I, accortasi che è impossibile punire anche i cittadini stranieri, nella pdl si limita ora ai soli cittadini italiani che abbiano fatto ricorso all’estero alla Gpa. È una proposta costituzionale? È un pasticcio: vogliono prevedere che se un cittadino italiano torna in Italia con la prole nata all’estero regolarmente, secondo le leggi di quel Paese e con un certificato di nascita che è un atto ufficiale, dovrebbe essere punito. Non è punibile invece lo stesso fatto compiuto da un cittadino francese che vive in Italia ma non ne ha la cittadinanza. Per chi ha la doppia cittadinanza? Esiste un principio che si chiama Forum shopping, che cerca di prevenire il conflitto tra norme, cioè viene applicata la normativa del Paese più favorevole. Però forse il governo non riflette sul fatto che così spinge le coppie a rinunciare alla cittadinanza italiana. Si rischiano fino a due anni di carcere… Sì, ma prima si apre un procedimento giudiziario su questi neo genitori per verificare a quale tipo di Gpa hanno avuto accesso. Dopo un processo e una sentenza di condanna, la coppia potrebbe dover scontare una reclusione fino a due anni e pagare una multa da 600 mila a un milione di euro. E al bambino cosa avviene? Il bambino viene allontanato dalla coppia e affidato a una casa famiglia oppure ai familiari dei genitori. E il sistema della giustizia penale italiana ringrazia, vero? Il giudice impegnerà risorse dello Stato per esaminare un procedimento e dichiarare improcedibile il reato che si vuole configurare. Perché è chiaro che potrà solo andare così. Pensi che attualmente è già vietata la gravidanza commerciale sul territorio italiano ma, su istanza del Ministro di Giustizia, si può procedere ulteriormente nei confronti di una coppia che accede alla Gpa per accertare che non sia stato commesso sullo Stato italiano. Ma non c’è alcuna previsione normativa che permette di procedere se questa coppia è andata all’estero. Proprio perché in base del diritto non è ipotizzabile nemmeno la condanna. In quali Paesi del mondo la Gpa è normata e come? L’associazione Coscioni da tempo sta lavorando ad una mappatura globale. Su 260 Paesi nel mondo stiamo studiando 58 Paesi dove è normata o per legge o in base alla giurisprudenza. Ci sono poi nazioni dove non c’è la legge ma la Gpa è inserita nel codice civile, quindi la previsione di accesso è una norma base e poi ci sono i regolamenti. Quindi è veramente difficile fare questa mappatura. Posso dire che in 39 Paesi esiste nella forma altruistica. In Europa sono: Paesi Bassi. Portogallo, Regno Unito, Grecia, Ucraina, Cipro. Altruistica vuol dire però che in alcuni casi viene fornito alla donna uno stipendio mensile, se la donna non può lavorare? Nessuno stipendio, solo un rimborso delle spese mediche e quelle necessarie per portare a termine la gravidanza, che siano comprovate. Nei Paesi dove è prevista la forma altruistica, la Gpa è sempre normata? Visto che sono norme che riguardano l’accesso a tecniche sanitarie, esse dettano le modalità di attuazione, la tutela per i nati e per chi vi accede. Ogni sistema normativo è diverso ma ad esempio in Grecia va presentata una richiesta al giudice al quale bisogna dimostrate che la gestante è persona conosciuta e che la Gpa avviene a scopo solidale. Il giudice fa gli accertamenti e poi autorizza, decidendo eventualmente anche il rimborso spese. Ci sono poi Paesi come l’Ucraina dove accedono solo coppie di sesso diverso, con problemi di salute per la donna che impediscono di iniziare o portare avanti una gravidanza, accertati da un medico. Il 50% del patrimonio genetico deve essere della coppia. Cioè è vietata l’eterologa totale e i gameti non devono essere della gestante. In tutti i Paesi dova la Gpa è lecita, la gestante deve essere già madre e deve avere un reddito, quindi non deve essere in stato di bisogno. Ci sono però Paesi dove la Gpa diventa una forma di reddito... Io non ne sono a conoscenza: si parla spesso di India, ma l’India dal 2015 prevede solo la forma solidale e solo per i residenti. Altro esempio: in Brasile è una pratica ormai decennale. Lei è favorevole alla Gpa? Se c’è una tecnica di fecondazione assistita che può risolvere problemi a chi non può portare avanti una gravidanza, se tutte le persone in gioco sono consenzienti e informate e libere, se ci sono norme chiare e non c’è nessuna forma di sfruttamento e di violazione dei diritti fondamentali, sì. In ogni Paese si effettua prima una valutazione psicologica e sociologica sulla gestante. Se c’è la libera scelta, io sono d’accordo. Ma può essere libera una scelta del genere? Tutti i Paesi prevedono che la donna sia già mamma e questo significa che la gestante deve fare quella scelta in modo consapevole. Proprio perché l’esperienza di una gravidanza è un’esperienza particolare, soltanto se l’hai vissuta puoi decidere in modo consapevole se farlo o non farlo. Sono scelte individuali. Io posso scegliere di donare un rene per salvare la vita di un’altra persona, e perché non potrei scegliere di prestare il mio corpo per dare un figlio a una famiglia che lo desidera, avendo già conosciuto quell’esperienza per nove mesi? Ci si potrebbe chiedere perché, con 8 miliardi di persone al mondo, il desiderio di un figlio deve essere sempre esaudito... Sulla base di questo ragionamento allora nessuna tecnica di fecondazione medicalmente assistita avrebbero senso. Se ho bisogno di un trapianto per vivere, posso scegliere di farlo oppure morire. Posso scegliere di prendere l’insulina per tutta la vita, oppure dire no. Posso scegliere di accedere all’eterologa perché sono rimasto sterile, oppure dire no. Si chiama libertà di scelta. Perché la destra tiene a questo reato universale, secondo lei? Io credo che risponda ad una logica ben precisa: il governo Meloni vorrebbe un’Italia con cittadini sani che possono procreare in modo naturale e che siano di sesso diverso. Tutto ciò che esce da questi parametri non è l’Italia che loro vogliono. La mala immigrazione: il governo Meloni è il peggiore da 10 anni di Luigi Manconi La Stampa, 1 giugno 2023 Sugli arrivi serve cambiare strategia. L’Ue ci deve aiutare, ma rispettiamo gli standard di protezione: oggi non è così. Dal primo gennaio del 2023 fino a ieri sono sbarcati sulle coste italiane quasi 50 mila tra migranti e profughi (e si tenga conto che la distinzione tra le due categorie è