Sempre più detenuti al 41bis: ecco i numeri del regime “senza fine” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 giugno 2023 La relazione annuale del Garante Nazionale delle Persone Private della libertà ha reso noti alcuni dati rilevanti riguardanti il 41bis, che meritano una seria riflessione. Si tratta di aprire un chiaro confronto su questo regime, considerando sia la sua funzione necessaria per interrompere le connessioni, i collegamenti e gli ordini tra le diverse organizzazioni criminali, sia l’attuale estensione numerica, la sua durata spesso illimitata, le condizioni materiali di detenzione e le singole misure adottate. Attualmente, sono 747 i detenuti sottoposti a questo regime, di cui 12 donne. Sono 12 le carceri che ospitano 60 reparti dedicati al regime 41bis. Tra i detenuti sottoposti a questa restrizione, 35 si trovano nelle 11 “Aree riservate”. Quest’ultime sono un 41 bis ancora più afflittivo. Si rileva che 613 di loro hanno una posizione definitiva, di cui 159 si trovano in una situazione mista con almeno una condanna definitiva. Inoltre, 204 detenuti stanno scontando una condanna all’ergastolo e 6 donne sono internate in misura di sicurezza all’interno di una struttura specifica. Internate vuol dire che hanno finito di scontare la pena, ma di fatto rimangono al 41 bis perché considerate ancora “socialmente pericolose”. Per il Garante nazionale è importante affrontare questa tematica con una visione equilibrata. Da un lato, il regime 41bis è stato introdotto per contrastare l’influenza e il potere delle organizzazioni criminali, svolgendo una funzione necessaria per la sicurezza pubblica. Dall’altro lato, è fondamentale esaminare attentamente l’ampia estensione numerica di questo regime, la sua durata, le condizioni di detenzione e, soprattutto, la salvaguardia dei diritti umani e della dignità delle persone detenute. Una revisione critica delle pratiche attuali è necessaria per garantire che le misure adottate siano proporzionate e rispettino i principi fondamentali dello Stato di diritto. Ciò implica una rigorosa tutela dei diritti umani, la promozione di condizioni di detenzione adeguate e la definizione di un limite temporale ragionevole per la permanenza nel regime 41bis. Su queste pagine, Il Dubbio ha sempre ricordato che tale regime era nato durante l’emergenza stragista sarebbe dovuto rimanere una misura temporanea. Sconfitta la mafia corleonese, il regime è diventato perfino più afflittivo. Un dibatto sereno e non intossicato dalle ideologie e dietrologie, sarebbe necessario per valutare se esistano alternative che possano raggiungere gli stessi obiettivi di contrasto alle organizzazioni criminali senza compromettere i diritti fondamentali dei detenuti. Detenuti stranieri: protocollo d’intesa DAP-ASGI di Marco Belli gnewsonline.it, 17 giugno 2023 Un programma di formazione per gli operatori penitenziari dedicato specificamente ai diritti e alle prerogative dei detenuti stranieri e una migliore conoscenza, da parte di quest’ultimi, delle prospettive di recupero e reinserimento possibili anche nel loro Paese d’origine. Sono questi gli obiettivi del protocollo d’intesa che il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Russo, e il Presidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, Lorenzo Trucco, hanno sottoscritto nei giorni scorsi. Con l’accordo saranno avviati percorsi formativi finalizzati ad arricchire le competenze del personale penitenziario che opera all’interno degli istituti per rispondere meglio alle richieste e ai bisogni della popolazione detenuta straniera in tema di diritti. Il Direttore generale della formazione del Dap, Pietro Buffa - presente alla firma del protocollo - coordinerà in tal senso gli specifici programmi formativi in modo da garantire omogeneità dei contenuti. Sarà invece compito del Direttore generale per i detenuti ed il trattamento, Gianfranco De Gesu, individuare le sedi penitenziarie con la maggiore presenza di detenuti stranieri e avviare appositi incontri informativi con la popolazione detenuta finalizzati a una maggiore consapevolezza delle possibilità di recupero loro offerte dal nostro sistema penitenziario. “Con gli strumenti informativi che nasceranno dalla collaborazione con ASGI - ha detto il Capo del Dap, Russo - sarà possibile garantire ai detenuti stranieri una adeguata conoscenza delle norme in materia di diritti e doveri dei migranti e dei necessari requisiti per la permanenza sul territorio italiano, così come le opportunità di poter scontare la pena nel Paese d’origine nel ripetto delle garanzie individuali”. L’associazione ASGI, con sede a Torino, raccoglie intorno a sé oltre 500 operatori del diritto dislocati in gran parte del territorio nazionale e da 33 anni si occupa di diritti degli immigrati. Il Presidente Trucco ha sottolineato l’importanza di collaborare con il Dipartimento, sia formando gli operatori penitenziari su questa complessa materia giuridica, sia informando i detenuti: “Crediamo nel valore che il dialogo diretto con tutti gli attori interessati possa creare sinergia e promuovere la cultura dei diritti”. Lavoro in carcere, firmato accordo Ministero-CNEL di Marco Belli gnewsonline.it, 17 giugno 2023 Siglato un Accordo Interistituzionale tra Ministero della Giustizia e CNEL per promuovere, con attività concrete, il lavoro e la formazione quale veicoli di reinserimento sociale per le persone private della libertà. L’intesa, siglata dal Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e dal Presidente del CNEL, Renato Brunetta, promuove “una collaborazione orientata a diffondere le condizioni per un lavoro penitenziario formativo e professionalizzante, finalizzato all’utilizzo proficuo del tempo della reclusione e all’accrescimento delle competenze personali dei soggetti reclusi”, si legge nel testo dell’Accordo. Collaborazione che nasce dalla considerazione che “il lavoro - si legge nelle premesse dell’accordo - rappresenta uno degli elementi del trattamento penitenziario finalizzati al reinserimento sociale dei detenuti ed al conseguente abbattimento del rischio di recidiva”. Inoltre, si prevede “l’incremento dei percorsi di formazione anche universitaria e di riqualificazione professionale a favore dei detenuti e internati”, nonché l’istituzione, al fine di monitorare il perseguimento degli obiettivi di cui all’Accordo, di “una apposita Cabina di regia - presieduta dal Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia con delega per il trattamento dei detenuti, Andrea Ostellari -, la quale farà pervenire periodicamente al Ministro e al Presidente del CNEL i risultati dell’attività svolta per la preparazione e l’adozione delle conseguenti iniziative”. Così la nota congiunta del Ministero della Giustizia e del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Per le persone transgender, il carcere è un inferno due volte di Marco Grieco L’Espresso, 17 giugno 2023 Nelle carceri italiane, così anomale da essere definite col superlativo di un superlativo come “sovraffollate”, le persone transgender vivono una doppia prigione. La loro reclusione diventa, cioè, l’espiazione di una colpa verso una società che ancora oggi non tutela i loro diritti, specialmente in carcere, dove Il codice culturale è binario e fortemente sessualizzato. Oltre le sbarre, la mancanza di tutela esercita nelle persone transgender detenute vere e proprie forme di segregazione, non solo fisica. In Italia gli istituti che accolgono persone transgender sono dodici, di cui otto al nord, due al centro, due al sud. Secondo le