Che cosa c’entra la giustizia di Michele Serra La Repubblica, 18 giugno 2023 Poiché “Sindaci” e “corrotti” non sono sinonimi, sarebbe utile capire se il pacchetto- Nordio è “salva-sindaci” oppure “salva-corrotti”. Se lo si chiede a un sindaco inquisito per uno dei reati più incerti e deformabili mai visti al mondo, che è l’abuso di ufficio, vi dirà: è salva-sindaci. Se lo chiedete a un piemme che rischia di non poter più ricorrere contro un’assoluzione che gli pare ingiusta, vi dirà che è salva-corrotti. Se lo chiedete a un giornalista d’inchiesta penalizzato nel suo lavoro (che è un servizio pubblico) è salva-inquisiti. Se lo chiedete a uno dei tanti imputati innocenti che si sono visti sputtanare sui media (disservizio pubblico) è salva-innocenti. L’impressione è che il pacchetto-Nordio sia un po’ di cose messe insieme e poi spacciate per “garantiste” tanto per darsi un tono. Un governo forte e trasparente avrebbe detto: ecco le nostre proposte. L’opposizione le avrebbe discusse aggiungendone altre (per esempio l’affanno degli uffici giudiziari: che riforma è, una riforma che per prima cosa non ripara il motore?). Ma non può accadere perché la giustizia italiana è, da tempo, il più pretestuoso degli argomenti, sbandierato in faccia al nemico come uno stendardo rubato in un derby. Ora lo stendardo è nelle mani degli “eredi di Berlusconi”, e come si può capire è la peggiore possibile tra le condizioni credibili, in materia di giustizia. Specie se ci si affretta a sventolarlo, questo stendardo, a esequie appena concluse, come omaggio al più illustre imputato plurimo degli ultimi decenni. Inevitabile che le opposizioni si mettano di traverso. E i sindaci, che hanno rischiato e spesso conosciuto la galera per una firma di troppo? Non sono loro, e nemmeno i diritti dei cittadini, la ragione del contendere. Si sta ancora parlando, e chissà per quanto, di Berlusconi. Nordio: “Interferenze dall’Anm”. Ma i magistrati protestano di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 18 giugno 2023 Scontro fra il guardasigilli e il sindacato dei magistrati. E la maggioranza procede compatta sul nuovo disegno di legge. “Per il risultato raggiunto, anche di fare innervosire le opposizioni che si sono divise, mi darei anche un dieci. Vedere che il maggiore partito dell’opposizione si spacca in due, per noi è un risultato importante”. Il ministro Carlo Nordio non teme lo scontro. Anzi lo rivendica nel difendere il suo disegno di legge sulla giustizia, approvato due giorni fa in Consiglio dei ministri. E non usa il fioretto neppure nel dare l’altolà ai magistrati che avevano duramente criticato la riforma. “Se il rappresentante del sindacato magistrati — replica al presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia — pronuncia critiche severissime, prima che sia noto il testo del disegno di legge, per me le sue sono interferenze. L’interlocutore istituzionale del governo e della politica è il Consiglio superiore della magistratura”, chiude quindi la porta. Immediata la replica di Santalucia: “Abbiamo non solo il diritto, ma il dovere di prendere parola”. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, braccio destro di Giorgia Meloni, non è meno netto del ministro: “Questo ddl è un primo decisivo segnale per ribadire che la politica decide senza attendere la dettatura dalle correnti della magistratura associata. Quando si è insediata a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ha detto “non sono ricattabile”: questo governo non è ricattabile, a partire dalla giustizia”. Con Nordio, compatta, fin qui, la maggioranza di governo. Maurizio Gasparri di Forza Italia lancia anche un avvertimento a Salvatore Busia, presidente dell’Anticorruzione, che aveva evidenziato i rischi collegati all’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. “Forse dovrebbe valutare di passare a un’altra funzione”, affonda il senatore. Antonio Tajani guarda già al dopo: “Ora separazione delle carriere”. Sostegno alla riforma anche da FdI e Lega. Nordio, nel suo intervento pubblico a Taormina, tocca tutti i punti fondamentali della riforma, per difenderli nel merito e anche per rilanciare. La stretta sulle intercettazioni definite “una barbarie che costa 200 milioni all’anno con risultati minimi” è solo un primo passo: “Interverremo molto più radicalmente”. Sul freno al ricorso alla custodia cautelare: “Siamo infarciti di errori giudiziari che hanno tenuto persone in carcere per mesi o per anni prima di essere assolte e alcuni dei magistrati responsabili sono stati promossi o siedono in parlamento”. Sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, tema che divide il Pd, concede: “Com’era formulato era evanescente, ma se l’Europa ci chiedesse una rimodulazione, la accoglieremmo”. Contro la riforma e contro l’atteggiamento del ministro nei confronti delle toghe, si schierano le opposizioni, Terzo polo escluso. “Il pacchetto Nordio indebolisce garanzie di legalità, non colpisce le gogne mediatiche ma la libertà di informazione”, dice Walter Verini del Pd. “Il ministro censura il presidente di Anm, Gasparri il presidente di Anac. Un’intolleranza preoccupante verso le opinioni diverse”, sostiene Franco Mirabelli (Pd). Il leader del M5S, Giuseppe Conte, nella riforma vede “un disegno organico” per “liberare enormi spazi di impunità, cancellare presidi contro la corruzione e mettere il bavaglio alla stampa”. Lo strappo di Nordio su Anm e intercettazioni: “Non interferite” di Liana Milella La Repubblica, 18 giugno 2023 Attacco senza precedenti del Guardasigilli ai magistrati dopo le critiche alla sua riforma. “Nostro interlocutore è solo il Csm”. Nordio all’attacco. Contro gli ex colleghi magistrati. A partire dal presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Con lui ce l’ha tantissimo. Ne contesta persino il ruolo perché si è “permesso” di criticare il suo disegno di legge. Intervistato al Taobuck di Taormina il Guardasigilli dice testualmente: “Se il rappresentante di un sindacato di magistrati, prima che fosse noto il testo del ddl, pronuncia una serie di critiche severissime, per me, in corretto italiano, significa interferenza”. Nordio va oltre quando afferma che “l’interlocutore istituzionale del governo e della politica non è il sindacato, ma il Csm”. Una delegittimazione gravissima, che nemmeno Berlusconi aveva mai rivolto alle toghe nei più duri momenti di conflitto. Ma oggi, pur di difendere le sue norme, Nordio fa anche questo. Provocando dopo qualche ora la reazione sorpresa del malcapitato Santalucia. Toni soft, e una premessa, l’Anm “da oltre un secolo” rappresenta le toghe. Ma “l’essenza della vita democratica garantisce che l’Anm abbia non solo il diritto ma anche il dovere di prendere la parola per arricchire il dibattito sui temi della giustizia”. Nelle chat dei giudici il mood anti Nordio è assai più acceso... Mentre il ministro attacca pure gli ex, come Grasso e Cafiero De Raho, perché “appena andati in pensione si sono candidati in politica” e non avrebbero dovuto farlo. In punta di modestia, porta a modello se stesso che ha “aspettato cinque anni”. Pantaloni bianchi, scarpe senza calze e camicia sbottonata con le maniche tirate su, Nordio si vendica della pioggia di critiche che gli sono piovute addosso sul ddl bocciato da giudici e opposizione. Nonché dalla stampa, per via del bavaglio sulle intercettazioni. Ma Nordio, di bavagli, ne vuole mettere molti altri. E le vittime sono le malcapitate toghe. Sulle quali pioverà, come anticipa il vicepremier forzista Antonio Tajani, pure la separazione delle carriere, quando si compirà “il disegno di Berlusconi”. È un ministro “contro” gli ex colleghi, e non è certo la prima volta. Lo ha fatto spesso in Parlamento, nelle interviste, in ogni occasione pubblica. Ripetendo le stesse cose. Stavolta si dà perfino i voti: “Mi darei anche un 10 per aver fatto innervosire le opposizioni che si sono divise”. E ancora: “Vedere che il maggior partito dell’opposizione si spacca in due per noi è un risultato importante”. Parla dell’abuso d’ufficio, e del fatto che nel Pd i sindaci vogliono la cancellazione e Schlein è contro. È stato pm, ma non crede al mestiere che ha fatto, se afferma che “la lotta alla corruzione non si fa con le armi penali, non ha funzionato e non funzionerà mai, ma con la semplificazione normativa”, tant’è che lui cancella i reati o ne riduce la portata come per il traffico di influenze. Nordio attacca su tutto. L’interrogatorio prima dell’arresto? “È giusto che una persona venga avvertita prima, così si può difendere, e non dopo quando verrà scarcerata dal tribunale della libertà”, parole in cui è implicita la critica ai colleghi che agiscono con troppa leggerezza. Difende la misura più criticata, il gip collegiale, perché “sei occhi vedono meglio di due” e perché “la custodia cautelare dev’essere l’eccezione”. Peccato che la coperta è corta, i giudici non ci sono, lo dicono i colleghi di tutte le correnti, tant’è che lui ne vuole assumere altri 250, ma i concorsi sono pazzescamente in ritardo. Dà il meglio di sé quando si butta nella polemica che gli è più cara, quella contro le intercettazioni, “una barbarie che costa 200 milioni l’anno”, “una cifra colossale per inchieste che raggiungono risultati minimi”. Poi cerca di coinvolgere il procuratore nazionale antimafia Gianni Melillo portandolo dalla sua parte sulla storia dell’inadeguatezza delle intercettazioni classiche rispetto ai potentissimi mezzi della criminalità. Peccato che Melillo non abbia mai detto che si debbano cancellare le intercettazioni tradizionali, ma solo che sono necessari sistemi tecnologicamente più moderni. Nordio ripete la frase che già gli è costata una dura polemica in Parlamento, “ma vi pare che la mafia parla al telefono, lo sanno di essere intercettati”. Le inchieste dimostrano il contrario. Da Nordio schiaffo ai pm: “Interferite nella politica e avete fatto troppi errori” di Francesco Grignetti La Stampa, 18 giugno 2023 Il Guardasigilli reagisce alle critiche dell’ordine giudiziario sulla riforma in arrivo. La replica di Anm: “Abbiamo il dovere di prendere la parola sui temi della giustizia”. Il ministro Carlo Nordio non lascia (la polemica), ma raddoppia. Avrebbe potuto godersi il notevole successo che è seguito alla presentazione del suo primo pacchetto di norme. “Per il risultato che abbiamo raggiunto, anche di fare innervosire le opposizioni che si sono