sempre più labile): per l’esattezza, 48.837. Il più alto numero mai registrato negli ultimi dieci anni, con la sola eccezione del 2017. Se proiettiamo i dati relativi ai primi cinque mesi del 2023 sull’intero arco di un anno è possibile che si superi il numero massimo di arrivi dell’ultimo decennio: quei 181.436 del 2016. Balzano agli occhi due immediate conseguenze politiche. La prima: il governo Meloni registra, su uno dei punti qualificanti il suo programma, un’autentica bancarotta, un impietoso fallimento, una sconfitta senza appello. Se fossimo un Paese di persone perbene - e, magari, di gentiluomini - dovremmo aspettarci le scuse del ministro Matteo Salvini nei confronti della precedente titolare del dicastero dell’Interno, Luciana Lamorgese, fatta oggetto di greve dileggio e di indecorose contumelie quando, nel corso del corrispondente periodo di tempo, il numero degli arrivi era di 14.412. La seconda conseguenza riguarda quel colossale spreco di demagogia che accompagna la politica migratoria delle destre. Uno scialo di emotività minatoria (“il blocco navale!”), di cupa xenofobia (“l’invasione! “), di velleitarismo declamatorio (“governeremo l’immigrazione! “) per occultare, tra una smargiassata puerile e una norma discriminatoria, l’incapacità di guardare in faccia la realtà. Tutti al mondo sembrano averlo capito, e da tempo, tranne la destra italiana e i suoi sodali. I flussi migratori costituiscono un fenomeno enorme e non transitorio, derivante da cause profonde di natura storica, demografica, economica, climatica e, ancora, antropologica: ovvero l’irriducibile tendenza dell’essere umano a muoversi. Essa costituisce la base dello ius migrandi, uno dei primi diritti naturali universali, tra i più importanti del diritto internazionale nella sua configurazione liberale classica: sin da quando venne teorizzato, nel 1539, dal gesuita spagnolo Francisco de Vitoria. Poi, come è evidente, quel diritto fondamentale va contemperato con le legislazioni nazionali e con i limiti posti dalle compatibilità economico-sociali e geopolitiche. Ma questo non deve far dimenticare l’entità della questione e la sua dimensione etico-politica. Ebbene, qualche matto o qualche cinico pensa davvero di poter affrontare tutto ciò - meglio, di far credere che lo si possa affrontare - con l’aumento delle motovedette nel Mediterraneo? Con altre ingenti risorse da versare al regime dispotico di Recep Tayyip Erdogan? Con un’ulteriore riduzione dei diritti e delle garanzie per coloro che sbarcano in Italia? Al governo Meloni è richiesto ben altro. È richiesta innanzitutto una prova di verità. Dichiarare che una politica migratoria razionale e intelligente esige la rinuncia a qualunque tonalità populista, uno sguardo lungimirante e un programma di ampio respiro. È chiaro a tutti che la soluzione può essere solo di portata europea, ma - proprio per questo - l’Italia deve abbandonare ogni polemica meschina e, prima ancora, garantire quegli standard di tutela dei diritti fondamentali richiesti dalle convenzioni internazionali ed europee e dalla nostra stessa Carta costituzionale. E deve riconoscere quanto sia falsa la rappresentazione di una Europa “egoista” rispetto a una Italia “troppo generosa”. I numeri dicono altro. Non solo il nostro Paese accoglie i migranti, ma a braccia chiuse: il fatto è che ne ospita un numero inferiore rispetto a Paesi simili. Nel 2022 la Germania ha riconosciuto lo stato di rifugiato o altra forma di protezione a 159.365 richiedenti, la Francia a 49.990, l’Italia a 39.660. È a partire da questi dati, e dalla consapevolezza di un comune destino, che l’Italia dovrebbe avviare quella politica unitaria con l’Europa di cui si continua a parlare senza che si registri un solo passo avanti. Per capirci: è assolutamente vero che la Francia adotta ai confini con l’Italia metodi brutali e che ricorre a trattamenti anche peggiori nel controllo dei movimenti di migranti davanti al Canale della Manica. Ma i gesti di ripicca e di rivalsa non hanno alcuna efficacia, come si è visto. Se volessimo utilizzare un linguaggio, per così dire, salviniano, dovremmo dire che il più pulito ha la rogna; e dovremmo riconoscere onestamente che le violazioni dei diritti umani, in Italia, non sono meno frequenti di quelle che si verificano in Francia, Germania, Spagna. Le condizioni dell’hotspot di Lampedusa non sono diverse da quelle della cosiddetta Giungla di Calais, un accampamento informale realizzato nei pressi della città portuale francese. Un rapporto dell’organizzazione Human Rights Watch ha documentato quanto fosse sistematica la violazione dei diritti umani. E reportage indipendenti hanno raccontato la situazione drammatica dei centri di identificazione ed espulsione, collocati in aree isolate del territorio tedesco. Di conseguenza, il possibile successo di una iniziativa dell’Italia per promuovere una politica migratoria condivisa non può discendere, certo, dall’elenco delle nefandezze attribuibili ai partner, ma dal suo esatto contrario. Dal riconoscimento, cioè, non solo che il problema è comune, ma che comune è il debito che i Paesi membri hanno contratto: rispetto alla salvaguardia degli standard di protezione umanitaria e rispetto alle politiche di inclusione dei nuovi arrivati all’interno del sistema della cittadinanza europea. Da qui, necessariamente, si deve partire. È il riconoscimento di una responsabilità, come dire, in solido e di una strategia condivisa a livello europeo e anche la base indispensabile per realizzare quegli accordi con i Paesi africani, giustamente indicati come condizione indispensabile, ma troppo spesso rimasti sulla carta. E proprio a causa della forza ridotta che ciascun Paese può mettere a disposizione di programmi così ambiziosi di cooperazione internazionale. Non sembra proprio che i numerosi viaggi di Giorgia Meloni nel continente africano muovano da questa consapevolezza e si affidino a questa prospettiva. Il “piano Mattei” sembra essere non più che una vanitosa velleità o una aspirazione impotente, tanto più per un Paese come il nostro, afflitto da tanti limiti strutturali. A questo punto, c’è da augurarsi che sia la disfatta segnalata dall’altissimo numero delle persone sbarcate - evidentemente non turbate dai proclami tonitruanti di Meloni & Salvini - a imporre un radicale cambiamento di strategia. Odissea “asilo politico” per