ultime stime dell’associazione Antigone, si contavano 63 trans negli istituti penitenziari italiani, tutte donne per l’82 per cento non italiane, recluse per reati legati allo spaccio di stupefacenti o alla prostituzione. Numeri che, però, fluttuano: soltanto la sezione di Rebibbia Cinotti conta 20 recluse dalle 15 di inizio anno. Cittadinanza italiana o meno, molte ammettono di aver subito qualche forma di ostracismo, come emerso dalle numerose testimonianze raccolte da associazioni come Antigone o attraverso i centri di ascolto come Gay Help Line, o da amici e conoscenti. Alessia Nobile, assistente sociale e attivista transgender, negli anni è divenuta punto di riferimento per le detenute trans pugliesi: “Anni fa una mia amica, reclusa nel carcere di Poggioreale di Napoli, mi scrisse disperata una lettera: mi chiedeva semplicemente dei trucchi, per continuare a sentirsi donna. Percepiva che stava regredendo, non voleva ritornare uomo”, spiega. Oggi Nobile, che ha in comune un passato di abbandono e discriminazione, vuole infondere loro una speranza nel luogo dove la speranza è la prima a morire. Per il loro passato da sex worker, infatti, tante detenute sono collocate in sezioni promiscue insieme ai sex offenders, cioè i detenuti reclusi per reati di natura sessuale, e questo crea in loro un costante senso di paura. A ciò si aggiunge lo stigma. Fino a poco tempo fa era consuetudine recludere le persone in transizione su base strettamente anagrafica, senza considerare cioè l’identità di genere da esse percepita. Ancora oggi sotto il profilo amministrativo si utilizza una terminologia confusa per definire le persone transgender: aspetto problematico specialmente per coloro che, essendo in transizione, presentano un’identità anagrafica difforme dal proprio aspetto esteriore. Occorre ricordare che la tutela delle persone transgender non solo rispecchia le linee guida indicate dall’American Psychological Association nel 2015, ma è garantita dal diritto: la sentenza della Corte Costituzionale 221/2015 ha sganciato il diritto all’identità di genere di una persona dall’imposizione di un trattamento ormonale o chirurgico, perché viola gli artt. 3 e 32 della nostra Costituzione, peraltro in sintonia con quanto riconosce la Corte europea dei diritti dell’uomo (art. 8). Eppure, a cinque anni dal pronunciamento, nelle maglie imbrigliate delle carceri sovraffollate i nodi restano. Lo dimostra l’ordinanza n. 682 del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, che nel 2020 ha accettato le richieste di una detenuta presso la Casa Circondariale di Sollicciano a cui era stato negato l’accesso al reparto femminile, malgrado l’adeguamento dei suoi dati anagrafici: “Oggi a Firenze Sollicciano le detenute trans sono allocate nella sezione femminile, fanno attività scolastiche e ricreative. Ma è stata una conquista difficile”, spiega l’avvocato Elia De Caro, difensore civico dell’associazione Antigone. Questo e altri casi portati in tribunale sono le spie di un sistema carcerario in affanno, dove a pagarne le conseguenze sono “le segregate due volte”, come spiega Porpora Marcasciano, presidente onoraria del Movimento Identità Trans (Mit) e figura di spicco della comunità transgender italiana, con una militanza di 50 anni: “Quando entri in carcere varchi la porta dell’inferno, è una sensazione che non riesci più a toglierti di dosso, fatta di impotenza e disperazione”. Nel 1981 a Porpora bastò un accenno di trucco per essere arrestata appena fuori dall’università e reclusa quattro mesi nel carcere romano di Regina Coeli. Sullo stipite della sua cella trovò incisa la parola travestito: un’epigrafe della vergogna, oggi non più visibile, ma incarnata nei corpi che ancora subiscono un linguaggio sessualizzante o persino le angherie di chi lavora negli istituti di pena, come spesso denuncia chi si rivolge a Gay Help Line: “Negli anni Ottanta con il Mit abbiamo seguito diverse donne trans arrestate: erano in media quattro a settimana e potevano restare in carcere anche tre mesi. Da allora, alcune cose sono cambiate, ma il volto della disperazione quando vai a trovarle è sempre lo stesso” spiega Marcasciano. Alcune di loro non ce la fanno a vivere in un sistema che le discrimina e non accetta ciò per cui hanno lottato ingaggiando il loro stesso corpo. Nel padiglione Roma del carcere napoletano di Poggioreale, per esempio, è ancora vivido il ricordo del 2010, quando in due settimane tre di loro si tolsero la vita. L’ultima, Francesca, aveva solo 34 anni, ma preferì porre fine alle sue sofferenze inalando il gas da una bomboletta in dotazione nella cella. Nella reclusione, le donne transgender vedono sul loro corpo la parabola discendente di un percorso di liberazione personale, pagato con la l’ostracismo e il totale abbandono: “Quando Francesca si prostituiva, si sentiva nell’indifferenza di tutti. In fondo, lei sognava solo una vita migliore per sé e per quelle come lei”, dice Alessia Nobile, la voce incrinata dall’emozione. Malgrado negli anni siano state stilate regole europee che impongono alle autorità penitenziarie la tutela della salute dei detenuti, la realtà è superiore alle soft law e alle convenzioni internazionali. Ci sono delle mancanze oggettive, come spiega De Caro: “Nel nostro sistema penitenziario mancano professionisti della salute mentale, ma occorre anche formare il personale, inserire mediatori culturali. Quando nessuna detenuta trans riesce a ottenere un permesso per uscire dal carcere per studio o lavoro, qualche domanda occorre farsela”. Da tempo il Mit si occupa del reinserimento delle detenute nella società, come Mary: “Ha da poco acceso un mutuo e lavora”, dice commossa Marcasciano. Ma l’indifferenza dello Stato verso la salute mentale delle persone transgender detenute è la punta d’iceberg di un problema che investe una situazione più complessa, quella che fa dei luoghi deputati al reintegro nella società zone di trincea per chi vive già sulla sua pelle il coraggio di stare in frontiera. Denuncia De Caro: “In alcuni istituti, la terapia ormonale è ristretta alla somministrazione di un solo ormone” che - le fa eco Marcasciano - “viene prescritto come se fosse aspirina, senza un piano terapeutico individuale. Noi come Mit collaboriamo con il carcere di Reggio Emilia, da cui le detenute trans - oggi sono in dieci - escono per essere seguite da uno specialista endocrinologo”. Fa scuola l’ordinanza emessa il 13 luglio 2011 dal Tribunale di Spoleto, che ha riconosciuto il diritto della persona detenuta a proseguire il proprio percorso ormonale, anche in assenza di una normativa regionale. È un diritto alla salute, che andrebbe garantito non solo dalle regioni erogatrici dei servizi, ma dallo Stato, puntualizza De Caro: “Noi non possiamo chiedere all’amministrazione penitenziaria quello che va chiesto al Ministero della Salute e agli altri Ministeri competenti”. È la legge uguale per tutti, che campeggia sulla testa di un giudice, ma che a volte cade con una sentenza. Diventa un verdetto di vita e di morte per una persona transgender, a cui attende dietro le sbarre un buco nero, che strappa la vita e pure il nome. “Il volontariato penitenziario come chiave per il reinserimento sociale” vita.it, 17 giugno 2023 La Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV, alla luce della Relazione annuale del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, sottolinea l’importanza di un impegno attivo nel volontariato penitenziario in Italia, per il reinserimento sociale dei detenuti. Durante la sua ultima Relazione al