divise, mi darei un dieci”, dice con una certa baldanza. Proprio perché dalla politica la reazione non è stata poi così ficcante, però, sono state le puntigliose critiche dell’associazione magistrati a dargli più fastidio. E il ministro reagisce male: “Se il rappresentante di un sindacato di magistrati - dice durante il festival letterario Taobuk SeeSicily, a Taormina - prima che fosse noto il testo del disegno di legge, ha pronuncia tutta una serie di critiche severissime, secondo me in corretto italiano significainterferire”. È un concetto che Nordio aveva già espresso. Il senso è che la magistratura deve stare al suo posto e non intervenire nella elaborazione delle leggi. “Nel mio mondo ideale, i rappresentanti dei giudici non possono e non devono criticare le leggi in formazione come i politici non devono criticare le sentenze”. L’associazione magistrati non può non replicare. “I magistrati e l’Anm che ne ha da oltre un secolo la rappresentanza - gli risponde il presidente Giuseppe Santalucia - hanno non solo il diritto ma anche il dovere di prendere parola, per arricchire il dibattito sui temi della giustizia. Perché in tal modo ampliano il confronto e contribuiscono, con il loro punto di vista argomentato e ragionato, a migliorare ove possibile la qualità delle riforme. Questa è l’essenza della vita democratica”. Velenoso, poi, è l’accenno di Nordio agli “errori giudiziari” degli ex colleghi. Lui è dalla parte dei cittadini: “Sapete quanto è costato il processo fatto a suo tempo contro Andreotti che è finito nel nulla? È costato un miliardo di lire alla parte soltanto per fare le fotocopie”. Con l’Anm, insomma, è guerra aperta. Nordio non li vorrebbe più ascoltare. “L’interlocutore istituzionale del governo e della politica non è il sindacato, ma il Csm”, scandisce. Tale è la sua verve che si scaglia contro gli ex colleghi passati al Parlamento. E il suo caso? “Avevo detto che il magistrato non dovrebbe mai fare politica, poi ho ritenuto che dopo cinque anni dalla cessazione del mio lavoro in magistratura questa decantazione potesse giustificare il fatto di assumere una carica governativa”. Nel merito della riforma, Nordio non ha molto da aggiungere. Garantisce che interverrà sulle intercettazioni radicalmente. “Che sia una barbarie che costa 200 milioni di euro l’anno per raggiungere risultati minimi è sotto gli occhi di tutti”. Il reato di traffico di influenze è stato riscritto perché “la stessa raccomandazione poteva essere ritenuta traffico di influenze”. Quanto all’abolizione dell’abuso di ufficio, se la Ue dovesse riprenderci, Nordio è pronto al passo indietro: “Se l’Europa ci chiedesse una sorta di rimodulazione, noi siamo disposti ad accoglierla”. Quanto alle critiche di chi, come il professor Franco Coppi o Giulia Bongiorno, teme un’escalation dopo l’abrogazione dell’abuso di ufficio, “mi rifiuto di pensare che un pm, se non riesce a contestare un reato, ne cerchi un altro. Se così accadesse, significherebbe che quel pm non sta guardando al reato ma al reo, cioè alla persona che vuole colpire e che magari è un politico”. Il Guardasigilli vuole menomare il potere delle toghe di Gian Carlo Caselli La Stampa, 18 giugno 2023 Il provvedimento va nel solco della delegittimazione berlusconiana della magistratura per anni le toghe considerate “nemiche” sono state subbissate di ispezioni e azioni disciplinari. Non si era mai vista una (contro) riforma della giustizia fatta da un Guardasigilli Marchese del Grillo che cerca sostegno in una sorta di seduta spiritica per evocare il santo Cavaliere e operare “un nuovo tentativo di menomazione del potere del pm, oltre i limiti della tollerabilità costituzionale” (Donatella Stasio), posto che tutta la storia di Silvio Berlusconi va in questa precisa direzione. Vero è che l’umana pietà per il defunto è tracimata (a reti tv allineate) nella rimozione di ogni accento critico, anche sul versante accidentato della giustizia ai tempi del Cavaliere. Ma sostenere che la (contro) riforma è garantista come lo era Berlusconi fa a pugni con la storia. Tra il 1992 e il 1994, quando la magistratura stava guadagnando un consenso crescente con Tangentopoli e Mafiopoli, alcuni settori della politica e dell’economia (allergici a un controllo di legalità non più condizionabile) decisero di frenare l’azione dei magistrati. All’epoca, però, i magistrati in questione erano popolarissimi; finalmente, infatti, qualcuno stava dimostrando che la legge può davvero essere uguale per tutti! Ed ecco che i loro detrattori, non potendo attaccare direttamente i processi, utilizzarono l’espediente delle accuse strumentali contro i magistrati. È in questo contesto che si diffonde una delle maggiori anomalie italiane: il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti “celebri”, in una sorta di impropria riedizione del cosiddetto processo di rottura utilizzato però da membri dello Stato, anziché da sue antitesi come le Brigate rosse durante gli Anni di piombo. In altre parole, una strategia di difesa “dal” processo anziché “nel” processo, l’antitesi del sistema di stretta legalità. Un’anomalia che si può dimostrare con un testimone eccezionale, il Presidente Usa Bill Clinton: processato da un magistrato “speciale”, cioè nominato apposta per lui che non esitò a pretendere l’accertamento medico-legale della provenienza di alcune tracce organiche che una giovane stagista aveva a lungo “diligentemente” conservato sul suo abito. Un’umiliazione tremenda per l’uomo più potente del mondo. I suoi biografi raccontano che ne fu scosso al punto che per un bel po’ non riuscì a ritrovare la chiave in suo possesso (l’altra era custodita dal ministro della Difesa) della valigetta di accesso all’arsenale nucleare Usa. Eppure, nonostante l’umiliazione e il turbamento profondissimi, a Clinton non passò mai per l’anticamera del cervello di prendersela con il giudice. A differenza di quel che è accaduto in Italia. Per molto meno. Veniamo così alle vicende giudiziarie del presidente Berlusconi, nei termini in cui Livio Pepino ed io ne avevamo già scritto in un libro di Laterza (“A un cittadino che non crede nella giustizia”) del 2005. Tanto per dire che si tratta di argomenti noti da tempo e non elaborati solo post mortem. Dunque, un processo penale a carico del presidente del Consiglio non è mai cosa da poco né appartiene all’ordinaria amministrazione. Figurarsi se i processi sono più d’uno e se riguardano (ipotizzate) corruzioni di giudici e pubblici funzionari (alcune risalenti all’epoca in cui il capo del governo era solo un imprenditore di successo, ma non per questo meno gravi). La valenza oggettivamente politica dei processi e il loro effetto dirompente erano inevitabili: così sarebbe stato in ogni parte del mondo. Ciò che non era scontato è la guerra frontale ai giudici e alla giurisdizione che ne è seguita, con il connesso rischio di travolgere l’immagine stessa della giustizia. Casi analoghi sono accaduti, seppur sotto altri cieli, anche di recente e le reazioni dei personaggi pubblici inquisiti sono state le più diverse: dalla proclamazione della propria innocenza, all’ammissione delle proprie responsabilità. Ma mai (salvo oggi Trump) è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di un capo di governo abbia determinato la contestazione in radice, da parte dello stesso leader e dei suoi sodali, del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici (indicati tout court come avversari politici). Questo è, invece, ciò a cui si è assistito nel nostro Paese, in un crescendo che ha visto l’attacco quotidiano a pm e giudici, l’indicazione dell’attività di indagine come “colpo di Stato”; la denuncia in sede penale degli inquirenti, sottoposti a continue ispezioni ministeriali e azioni disciplinari; l’approvazione di leggi ad personam o di leggi per addomesticare la prescrizione, fino alla legge Cirami e al lodo Schifani. Tutto questo, secondo il Cavaliere, è stato reso necessario da un complotto giudiziario, non diversamente sventabile e dimostrato - alla fine - dalla propria generale assoluzione e dal consenso elettorale (che avrebbe l’effetto di azzerare responsabilità e processi). Ma i fatti riportati nel capitolo 3 (“La leggenda di un presidente del Consiglio perseguitato dalla giustizia”) del libro sopra citato sono altri: dei processi di Berlusconi si sono occupati complessivamente oltre cento magistrati dei più vari orientamenti culturali (troppi e troppo diversi per qualunque complotto); delle sentenze di proscioglimento, alcune (tre su sei) sono state determinate, in tutto o in parte, da prescrizione conseguente all’applicazione delle attenuanti generiche (con parallela condanna, definitiva o in primo grado, dei coimputati cui tali attenuanti non sono state concesse); in altrettanti casi l’assoluzione è stata pronunciata ai sensi del secondo comma dell’articolo 530 cpp (insufficienza o contraddittorietà della prova). In sostanza, possiamo dire che si è trattato di accertamenti doverosi e che la continua evocazione del complotto giudiziario altro non è che lo sperimentato e studiato sistema per trasformare in verità, grazie all’ossessiva ripetizione, anche il falso grossolano. Dopo il 2005 la musica, sostanzialmente stabile, registra tuttavia il burlesque della Camera che vota “Ruby Rubacuori” come nipote di Mubarak e la condanna definitiva del Cavaliere per frode fiscale con la perdita del seggio in Senato. Il bilancio finale di circa trent’anni è devastante per la giustizia. Perché, se lo dice, con il peso che gli deriva dalla carica, il premier, ogni cittadino soccombente in una causa civile o penale si sente legittimato a credere e dire che ciò è avvenuto non per colpe o torti propri (o, al limite, per errore), ma per la prevenzione - o peggio - del giudice avuto in sorte. La questione è, dunque, cruciale e nella sua anomalia rivela che i poteri forti preferiscono avere servizi più che decisioni imparziali e mal tollerano magistrati indipendenti. Di qui al tentativo di delegittimarli il passo è breve. P.S: forse avrei dovuto premettere, per sgombrare il cambio da eventuali conflitti di interesse, che ci sono “prezzi” che ho pagato sulla mia pelle. Quando sono stato scippato del diritto di concorrere al ruolo di procuratore nazionale antimafia, in quanto da punire perché “indegno”, mediante una legge contra personam, poi dichiarata incostituzionale. Con essa il potere politico (mentre era in