i migranti: fino a sei mesi nel limbo tra ritardi, cavilli e burocrazia di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 1 giugno 2023 Migliaia di pratiche bloccate, il Viminale: “Nessuna strategia dilatoria”. Aumentano i ricorsi dei richiedenti. E le emergenze si sommano a quella ucraina. Anees e Lafuz bussano per la prima volta alla questura di Parma il 26 maggio 2022: uno in fuga dal Pakistan, l’altro dal Bangladesh, lungo la rotta balcanica, 6.500 chilometri di paura e sevizie. Chiedono asilo. Non riescono neppure ad arrivare allo sportello: “Tornate tra una settimana”. Ma ogni settimana vengono rimandati alla successiva, finché viene detto loro che “senza un domicilio non possono nemmeno registrare la domanda”, primo passo dell’iter burocratico. Se registrassero la domanda, avrebbero almeno accesso a un centro d’accoglienza gestito dalla prefettura che servirebbe da domicilio... per registrare la domanda: è un limbo in cui finiscono incastrati, secondo stime delle associazioni di volontari, forse ventimila profughi l’anno, ai quali non resta che la strada. Là dove è rimasto un altro pachistano, Ahmed, dall’8 agosto 2022 al 17 gennaio 2023, finché la giudice Alessandra Filoni, su istanza dell’avvocato Paolo Cognini, non ha condannato il “cortocircuito logico” in cui era imprigionato ad Ancona, descrivendo un paradosso da Comma 22: “Il soggetto giunge in Italia, privo di domicilio, per ottenere la protezione internazionale; suo malgrado non viene collocato nei centri di accoglienza, che costituirebbero anche domicilio valido per le notifiche, per un’asserita indisponibilità di posti (peraltro non documentata) e, per l’effetto, non ottiene la formalizzazione della domanda...”. I tre giorni - La direttiva Ue 2013/32 prescrive “tre giorni lavorativi” (fino a dieci in casi particolari) per il passaggio preliminare della procedura. In Italia la politica ha molto discusso sulla protezione speciale (una tutela meno cogente, di fatto quasi abolita col decreto Cutro ora convertito in legge). Ma in realtà i rifugiati possono impiegare anche sei mesi solo per formalizzare nelle questure la richiesta di protezione internazionale, la tutela principale, concessa loro in base all’articolo 10 della Costituzione. “Sulle richieste d’asilo non esistono contingentamenti, non si possono fare quote”, spiega Riccardo Tromba, uno degli avvocati che per l’associazione Naga forniscono assistenza agli stranieri: “Così dal 2018 si è andati tagliando risorse: se non si dispongono gli uffici in modo tale da rispondere alle domande di chi si presenta, di fatto si contingentano gli accessi”. Sei mesi. Tanto ci hanno impiegato Anees e Lafuz, che insieme a una ventina di compagni hanno bivaccato nell’attesa sui marciapiedi di Parma, finché l’avvocato Calogero Musso, per conto della onlus Ciac, non ha ottenuto dal tribunale di Bologna un’ordinanza che ha imposto alla questura di registrarne le richieste d’asilo, poi al vaglio delle commissioni territoriali. “Prassi illogiche” - Nel 2022, secondo il Consiglio italiano per i rifugiati, su oltre 77.195 richieste, le domande esaminate in Italia sono state 52.625: il 53% ha ricevuto un diniego (27.385), il 12% il riconoscimento dello status di rifugiato (6.161), il 13% la protezione sussidiaria (6.770), il 21% la protezione speciale (10.865) usata un po’ da tappabuchi. I posti nei centri ora scarseggiano e si tende comunque a serbarne una parte per eventuali ondate d’emergenza. Così il diritto d’asilo di fatto dilazionato e denegato sta producendo ricorsi dei migranti e ordinanze dei tribunali, che sovente sanzionano “iniziative repressive” e “prassi illogiche”. Da Milano ad Ancona, da Roma a Bologna, i giudici colmano un vuoto forse politico prima ancora che organizzativo. La prova di ospitalità - A novembre un accesso civico agli atti di “Altreconomia” su un campione del 70% delle questure ha rivelato prassi diffuse: “Si pretendono “prove di ospitalità” che un richiedente asilo appena arrivato in Italia con le proprie gambe e non inserito in accoglienza non potrà mai avere o addirittura certificati di famiglia in caso di figli minori al seguito, tradotti e “legalizzati” dalle ambasciate di quei Paesi dai quali le persone stanno fuggendo”. Il tribunale di Torino, intervenendo sulla questura di Alessandria, ha ribadito che per presentare la domanda è sufficiente “una semplice situazione di transeunte dimora”, basta insomma “trovarsi fisicamente nel territorio di un Comune”. Secondo il mensile milanese, la prassi di imporre la “dichiarazione di ospitalità” si riscontra almeno a Pordenone, Reggio Emilia, Rovigo, Sassari, Siena, Siracusa, Taranto, Aosta, Caltanissetta, Como, Ferrara, Forlì, Lecce, Nuoro, Modena, Palermo, Pesaro, Napoli. Fonti del Viminale non negano il problema, pur parlando di “una attesa media di 70-80 giorni” complicata da talune emergenze, come quella ucraina. Negano però strategie “dilatorie” per diluire l’impatto sull’assistenza: “C’è un metabolismo di queste procedure diverso da Bolzano a Palermo” e l’asilo in quanto tale “è una delle mansioni” cui sono chiamati gli uffici. Si prevedono assunzioni di interinali a giugno. I naufraghi raccolti dalla Guardia costiera hanno una corsia più semplice. “La domanda viene formalizzata più velocemente e vengono smistati nelle strutture d’accoglienza”, dice Gianfranco Schiavone, avvocato dell’Asgi: “Ma verso chi entra in via autonoma, per mare o per terra, viene eretto un muro, come fosse una categoria giuridica diversa”. Il caso Milano - Un caso nel caso è Milano: 6.890 richieste solo nel 2022, limbo ogni settimana più affollato. Nella caserma di via Cagni le tensioni alle transenne dei richiedenti asilo hanno causato scontri, cariche, lacrimogeni, un caos oggetto dell’interrogazione parlamentare di Riccardo Magi il 17 marzo. La questura ha così deciso di spostare online gli appuntamenti, ma senza successo: “Tranne alcuni istanti alle otto del mattino, a ogni clic il sistema risponde che non ci sono date disponibili”, sostengono al Naga. Pochi, malpagati e sotto pressione, i poliziotti sono le seconde vittime di questo ingorgo. “Io vengo dalla Sicilia, per me sono eroi comunque. Sono lasciati soli a gestire una enorme emergenza continua. Le nostre posizioni e quelle del sindacato di polizia Siulp non sono distanti”, concede Musso. I suoi assistiti Anees e Lafuz