Parlamento presso la Camera dei deputati, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Gnpl), Mauro Palma, ha affrontato le diverse problematiche relative alla situazione delle carceri in Italia. Ne emerge anche l’importanza del volontariato come strumento fondamentale per il reinserimento sociale dei detenuti. Attualmente negli Istituti Penitenziari Italiani sono presenti 57.230 detenuti, mentre sono 53.113 le persone sottoposte a misure alternative e 25.716 in messa alla prova. Le misure alternative e quelle di comunità non hanno portato a una diminuzione della popolazione carceraria, ma si sono affiancate ad essa. Questo ha comportato un aumento complessivo delle persone coinvolte nell’ambito penale, che sono passate da 98.854 a 137.366 in sette anni. Tutti dati che sottolineano la necessità di un dibattito pubblico più consapevole e umanizzante sul concetto di pena. In questo contesto il ruolo del volontariato penitenziario si rivela di fondamentale importanza: “Dentro le mura - sottolinea Giulia Bandiera, Responsabile del Settore Carcere e Devianza della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV - tutte le povertà umane si incontrano una volta sola. Ogni giorno i nostri volontari penitenziari varcano i cancelli degli istituti con amore ed umiltà, donando quanto ci caratterizza: ascolto, calore umano, accoglienza”. “All’interno ed all’esterno del carcere - prosegue Giulia Bandiera - i volontari lavorano in sinergia con altre associazioni attive sul territorio, nonché in accordo con la Direzione e il Presidente del Tribunale di Sorveglianza. Partecipano a laboratori formativi, di socializzazione, culturali e si occupano di raccolta e distribuzione di beni di prima necessità a favore dei ristretti”. Il Settore Carcere e Devianza promuove annualmente percorsi formativi e di aggiornamento per i volontari attivi sul territorio, offrendo loro la possibilità di approfondire la conoscenza del contesto carcerario. “Il volontariato penitenziario si conferma un pilastro fondamentale per il sostegno e il recupero dei detenuti, richiedendo un impegno costante da parte di tutti gli attori coinvolti. La collaborazione tra le istituzioni, le associazioni di volontariato e la società civile può contribuire a promuovere una cultura di inclusione, rieducazione e reinserimento, favorendo così la trasformazione delle carceri in luoghi di rigenerazione e speranza per coloro che vi transitano” conclude Paola Da Ros, Presidente della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV. La Società di San Vincenzo De Paoli con oltre 2 milioni di volontari nel mondo e 12.500 nel nostro Paese, è una delle più grandi organizzazioni del Terzo Settore e, in Italia, affianca più di 100.000 persone che vivono in condizioni di difficoltà. La riforma della giustizia di Nordio è una presa in giro di Piero Sansonetti L’Unità, 17 giugno 2023 C’è l’abolizione dell’abuso d’ufficio e basta. Per il resto ogni misura garantista è accompagnata da limitazioni così grandi da annullarla. E voi la chiamate riforma della Giustizia? E voi dite che è stato reso onore a trent’anni di battaglie di Berlusconi e dei garantisti? E voi magistrati, addirittura, urlate ai quattro venti che vi stanno stroncando le gambe e che imbavagliano la stampa? Ma che stupidaggini! La riforma proposta da Nordio è come un bicchiere di acqua fresca. Non cambia una virgola nel processo penale, o forse cambia qualche virgola, ma giusto quelle, e lascia intatto il potere e lo strapotere delle procure. Non aumenta di un’oncia - al massimo di mezza oncia - le garanzie per i cittadini e tantomeno per gli imputati. Aggredisce i giornalisti al servizio delle Procure minacciandoli con pene terrificanti: fino a 250 euro di multa, rateizzabili. Un po’ meno che se ti portano via la macchina col carratrezzi. Vediamo bene. L’unica misura concreta ed effettiva è l’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Che è una riforma del codice, non della giustizia. La macchina della giustizia e il suo putridume restano non sfiorati. L’abolizione dell’abuso di ufficio era urgente per svariati motivi. Il primo è che non è evidentemente un reato, l’abuso d’ufficio, visto che nel 99,7 per cento dei casi il processo, molto costoso, si conclude con l’assoluzione. In primo grado. Poi, di solito, in secondo grado le condanne si dimezzano, e dunque diventano lo 0,15 per cento. Può esistere un reato così? Dicono alcuni Pm: ma è un “reato spia”. Cioè ci serve per indagare su altro. Ma dove hanno studiato, questi? Da quando in qua i reati sono non reati in se stessi ma strumento di indagine? Mammamia, ragazzi, che bisogna sentir dire, e senza che nessuno dica loro: tornate alle medie! E poi il reato d’abuso d’ufficio viene abolito per un’altra ragione più concreta. se resta in piedi addio Pnrr. Con danni economici e politici terrificanti. Per il resto siamo a zero. Si dice che siano state ridotte le possibilità di usare il carcere preventivo, si dice che siano state ridotte le possibilità di pubblicare sui giornali le intercettazioni, si dice che finalmente si sia deciso di rispettare il codice penale e venga negata ai Pm la possibilità di andare in appello in caso di assoluzione in primo grado. Non è vero. Le eccezioni previste a ciascuna di queste misure sono talmente grandi da azzerare le misure. Vero, prima di arrestare devi interrogare l’indiziato, ma solo se non ha commesso reati gravi e solo se non c’è il rischio di inquinamento delle prove o di fuga. Quindi? Quindi, praticamente zero. Vero, non può più il Pm ricorrere in appello, ma solo per i reati piccoli, per quelli grandi può ricorrere. Ma per i reati piccoli il ricorso è già rarissimo. Ora voi tenete conto del fatto che nel codice penale c’è scritto chiaro chiaro che nessuno può essere condannato se non ritenuto colpevole oltre ragionevole dubbio; e allora, ditemi un po’, ma una sentenza di assoluzione non vi sembra un ragionevole dubbio? E lo sapete che già i romani avevano stabilito che nessuno può essere processato due volte per lo stesso reato? E che cos’è un processo d’appello dopo una assoluzione se non una ripetizione del processo? Delle intercettazioni abbiamo già detto. Le parti non pubblicabili in realtà le decide il Pm, e comunque se poi le pubblichi lo stesso, anche violando la legge, così come se violi il segreto, ammesso che decidano di perseguirti (ma i casi sono davvero rarissimi) ti fanno una bella multa e tutto finisce lì. Che imbroglio. Che assurdo gioco delle parti. Non troveremo mai una maggioranza politica che accetti di riformare la giustizia. Di togliere il potere di arresto ai giudici. Di separare le carriere. Di introdurre la responsabilità civile del magistrato. Di mettere la difesa sullo stesso piano dell’accusa. E tutto il resto. Mai, mai. I politici, quasi tutti, sono sottomessi alla magistratura. E non hanno l’ardire e l’ardore per tornare liberi. Ora che non c’è più neppure Berlusconi, che - diamogliene atto - è l’unico che ci ha provato (infatti i magistrati hanno provato a metterlo in prigione) credo che le possibilità che una riforma si faccia davvero abbia una percentuale simile a quella delle condanne per abuso d’ufficio… Ma quale bavaglio. Questa norma non cambia nulla di Simona Musco Il Dubbio, 17 giugno 2023 Il ddl Nordio non incide affatto sulla pubblicabilità delle intercettazioni: a decidere sono sempre i giudici. La riforma sulle intercettazioni? Tante parole e pochi fatti. Eppure, all’indomani dell’approvazione del ddl Nordio in Consiglio dei ministri, la stampa è scesa in campo per