pieno svolgimento il concorso pubblico) ha di fatto espropriato al Csm la nomina del capo di un ufficio giudiziario, calpestando il principio costituzionale della separazione dei poteri. Una palese violazione di ogni regola, candidamente e pubblicamente “spiegata” come una ritorsione per il processo Andreotti che avevo avviato, oltre a quello contro Dell’Utri, quand’ero procuratore di Palermo. Sabino Cassese: “Riforma della giustizia apprezzabile. Le critiche dei magistrati? Vogliono avere mani libere” di Raffaele Marmo Il Giorno, 18 giugno 2023 Il giurista sull’inappellabilità di alcune sentenze di primo grado: “Uno dei punti nei quali l’iniziativa governativa poteva essere più coraggiosa”. E sulle intercettazioni: “Passo avanti, ma piccolo”. È netto e diretto il verdetto di Sabino Cassese sulla riforma della giustizia del Ministro Carlo Nordio. Uno dei più autorevoli maestri del diritto del nostro Paese non ricorre a nessun formalismo. Anzi. “È una riforma - avvisa - che merita apprezzamento, in qualche punto troppo timida”. Professore, partiamo dalla valutazione complessiva: perché la convince l’impostazione del disegno di legge del governo? “Sopprime un reato indicato in forma poco precisa, stabilisce il rispetto della vita privata delle persone indagate e non indagate, circonda di garanzie la custodia preliminare, perché non diventi una minaccia, cerca di evitare il ‘naming and shaming’, cioè l’uso di additare al pubblico ludibrio, mediante la pubblicazione di informazioni sulla vita privata”. Uno dei punti cardine è l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio: perché deve essere eliminato? “L’abuso di ufficio, nonostante l’intervento legislativo del 2020, è rimasto un reato non sufficientemente delineato dalla norma, indicato con eccessiva latitudine, sicché non si sa che cosa sia effettivamente vietato, e quindi sanzionabile. Il sindaco di una piccola città siciliana è stato indagato per abuso di ufficio per aver negato l’uso della biblioteca comunale per una manifestazione canora, preferendo un dibattito sul referendum costituzionale. Se - come è stato stimato - nel 2021 il 99% degli indagati è stato assolto, vuol dire che la figura del reato non è sufficientemente determinata e affermare che questo reato è funzionale alla individuazione di altri reati vuol dire sposare una concezione fantasiosa del diritto penale”. Un altro passaggio criticato è quello della cosiddetta inappellabilità di talune sentenze di assoluzione di primo grado... “Vale per i reati meno gravi, include una percentuale minima di reati. Questo è uno dei punti nei quali l’iniziativa governativa poteva essere più coraggiosa. Sul merito, può dirsi che, se non emergono fatti nuovi, un accanimento delle procure, dopo un proscioglimento, non fa altro che peggiorare la situazione della giustizia italiana, che dovrebbe preoccuparsi dei più di 4 milioni di procedimenti pendenti”. Arriviamo alla stretta sulle intercettazioni: perché non è una norma-bavaglio? “Anche qui un passo avanti, ma piccolo. E non viene toccata la sanzione. La critica per cui ne deriverebbe un danno del giornalismo investigativo al quale si vorrebbe mettere il bavaglio, è sbagliata perché le indagini e i processi non si fanno né nelle piazze, né suoi giornali. La giustizia si fa nelle aule dei tribunali. Per il futuro, occorre riflettere sull’opportunità di limitare le intercettazioni solo ad alcuni reati, perché il bilanciamento tra violazione della vita privata e giustizia è oggi troppo a danno della prima”. Vengono ridefiniti anche il reato del traffico di influenze e le regole per le misure cautelari... “Do un giudizio positivo della ridefinizione del reato di traffico di influenze e della disciplina delle misure cautelari, anche se sono esclusi i reati di maggiore allarme sociale. Valuto positivamente anche gli interventi in materia di informazione di garanzia, perché sia davvero a difesa dell’indagato. Non va dimenticato che nella Costituzione c’è scritto che l’indagato è informato riservatamente”. Le opposizioni, anche se non tutte, e l’Associazione nazionale magistrati sono contrarie e pronte a dare battaglia... “Le opposizioni farebbero bene a sentire le voci della ragione e del diritto, nonché quelle dei sindaci. Quanto all’associazione dei magistrati e ai singoli magistrati che sono intervenuti, dovrebbero spiegare quanto i loro interventi sono nell’interesse della giustizia e quanto invece a difesa delle proprie “mani libere”. Perché è così difficile sempre riformare la giustizia in Italia? “Perché non c’è più la separazione dei poteri. Il governo è diventato legislatore. Il Parlamento è diventato amministratore. I giudici esercitano funzioni amministrative, occupando gli uffici serventi del CSM e del ministero della giustizia, e la funzione legislativa con la loro presenza nei gabinetti ministeriali”. Siamo di fronte, con la riforma, a una svolta garantista o servono altri interventi? “Come ho detto, un buon inizio, purché si continui. I milioni di cause pendenti mostrano che c’è una domanda di giustizia che non viene soddisfatta. Questo si riflette nella rapidamente decrescente fiducia, misurata dai sondaggi, della popolazione nella magistratura. Se l’ordine giudiziario non riesce rapidamente a eliminare l’arretrato, rispondendo con sollecitudine alla domanda di coloro che si sono rivolti ai giudici, l’intero corpo della magistratura finirà per perdere completamente la fiducia che la collettività deve avere nella giustizia. Una giustizia che arriva in ritardo non è giustizia. E rischia di non esserlo una giustizia che perde la fiducia dei cittadini”. Sciarra: “La Corte è di tutti. La sua indipendenza deve essere garantita” di Francesco Bei La Repubblica, 18 giugno 2023 La presidente della Consulta ricorda al governo il principio dell’autonomia della magistratura. Di fronte allo scontro con i pm invoca il metodo dell’ascolto. Professoressa di diritto del lavoro, Silvana Sciarra lo scorso settembre è stata eletta presidente della Corte costituzionale succedendo a Giuliano Amato. Il primo giorno di sole romano entra nella grande stanza di fronte al Quirinale, Sciarra siede su un divanetto sotto un quadro di Balla, recuperato nella collezione della Consulta. In questa intervista afferma l’indiscutibile supremazia del diritto comunitario su quello nazionale, ricorda al governo il principio di indipendenza e autonomia della magistratura e, soprattutto, invoca il metodo dell’ascolto, in un momento in cui si riaccende lo scontro sulla giustizia. Il Capo dello Stato ha ricordato di recente l’articolo 104 della Costituzione che riconosce all’ordine giudiziario i due “presidi indiscutibili” dell’autonomia e dell’indipendenza da ogni altro potere. Nel momento in cui il governo si propone di riformare profondamente la giustizia le sembra che questi due presidi siano a rischio? “L’altra mattina entrando in Corte ho provato emozione nel vedere all’ingresso del Quirinale una lunga fila di magistrati in tirocinio, in attesa di essere ricevuti dal Presidente Mattarella. In loro riponiamo tutti una fiducia profonda. L’amministrazione della giustizia ispirata a criteri di imparzialità e sobrietà rappresenta un pilastro dello stato di diritto. Lo ripetono costantemente le due Corti europee, facendo sentire la loro voce da Lussemburgo e da Strasburgo. Per questo mi colpisce molto nelle parole del Presidente il richiamo a una “proficua interlocuzione”, che comporta anche a quel livello capacità di ascolto. L’ascolto, che impariamo a praticare nei nostri rapporti privati, diviene una dote irrinunciabile quando si opera al servizio delle istituzioni, perché è prova di immedesimazione nelle finalità delle istituzioni stesse; è insieme un esercizio di modestia e di forza”. Presidente, in questi anni la Corte è stata un presidio dei diritti. Ma l’anno prossimo ci sono quattro giudici che arrivano a fine mandato e la maggioranza di destra potrebbe eleggere solo membri della Consulta a sua immagine. È successo già negli Stati Uniti e non è finita bene: la Corte Suprema trumpiana ha vietato l’aborto. È una preoccupazione che lei condivide? “Non mi permetterei di entrare nei criteri di scelta dei giudici di nomina parlamentare. Il fatto che la Costituzione suggerisca un quorum così alto - tre quinti dopo la terza votazione, quorum che non scende mai nelle votazioni successive - è evidentemente un’indicazione. Significa che i giudici devono essere scelti per la loro “rappresentatività trasversale”. Vuol dire che non devono appartenere ad alcuna componente politica del Parlamento che li esprime, ma dovrebbero portare nel collegio un patrimonio di competenza, di indipendenza e di professionalità. Comunque la Costituzione prevede, come è noto, una composizione mista, dove solo cinque giudici sono di nomina parlamentare. Quindi già la composizione mista è una garanzia di pluralismo”. Pluralismo politico? “No, mi riferisco al pluralismo delle personalità, dei punti di vista. Come cittadina, oltre che come presidente della Corte, io mi augurerei che questo equilibrio di competenze, professionalità e di indipendenza fosse assicurato anche in futuro. È la grande ricchezza di un organo di garanzia. Enzo Cheli - vice presidente emerito della Consulta - diceva che la Corte “si ferma prima della politica” e che nasce come “uno snodo elastico tra le due sfere”, tra la giurisdizione e la politica. È uno scritto nel 1966 ma quanto è attuale!”