alla fine hanno ottenuto rifugio al Cara di Crotone, un centro con una lunga storia di problemi. Gli hanno mandato foto di mense e camerate, lamentando condizioni pessime. Poi, una sera, non sono più rientrati. Andando ad accrescere il mezzo milione di invisibili da anni alla deriva nel nostro sistema al collasso. “Sull’immigrazione Regno Unito e Italia devono cooperare. Puntiamo a fermare le partenze all’origine” di Luigi Ippolito Corriere della Sera, 1 giugno 2023 Robert Jenrick è il responsabile dell’Immigrazione del governo britannico. Oggi sarà a Roma: “Abbiamo un interesse comune. La criminalità legata al fenomeno va fermata”. Un ministro britannico sulla rotta dei migranti: oggi Robert Jenrick, titolare dell’Immigrazione al dicastero degli Interni di Londra, arriva in Italia reduce da una visita in Tunisia e Algeria, per poi proseguire verso la Francia, sulle spiagge da cui i clandestini si imbarcano alla volta dell’Inghilterra. Dall’inizio dell’anno sono più di 7.500 gli immigrati illegali che hanno attraversato la Manica, che si vanno a sommare agli oltre 45 mila dell’anno scorso: un’emergenza che il governo guidato da Rishi Sunak ha deciso di contrastare con una politica durissima, che prevede la deportazione in Ruanda di chi arriva illegalmente. L’Italia è un tassello fondamentale nella strategia britannica e la visita di Jenrick, che incontrerà i suoi colleghi del governo italiano, si fonda sulla stretta relazione che si è instaurata fra Sunak e Giorgia Meloni: la scintilla fra i due è scoccata durante la visita della nostra premier a Londra, a fine aprile, e si è consolidata al G7 di Hiroshima, dove Meloni è stata la leader che ha fatto la più grande impressione sul primo ministro britannico, tanto che al suo ritorno a Londra ha dato specifiche istruzioni a tutti i suoi ministri di lavorare con le loro controparti italiane per sviluppare quel rapporto che si è stabilito fra i due premier. L’immigrazione rappresenta un capitolo centrale, che era stato già affrontato durante la visita londinese di Giorgia Meloni, che aveva dato pieno appoggio alle scelte fatte da Sunak. “Vogliamo cooperare al meglio che possiamo con l’Italia su questo dossier - dice Jenrick alla vigilia del suo arrivo a Roma. Abbiamo un interesse comune e una visione comune su come affrontare la sfida”. Quando parla di visione comune intende dire che cercate il sostegno da parte di un Paese europeo sulla politica di deportazione in Ruanda, che è stata in prima battuta bloccata dalla Corte europea per i Diritti dell’Uomo? “Noi abbiamo scelto un approccio che è adeguato alle sfide con cui ci confrontiamo nel Regno Unito. Ogni Paese europeo dovrà trovare un approccio adeguato alle sfide particolari che affronta: noi sosteniamo la premier Meloni nello sforzo di affrontare le sfide italiane e riconosciamo quanto siano serie. Dove vogliamo lavorare insieme è alla fonte: è lì che possiamo fare la differenza ed è per questo sono stato nei Paesi del Nordafrica, come ha fatto di recente la stessa Meloni”. Dunque si tratta di fermare l’immigrazione illegale all’origine? “Esatto. È qui dove i nostri due Paesi possono lavorare strettamente assieme, usando tutti i mezzi a disposizione: nel nostro caso la National Crime Agency (una sorta di Fbi britannico, ndr), la polizia di confine, nonché la politica di sviluppo per sostenere quei Paesi da dove le persone si imbarcano, in modo da scoraggiare le persone dal partire e accrescere il livello di sicurezza e controllo dei confini. Noi britannici possiamo aiutare l’Italia dispiegando le nostre risorse in quei Paesi e a sua volta questo andrà a nostro beneficio, perché meno persone passeranno attraverso l’Europa dirette verso il nord della Francia, da dove si imbarcano per l’Inghilterra”. Vi aspettate anche un ritorno politico sulla questione del Ruanda? “La premier Meloni ha già dato sostegno agli sforzi che facciamo. Capiamo che l’Italia ha dei vincoli, ma questa è una sfida comune europea: c’è una crisi dei migranti che impatta su tutti i Paesi europei, i leader europei responsabili stanno cercando soluzioni. Noi abbiamo la nostra risposta col Ruanda, che altri Paesi europei stanno osservando per vedere quanto ha successo nello scoraggiare gli sbarchi. Ma l’area comune maggiore è alla sorgente: vogliamo mettere in campo tutte le nostre risorse per affrontare la criminalità che sta dietro l’immigrazione, per sostenere gli altri Stati - che siano in Nordafrica o nei Balcani o in Turchia - per affrontare le organizzazioni criminali e migliorare il controllo dei confini. La Gran Bretagna vuole svolgere un ruolo importante a beneficio di tutti i Paesi in Europa: e l’emergente rapporto fra noi e l’Italia può dare i frutti migliori, per entrambi i Paesi, nell’intervenire alla sorgente dell’immigrazione”. Turchia. La lettera dal carcere di Demirtas, l’“Obama curdo” che sfidò Erdogan: “Lascio la politica” di Gabriella Colarusso La Repubblica, 1 giugno 2023 “Non ho saputo dare una linea politica degna della mia gente”, scrive dalla prigione dov’è detenuto da sette anni per “propaganda terroristica” in un processo che la Corte europea dei diritti umani ha definito ingiusto. La scelta dopo la sconfitta dell’opposizione alle elezioni. Aveva scommesso sull’alleanza non ufficiale con i Repubblicani per portare la Turchia fuori dall’era Erdogan, e dare ai curdi una prospettiva di pace, anche subendo la retorica nazionalista che il leader del Chp, Kemal Kilicdaroglu, ha usato nelle ultime settimane di campagna. Ora la sconfitta alle elezioni spinge il leader curdo più importante della Turchia, Selahattin Demirtas, a fare un passo indietro. “Mentre continuo a lottare per la resistenza come fanno i miei compagni di prigione, in questo momento abbandono la politica attiva”, ha annunciato con un messaggio sui social dal carcere dov’è detenuto da sette anni, accusato di “propaganda terroristica” in un processo che la Corte europea dei diritti umani ha definito ingiusto e politicamente motivato, chiedendone più volte la liberazione. “Mi scuso sinceramente per non essere stato in grado di portare avanti una politica degna della nostra gente”. I successi politici, poi l’arresto - Quando irruppè sulla scena politica turca Demirtas aveva poco più di 40 anni, era il 2014. Avvocato, padre di due figli, si era occupato a lungo di diritti umani e riuscì a portare il