gridare ad un nuovo tentativo di bavaglio. Bavaglio che, di fatto, non ci sarà e non c’è mai stato, considerando che tutte le riforme approvate fino ad oggi non hanno impedito la pubblicazione di qualsiasi cosa, in spregio al codice di procedura penale e ad ogni deontologia. Perché sfidare la legge - giusta o sbagliata che sia - in questo caso costa pochissimo: una sanzione minima, che spesso - anzi, la maggior parte delle volte - non viene nemmeno irrogata. Le cronache di ieri sono piene di voci preoccupate circa le conseguenze di questa riforma, con un dettagliato elenco di notizie “che non avremmo letto”. Come lo scandalo Qatargate - le cui intercettazioni sono state lette dagli stessi indagati prima sui giornali, poi negli atti - o quelle relative all’arresto dei poliziotti accusati di tortura, solo per fare due esempi. Una conclusione affrettata, dal momento che rimane pubblicabile tutto ciò che viene riversato dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso di un processo. E le intercettazioni choc dei poliziotti di Verona, ad esempio, sono contenute nell’ordinanza di custodia cautelare: sui giornali ci sarebbero finite comunque. La norma, ha evidenziato il presidente dell’Unione delle Camere penali Gian Domenico Caiazza a Omnibus, impedisce dunque solo “di andare a ravanare nell’immondizia”, cosa che rimane comunque possibile, per chi volesse farlo, dal momento che chi viola questi divieti dovrà pagare solo 300 euro. “Chi strepita di “bavaglio” - ha commentato ieri sul Riformista - sfida temerariamente il senso del ridicolo”. Le norme, hanno tuonato le testate del gruppo Gedi, esistevano già: la legge Orlando, ad esempio, poi i codici deontologici e quelli delle varie autorità a tutela di privacy e riservatezza. Un appunto preciso, che però ignora il dato di fatto principale: tali norme non hanno mai spaventato nessuno, tant’è che vengono quotidianamente violate. Già all’epoca della legge Orlando si parlò di bavaglio, concetto smentito dalla Cassazione, secondo cui “la peculiare natura delle intercettazioni non divulgabili” ai sensi di quella norma “parrebbe difficilmente riconducibile al canone della rilevanza sociale della notizia che, unitamente alla verità della stessa ed alla continenza espressiva, è tradizionalmente valutato dalla giurisprudenza ai fini del riconoscimento della scriminante del diritto di cronaca”. Queste norme, spiega al Dubbio Beniamino Migliucci, già presidente dell’Ucpi, “non rappresentano alcun bavaglio. Ho sempre sostenuto che il problema non sono i giornalisti, ma chi passa informazioni che non dovrebbero essere pubblicate. C’erano già nel nostro codice delle norme che vietavano la pubblicazione sia di intercettazioni sia di atti che riguardano le parti del processo - sottolinea -. Non si comprende per quali ragioni si dovrebbero pubblicare dialoghi che riguardano estranei al processo, soprattutto se non hanno alcuna attinenza con le indagini, che è quello che poi prevede la riforma. Le intercettazioni sono un mezzo di ricerca della prova, molto invasivo, e devono essere riservate esclusivamente ai reati e non a spiare le pubbliche virtù dei cittadini e dei politici per fare indagini di altro tipo”. Le modifiche previste dal ddl Nordio, in ogni caso, non colgono il tema fondamentale: “Per un mezzo così invasivo sono ancora troppe, dovrebbero essere riservate ai fatti davvero più gravi e anche concesse non come reti di scandaglio per trovare dei reati, ma quando già ci sono degli elementi per cui si deve cercare una prova. E poi bisognerebbe tutelare le conversazioni tra l’assistito e il difensore, spazio che dovrebbe rimanere sacrale e ancora oggi non lo è”, aggiunge Migliucci. Secondo cui le norme vanno nel senso giusto, ma senza incidere troppo, date le modeste sanzioni. “Abbiamo delle norme che tutelano il segreto, che puniscono la rivelazione o utilizzazione di segreti d’ufficio, abbiamo un reticolo di leggi che intendono evitare la pubblicizzazione degli atti del procedimento penale, soprattutto scandendo alcuni momenti processuali - evidenzia -. L’articolo 114 prevedeva che gli atti del fascicolo del pm non potessero essere pubblicati prima della sentenza di secondo grado, per tutelare la verginità cognitiva del giudice. Se fosse stato applicato ci sarebbe stata una tutela non solo per i terzi estranei, ma anche per le parti del processo. Queste norme, nel tempo, non sono state osservate. Le violazioni sono tantissime, le sanzioni pochissime. Anche se i penalisti mai invocherebbero sanzioni”. In ogni caso, saranno sempre le toghe a gestire la mole di informazioni che verranno rese note. E tutto viene rimesso al controllo del giudice, ultimo filtro a ciò che arriverà in mano al giornalista. “Bavaglio? Si tratta di una clamorosa esagerazione - spiega un magistrato che preferisce rimanere anonimo -. Siamo ben lontani dal confiscare il diritto all’informazione, perché anche nel progetto Nordio è sempre il giudice il garante dell’equilibrio tra informazione e rispetto della dignità dell’indagato, attraverso il parametro della rilevanza. Che cosa c’è di scandaloso? Forse i miei colleghi dell’Anm dovrebbero spiegare perché hanno così poca fiducia nei magistrati”. Ed il livello di sanzioni è così modesto “che equivale ad un divieto di sosta”. Questa norma, dunque, “non mette minimamente il giudice con le spalle al muro ma lo invita ad esercitare il suo potere con prudenza, sulla base di un criterio di rilevanza che sarà comunque lui a decidere. Per molti versi è solo un principio di civiltà - conclude il magistrato -. Il giornalismo dovrà solo smetterla di essere procurocentrico”. Sulla riforma ombre di incostituzionalità Dal governo un messaggio punitivo ai pm di Donatella Stasio La Stampa, 17 giugno 2023 Il ministro Nordio non punta al garantismo, ma va a caccia della resa dei conti con magistratura e media. “In primo grado mi avevano assolto. Poteva finire lì se fosse rimasta in piedi quella simpatica legge che Berlusconi si era fatto per sé. Una legge del cavolo, giustamente dichiarata incostituzionale; ma aboliva l’appello del pm contro le sentenze di proscioglimento e mi avrebbe salvato. Invece mi hanno condannato e ora aspetto la Cassazione. Ho paura. Capisci che cosa vuol dire se mi strappano via da tutto quello che nel frattempo ho costruito, mi condannano per un reato di quindici anni fa, e mi fanno tornare dentro? Questa cosa mi ucciderà”. La Cassazione non ha confermato la condanna in appello e Marco è rimasto libero. Era il 2008 quando mi raccontò la sua storia, aveva 33 anni e metà li aveva passati “dentro”, per reati di traffico d’armi e di droga, fortunatamente nel carcere di Bollate dove aveva studiato, fatto teatro, imparato un lavoro. Tornato libero, aveva avuto una bambina. La vita era cambiata ma la giustizia italiana dai tempi biblici minacciava di riportarlo dentro per almeno altri tre anni. Era angosciato, ma nella sua nuova vita coglieva perfettamente, oltre all’immoralità, il senso dell’incostituzionalità di quell’ennesima legge ad personam che Silvio Berlusconi aveva voluto per sfuggire al corso naturale dei suoi processi. Una legge smaccatamente contro i pm, fatta solo per “menomarne” il potere d’appello. Oggi quella norma viene riproposta, in una versione circoscritta ai reati meno gravi. Un “tributo” del governo Meloni alle “battaglie di Berlusconi”. E di tutto il pacchetto Nordio sulla giustizia è forse il punto meno criticabile ma non meno ideologico, perché riflette la voglia del governo di mandare un segnale non di garantismo ma di resa dei