. Fratelli d’Italia, prima della vittoria elettorale, aveva presentato un disegno di legge che teorizzava il primato del diritto nazionale su quello comunitario. Poi si sono fermati, ma nei paesi sovranisti, ad esempio Polonia e Ungheria, resta sempre questa tensione fra diritto nazionale e Ue. In Italia la vede? “Assolutamente no e spero di non vederla mai. Proprio sulla scorta del caso polacco, il tema dell’indipendenza della magistratura è diventato uno dei temi centrali nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Fra i valori fondanti dell’Unione europea c’è lo Stato di diritto e l’indipendenza dei giudici è la precondizione - lo scrive la Corte di Lussemburgo - per accedere ai valori della democrazia. Le due cose si intersecano profondamente. La Corte polacca nel 2021 ha avuto un gesto di totale ribellione nei confronti della supremazia del diritto europeo, ma anche questo principio è nel trattato dell’Unione europea che gli Stati membri sottoscrivono”. Perché è così importante questa supremazia? “Perché la nostra è un’unione di Stati e deve reggersi su questo collante. Se viene meno questo viene meno la stessa Unione. L’altro pilastro è il riconoscimento del ruolo della Corte di giustizia di Lussemburgo, che è sovrana nell’interpretazione del diritto dell’Unione. La corte polacca ha messo in discussione questi punti e il contrasto con la Corte di Lussemburgo non si è ancora concluso. Un problema simile si pone anche per l’Ungheria”. Tra governo e Corte dei conti c’è stato uno scontro molto acceso sul “controllo concomitante” sull’attuazione del Pnrr. Il governo è intervenuto con una ghigliottina, cancellando questo potere per decreto. Il presidente della magistratura contabile, Guido Carlino, in uno scatto d’orgoglio, ha affermato che comunque il controllo proseguirà perché è garantito dall’articolo 100 della Carta. Ha ragione Carlino nel farsi scudo della carta costituzionale? “È vero che scatta quello che lei chiama l’orgoglio dell’appartenenza a un organo giurisdizionale, lo posso comprendere, perché il presidente di quella corte è tenuto a garantire le prerogative della magistratura contabile. Sul merito del decreto non posso commentare, sono scelte del governo”. In questi giorni si è sviluppato un dibattito sull’allergia ai controlli di questa maggioranza (Upb, Anac, Corte dei conti) con due tesi contrapposte: c’è Prodi che parla apertamente di un rischio di autoritarismo, mentre Giuliano Amato non condivide, pur invitando Meloni a prendere le distanze da Orbán. Lei vede un’insofferenza ai controlli indipendenti? “Sono animata da uno spirito positivo e non voglio vedere derive autoritarie. Non spetta a me esprimere giudizi politici, parlo da un punto di vista tecnico, che riflette anche la posizione della dottrina. Facciamo l’esempio dell’ufficio parlamentare di bilancio: è un’istituzione attiva in altri paesi europei, in osservanza del Trattato. In Italia è originata da una legge costituzionale del 2012 che introduce il pareggio di bilancio in Costituzione. Nasce con una funzione di controllo, come organo indipendente. L’indipendenza, infatti, come criterio guida, vale non solo per le magistrature, ma anche per le autorità di garanzia, con le quali ci vuole un dialogo e un confronto. È il cuore della separazione dei poteri su cui si basano gli equilibri democratici. C’è solo da guadagnare nell’ascolto e nella collaborazione”. Il governo procede con il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata. Voi giudici costituzionali siete anche un presidio a difesa dei diritti da garantire ugualmente in tutte le Regioni d’Italia, per esempio il diritto alla salute. Siete preoccupati? “Non sono preoccupata e non do consigli a nessuno. Certo è vero che alla Corte giungono molti ricorsi in via principale, ovvero azioni intraprese prevalentemente dallo Stato che impugna leggi regionali. E cosa si impara da questa giurisprudenza? La Corte, specie dopo la riforma del Titolo V, ha segnato dei punti di equilibrio fra centro e periferia. È chiaro che la tutela della salute è un diritto da tutelare al massimo, richiamando un principio forte e “bello” come quello di solidarietà. C’è una solidarietà fra cittadini ma c’è anche una solidarietà tra Regioni quando si tratta di garantire un bene collettivo sancito dalla Costituzione”. Maternità surrogata, la Corte se ne occupò in una sentenza rimasta celebre scritta proprio da Amato. La maggioranza si propone ora di trasformare il divieto in un reato universale. È un’impostazione che può reggere dal punto di vista giuridico? “Non entro in un progetto all’esame del Parlamento. Voglio precisare che la Corte non si è mai occupata di maternità surrogata; la frase che lei ricordava è un inciso di una sentenza in cui, nel trattare del riconoscimento del figlio naturale nato attraverso maternità surrogata, si stigmatizza questa pratica per il possibile sfruttamento della donna e perché lesiva della sua dignità. La Corte cerca di trattare in modo uguale i diritti dei figli nati da coppie dello stesso sesso. In Italia si fronteggia questo dilemma, che non sta a me sciogliere ma al legislatore. Possiamo immaginare che vengano trattati in modo diverso i nati? Partiamo da questi due fatti: sono “nati” e sono “in Italia”“. Allora che si può fare? “Su questa scelta il legislatore si dovrà misurare perché sono soggetti bisognosi di tutela, anzi sono tra i soggetti più fragili perché non hanno scelto come venire al mondo. La Consulta si è preoccupata di individuare un perimetro per tutelare questi soggetti titolari di diritti umani. Per esempio, il diritto all’identità, che per un “nato” deriva dalla presenza di un nucleo famigliare. La Corte dei diritti dell’uomo non si spinge a dire che tipo di famiglia debba essere quella che accoglie il nato, lasciando agli stati ampio margine di apprezzamento”. Infatti, anche sul tipo di famiglia in Italia c’è molto scontro. Per la destra è solo quella tradizionale, composta da un padre e da una madre. E per la Consulta? “L’articolo 29 della Costituzione riconosce la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”. Poi però c’è l’articolo 2 con cui la Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell’uomo “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Le formazioni sociali costituiscono altri esempi di nuclei famigliari. La Corte non può ridefinire il concetto di famiglia scolpito nell’articolo 29, ma la stessa Costituzione prevede altre formazioni sociali in cui possono essere tutelati i diritti della persona”. In Italia si riparla di riforme istituzionali e presidenzialismo. Anche nella versione “soft” del premierato su cui si sta orientando il governo, non ci sarebbe comunque un vulnus ai poteri del capo dello Stato? “Quella del Presidente della Repubblica, nella Costituzione e nel contesto istituzionale italiano, è una figura molto originale, presente ma discreta, garante dell’unità nazionale in tutti i consessi, incluso quello europeo, con una presenza critica, mai succuba. A me, come cittadina, piacerebbe che non venisse toccato questo ruolo di un presidente con poteri che non sono soltanto di rappresentanza, ma sono di orientamento anche rispetto al ruolo dell’Italia nei consessi europei”. Sull’emergenza climatica c’è una grande mobilitazione dei giovani, prima con i Fridays for Future, poi con Ultima Generazione. È possibile immaginare una tutela per il diritto a poter nascere in un pianeta che sia ancora vivibile? “L’articolo 9, dopo la recente revisione costituzionale, fa esplicito riferimento all’interesse delle future generazioni. Fra le Corti costituzionali europee c’è un dibattito su come tutelare le future generazioni. Lo sforzo si concentra sul dovere degli Stati nazionali di garantire il diritto all’ambiente, alla salute, all’acqua, al cibo. Pensi che la Corte di Karlsruhe è stata investita di una questione sollevata da minori, rappresentati dai genitori, per chiedere allo Stato tedesco di tutelare la loro salute. E anche in Italia c’è un primo caso che sarà deciso dal tribunale di Roma”. Cosa si può chiedere allo Stato? “Si può certamente chiedere di adempiere agli obblighi assunti a livello internazionale. Come si può abbandonare la convenzione di Parigi? Esiste un regolamento che vincola gli stati membri al rispetto della riduzione delle emissioni che producono alterazioni del clima terrestre. Non è ambientalismo e movimentismo di facciata, i giovani devono sapere che si possono individuare casi concreti di diritti da far emergere anche dalla giurisprudenza delle corti costituzionali”. Lepore: “Noi siamo garantisti, non berlusconiani. Sulla giustizia guai a scimmiottare la destra” di Silvia Bignami La Repubblica, 18 giugno 2023 Intervista al sindaco di Bologna: “Insieme ad Anci non chiedevamo la cancellazione del reato di abuso d’ufficio ma una più semplice manutenzione, una sua riscrittura”. “Noi sindaci con Anci chiedevamo una riforma del reato di abuso di ufficio. Non il ‘colpo di spugna’ tipico della politica berlusconiana, che punta all’impunità. Siamo garantisti, non berlusconiani”. Il sindaco di Bologna Matteo Lepore sferza il governo sulla riforma della giustizia. Alcuni sindaci dem sono a favore dell’abolizione dell’abuso di ufficio... “Gli elettori, alle Politiche di settembre, ci hanno chiesto di stare all’opposizione e noi dobbiamo svolgere questo ruolo con orgoglio e impegno. Un partito grande come il Pd deve però fare opposizione con le proprie proposte, che tengano conto delle pluralità che ci sono al nostro interno, ma che non devono scimmiottare la destra. Serve la nostra riforma della giustizia. Non possiamo inseguire la destra come fa Italia Viva, che cerca i voti di Berlusconi”. Elly Schlein dice che la sfida delle Europee è “epocale”. Perché? “Perché le elezioni europee saranno uno spartiacque tra passato e futuro. Meloni, con Orbán e Le Pen, stanno lavorando per unirsi al Partito popolare e rompere quella coalizione fatta di Popolari e Socialisti che in questi anni ha governato in Ue. E che ha approvato il Green New Deal e l’agenda sociale che ci ha salvato dall’uscita dal Covid. Quindi le Europee saranno un referendum sulle politiche di questi anni. O si sta coi progressisti o si sta con le destre conservatrici che vogliono dismettere il Pnrr e tante riforme per i diritti dei lavoratori. Perdere le Europee significa consegnare a Le Pen la Francia e a Meloni e Orbán l’Europa”. Come impedirlo? “Puntiamo su giustizia sociale e ambientale. E su questo le città per me possono fare tanto, perché le politiche sociali e ambientali toccano direttamente le città. Quindi noi sindaci siamo chiamati a scelte radicali. Bologna dal primo di luglio sarà la prima grande “città 30” in Italia, con uno spazio pubblico sempre più a misura di persone. Non solo. Lunedì presenteremo una delibera che darà una fortissima accelerazione alla transizione energetica degli edifici pubblici”. Di che si tratta esattamente? “Si tratta di unire in un unico partenariato pubblico-privato tutti i servizi oggi separati: illuminazione pubblica, videosorveglianza, manutenzione impianti e utenze, edifici pubblici, pulizia bagni pubblici. Oggi ci sono tanti appalti diversi per ciascuno di questi servizi, unificandoli potremo far sì che i nostri edifici, invece che consumare energia, possano produrla: avremo tutti i tetti degli immobili comunali ricoperti di fotovoltaico. Questo