neonato Partito Democratico dei Popoli, il pro curdo Hdp, a un risultato storico, la terza forza del Parlamento. “L’Obama curdo”, lo definirono i giornali, per le sue capacità oratorie e il carisma. Nel 2014, candidato alla presidenza contro Erdogan, ottenne il 13%, un risultato che nessun politico curdo in Turchia aveva mai raggiunto. Aveva allargato la base del partito, convincendo anche elettori di sinistra. Nel 2016 fu arrestato, ma ha continuato a fare attività politica dal carcere: scrivendo libri, prendendo posizione attraverso messaggi che consegnava ai suoi avvocati e indicando la linea al partito, che nel frattempo aveva nominato due nuovi co-presidenti, un uomo e una donna, come prevedono le regole di parità di genere che i curdi applicano anche alle amministrazioni locali in cui governano. Alle elezioni ha deciso di sostenere, seppur non in una alleanza formale, il leader del Chp, Kilicdaroglu, chiedendo ai suoi di votarlo. Ha funzionato solo in parte: l’affluenza al voto nell’Est curdo, al ballottaggio, è stata decisamente più bassa del primo turno. Ha pesato la campagna nazionalista di Kilicdaroglu: molti hanno accusato Demirtas di non essere più in sintonia con la realtà della minoranza curda nel Paese, esposta ad attacchi crescenti. E lui ha preso atto della sconfitta, decidendo di fare un passo indietro. Il passo indietro - Le motivazioni potrebbero essere anche, in parte, personali, secondo diversi osservatori. Prima del voto i suoi legali erano stati di nuovo messi nel mirino. La sera della vittoria, in un comizio davanti a migliaia di persone, Erdogan ha ribadito che fin quando ci sarà lui al potere Demirtas “non uscirà mai dal carcere” mentre la folla urlava: “Pena di morte per Selo!”, il diminutivo affettuoso con cui lo chiamano i curdi. Farsi da parte ora è anche un modo per proteggere se stesso e la sua famiglia. Erdogan ha puntato tutta la sua campagna sull’accusa a Kilicdaroglu di aver fatto patti con “i terroristi” giocando sul fatto che il fratello di Demirtas, Nurettin, è un membro del Pkk, il partito dei lavoratori curdi considerato organizzazione terroristica da Turchia, Usa ed Europa. La riconferma di Erdogan alla presidenza della Turchia dopo 21 anni ininterrotti al potere è stato un terremoto per l’opposizione che per la prima volta era riuscita ad andare alle urne compatta, sperando nella grande svolta. La sconfitta cambia il quadro. Kilicdaroglu ha scelto di non dimettersi dalla presidenza del Chp, ma la sua carriera politica sembra ormai al capolinea. Mentre sul sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, la vera personalità politica del Chp, considerato da tutti il rivale più forte per Erdogan, pende la scure di una possibile condanna con bando dall’attività politica. Marocco. L’oasi dei rifugiati: a Tangeri la nuova vita di chi ha tentato invano di raggiungere l’Europa di Valentina Petrini La Stampa, 1 giugno 2023 Tony, Evelyne, Tall: dalle violenze dei trafficanti al riscatto grazie a progetti imprenditoriali. “Siamo partiti di notte da Tangeri. Sulla barca eravamo 45 persone, donne e uomini. Non c’erano bambini. Dopo venti ore di navigazione il mare ha cominciato ad agitarsi, le onde erano sempre più grosse. Il telefono satellitare per chiedere aiuto è caduto in mare. Ci ha salvato la Marina Marocchina”. Tony Lueté ha 41 anni, è originario del Congo Kinshasa, oggi vive e lavora in Marocco, è un venditore ambulante. Siamo a Tangeri, città affacciata sullo stretto di Gibilterra, strategico punto di passaggio tra Africa ed Europa fin dai tempi dei fenici. “Ho provato ad attraversare il confine più volte. A Tangeri è davvero vicino. La Spagna è a pochi chilometri. Mi dissero che molti tentavano anche a nuoto. Io non avevo il coraggio. Sapevo che rischiavo di morire. Ma ero determinata lo stesso. Così ho tentato più volte, senza mai riuscirci. Ho pagato un trafficante per salire su una barca però mi sono tirata indietro poco prima di salpare. Non so perché, dentro di me qualcosa mi diceva: non farlo. Quella barca è poi naufragata, sono morti tutti. C’erano tanti bambini”. Evelyne Sandrine Sonia Manda è originaria della Repubblica Centrafricana. Il suo sguardo si incupisce quando evoca questi ricordi. Sono passati alcuni anni, ma fanno male ancora. Oggi Evelyne ha fatto della sua passione, la pittura, un lavoro. Ha un atelier, dipinge su tela, su borse, oggetti vari come sassi e tavole di legno e vende ai turisti. Tall Magatte è senegalese. “Anch’io sono un sopravvissuto. Prego e pregherò ogni giorno per questo. Mi hanno abbandonato insieme ad altre sette persone nella foresta. Ci hanno truffato. Sono arrivato a Casablanca in aereo, il trafficante ci aveva detto che avremmo fatto scalo solo trenta minuti. Il tempo passava e alla fine ci ha fatto uscire dall’aeroporto dicendo che ci avrebbe portato in Spagna via terra, in macchina. Siamo arrivati a Tangeri, poi siamo usciti dalla città e una volta nella foresta ci ha abbandonati, facendoci credere che eravamo già in Spagna, nell’enclave di Ceuta. Era tutto falso. Siamo rimasti lì tre giorni senza mangiare né bere. Molti sono morti davanti ai miei occhi. Sono salvo per miracolo”. Tall Magatte prima di partire dal suo Paese ha lavorato giorno e notte per mettere da parte i tremila euro per il trafficante. È una truffa che subiscono molti di coloro che chiedono espressamente di arrivare in Europa in aereo e non a bordo di una barca fatiscente. Evelyne, invece, in tutti i vari tentativi di attraversare la frontiera ha speso quasi sette mila euro. Tony millecinquecento, solo perché dopo quell’unico tentativo fatto in cui è quasi morto, non ci ha mai più voluto riprovare. Tony, Evelyne, Tall e molti altri non sono però solo migranti che hanno sognato l’Italia. Sono parte di un gruppo che ce l’ha fatta, proprio in Marocco da dove inizialmente volevano solo fuggire. Oggi vivono e lavorano regolarmente. Per alcuni la destinazione finale non era l’Italia ma la Spagna. Fatou Lo è partita dal suo paese di origine in macchina. “Abbiamo viaggiato dal Senegal al Marocco. È stato davvero difficile. Ci sono voluti otto lunghi giorni per arrivare. Non potevamo permetterci di volare, non avevamo alternative”. Fatou Lo ha ventitré anni e due figli. Dovevano tutti imbarcarsi da Tangeri per il nostro continente. Ma una volta arrivati qualcosa cambia i loro piani: suo marito