conti, di rivincita, nei confronti della magistratura e dei media. Un pessimo segnale: se davvero si vogliono efficaci riforme sulla giustizia, è essenziale un clima di collaborazione e condivisione con tutti gli operatori e, con riferimento all’abuso d’ufficio, è fondamentale coordinarsi con l’Europa e farsi carico dei vincoli internazionali che la Costituzione ci impone di rispettare e che suggeriscono di non passare un colpo di spugna su quel reato. Collaborare, condividere, coordinarsi non significa affatto sottrarre a governo e maggioranza le decisioni finali (e la relativa responsabilità); significa avere un’idea pluralista del potere e dimostrare che la giustizia è davvero un “bene comune”, oltre che un pilastro dello stato di diritto, da tutelare soprattutto nella prospettiva di riforme costituzionali. Ben venga l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione purché abbia il respiro vero della riforma, senza accenti punitivi. Intanto, la norma proposta dal governo Meloni dovrà fare i conti con un principio sacro della Costituzione, sancito nell’articolo 136, quello del cosiddetto “giudicato costituzionale” : quando una norma è dichiarata incostituzionale, non può essere ripresentata né in fotocopia né sotto mentite spoglie. Pertanto, il nuovo, parziale, intervento del governo si dovrà misurare con la sentenza della Consulta n. 26 del 2007, scritta dal penalista Giovanni Maria Flick, che bocciò la legge Pecorella voluta da Berlusconi. Nordio esclude qualunque violazione. Ma attenzione: la portata di quel principio è stata chiarita dalla Corte costituzionale nel 2020, con la sentenza n. 256 scritta dal costituzionalista Nicolò Zanon, in cui tra l’altro si legge: “Il giudicato costituzionale è violato non solo quando è adottata una disposizione che costituisce una “mera riproduzione” di quella già ritenuta lesiva della Costituzione, ma anche quando la nuova disciplina mira a perseguire e raggiungere, anche se indirettamente, esiti corrispondenti”. Sono trascorsi sette mesi da quanto Nordio ha annunciato ripetutamente la sua grande e urgente riforma della giustizia. Il 7 giugno, rispondendo al question time alla Camera, il ministro ha elencato le varie misure in programma per il Consiglio dei ministri di giovedì scorso senza citare la norma sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, forse per l’esigenza di un supplemento di riflessione. Poi è sopraggiunta la morte di Berlusconi ed ecco che, nel pacchetto “in memoria” dell’ex leader di Forza Italia, compare anche la “nuova” inappellabilità. Due righe secche alla lettera n) dell’articolo 2 del Ddl governativo, per dire che “il pubblico ministero non può appellare contro le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2”, ovvero i reati, di varia natura, per i quali si può procedere con la citazione diretta, puniti fino a 4 anni di carcere. Ora passa al Parlamento, in particolare alle commissioni Affari costituzionali, la verifica sul rispetto del “giudicato costituzionale” e poi al presidente della Repubblica in sede di promulgazione (il contrasto con il “giudicato costituzionale” impedisce la firma del capo dello Stato). Infine, se la legge entrerà in vigore e dovesse essere impugnata, si pronuncerà anche la Corte costituzionale. Così è accaduto, ad esempio, per una norma del 2010, più volte modificata, in materia di concessioni idroelettriche e di somme versate dai concessionari ai comuni e allo Stato. Nonostante ben due sentenze di incostituzionalità, il legislatore ha insistito e nel 2020 la Corte, con la sentenza 256, ha riscontrato la violazione del “giudicato costituzionale” che, ha detto, sussiste “non solo laddove il legislatore intenda direttamente ripristinare o preservare l’efficacia di una norma già dichiarata incostituzionale ma ogniqualvolta una disposizione di legge intenda mantenere in vita o ripristinare, se pure indirettamente, “gli effetti della struttura normativa” che aveva formato oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale”. Quando, nel 2006, fu bocciata la legge Pecorella, la Corte scrisse: “La menomazione del potere del pm eccede il limite della tollerabilità costituzionale, in quanto non è sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e unilaterale della menomazione stessa”. Oggi siamo, di nuovo, di fronte a un intervento parziale, e non di sistema. La domanda è: perché il governo, preso dal sacro fuoco garantista, non ha recepito interamente la proposta formulata (prima della riforma Cartabia) dalla commissione ministeriale presieduta da Giorgio Lattanzi, che prevedeva l’inappellabilità da parte del pm di tutte le sentenze di proscioglimento ma all’interno di una rivisitazione complessiva del giudizio d’appello, così da razionalizzare anche l’impugnazione da parte dell’imputato? Nordio e il governo non si sono mossi nella logica della revisione di tutto il giudizio d’appello (e di tempo ne hanno avuto, tanto più che avevano anche il lavoro già fatto) ma hanno lasciato invariato il quadro complessivo. E allora è legittimo chiedersi se la riforma Nordio non sia un nuovo tentativo di “menomazione” del potere del Pm, “oltre i limiti della tollerabilità costituzionale”. Toghe divise, ma la riforma non spaventa di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 17 giugno 2023 Sono due gli schieramenti interni all’Anm. Ma le novità non scaldano davvero il dibattito. Prima di ogni considerazione sarebbe opportuno partire dai numeri, forniti dallo stesso ministero della Giustizia. Dal 2020 ad oggi sono stati aperti 5418 fascicoli per il reato di abuso d’ufficio. Questi fascicoli si sono chiusi con 9 condanne e 35 patteggiamenti. I rimanenti sono stati tutti archiviati. Si possono, dunque, fare le barricate per una riforma che abolisce un reato che nella quasi totalità dei casi è destinato a finire in un nulla di fatto? L’assenza di una presa di posizione unitaria parte dell’Associazione nazionale magistrati nei confronti della riforma della giustizia, presentata questa settimana in Consiglio dei ministri da Carlo Nordio, si spiega, quindi, anche così. Al netto delle critiche da parte di alcuni magistrati, la riforma della giustizia di Nordio non tocca minimamente i temi “sensibili” per la categoria. Non si parla di separazione delle carriere, non ci sono modifiche al sistema di elezione dei togati del Consiglio superiore della magistratura, non ci sono cambiamenti riguardo le valutazioni di professionalità o il disciplinare, non c’è nulla sulla responsabilità civile per i magistrati che “sbagliano”, un vecchio cavallo di battaglia del centrodestra. A parte l’abolizione del reato di abuso d’ufficio e la modifica del traffico d’influenze illecite, reato quest’ultimo dai contorni quanto mai vaghi ed evanescenti, la modifica delle regole sulle intercettazioni telefoniche toccherà solamente i giornali che avranno una “stretta” sulla pubblicazione degli ascolti. Il collegio dei giudici che dovranno decidere sui provvedimenti cautelari, ad esempio, entrerà in vigore dopo due anni e comunque si risolverà con una diversa organizzazione degli uffici. Da più parti, poi, si sottolinea come sia solo una “anticipazione” della decisione del tribunale del riesame che già opera in composizione collegiale. In tale quadro, emerge allora la spaccatura profonda all’interno dell’Anm, con il gruppo progressista e quello moderato in perfetto equilibrio numerico. Magistratura democratica ed Area “accusano” i colleghi di Magistratura indipendente di non prendere posizione e lasciar correre in quanto il ministro Nordio, a