grazie anche all’accordo in via di definizione con Autostrade per il Passante, che ci garantisce 50 megawatt. La nostra iniziativa avrà un impatto nei prossimi 10 anni di mezzo miliardo di euro, in parte pubblici in parte appunto privati, e ci consentirà di raggiungere la neutralità climatica nel 2030”. È una iniziativa che possono assumere anche altri Comuni? “Ci sono già nove città italiane che come noi hanno come obiettivo la neutralità climatica nel 2030. Questo partenariato pubblico privato è una innovazione assoluta e punta a fare da apripista anche per gli altri”. Schlein chiede al Pd di mobilitarsi. Vale anche per l’Emilia-Romagna in attesa dei fondi per la ricostruzione post alluvione? “Sì, le parole di Nello Musumeci, che ci dice che “lo Stato non è un bancomat”, sono un’offesa alla nostra terra. La premier Meloni ha preso degli impegni chiari con noi. Per questo dico basta intermediari che offendono la nostra dignità. D’ora in poi dovremo sederci al tavolo solo con lei”. I tormenti di Renato Vallanzasca in carcere: malattie e pianti. L’ex moglie: “Sta marcendo, fatelo uscire” di Andrea Galli Corriere della Sera, 18 giugno 2023 L’ex moglie: ormai è una larva. Dal suicidio del fratello alle prime denunce, biografia di un’icona del male. Ha pagato per sé e pure per gli altri, quei complici che lui, il 73enne Renato Vallanzasca, aveva difeso, protetto, insomma salvato, rispondendo alla personale concezione dell’importanza di termini desueti quali l’amicizia, la lealtà, l’esser fedeli, e insieme sublimando i doveri del comandare nell’obbedienza a un’indubbia mitomania imperante. Dopodiché, nei sentimenti dei tanti che per colpa del bandito killer han perduto familiari, nulla cambia, mai cambierà: pertanto, dovesse campare anche fino all’ultima sua ora in carcere, che così sia; nessuna pietà, nessun calcolo sul tempo trascorso in cella, quasi 52 anni, un’eternità, una tomba da vivo; e men che meno nessun dibattito supplementare dopo le ultime parole pronunciate dall’ex moglie Antonella D’Agostino, che in relazione alle (presunte) gravi condizioni fisiche e mentali di Vallanzasca, da donna che ha percorso ed esplorato il mondo andando al centro delle cose, dice: “Ormai è una larva”. Sicché, quantomeno per curarlo, “fatelo uscire di galera”. Ma i giudici non ritengono che esistano i presupposti, stante un quadro clinico non così grave da decidere appunto il trasferimento in ospedale, altrimenti Renato Vallanzasca, condannato a quattro ergastoli, come qualunque altro detenuto avrebbe già ottenuto quanto le leggi prevedono. Capitolo chiuso. E allora, ci si domanda, forse che egli reciti con l’appoggio della sua ex? Forse che stia inscenando l’ennesimo trucco in un’esistenza, oltreché di omicidi, rapine, sequestri ed evasioni, da gran bugiardo? La signora D’Agostino ha inviato una lettera all’agenzia di stampa Ansa: “Rifiutare le misure alternative significa umiliare una persona ridotta all’ombra di quello che era. Renato ha passato 8 anni in semilibertà e poi ai domiciliari senza fare nulla di male”. Si sbaglia, o forse no: c’è l’episodio di quelle mutande rubate da Vallanzasca in un supermercato approfittando di qualche ora di permesso; una vicenda che “mi ha fatto capire come il suo cervello stesse smettendo di funzionare”. Ma rimane vero che non appena ha cominciato ad avere coscienza, il futuro bandito killer vagabondava arraffando roba d’altri, tipo le scorrerie da piccolino nelle edicole per portar via i fumetti di Tex Willer e le scatole delle figurine Panini. Vallanzasca sarà un eterno personaggio mediatico, ché ai giornalisti, forse indugiando in esercizi di banalità, è sempre piaciuto. Uno che fa titolo facilmente, diciamo. E però, tralasciando il noioso e infelice ricorso, trattandosi di un assassino, al soprannome “il bel René”, nel quale peraltro il diretto interessato mai s’è ritrovato, andrebbe corretta la geografia. La collocazione alla Comasina, per esempio. Vallanzasca è cresciuto dapprima in via Porpora, in un appartamento al civico 162. Lì, in un minuscolo appartamento, stava l’adorata madre, di nome Marie e di cognome Vallanzasca, fidanzata di Osvaldo Pistoia, di professione operaio anche se non investito dalla fede per la fatica, padre del bandito killer e a sua volta sposato con Rosa Pescatori, domiciliata al Giambellino, in via degli Apuli 2. Un’altra periferia e seconda base di Vallanzasca, che quando la mamma, una sarta, non riusciva a tenerlo, per decisione di Osvaldo, uno che girava Milano corteggiando le ragazze dopo essersi presentato come famoso cronista, finiva al Giambellino, nei caseggiati dell’emigrazione, prima gli italiani quindi i nordafricani. A interrogare i criminologi in merito all’adolescenza di Vallanzasca, erano emerse pesanti tracce anticipatorie: l’assenteismo a scuola (dalle classi elementari), l’attitudine alle menzogne, il disinteresse per i danni arrecati al prossimo; d’altronde, in età adulta, ecco l’ammissione ripetuta e ancora ripetuta: “Io sono nato per essere un ladro”. Una sorta di predestinato, e pace per le qualità non comuni — la mente svelta, la naturale leadership, il fisico da atleta, l’impressionante memoria, le capacità di seduttore — che, s’intende, avrebbero potuto collocarlo su scenari assai virtuosi. Vallanzasca ha un figlio che ha cambiato cognome per vergogna; la maggioranza dei suoi complici sono deceduti; nei decenni, chi l’ha avvicinato è stato mosso dal tentativo di sfruttare un brand e guadagnarci sopra; gli affetti reali che ha intorno sono pressoché azzerati, anche se, potesse, farebbe tornare indietro un’unica persona. Il fratello Ennio. Fu lui a scoprirne il cadavere, da ragazzino, in un prato. Ennio, uno dei figli di Rosa Pescatori, si sparò in faccia. Dinanzi a Ennio, Vallanzasca taceva e obbediva. Di nuovo Antonella D’Agostino, con quella sua lettera, ci vuol ricordare che “Renato sta marcendo, non capisce più dove si trova... Lo avete piegato, basta. Ora basta”. Forse non basterà. Nel 1965, a 14 anni, Vallanzasca era stato fermato dai carabinieri per essersi infilato dentro un taxi parcheggiato e aver preso la scatola con le monete da dar di resto ai clienti. Giurò d’aver fatto tutto da solo, scagionando gli amici, che anzi l’avevano implorato di lasciar perdere; già che c’era, ai medesimi carabinieri raccontò che due mesi prima, all’Idroscalo, s’era impossessato di un portafoglio dimenticato dal proprietario sul sellino di una Vespa, ma s’era pentito e l’aveva riportato indietro. Vero, falso, inventato? Non si seppe. Calabria. Istituti vecchi, poco personale, assenza di progetti di inclusione: le “ombre” del pianeta carceri corrieredellacalabria.it, 18 giugno 2023 Le criticità del sistema penitenziario nella nostra regione nell’ultima relazione del Garante. C’è anche qualche luce: niente sovraffollamento, bene l’esperienza delle Rems. Non c’è un’emergenza sovraffollamento, ma le problematiche e le criticità sono tante e anche piuttosto serie. Molte ombre per il pianeta carceri in Calabria emerge dalla relazione annuale del Garante dei diritti dei detenuti. Il report, presentato nei giorni scorsi a Roma, dedica un capitolo alla situazione del sistema penitenziario in Calabria con riferimento ai primi cinque mesi di attività del Garante regionale, Luca Muglia, che si è insediato a fine ottobre 2022. “Gli istituti penitenziari calabresi sono 12; i detenuti non superano le 3.000 unità e non si registrano fenomeni di sovraffollamento. Si aggiungano l’Istituto penale minorile e le due Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems)”, si legge nella relazione. “L’Ufficio del Garante - si aggiunge - ha riscontrato criticità evidenti: le lacune della sanità in ambito penitenziario, le condizioni strutturali di alcuni istituti, datati nel tempo e privi di manutenzione, l’inadeguatezza di molte camere detentive (alcune prive di doccia), la mancanza di offerte scolastiche o formative adeguate, l’assenza di progetti di inclusione stabili, la carenza di organici e di personale della Polizia penitenziaria e dei funzionari giuridico-pedagogici, la scarsa presenza di mediatori linguistico-culturali. Le difficoltà - prosegue la relazione del Garante dei detenuti - sono da ricondurre a molteplici fattori, alcuni interni all’amministrazione penitenziaria, altri derivanti dalla mancata o insufficiente cooperazione degli Enti locali. Le problematiche lamentate dai detenuti riguardano questioni processuali o necessità legate ai colloqui con i familiari, ai trasferimenti, al lavoro o alle cure mediche”. Quanto alle Rems, qui le luci superano le ombre: “Le esperienze di quelle di Santa Sofia d’Epiro e di Girifalco appaiono valide. La prima, pur con limiti strutturali, ha consolidato buone prassi terapeutiche. La seconda, aperta nel 2022, è una struttura di assoluta eccellenza”. Si ricorda inoltre che “l’11 novembre 2022 il Garante ha firmato e condiviso l’appello sottoscritto da numerose per personalità in relazione all’elevato numero di suicidi registrati nelle carceri nel 2022. L’appello, lanciato dal quotidiano Il Dubbio, indicava obiettivi precisi. Ricorrere al carcere come extrema ratio, garantire spazi e contesti umani che rispettino la dignità e i diritti, moltiplicare le pene alternative, garantire al cittadino detenuto la possibilità di un reale percorso di inclusione”. Attività svolte dal Garante della Regione - La relazione annuale menziona poi alcune attività messe in campo dall’ufficio del Garante regionale. Tra queste “la partecipazione all’iniziativa “L’ALTra cucina…per un pranzo d’amore” a cura di Prison Fellowship Italia presso la Casa circondariale di Palmi. Il progetto ha portato negli istituti penitenziari i migliori chef italiani che hanno cucinato per la popolazione detenuta, con l’ausilio di 600 volontari, alla presenza di personaggi dello spettacolo, dicembre 2022 Tra i contenuti individuati le difficoltà dell’esecuzione penale, la nuova disciplina delle pene sostitutive e delle misure alternative, la giustizia riparativa, la formazione professionale e l’inclusione sociale, la tutela nei procedimenti di limitazione della responsabilità genitoriale , la condizione delle donne detenute, le esigenze dei giovani dell’Istituto Penale Minorile. A tali fini sono state coinvolte tutte le amministrazioni interessate, da quella giudiziaria a quella penitenziaria, dagli organi amministrativi a quelli politici”. Il Garante - prosegue