la abbandona insieme ai due bambini. Forse un bene? Chiedo. “Chissà!” sorride. Dormono in strada per qualche giorno, poi la comunità senegalese sul territorio le offre un letto e dei pasti caldi. E lei da quel momento ricomincia tutto da capo. “Oggi sono un’imprenditrice. Mi occupo di vendite online. Sono brava sai? Sto seguendo anche dei corsi di formazione. Studio, ce la faremo”. A fare la differenza non c’è solo la loro determinazione. C’è anche Soleterre dietro queste storie di riscatto. Soleterre è una Fondazione Onlus che lavora per il riconoscimento e l’applicazione del Diritto alla Salute. Curano piccoli pazienti oncologici in Italia e nel Mondo. Dall’inizio della guerra in Ucraina sono in prima linea nell’assistenza sanitaria e psicologica nei reparti oncologici a Leopoli e Kiev. Ma qui in Marocco, a Tangeri e Rabat, Soleterre fa altro. Da oltre 10 anni con il programma internazionale ‘Work Is Progress’ supportano l’inserimento lavorativo e la ri-attivazione professionale di persone in condizione di precarietà occupazionale, che vengono accompagnate e supportate nel superamento delle diverse fragilità, per consentire loro di accedere ad un lavoro adeguato. Lo fanno in Italia e in Africa, in Marocco e Costa D’Avorio. “Lavoro, stabilità, documenti. Per curare le ferite spesso non bastano i medici - dice Damiano Rizzi, presidente di Soleterre - servono opportunità, una mano tesa, il riconoscimento delle proprie capacità e talenti. La prevenzione, la denuncia e il contrasto delle disuguaglianze e della violenza, qualsiasi sia la causa che la genera, sono parte integrante dell’attività che svolgiamo in Italia e nel mondo: perché salute è giustizia sociale”. Intercettano gli utenti che hanno un progetto valido, ma hanno bisogno di essere formati, attraverso attività di coaching di gruppo e individuale. Forniscono anche assistenza legale ai richiedenti attraverso i loro sportelli sul territorio. Fanno tutto in collaborazione con le realtà locali. E da semplici idee nascono progetti imprenditoriali che donano stabilità ai beneficiari presi in carico. È in un viaggio tra Rabat e Tangeri proprio con Soleterre che incontriamo molti dei migranti entrati a far parte del progetto Work Is Progress. Donne e uomini provenienti da Paesi diversi dell’Africa che oggi vivono stabilmente e regolarmente nelle città marocchine. Un punto di vista diverso sull’Africa e anche sul Marocco, che non cancella certamente le atrocità che si consumano ogni giorno nell’enclave di Ceuta da entrambe le polizie di frontiera e tantomeno le storie dei migranti abbandonati nella foresta a sud di Tangeri non solo dai trafficanti ma anche dalle autorità locali. Un viaggio però che aiuta a capire una cosa importante: quanto possa fare la differenza in un progetto migratorio incontrare sul tuo cammino qualcuno che ti prenda in carico seriamente, ti offra formazione e ti dia una mano a trovare un lavoro. Vanne Cliff Nkoy, ha 33 anni, è originario di Brazzaville, Congo. È un imprenditore, ha fondato la sua attività qui in Marocco nel 2017. La sua azienda è ormai presente in diversi paesi dell’Africa, tra cui Guinea Conakry e Congo Brazzaville. “Lavoro anche come consulente per diverse Strutture di cooperazione internazionale e ONG. Il mio ruolo è quello di accompagnare gli imprenditori durante il processo di incubazione dei progetti e mantenere le relazioni con piccole, medie e grandi imprese”. Quando nel 2005 ha lasciato il suo Paese d’origine per studiare in Marocco anche lui sognava l’Europa: “Di più il Canada in verità”. I primi tempi in Marocco era in ansia, non si trovava bene: “perché avevo dei pregiudizi, paura delle aggressioni, delle rapine. La vita non è facile. Il razzismo esiste esattamente come da voi. Ma poi - racconta - le opportunità che ho scoperto in questo paese hanno cambiato i miei piani”. Certo, anche lui non ce l’avrebbe fatta da solo. Anche Vanne Cliff Nkoy ha una storia di truffa alle spalle. Nel 2008 torna in Congo, vuole arrivare in Canada. Si mette nelle mani di truffatori che gli rubano ogni suo risparmio in cambio di promesse false. “Ero a pezzi. Anni di lavoro buttati. Ma ho deciso di rialzarmi. Sono tornato in Marocco e ho sviluppato qui il mio progetto imprenditoriale”. Sophrette Mbuyamba, ha 30 anni, anche lei è originaria della Repubblica Democratica del Congo, viene da Kinshasa. Si diploma, ottiene una borsa di studio e vola in Marocco. Qui conosce Soleterre, viene selezionata per uno stage e magicamente la sua vita cambia. Non tornerà più indietro e non guarda nemmeno oltre. Marie Françoise Sagne viene dal Senegal. Nel 2010 decide di lasciare il suo paese dopo un divorzio che le cambia la vita. Marie non vuole spiegare perché, evocare quell’uomo, quel matrimonio, le provoca ancora dolore. Non insisto. “Ho lavorato molto come cameriera nei ristoranti, ma il mio sogno è diventare imprenditrice, aprire una piccola attività nel settore del commercio. Serve studiare, però, e per studiare servono soldi. La formazione è un passo fondamentale verso l’affermazione”. È esattamente quello su cui vale la pena investire, forse. Un monito all’Europa che elargisce soldi alle polizie di mezza Africa per il contrasto all’immigrazione, anche a regimi violenti come la Libia, che violano sistematicamente ogni diritto. Chissà che effetti avremmo sul fenomeno della migrazione, se questi soldi invece di essere destinati ai Ministeri dell’Interno (che nemmeno fermano le partenze), andassero in politiche serie e tracciabili per favorire studio, formazione, sanità e accesso al lavoro. Annique, ha 42 anni, viene dalla Costa d’Avorio ed è a Rabat da soli otto mesi. Anche lei nel suo passato ha un uomo violento. “Mi hanno costretto a sposarmi con la forza con un uomo anziano di più di 80 anni. La mia vita era estremamente dolorosa, mi picchiava quasi tutti i giorni. Ero solo un oggetto. Non avevo alcun diritto. In questo clima di tortura ho dato alla luce tre figli”. Annique è scappata e li ha lasciati a casa. Lo racconta a bassa voce, quasi a temere il giudizio altrui per questa scelta fatta. “Le cose peggioravano ogni giorno, non ce la facevo più, era un incubo. Prima o poi mi avrebbe uccisa”. Non ha documenti, è a tutti gli effetti illegale anche in Marocco. Un beneficiario del progetto ‘Work Is Progress’ che è riuscito ad aprire dei negozi di abbigliamento l’ha accolta