differenza dei predecessori, ha deciso di toghe di avvalersi della collaborazione di quest’ultimi. Accusa a cui le toghe di Mi non replicano, limitandosi a ricordare che alla magistratura “compete un contributo tecnico e le scelte discrezionali di politica giudiziaria sono del governo”. “Agli amici di Magistratura indipendente ricordo sempre che sono una corrente di lotta e di governo”, afferma con un pizzico di ironia il giudice Andrea Reale, componente del Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati. “Chi adesso però grida contro la riforma di Nordio in passato ha avvallato senza batter ciglio provvedimenti molto penalizzanti per la categoria”, prosegue Reale. Per scoprire che il tema della riforma non scaldi gli animi è sufficiente fare un giro nei tribunali italiani. Al Palazzo di giustizia di Milano, in prima linea in passato quando si è trattato di contestare riforme della giustizia non gradite, il clima fra le toghe ieri era alquanto rilassato. Nessuno presagio di contestazioni o scioperi. Il tema maggiormente dibattuto ieri, soprattutto in procura, era cosa succederà martedì prossimo al Tribunale di Brescia dove è attesa la sentenza del processo a carico di Piercamillo Davigo, divenuto famoso per aver fatto parte del pool di Mani pulite.” Sarà condannato o sarà assolto?”, si chiedevano in molti. Abuso d’ufficio e carcere. Cosa prevede la riformina di Angela Stella L’Unità, 17 giugno 2023 Molto clamore per l’inappellabilità delle sentenze da parte del pm, che in realtà riguarda soltanto piccoli reati sui quali già oggi l’accusa desiste. Il primo pacchetto di riforma della giustizia targato Nordio ha superato due giorni fa - senza problemi ovviamente - il vaglio del Cdm. Ora si attende il dibattito parlamentare. Siano sicuri che filerà tutto liscio? Tralasciando la spaccatura all’interno del Pd tra i sindaci che festeggiano per l’abolizione dell’abuso di ufficio e la segretaria Schlein che auspicava solo un rimaneggiamento della norma, non sono da escludersi anche frizioni all’interno delle forze di maggioranza, le quali sul tema della giustizia non si sono mostrate sempre allineate. Altra incognita è rappresentata da quello che potrebbe uscire dalle possibili audizioni che dovrebbero tenersi in commissione Giustizia. Da un lato la magistratura che sta criticando aspramente la riforma ma anche sta ingaggiando un duro scontro a distanza con il Guardasigilli sulla possibilità o meno di criticare la riforma, dall’altro lato l’avvocatura che con l’Unione Camere penali ha sì espresso un parere favorevole ma più che altro sui principi espressi, non tanto sull’impatto effettivo che la riforma avrà. Insomma, i penalisti si aspettano passi più coraggiosi, più incisivi dal responsabile di Via Arenula considerate le aspettative che aveva creato in questi mesi. Sullo sfondo c’è un dettaglio da non sottovalutare: questo primo step di riforma è stato presentato quasi come un omaggio a Silvio Berlusconi e alle sue battaglie garantiste, che però lui in tre governi non è riuscito a portare a termine. Tale accostamento potrebbe minare il dibattito già infuocato, perché le norme riformate potrebbero essere percepite come una rivalsa nei confronti della magistratura per i processi subiti dal Cavaliere. Insomma il puzzle è complicato. Ma rivediamo di cosa stiamo parlando effettivamente. Collegialità e misure cautelari - Si propone di introdurre la competenza di un organo collegiale, formato da tre giudici, per l’adozione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Attualmente, è sempre disposta dal giudice monocratico. La collegialità riguarda solo la più grave delle misure cautelari, quella in carcere; non è estesa ad un’ordinanza per arresti domiciliari, per valorizzare il carattere di extrema ratio della misura restrittiva in carcere. Dato l’impatto sull’organizzazione dei Tribunali, soprattutto per le incompatibilità dei tre giudici rispetto alle successive fasi del processo, si prevede un aumento dell’organico con 250 nuovi magistrati, da destinare alle funzioni giudicanti. Per consentire le necessarie assunzioni, l’entrata in vigore è differita di due anni. Contraddittorio e misure cautelari Si introduce il principio del contraddittorio preventivo. Nel ddl, si prevede che il giudice proceda all’interrogatorio dell’indagato prima di disporre la misura. Le situazioni in cui non sarà possibile una previsione di contraddittorio sono quelle in cui esiste il pericolo di fuga o di inquinamento delle prove o quando, per tipologia di reati, non è possibile rinviare la misura cautelare (quando, ad esempio, vi sia il rischio di reiterazione di gravi delitti con uso di mezzi di violenza personale o in tutti i casi in cui si è in presenza di delitti gravi). Inappellabilità delle sentenze di assoluzione Il ddl propone di ridisegnare il potere del pm di proporre appello contro le sentenze di assoluzione di primo grado, rispettando però le indicazioni della Corte costituzionale. La limitazione alla possibilità per il pm di proporre appello non riguarda i reati più gravi (compresi quelli contro la persona che determinano particolare allarme sociale), non è né “generalizzata” né “unilaterale”, come stabilito dalla Corte (sentenza n.26 del 6 febbraio 2007). Limiti all’appello, di fatto, solo per i reati a citazione diretta a giudizio (ex art. 550 cpp). Di fatto, come fanno notare diversi avvocati, già adesso in caso di assoluzione per quei tipi di reati il pm non propone appello. Quindi questa proposta ha più un significato simbolico che effettivo, potrebbe essere la breccia per estendere in futuro l’inappellabilità anche ad altri reati. La proposta infatti era stata inserita già dall’ex presidente della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi nella riforma Cartabia. Abuso di ufficio “L’articolo 323 è abrogato”. L’abolizione è motivata “dalla applicazione minimale da parte delle corti italiane” e dallo “squilibrio tra iscrizioni della notizia di reato e decisioni di merito, rimasto costante anche dopo le modifiche volte a ricondurre la fattispecie entro più rigorosi criteri descrittivi” che “è indicativo di una anomalia”, spiega la relazione illustrativa alla bozza del ddl. Traffi co di influenze Viene modificato anche l’articolo 346-bis, che viene meglio definito e tipizzato e “limitato a condotte particolarmente gravi”. Intercettazioni - Verrà escluso il rilascio di “copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione”, quando “la richiesta è presentata da un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori”; si modifica l’articolo che attualmente vieta la pubblicazione del contenuto delle intercettazioni sino a quando esse non siano state “acquisite ai sensi degli articoli 268, 415-bis o 454”; tale limitazione viene ora resa più stringente prevedendo che il divieto di pubblicazione cada solo allorquando il contenuto intercettato sia “riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”. Lo scopo - si legge nella bozza - è “rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento rispetto alla circolazione delle comunicazioni intercettate”. Il lutto nazionale manettaro sulla riforma della giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 17 giugno 2023 La lagna sulla riforma Nordio mostra il vero sogno del partito della gogna: continuare a spacciare lo sputtanamento per diritto di cronaca. Ma perché combattere il business delle intercettazioni-spazzatura? Sentite Mattarella. Lutto nazionale. I giornali che negli ultimi trent’anni si sono abbeverati in modo copioso alla sorgente