poi la relazione - “ha promosso, inoltre, un dialogo costante con il Dipartimento regionale Tutela della salute, l’Osservatorio sulla sanità penitenziaria e l’Ufficio scolastico regionale volto alla risoluzione di problematiche specifiche. Ha attivato una importante interlocuzione con la Conferenza episcopale calabra, i Poli universitari penitenziari e l’associazione Antigone. Ottimo il rapporto di fattiva collaborazione instaurato con i Garanti territoriali di Reggio Calabria, Crotone e Catanzaro. Il Garante, infine, ha promosso una campagna di sensibilizzazione finalizzata al superamento dei pregiudizi culturali e delle etichette sociali che colpiscono le persone detenute, coniando lo slogan “per un linguaggio non ostile dentro e fuori il carcere”. Infine, la visita istituzionale al Centro di prima accoglienza di Isola di Capo Rizzuto, il 14 febbraio 2023 (pochi giorni prima del tragico naufragio di Cutro): “Il Garante, su delega del Garante nazionale (in base alla normativa approvata nel 2020), ha effettuato una visita al Centro governativo di accoglienza di Sant’Anna, Isola Capo Rizzuto. La delegazione - spiega la relazione - era composta anche da Elena Adamoli e Alessandro Albano (Ufficio del Garante nazionale) e da Nicola Cocco (esperto del Garante nazionale). La visita aveva come focus originario la situazione dei minori stranieri non accompagnati (Msna) che fanno ingresso nel Centro e l’utilizzo della struttura quale hotspot. Gli elementi di osservazione acquisiti relativamente alle condizioni materiali dei luoghi ispezionati hanno imposto, tuttavia, una responsabilità di analisi complessiva a tutela della dignità e dei diritti fondamentali di tutti gli ospiti della struttura. L’esperienza congiunta è stata estremamente positiva, il rapporto è in corso di elaborazione”. Ancona e Parma. Scuola di italiano in carcere per i migranti iquadernidellapennywirton.it, 18 giugno 2023 La Penny Wirton, scuola di italiano gratuita per migranti, sbarca nelle carceri ad Ancona e a Parma. Lo ha annunciato Eraldo Affinati, fondatore della Penny Wirton, insieme ad Anna Luce Lenzi, in apertura dell’assemblea nazionale 2023. “Formeremo detenuti italiani a insegnare la lingua italiana ai detenuti immigrati in due istituti penitenziari. Abbiamo già incontrato la direttrice del carcere di Parma che ci ha dato l’ok e attendiamo l’ok da Ancona”, ha detto Affinati. “È una cosa molto bella e forte sopratutto in una condizione particolare, di isolamento delle persone. Ci sono tante associazioni che già operano sul territorio italiano e con cui collaboriamo perché cercano in noi una sorta di legittimazione”, ha concluso. Santa Maria Capua Vetere. Con “lettere dal carcere” parte il laboratorio epistolare tra detenuti e figli napolitoday.it, 18 giugno 2023 “Si chiama “Epistolario per la libertà” ed è un incontro autobiografico tra padri privati della libertà e figli da educare a quello stesso valore. Rompiamo la narrativa secondo cui un genitore in carcere può avere pochi spazi per “guidare” un figlio verso la crescita. Sono convinta che la gestione sana del rapporto genitore-figlio sia, invece, possibile attraverso varie forme, uno di questi è lo scambio epistolare che educhi al valore della libertà. Lo scopo del laboratorio di scrittura tra le mura della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere è proprio quello di migliorare il percorso di crescita dei figli con i racconti delle verità dei padri”. Così in una nota l’eurodeputata Chiara Gemma (FdI), che oggi pomeriggio è stata in visita nel carcere sammaritano “Francesco Uccella” per dare il via a un progetto di scrittura con i detenuti. L’europarlamentare ha incontrato la direttrice del carcere Donatello Rotundo e ha ringraziato i rappresentanti della polizia penitenziaria, impegnati 24 ore su 24 nel servizio di ordine e sicurezza in uno dei più grandi istituti di pena della Campania. Il progetto epistolare è un modo per avvicinare il mondo dei reclusi ai figli, anche i più piccoli, affinché a questi ultimi non sia negata la possibilità di conoscere la verità sul proprio genitore. “La mancata confidenza dei motivi per cui un genitore è recluso potrebbe essere anche il risultato di una crescita avvenuta all’interno di famiglie nelle quali il dialogo non è stata sempre l’unica via per crescere emotivamente”, continua Gemma, già docente di Pedagogia all’Università di Bari e al Suor Orsola Benincasa di Napoli. Dalla letteratura di settore emerge un quadro di “non detto” ai figli, come se l’omissione delle ragioni della prigionia sia fonte di un lutto psicologico di cui non si può parlare. Di contro il laboratorio è un passo in avanti verso lo sviluppo di una maggiore consapevolezza per i reclusi e s’inserisce nelle attività di reinserimento nel mondo sociale che la direttrice del carcere sta favorendo con vari progetti. Tra questi, la sartoria interna alla casa circondariale in cui lavorano 30 detenuti che producono le camicie per gli agenti di polizia penitenziaria di tutta Italia e il nascente canile comunale con un presidio sanitario veterinario dell’Asl. Ed ora il laboratorio di scrittura, il cui scopo è la finalità rieducativa della pena. “Ogni lettera inviata terminerà sollecitando i figli a scrivere qualcosa della propria vita scolastica ai padri, come contro-dono e ciò consentirà - conclude l’esponente di FdI - di rinforzare il dialogo, rafforzare la genitorialità del detenuto e insieme il diritto dei figli a conservare un legame affettivo costante con i propri genitori”. Il Premio “Hemingway” a Shirin Ebadi, avvocata iraniana Nobel per la Pace di Francesca Visentin Corriere della Sera, 18 giugno 2023 Il riconoscimento all’avvocata iraniana e Premio Nobel per la Pace. Minacciata, arrestata, perseguitata, oggi vive in esilio. Questo premio è un omaggio al coraggio delle donne iraniane Avvocata in prima linea per i diritti umani, attivista, Premio Nobel per la Pace, l’iraniana Shirin Ebadi ha vinto il Premio Hemingway 2023 come “Testimone del nostro tempo”. Sarà in Italia, a Lignano, per ritirare il premio sabato prossimo. Venerdì incontrerà il pubblico alla Terrazza Mare di Lignano (ore 18.30), intervistata dallo scrittore Alberto Garlini. Minacciata, arrestata, perseguitata in Iran, Shirin Ebadi continua a dare voce a donne e bambini e a chi subisce violenze e soprusi. Su questi temi ruota anche il suo libro, che presenterà a Lignano, “Finché non saremo liberi. La mia lotta per i diritti umani” (Bompiani), una storia di coraggio e di ribellione. Insieme a Ebadi, sabato a Lignano riceveranno il “Premio Hemingway 2023” la scrittrice Amelie Nothomb, lo storico Carlo Ginzburg, il fotoartista Marco Zanta e l’atleta paralimpico Antonio Fantin. Ebadi, che oggi vive in esilio, è stata la prima giudice in Iran e la prima donna musulmana ad avere ricevuto il premio Nobel per la Pace, nel 2003. Ha ispirato milioni di persone in tutto il mondo con il suo impegno per i diritti umani. Quando Khomeini salì al potere, fu costretta a dimettersi da giudice, minacciata più volte e poi arrestata. La motivazione del Premio Hemingway a Ebadi dice: “La sua è una storia di grandi convinzioni morali e di coraggio personale contro un potere che ha tentato di portarle via tutto, che ha minacciato lei e i suoi cari con metodi violenti, ma non è riuscito a intaccare il suo bisogno di giustizia e l’amore per il suo popolo”. Ebadi, nel libro “Finché non saremo liberi” fa capire molto bene come uno stato di polizia distrugge la vita delle persone. Com’è oggi la situazione in Iran? “In Iran è in atto una rivoluzione che si fermerà solo quando crollerà il regime. La rivoluzione è un processo che deve fare il suo corso, qualche volta va più veloce, qualche volta più lenta. Gli iraniani e le iraniane lottano per la democrazia e la libertà, per questo sacrificano la loro vita e nessuno può fermare questo processo. Nemmeno violenza, torture e omicidi”. Come l’Italia e l’Europa possono aiutare l’Iran? “Chiediamo ai Paesi democratici di non firmare accordi commerciali con il regime iraniano, di non contribuire a farlo diventare più forte. L’Italia e l’Europa devono sempre ricordare che il regime iraniano uccide le persone e non si preoccupa del popolo dell’Iran. Con altri giuristi ho invocato una commissione internazionale d’inchiesta sulla repressione nel mio Paese. Chiediamo all’Europa di ritirare gli ambasciatori dall’Iran e di ridurre le relazioni diplomatiche e consolari”. Cosa significa lottare per difendere i diritti umani in Iran? “Nessuno può restare indifferente a quello che sta accadendo. Dall’inizio della rivoluzione “Donna vita libertà” sono state uccise 600 persone tra cui 68 bambini. Tantissime altre persone, soprattutto donne, sono state accecate sparando loro negli occhi. Il mondo non può girarsi dall’altra parte”. La sua famiglia torturata, lei è stata minacciata e arrestata. Qual è stato il momento più difficile? “Hanno sequestrato le mie proprietà, mi hanno preso anche la medaglia del Nobel per la Pace, hanno chiuso i miei conti bancari, arrestato mia sorella, mio marito e anche me. Questo è accaduto e continua ad accadere anche a tante altre persone in Iran. Ma i momenti più dolorosi e difficili per me sono stati quando in tribunale difendevo innocenti che venivano condannati dal regime alla pena di morte o a molti anni di carcere, solo per motivi ideologici, perché si ribellavano ai soprusi. Quando la giustizia crolla e perde, è quello il momento peggiore” Le donne iraniane hanno avuto il diritto di voto prima di quelle svizzere, eppure sono ancora obbligate al velo e non hanno nessun tipo di libertà. Che futuro vede? “La situazione delle donne in Iran un tempo era decisamente migliore. Tra l’altro le donne in Iran sono molto istruite, più del 50% di chi studia all’Università sono ragazze. Ma con il regime sono state introdotte tante leggi discriminatorie, le donne hanno perso tutti i loro diritti ed è stato introdotto l’obbligo del velo. Ora le donne iraniane stanno combattendo, la rivoluzione in atto è iniziata dalle donne, è guidata dalle donne. Gli uomini lottano con loro, fianco a fianco”. Madri e figlie in Iran scendono in piazza insieme. La rivoluzione unisce più generazioni? “Il futuro sarà diverso. Le adolescenti scendono in piazza a protestare contro il regime con mamme e nonne. Chi continua a lottare prima o poi vincerà” L’educazione e la formazione che parte hanno nel