e le ha dato un lavoro. Ora la speranza per il futuro è di poter anche lei seguire un corso di formazione, specializzarsi e ottenere i documenti. “Solo così potrò tentare di riprendermi i miei figli e portarli qui con me”. Non c’è retorica nei racconti trovati sul campo: nessuno ha consigli da dare a chi è in procinto di partire con in mente la destinazione Italia, Spagna, Europa. “Io conoscevo i rischi che correvo affrontando la traversata del mare - mi risponde Tall quando gli chiedo di rivolgersi alle migliaia di donne e uomini in partenza dal continente africano verso casa nostra - Non posso dire nulla ai miei fratelli nella mia stessa situazione. Chi ha fame deve cercare da mangiare. Certo, dico, fate attenzione, il mare è cattivo, puntare all’Europa può significare perdere la vita. Ma i nostri governi non concedono diritti e non attuano politiche di sostegno all’occupazione giovanile. Non ci lasciano molta scelta”. Ucraina, la madre di tutte le guerre di Danilo Taino Corriere della Sera, 1 giugno 2023 La guerra in Ucraina non è la sola; ma uniche sono le conseguenze che avrà il suo esito. Si tratta di un moltiplicatore dei conflitti nell’intero mondo. Eh sì, non c’è guerra solo in Ucraina. I Paesi che non si sono allineati a Stati Uniti ed Europa nella condanna dell’invasione russa - dall’India a parte del Sudest asiatico, dell’Africa e del Sudamerica - sottovalutano la portata globale dell’aggressione di Putin. Ma hanno ragioni nel dire che la comunità internazionale non parla che del conflitto in Europa e trascura quelli nel resto del mondo. Denunciano una tendenza reale ma ne sottovalutano un’altra. L’Istituto internazionale per la ricerca sulla pace, Sipri, ha pubblicato uno studio sulle operazioni multilaterali di pace nel 2022: indicativo dei punti di crisi e di guerra. Ce ne sono state 64, che è il numero più alto da ameno un decennio, in 38 Paesi e territori. Venti sono state condotte dalle Nazioni Unite, 38 da organizzazioni regionali, sei da coalizioni organizzate ad hoc. Delle 64 operazioni, 24 si sono sviluppate nell’Africa sub-sahariana, 18 nell’area europea, 14 in Medio Oriente e Nord Africa, cinque in Asia e tre nelle Americhe. Il numero di personale impiegato è aumentato del 2,79% rispetto al 2021, a 114.984. L’anno scorso sono state lanciate nuove operazioni in Kazakistan (durata solo due settimane), Somalia, Guinea-Bissau, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo. La missione di pace più consistente, 19.696 donne e uomini, è stata quella dell’Unione Africana in Somalia seguita da quelle dell’Onu nel Mali (17.321 persone) e nel Sud Sudan (15.579). Grandi numeri ma se ne parla pochissimo nei governi, nelle diplomazie e nei media occidentali (e non solo occidentali). Stati Uniti, Europa, Giappone e i Paesi democratici farebbero invece bene a prestare attenzione se non vogliono vedere le loro relazioni con il Sud del mondo deteriorarsi ulteriormente. Le Nazioni che oggi si sentono trascurate, però, non possono sottovalutare la rilevanza della guerra in Ucraina. Si tratta di un moltiplicatore dei conflitti nell’intero mondo, soprattutto se dimostrasse che l’aggressione paga e che non c’è più un ordine mondiale, finora mantenuto dall’egemonia globale degli Stati Uniti. Ogni forza maligna si sentirebbe incoraggiata ad affermare i propri obiettivi senza doverne rispondere. La guerra in Ucraina non è la sola; ma uniche sono le conseguenze che avrà il suo esito. Anche per chi pensa di essere più a Sud. Siria. L’anfetamina che aiuta il regime di Assad di Maziar Motamedi Internazionale, 1 giugno 2023 Il governo siriano è coinvolto nella produzione di captagon, una droga diffusa in tutta la regione. E per farsi riammettere nella Lega araba ha promesso di fermare il contrabbando. Dalle nuove dinamiche regionali al desiderio di mettere fine alla crisi dei rifugiati, sono molti i fattori che hanno contribuito al ritorno della Siria e del presidente Bashar al Assad all’ovile arabo. Ma al centro della questione c’è anche una sostanza stupefacente. La Siria è il maggior produttore al mondo di captagon, un’anfetamina venduta illegalmente in tutta la regione. Captagon era il nome commerciale di un farmaco psicoattivo prodotto negli anni sessanta in Germania, poi vietato ovunque. Oggi alimenta la vita notturna in Medio Oriente e da anni rappresenta una linfa finanziaria vitale per Assad, rimasto isolato dopo che le proteste del 2011 in Siria sono degenerate nella guerra civile. Assad nega che il governo guadagni dalla droga, ma per gli esperti il presidente ha trasformato la Siria in un narco-stato, con un business da miliardi di dollari all’anno che si ritiene abbia un valore superiore a quello delle operazioni gestite dai cartelli messicani. Non stupisce che Assad non abbia affrontato pubblicamente il traffico di captagon quando il 19 maggio ha ricevuto una calorosa accoglienza a Jedda, in Arabia Saudita, al 32° vertice della Lega araba, poco dopo la riammissione del suo paese, sospeso dodici anni fa. La Siria ha accettato di controllare il traffico di droga attraverso i suoi confini con la Giordania e l’Iraq dopo un incontro dei ministri degli esteri dei paesi arabi che si è svolto all’inizio di maggio per discutere la ripresa dei rapporti con Damasco. Alcuni giorni dopo un raid aereo in Siria ha ucciso il presunto boss siriano della droga Marai al Ramthan. La Giordania è ritenuta responsabile dell’attacco, anche se non l’ha confermato ufficialmente. Secondo Caroline Rose, esperta di captagon e direttrice del New Lines institute, negli Stati Uniti, il traffico della sostanza è diventato una priorità nel processo di normalizzazione con la Siria: “Il regime siriano ha già condotto dei sequestri di facciata. Vuole far credere ai governi arabi di poter fermare il captagon, se convinto e incentivato a farlo, soprattutto con l’alleggerimento delle sanzioni e i pacchetti economici”. Rose prevede un aumento dei sequestri e una maggiore presenza del tema sui mezzi d’informazione siriani controllati dallo stato per attirare l’attenzione sullo sforzo di Damasco. “Alcuni trafficanti non strettamente allineati al regime saranno sacrificati”, afferma, aggiungendo che non saranno toccati i finanziatori considerati centrali in questo commercio, come Wasim Badi Assad, cugino del presidente sanzionato ad aprile da Stati Uniti e Unione europea. Ancora