tossica della gogna mediatica ieri hanno espresso tutta la loro preoccupazione rispetto a una circostanza che potrebbe divenire reale nel caso in cui le linee guida della riforma della giustizia presentate giovedì in Consiglio dei ministri dal governo dovessero trasformarsi in realtà. La preoccupazione, molto profonda, molto sentita, molto intensa, che si somma naturalmente alla preoccupazione immensa di non poter più far leva sull’anti berlusconismo, per improvvisa dipartita del diretto interessato, è legata alla possibilità che ai mezzi di informazione sia vietato pubblicare atti di indagine prima della richiesta di rinvio a giudizio e sia reso impraticabile l’accesso alle conversazioni tra persone non indagate captate dall’autorità giudiziaria. E’ “una vendetta”, ha scritto Repubblica. È “un bavaglio”, ha aggiunto la Stampa. È “un regalo a Berlusconi”, ha sostenuto il Fatto. È “una rivalsa”, ha argomentato il Corriere. Le valutazioni molto critiche di alcuni giornali, rispetto alle linee guida presentate dal ministro Nordio, nascono da un problema reale che coincide con la possibilità concreta che una regolamentazione più severa delle intercettazioni si trasformi in un ostacolo insormontabile per tutti coloro che hanno costruito un business editoriale anche di successo attorno a un’idea precisa: la trasformazione del giornalismo in una buca delle lettere delle veline delle procure. Sulla base di questo principio, molti mezzi di informazione, giocando di sponda con le procure amiche, hanno contribuito non solo a dare una forte legittimità al processo mediatico ma anche a far diventare la cultura del sospetto, o forse sarebbe più corretto chiamarla cultura dello sfregio, in un’attività sacra, divina, inviolabile. Un’attività all’interno della quale ciò che conta non sono le prove, ma sono gli indizi, sono gli schizzi di fango, sono le tesi senza contraddittorio di una Repubblica fondata sullo strapotere dei pm. E un’attività all’interno della quale, con un incredibile gioco di prestigio, la libertà di sputtanamento è stata trasformata in diritto di cronaca. E conseguentemente, ogni tentativo di combattere la dittatura dello sputtanamento è stato considerato, dagli azionisti della Repubblica della gogna, non come un tentativo di tutelare un articolo costituzionale, il numero ventisette, in base al quale “ogni imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, ma come un tentativo oltraggioso, vendicativo, vergognoso di mettere “un bavaglio al giornalismo”, di mettere “i bastoni in mezzo alle ruote della magistratura”, di “dare un colpo letale allo stato di diritto”. Agli osceni collaborazionisti del partito della gogna - un partito che ha scelto deliberatamente di trasformare il garantismo in innocentismo e che ha scelto di diventare la grancassa delle procure d’assalto, sulla base di uno scambio che meriterebbe di essere denunciato con forza, io giornalista faccio mie le tesi del pm e in cambio il pm non smette di allungarmi, quando servono, gli atti giudiziari che possono aiutarmi ad alimentare il processo mediatico - per rinfrescare le proprie conoscenze sul tema del rispetto dello stato di diritto consigliamo di rileggere alcuni articoli della Costituzione (suggeriamo il 111 e il 112). Ma consigliamo soprattutto di ascoltare con rispetto e attenzione non i discorsi pronunciati in questi anni sulla giustizia da Silvio Berlusconi, ma quelli pronunciati negli ultimi mesi da Sergio Mattarella. Che da garante della Costituzione, ogni volta che ne ha avuto l’occasione, ha invitato i magistrati, e anche l’opinione pubblica, a combattere con forza tutto ciò che porta acqua al mulino della gogna. Lo ha fatto due giorni fa, durante l’incontro con i magistrati ordinari in tirocinio, ai quali ha ricordato che il compito di un magistrato è “coltivare il dubbio anche sulle proprie iniziali convinzioni”, è interpretare le norme mettendo da parte ogni “funzione direttamente creativa”, è promuovere “la riservatezza dei comportamenti individuali”, è non cadere in tentazione, apparendo “di parte”, in una stagione “nella quale la preziosa moltiplicazione dei canali informativi presenta anche il rischio di trasmettere l’apparenza di realtà virtuali”. Lo aveva già detto nel 2019, quando il presidente disse che “la magistratura non deve essere condizionata da spinte emotive evocate da un presunto, indistinto ‘sentimento popolare’, che condurrebbero la giustizia su sentieri ondeggianti e lontani dalle regole del diritto”. Lo ha ripetuto il 3 febbraio 2022, nel suo primo discorso del secondo mandato, quando il capo dello stato ha ricordato quanto sia alto oggi il “timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”. E il discorso è fin troppo evidente: i veri nemici della Costituzione non sono coloro che cercano di lavorare a un riequilibrio tra i poteri, provando a combattere gli orrori del circo mediatico-giudiziario, ma sono coloro che, mentre fingono di difendere la Costituzione, non fanno altro che calpestarla. Alimentando il processo mediatico. Rafforzando la cultura del sospetto. Mettendo sulla graticola gli indagati. Infilando nel tritacarne anche i cittadini non indagati. Trasformando le tesi dell’accusa in verità senza contraddittorio. E spacciando per diritto di cronaca il diritto allo sputtanamento. Lutto nazionale per un po’ di garantismo in più? Anche no, grazie. Riforma della giustizia, Grasso: “Così Nordio legalizza l’illegittimità e stravolge la Costituzione” di Liana Melilla La Repubblica, 17 giugno 2023 Riforma della giustizia, Grasso: “Così Nordio legalizza l’illegittimità e stravolge la Costituzione”. Piero Grasso ha sul tavolo il ddl Nordio. Lo guarda, scuote la testa, e a Repubblica dice subito: “Non pensavo si potesse arrivare a tanto, addirittura fino a legalizzare l’illegittimità. Nonché stravolgere i principi costituzionali di parità tra accusa e difesa. Per finire con un’indebita pressione sull’utilizzo delle intercettazioni utili per le indagini”. Un mini disegno di legge, ma “in memoria” di Berlusconi. Cosa prova? “Con tutto il rispetto per la morte dell’ex premier, cavalcare l’onda emotiva delle commemorazioni per rendere accettabile all’opinione pubblica questo intervento sulla giustizia quasi fosse un omaggio alla persona o una disposizione testamentaria, mi sorprende e la giudico inopportuna”. Da un ex collega come Carlo Nordio si sarebbe aspettato un intervento a gamba tesa con le toghe? “Mi preoccupano molto di più i prossimi interventi che ha già annunciato, a partire dalla separazione delle carriere che sopprime l’utilissima osmosi tra l’attività di giudice e quella di pm che, parlo per esperienza personale, ha arricchito la mia professionalità”. Nordio già va contro la Costituzione eliminando la possibilità dell’appello per il pm che perde il processo... “La Consulta ha già bocciato nel 2007 la legge Pecorella. Il principio di parità tra accusa e difesa è stato inserito in Costituzione quando è stato modificato l’articolo 111 sul giusto processo. Qualsiasi limitazione di questa parità dev’essere sorretta dalla ragionevole giustificazione in termini di adeguatezza e proporzionalità. Oltre che nel rispetto del principio di uguaglianza di tutti i cittadini rispetto alla legge”. Nordio sostiene che lo stop all’appello riguarda solo i reati puniti sotto i quattro anni... “Non vorrei che il Guardasigilli avesse trascurato la riforma Cartabia che ha ampliato il novero dei reati per cui è possibile, a conclusione delle indagini, andare direttamente davanti al giudici, alla cosiddetta “citazione