cambiamento? “Costruire una nuova cultura attraverso l’educazione è la cosa più importante. Per un futuro diverso bisogna partire dall’educazione”. Saranno le donne a cambiare i Paesi islamici? “Le donne, piano, piano, hanno acquisito una consapevolezza che le ha portate a combattere per i loro diritti. È più difficile schiavizzare e sottomettere al regime patriarcale una donna che studia e che è consapevole. Credo in un futuro diverso, luminoso, un futuro di libertà”. Oggi teme per la sua vita? “Per me non è cambiato nulla. Il regime è sempre feroce, ma io ho un compito importante e non permetto che la paura interferisca con il mio impegno” Che significato ha per lei il “Premio Hemingway”? “Credo che questo premio sia un segno di ringraziamento e incoraggiamento verso tutte le donne iraniane. Con il loro coraggio denunciano e lottano per il cambiamento. Il Premio Hemingway lo interpreto così, un omaggio a tutte le donne iraniane”. Educazione è la semina dei valori di Cristina Dell’Acqua Corriere della Sera, 18 giugno 2023 La paura di deludere le aspettative (i nostri giovani vivono all’insegna della prestazione) e di non essere mai abbastanza può essere affrontata disegnando un orizzonte di valori dentro i quali ritrovarsi. Un orizzonte non limitato ma con un limite e un perimetro dentro il quale sentirsi abbastanza. L’Odissea è un alfabeto per conoscersi e per conoscere, sempre a portata di lettura. Quando abbiamo desiderio di riflettere sui giovani, apriamo le pagine in cui Ulisse torna ad Itaca, non smettono mai di stupire. Negli anni trascorsi a viaggiare Ulisse ha provato cosa significhi essere solo, non più eroe ma naufrago. Per quanto dolorosa, la guerra era stata per lui un perimetro visibile in cui stare, la distruzione di Troia un obiettivo per cui lottare e provare paura e senso di vuoto, esercitare la propria autorevolezza e spronare i compagni e sé stesso e il suo indomabile desiderio di conoscere e conquistare. E arrivato a Itaca, le sue prove non sono certo finite. Non a caso siamo solo a metà dell’Odissea. Ulisse, ha portato a termine la sua vendetta nei confronti dei Proci, che in sua assenza si erano impossessati della reggia. Ora lo attendono i due momenti che aspettava da troppo tempo, rivedere sua moglie Penelope e il padre Laerte. Saranno due momenti di prove emotivamente dolorose da attraversare ma fondamentali per ritrovarsi (ritrovare la sua vita). Penelope gli sottopone la famosa prova del letto nuziale: quando ordina a un’ancella di trasportarlo fuori dalla porta, Ulisse reagisce attonito perché quel letto, che un tempo aveva costruito lui stesso dal tronco di un ulivo, non poteva essere spostato. È il momento di incontrare il padre Laerte, Ulisse vuole una prova d’amore da parte sua. Siamo davanti a una delle scene (perché leggendola abbiamo netta la percezione di vederla) tra le più intense dell’Odissea. Ulisse e suo padre sono nel frutteto in cui Laerte lo portava da bambino per insegnargli i nomi delle piante. Sono uno vicino all’altro, ma Laerte non ha ancora realizzato che quello è suo figlio. Il frutteto, al solo vederlo, era la prova che Ulisse tanto cercava, e cioè che suo padre non aveva mai rinunciato a suo figlio, curando quello spazio verde come avrebbe curato lui: Laerte era sporco e trasandato, non sapere dove fosse suo figlio lo aveva logorato, ma il giardino era perfetto, non c’era una pianta, un fico, una vite, un’aiuola che non fossero ben curati. Prova, senso dell’attesa, ritrovarsi nella cura. Quale giovane non avrebbe bisogno di sentire di essere curato e sognato come lo è stato Ulisse, con il tipo di cura che aiuta a diventare (o a riscoprire) quello che si è. E da cura poi nasce cura, quando qualcuno ha cura di sé poi può avere cura del mondo.Una scoperta che avviene soprattutto a scuola, dove occorre la cura della personalità di ogni studente, che è un investimento umano a lungo termine, non un numero. Parliamo molto in questo periodo di emergenza educativa. Certo un’emergenza sempre impensierisce. Ma se ci pensiamo è pur sempre segno di qualcosa che emerge e vuole togliere il velo dal proprio disagio. E dentro questa emergenza di cui tanto parliamo ci sono giovani con il loro silenzio rumoroso e ci siamo noi adulti, nessuno escluso. A scuola gli studenti studiano (è vero) ma anche sognano e soffrono. Studiano perché attraverso le più disparate discipline possano coltivare le proprie passioni (studio etimologicamente vuol dire dedicarsi con amore a ciò che si desidera sapere), sognano perché hanno dentro il futuro, soffrono perché crescere comporta delle frustrazioni. L’emergenza dentro la quale viviamo più che educativa è valoriale e valore è una parola da riscoprire ogni giorno. La fatica di affrontare frustrazioni, scolastiche o sentimentali, è un valore e l’accompagnamento di un adulto che affianca ma non si sostituisce, è un valore aggiunto. Prova, non solo per Ulisse, è una parola ricca di sfumature. Contiene il senso della fatica, del traguardo e dell’esperienza che se ne trae. La prova è come una porta che si apre verso l’interno di noi stessi, a poco a poco, e ci svela i tratti della nostra specifica personalità su cui costruire. La paura di deludere le aspettative (i nostri giovani vivono all’insegna della prestazione) e di non essere mai abbastanza può essere affrontata disegnando un orizzonte di valori dentro i quali ritrovarsi. Un orizzonte non limitato ma con un limite e un perimetro dentro il quale sentirsi abbastanza. Non a caso a scuola un momento importante dell’educazione è quello dell’orientamento, indirizzare lo sguardo là dove nasce (orior) la propria luce. L’orientamento parte dallo scoprire dentro di sé i propri amori. Non è tanto la scelta di una scuola superiore o di una facoltà universitaria, è piuttosto la scelta di studiare ciò che aiuta a conoscersi e, nel caso di una facoltà universitaria, a disegnare una vita il più felice possibile. In quel frutteto, un giorno lontano, Laerte aveva regalato a Ulisse ancora bambino tredici peri, dieci meli e quaranta fichi e poi gli aveva promesso cinquanta filari di viti che maturano in tempi diversi. E la capacità di aspettare. All’ombra di quelle piante seminate tempo prima e curate giorno dopo giorno. Facciamolo anche noi. Le cause contro i medici stanno facendo a pezzi la sanità di Roberta Grima L’Espresso, 18 giugno 2023 In otto casi su dieci finiscono in un nulla di fatto. Ma le conseguenze economiche sono importanti, tra costi per i contenziosi ed esami inutili prescritti per ragioni “difensive”. Sono 300.000 le cause per colpa medica, 35.000 ogni anno le richieste di risarcimento per danno biologico (compreso il decesso). La maggior parte dei casi denunciati riguarda l’attività chirurgica (38,4%), gli errori diagnostici (20,7%), terapeutici (10,8%) e le infezioni ospedaliere (6,7%). Un fenomeno in costante crescita, eppure oltre l’80% delle cause finisce in un nulla di fatto, che però pesa sulle casse dei contribuenti 22,5 miliardi di euro l’anno, il 15% della spesa sanitaria annuale. Una cifra che riflette la difficile situazione del sistema, tanto da condizionare l’attività assistenziale nella pratica della medicina difensiva. Si tratta di prestazioni in più che i camici bianchi erogano per timore di contenziosi, generando un incremento della spesa sanitaria pari a 10 miliardi di euro, lo 0,75% del Pil e il 10% del fondo sanitario nazionale, incidendo sui costi della sanità per l’11%. Le liti - Un corto circuito del sistema al quale si è cercato di porre rimedio con la legge Gelli-Bianco del 2017. “La norma prevede - spiega l’avvocato Renzo Lancia - che il medico risponda del proprio operato all’azienda sanitaria di appartenenza e non al cittadino che invece dovrà ricorrere contro l’ente e non contro il professionista, a meno che non abbia stipulato un contratto con lui. L’onere della prova è a carico del cittadino che ritenendosi danneggiato dal medico deve portare una prova del presunto nesso causale tra il danno subito e la colpa del professionista. Infine, è esclusa la punibilità del medico che abbia rispettato le linee guida vigenti”. Va detto tuttavia che le linee guida non sempre sono aggiornate o esistono in relazione a tutte le patologie. Il medico rischia di trovarsi di fronte al bivio se scegliere di seguire le linee guida tutelandosi da eventuali atti giudiziari o adottare terapie più moderne, anche se ancora non previste. “La legge non sembra aver segnato un deterrente alla litigiosità in materia sanitaria e, negli anni, la medicina difensiva è aumentata”, osserva però Raffaele Gaudio, responsabile nazionale pronto soccorso della Fismu (Federazione italiana sindacale dei medici uniti). Una delle ragioni è culturale. “Un tempo la gente accettava più facilmente la morte. Oggi si hanno troppe aspettative dalla medicina che si è evoluta ma che non sempre può dare le risposte sperate”. E i pronto soccorso sono anche per questo la frontiera, osserva Gaudio: il luogo in cui convergono tutti i pazienti che il territorio non gestisce. Con tempi di attesa che si allungano, moltiplicando i ritardi per i casi più urgenti, che diventano poi materia di contenziosi giudiziari nella caccia alle responsabilità individuali. La situazione non cambia nei reparti ospedalieri, come medicina, sotto pressione per la mole di ricoveri impropri: pazienti che potrebbero essere curati a casa se l’assistenza domiciliare funzionasse a dovere o lungodegenti che avrebbero bisogno di un diverso trattamento. Solo nel 2022 si sono registrati 1 milione e 300 mila ricoveri impropri. La rete - Occorrerebbero strutture adatte al tipo di paziente, personale e posti letto sufficienti alla domanda di salute. In Italia si contano 995 ospedali, il 51% sono pubblici, il resto privati. L’andamento dal 2016 al 2021 ha registrato una diminuzione di entrambe le categorie con un -0,9% degli ospedali pubblici e un -0,3 di quelli privati, mentre nuove strutture territoriali arrancano a realizzarsi. Il 52,5% dei nosocomi è dotato di un dipartimento di emergenza-urgenza, il che vuol dire possibilità di coordinare tutti i servizi emergenziali di un ospedale in modo efficace, guadagnando tempo e riducendo il rischio di errori. Possibilità che l’altra metà delle strutture ospedaliere invece non ha. Così il 67,8% ha un centro di rianimazione, il restante 33% è costretto a trasferire il malato che si aggrava, in altra struttura