pericoloso - Dalla fine di aprile Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania e Iraq hanno annunciato numerosi sequestri di decine di milioni di pillole prodotte in Siria, per un valore stimato superiore al miliardo di dollari. Però non hanno incolpato pubblicamente il governo di Assad, perché era in corso il processo di normalizzazione. Secondo Joshua Landis, direttore del Center for Middle East studies dell’università dell’Oklahoma, negli Stati Uniti, anche se molti ritenevano che la guerra, le sanzioni, la divisione del paese e l’accesso negato al gas e al petrolio siriani avessero reso Assad inoffensivo, il traffico di captagon dimostra che il presidente siriano non va ignorato e può provocare danni. Gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno dichiarato che rifiuteranno di riprendere le relazioni con la Siria in assenza di un regolare processo elettorale. Nella regione il Qatar e altri paesi arabi restano contrari al reintegro della Siria senza condizioni, ma hanno scelto di non impedirlo. Lina Khatib, direttrice del Middle East institute alla School of Oriental and African studies di Londra, la considera una vittoria per Assad: “Gli stati arabi hanno altre priorità nazionali e regionali a cui destinare risorse, dalla crescita economica alla stabilità dei paesi più vicini”. Khatib ritiene improbabile che il presidente siriano rinuncerà al captagon: “Il meglio che i paesi arabi possono sperare è che gli elementi del regime coinvolti nel traffico di droga decidano di dirottarne una parte su altri mercati, così da ridurre il flusso della sostanza nella regione”. Iran. La storia di Fatemeh Sepehri, pasionaria in guerra col regime di Pegah Moshir Pour La Repubblica, 1 giugno 2023 Fervente musulmana, chiede da anni la fine della teocrazia. Nonostante il carcere e le vessazioni. “Sono 44 anni che ci scambiamo le condoglianze, ma le famiglie sono stanche di piangere. Spero con tutta me stessa che Ali Khamenei e tutti quelli legati a lui se ne vadano dal nostro bellissimo Paese. Questi sono assassini, stanno distruggendo il popolo con ogni mezzo. Oggi Mahsa Amini, domani un’altra, sono anni che va avanti così: per ogni passo che facciamo, c’è un morto da piangere. Popolo iraniano, svegliati. Teniamoci per mano e scacciamo una volta per tutte questo incubo. Cosa stiamo aspettando? Cosa deve accadere ancora? Non dobbiamo avere speranza in un cambiamento di questo regime ma solo in noi stessi, e aiutarci a sradicare questa gentaglia. Quanti altri morti dobbiamo piangere? Cosa è rimasto ancora? Stiamo soffocando con tutte queste uccisioni! Devono andarsene tutti. Ali Khamenei deve andarsene. Non c’è punto di ritorno, siamo stanchi. L’Onu resta in silenzio. Mondo, parlo a te: se non ci vuoi aiutare, noi non possiamo fermarci. Fino a quando non sotterreremo il regime della Repubblica islamica noi non molleremo. Io sono contenta di aver fatto sentire la mia voce prima della mia morte”. Sono le parole, nella sua ultima intervista online, di Fatemeh Sepehri. Una donna iraniana di 58 anni, una musulmana che porta il velo orgogliosamente. Una figura luminosa. Fatemeh è una donna che ha visto la sua esistenza scossa dalle brutali leggi iraniane, e che ha trasformato il suo dolore in forza. Quando il marito fu ucciso nella guerra Iran-Iraq degli anni ‘80, gli agenti del regime le tolsero tutto ciò che le era rimasto. Ma trovò la forza di opporsi, di resistere, di lottare. Quando nel 2019 mise la sua firma sulla “dichiarazione dei 14 attivisti politici” in cui si chiedevano le dimissioni del leader supremo Ali Khamenei, forse non immaginava che quel gesto l’avrebbe condotta alla prigionia. La “Dichiarazione” era una lettera aperta firmata da 14 attivisti politici all’interno dell’Iran, fra i quali suo fratello Mohammad Hossein Sepehri, e rivolta al popolo iraniano: invitava Ali Khamenei a dimettersi dal suo incarico di leader supremo dopo 20 anni di mandato. Alcune settimane dopo, Fatemeh e altre 13 donne ne firmarono un’altra, analoga, in cui sostenevano che il dominio teocratico aveva portato all’“apartheid di genere” e aveva “cancellato” i diritti di metà della popolazione del Paese. Fatemeh fu condannata a dieci anni di carcere e 154 frustate. Il tribunale di Mashhad l’aveva condannata per “collaborazione con governi stranieri ostili”, cinque anni per “collusione contro la sicurezza nazionale” e un anno per “propaganda contro il regime”. La sentenza venne confermata in appello, e la sua liberazione dopo nove mesi fu una piccola vittoria. Ma la sua lotta era tutt’altro che finita. Arrestata nuovamente durante una manifestazione pacifica nel 2021, e poi di nuovo mentre era a casa sua, Fatemeh è diventata un simbolo di resistenza contro l’oppressione. Nonostante l’isolamento forzato, nonostante le condizioni precarie - la sua pensione era stata sospesa per ordine di Khamenei - ha tenuto duro. Nel corso degli anni la sua voce è risuonata tra le mura della sua cella, ha attraversato le sbarre, è arrivata oltre i confini dell’Iran. Fatameh Sepehri ha descritto un popolo stanco, oppresso, che bramava dignità e diritti per le donne, che anelava a un nuovo sistema politico. Ha promesso di non smettere di lottare finché il suo Paese non si fosse liberato dalle catene dei suoi governanti clericali. Il 21 settembre 2022 le forze di sicurezza l’hanno nuovamente arrestata, a casa, e l’hanno incarcerata nella prigione di Vakilabad. Un mese dopo, il 23 ottobre, sua figlia ha condiviso un video in cui spiegava che per tutto il mese precedente la madre era stata tenuta in isolamento. Un gruppo di attivisti per i diritti umani in Iran, Harana, ha segnalato che Fatemeh si trovava in cattive condizioni di salute dopo un intervento chirurgico. Condannata a 18 anni di carcere con l’accusa di “collaborazione con Paesi ostili”, “insulto alla leadership” e “propaganda contro il regime”, la sentenza di Fatemeh è stata confermata in appello. Oggi la sua vita è in pericolo. Nonostante un recente intervento chirurgico alla mano sinistra e un’emorragia allo stomaco, è stata rimandata in prigione. Eppure, anche in questo momento, Fatemeh resta un faro di forza e speranza, una testimone del coraggio umano, una donna che si oppone all’oppressione con una determinazione indomita. La sua voce continua a risuonare, portando con sé la promessa di un giorno migliore.