attrezzata di rianimazione con i rischi che ne conseguono durante il trasporto. E c’è, infine, il dato relativo ai pronto soccorso, presente nel 79,3% delle strutture di ricovero italiane e nel 17% di quelle pediatriche. I bisogni - I posti letto collegati al servizio emergenziale sono ancora pochi: 7.469 posti letto di terapia intensiva, 1.121 di terapia intensiva neonatale, 2.413 posti letto per unità coronarica e 1.638 posti per terapia semi-intensiva, su tutto il territorio nazionale. In generale in Italia ci sono 3,4 letti ogni 1.000 abitanti. Un numero ben al di sotto della media europea, pari a 5,3 posti per ogni 1.000 abitanti. Per non parlare della carenza di medici che ancora non ha visto un turnover per coprire i vuoti lasciati da chi è andato in pensione, mentre regioni come la Puglia che ha un disavanzo di 450 milioni ha bloccato le assunzioni di personale. Dieci le regioni che hanno un deficit di bilancio, con conseguente difficoltà a investire. Mancati investimenti in posti letto e personale non fanno che facilitare i rischi per i pazienti e aumentare la litigiosità tra le parti che si fa sentire soprattutto nel Meridione. La distribuzione geografica dei contenziosi coincide con gravi criticità di alcune zone, il 44,5% delle denunce arriva dal Sud e dalle isole. Un dato che fa il paio con quello degli investimenti in sanità ridotti negli ultimi 10 anni di 37 miliardi di euro, a cui ha contribuito per il 50% il blocco delle assunzioni, con condizioni lavorative insostenibili per molti medici in servizio e che a lungo andare optano per l’estero. E così i costi per la formazione del personale non trovano alcun ristoro nell’impiego. L’ennesimo conto sballato di un sistema in tilt. Migranti. Respingere significa uccidere di Enrico Calamai Il Manifesto, 18 giugno 2023 Omissione di soccorso. La globalizzazione non è stata e non è l’internazionalizzazione degli esseri umani e delle loro lotte contro le disuguaglianze; la “globalizzazione reale” non è altro che il neocolonialismo che il mondo occidentale ha avviato a partire dalla fine della Guerra Fredda. Non ci sono più parole in grado di dar voce al dolore e alla rabbia di fronte a quest’ultima, immane strage di migranti, peraltro prevedibile e prevista. Non ci sono più parole perché inevitabile si affaccia l’idea che altre analoghe stragi seguiranno, di cui molte neanche percepite dall’opinione pubblica, perché avvenute nel nulla mediatico in cui a partire dall’esternalizzazione delle frontiere, sempre più a Sud, si attua ormai il momento tragico del respingimento che spesso vuol dire condanna a morte. Dobbiamo ripetercelo, anche se a rischio di non venir ascoltati: siamo di fronte alla sistematica attuazione di una linea politica concordata dall’intera compagine dell’Unione europea, sempre più divisa e declinata quanto ad orizzonte in chiave atlantica, come deterrente del flusso di migranti che continua a voler varcare i confini dell’Europa Fortezza. Come d’altronde avviene in America del Nord e in Australia. Ripetiamolo ancora una volta: la globalizzazione non è stata e non è l’internazionalizzazione degli esseri umani e delle loro lotte contro le disuguaglianze; la “globalizzazione reale” non è altro che il neocolonialismo che il mondo occidentale ha avviato a partire dalla fine della Guerra Fredda e che ancora tenta di imporre a quanta più parte possibile del resto del mondo, ricorrendo in un modo o nell’altro ancora una volta alla guerra per modificare gli equilibri geopolitici a proprio favore. I migranti, che da quelle guerre e dalla loro miseria da noi provocata arrivano, ne sono l’altra faccia, coloro cui non è più neanche dato attestarsi sulla soglia della povertà a casa loro, perché saccheggiamo le loro risorse naturali, sfruttiamo la loro mano d’opera, devastiamo il loro ambiente, finanziamo guerre, dittature o governi corrotti che ci fanno comodo. I migranti sono l’altra faccia di un mondo orwelliano, in cui si fa la guerra per la pace, in cui le vittime sono i colpevoli, in cui il nostro benessere posa sulla legge della giungla tutto intorno a noi. Occorre dirselo: nulla è più contrario oggi ai diritti umani del neoliberismo, non a caso prodotto, come in un laboratorio politico, a partire dal secolo scorso con i colpi di Stato in Cile e in Argentina. Perché un sistema politico che fa del profitto individuale il suo unico dio e della riduzione della spesa pubblica (tranne che per le armi, beninteso) il suo Vangelo, non può accogliere le nude vite di chi viene da noi depredato: sono, nel migliore dei casi, cioè se muoiono nel viaggio, dei vuoti a perdere, nel peggiore, cioè se malgrado tutto arrivano, i sovversivi che accampano diritti: il diritto a venir salvati, il diritto a venir assistiti, il diritto all’inclusione in un mondo che dei diritti si riempie la bocca, salvo poi calpestarli appena può. Dobbiamo ripeterlo: le singole morti, i singoli naufragi non sono altro che i tasselli attraverso cui si attua una politica concordata tra i Governi dell’Occidente tutto: l’adozione di un complesso di misure pattizie, di controllo delle frontiere o di omissione di soccorso che, attraverso anche la creazione di un sistema di campi di concentramento a macchia di leopardo, hanno esclusivamente finalità di deterrenza nei confronti dei flussi migratori che noi stessi provochiamo, costi quello che costi, in termini di vite umane. È per dare un nome a questo aberrante nuovo operare degli Stati che è stato coniato il termine migranticidio, che si richiama, quanto alla carica di orrore che suscita, a quello di genocidio, nelle cui categorie, tassativamente elencate, non può essere incluso. Dipende da noi trovare la forza per opporvisi, se non in nome del sempre più attualissimo quanto dimenticato monito “Socialismo o barbarie”, almeno in nome di quell’etica socratica che accompagna le democrazie fin dal loro primo apparire. Droghe. Il proibizionismo non fa ridere di Antonella Soldo Il Manifesto, 18 giugno 2023 Qualche settimana fa si sono riversate centinaia di persone al Cinema Troisi di Roma a un evento dal titolo “Cannabis: un serio spettacolo”. Questa volta abbiamo usato uno strumento diverso: la risata. Contro la paura, e contro la cupezza. Che fine fanno i diritti? A luglio dell’anno scorso a Roma con Meglio Legale abbiamo convocato un’assemblea con tutte le associazioni che nel nostro Paese si occupano di immigrazione, ius soli, detenuti, temi lgbtqi+, ambiente, droghe, ecc. Nessuno di noi aveva ottenuto un passo in avanti sulle proprie istanze nella legislatura che stava per chiudersi: cosa sarebbe accaduto nei mesi a venire, con una vittoria di Giorgia Meloni già stagliata sullo sfondo? Ecco a 8 mesi dall’insediamento del governo più di destra degli ultimi trent’anni, non serve un politologo esperto per registrare che, per i diritti e per chi se ne occupa, obiettivamente non è un momento favorevole. Il clima si è fatto più pesante ed è sempre più complicato trovare sostegno. Quanto al nostro lavoro su cannabis e droghe: dicono che bisogna imparare a cavalcare le onde quando il mare si fa grosso e questo, a quanto pare, è proprio uno di quei casi. Il primo decreto che questo governo ha emanato è stato il cosiddetto decreto rave, che con il pretesto di affrontare un’”emergenza nazionale” aveva un solo scopo: riportare nell’ambito del penale il semplice consumo di stupefacenti. Da qui sono partite tutta una serie di proposte di legge atte a mostrare che l’aria era cambiata: da quelle di Maurizio Gasparri per vietare la canapa industriale a quella di Augusta Montaruli per aumentare le pene per i fatti di lieve entità. Ma che l’aria fosse cambiata lo si è capito anche dal mutato atteggiamento generale. Come quando le forze dell’ordine si sono presentate a identificare degli studenti in un liceo di Enna solo perché avevano organizzato un’assemblea sulla legalizzazione della cannabis. O ancora, come quando c’è stato un massiccio intervento di polizia, guardia di finanza, carabinieri alla Fiera della canapa di Roma a febbraio scorso. Poco dopo, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha inviato una circolare a tutti i Prefetti d’Italia con l’indicazione di censire e controllare una per una le attività commerciali e agricole del settore della canapa industriale. Ne è partito una sorta di controllo a tappeto con rimando a giugno per valutare quali saranno le iniziative governative in merito. D’altra parte anche sul tema che apparentemente mette d’accordo tutti, quello della cannabis medica, si registra un fermo della produzione prima affidata allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, che dipende dal ministero della Difesa guidato da Guido Crosetto. Con le relazioni istituzionali ridotte all’osso e gli spazi di dibattito pubblico e mediatico sempre più risicati, anche le cose semplici diventano difficili. Perché, si sa, la prudenza non è mai troppa. E allora un dirigente del comune di Roma vieta le affissioni del 5×1000 perché raffigurano una foglia di canapa (questione poi risolta). Una facoltà di criminologia dà il diniego a un suo studente a fare un tirocinio retribuito presso la nostra associazione perché le tematiche non sarebbero “inerenti al percorso di studi”. A ogni bando pubblico i nostri progetti vengono cassati in favore di qualsiasi altra cosa. Insomma, non è semplice restare positivi. Perciò in questo clima è sembrato sorprendente pure a noi che in un martedì sera, qualche settimana fa, si sono riversate centinaia di persone al Cinema Troisi a un evento dal titolo “Cannabis: un serio spettacolo”. Questa volta abbiamo usato uno strumento diverso: la risata. Contro la paura, e contro la cupezza. Però fuori dallo spettacolo, il proibizionismo non fa per niente ridere. Non fa ridere che un paziente che ha diritto alla cannabis per curarsi ancora sia costretto al mercato nero. Non fa ridere quando ti trovano un grammo d’erba in tasca mentre sei a piedi, perdi la patente e non puoi più andare a lavoro. Non fa ridere quando ti chiamano spacciatore sul giornale del paese solo perché ti hanno fermato con una canna. Non fa ridere Matteo Salvini che dice che Stefano Cucchi è morto perché drogato. Non fa ridere che per prendere Mattia Messina Denaro ci abbiano messo 30 anni, ogni anno migliaia di agenti coi cani antidroga vengono mandati nei licei a perquisire minorenni. Ecco su tutte queste cose occorrerebbe essere estremamente seri.