diretta”, a cui si riferisce proprio il divieto dell’appello. Non si tratta più di reati bagattellari, ma di uno sterminato elenco di delitti puniti fino a sei anni di carcere, come la truffa aggravata, l’interruzione di pubblico servizio, la violazione di domicilio, il porto d’armi senza licenza, il contrabbando di tabacchi, l’omessa dichiarazione nell’ambito dei reati tributari. E, per parlare di mafia, reati come l’inosservanza dell’obbligo di soggiorno”. E per tutti questi reati il pm non potrà presentare appello? “Proprio così, e ribadisco che si tratta di una misura incostituzionale che viola i limiti della ragionevolezza già fissati dalla Consulta”. Nordio usa la scure, come con l’abuso d’ufficio. Davvero un reato inutile? “Le sole 18 condanne nel 2021 al dibattimento per questo reato che Nordio cita per giustificare l’abrogazione (senza contare i 44 casi risolti dinanzi al gip-gup e l’85% delle archiviazioni) sono in realtà l’effetto positivo della riforma del 2020 che lo ha già limitato, eliminando anche i regolamenti, alla sola dolosa violazione della legge per favorire o danneggiare un soggetto. Io comprendo la burocrazia difensiva e la paura della firma, ma non si può ammettere per principio che chi esercita una pubblica funzione possa impunemente violare la legge senza assumersi alcuna responsabilità”. I sindaci chiedono questo... “Ma non si può dimenticare che in passato sono stati già eliminati gli organi di controllo amministrativo sia nel merito che nella legittimità. Il segretario comunale, il notaio che deve garantire la legalità degli atti, non è più nominato dal ministro dell’Interno. Già troppo sbrigativamente sono stati abrogati il vecchio interesse privato in atti d’ufficio e il peculato per distrazione dicendo che potevano rientrare nelle forme di abuso. La pretesa di efficienza non può passare per un liberi tutti. Senza contare che con il Pnrr l’Italia corre il rischio che le infiltrazioni mafiose condizionino i comportamenti dei pubblici ufficiali mentre calano denunce e controlli interni”. È sbagliato anche depotenziare il reato di traffico di influenze? “Stiamo parlando di eliminare le ipotesi di cittadini che si fanno dare dei soldi vantando delle relazioni inesistenti, millantando un credito o facendo una mediazione per accelerare una pratica che rientra in un dovere d’ufficio del pubblico ufficiale. Stiamo indebolendo un reato anticamera della corruzione”. Nordio odia le intercettazioni. Le presenta come una prova “sporca”. Impedisce di fatto ai giornalisti di riprodurle. Attacca la libertà di stampa... “La riforma Orlando del 2017 ha già garantito la riservatezza delle comunicazioni che non siano utili alle indagini. Possono essere riprodotti solo i brani essenziali degli ascolti necessari a motivare la decisione del giudice. Cosa andiamo cercando ancora? Il Garante della privacy, dopo la Orlando, non ha riscontrato violazioni nei confronti di terzi”. Nordio non vuole le intercettazioni sui giornali a meno che non siano espressamente citare negli atti dei giudici o in dibattimento... “La pubblicità degli atti, prevista per le parti, dev’essere condivisa anche dalla cronaca giudiziaria”. Lei da ex pm cosa pensa dell’interrogatorio prima dell’arresto? “È solo un modo per far scomparire le prove ed evitare perquisizioni e sequestri “a sorpresa”. Naturalmente questa misura presuppone di poter valutare il pericolo di fuga e l’inquinamento delle prove stesse, ma non quello della reiterazione del reato, se non per i delitti più gravi. Ma che succede se un magistrato dà gli arresti domiciliari valutando inesistente il pericolo di fuga? Ricordo che il Guardasigilli in un caso simile ha messo sotto azione disciplinare i giudici che hanno dato i domiciliari all’oligarca russo Uss”. Sono proprio necessari tre giudici, anziché uno solo, per dare il via libero a una cattura? “Potrei ironizzare sul fatto che tre giudici giudicano meglio di uno, ma visto che per i 165 tribunali italiani già trovarne tre significa avere 500 toghe in più delle attuali, forse al ministero non hanno fatti i conti con i già gravissimi vuoti di organico e non hanno messo in conto le incompatibilità che precludono a chi già ha preso una decisione di non farlo mai più sullo stesso fatto in tutta la sua carriera”. Il boomerang di Nordio: “Così rallenterà la giustizia” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 17 giugno 2023 La mini riforma. La presidente aggiunta dell’ufficio gip di Milano Ezia Maccora: “Si affida il giudizio cautelare a un collegio di tre giudici, ma si continua a lasciare ancora a un giudice solo la decisione nel merito per pene di dieci anni e più. Dal ministro misure dirompenti per gli uffici giudiziari e i nuovi ingressi in ruolo non basteranno”. Ezia Maccora è la presidente aggiunta dell’ufficio gip di Milano. Con lei partiamo dunque dalle novità in tema di misure cautelari per esaminare la (mini) riforma Nordio della giustizia. In linea di principio, le pare corretto che prima di emettere una misura cautelare il giudice debba sempre ascoltare l’indagato? Nel nostro sistema esiste già una previsione analoga in caso di applicazione di misure interdittive. Siamo nell’ambito delle scelte legittime del legislatore, che nel caso specifico ritiene che per alcuni reati, soprattutto quelli economici e contro la pubblica amministrazione, la valutazione del giudice sia effettuata solo dopo aver acquisito gli elementi difensivi e aver posto a conoscenza dell’indagato gli elementi probatori a sostegno della richiesta di misura cautelare. Salvo, ovviamente, che non vi sia pericolo d’inquinamento probatorio o di fuga. Dal punto di vista operativo, invece, il fatto che sia necessario un preavviso di cinque giorni può creare problemi, anche al di là dei casi in cui è prevista la salvaguardia dell’effetto sorpresa? Nei procedimenti in cui la richiesta riguarda più indagati, la discovery del materiale probatorio effettuata per uno di essi potrebbe essere utile agli altri nei cui confronti si procede anche per un reato che non richiede il contraddittorio preventivo, con pregiudizio dell’effetto a sorpresa connesso alla richiesta cautelare. Di nuovo in linea di principio, condivide che la decisione sulla custodia cautelare in carcere sia affidata a un collegio e non più al singolo gip? È una soluzione che mal si concilia con la filosofia che caratterizza tutto il nostro sistema penale. Si affida il giudizio cautelare a un collegio composto da tre giudici, in un sistema che affida invece a un solo giudice la pregnante decisione sulla responsabilità dell’imputato per reati puniti con una pena massima non superiore ai dieci anni di reclusione, e nel caso di rito abbreviato o di proscioglimento all’esito dell’udienza preliminare per reati puniti con pene anche maggiori. A quali problemi di attuazione questa misura può dare luogo? Per l’organizzazione degli uffici è la misura più dirompente di tutto il disegno di legge. Potrebbe creare problemi organizzativi e di funzionalità molto importanti e rallentare le decisioni dei giudici in controtendenza con l’esigenza di assoluta celerità che caratterizza ogni richiesta di misura cautelare, soprattutto quelle per reati gravi. Oltre a triplicare le incompatibilità previste dalla legge, non potendo svolgere funzioni di giudice dell’udienza preliminare il magistrato che ha deciso la misura cautelare. Il ministro riconosce le difficoltà rinviandone l’attuazione di due anni e prevedendo l’immissione in ruolo di 250 magistrati. È sufficiente? Temo di no. L’ufficio gip con la riforma Cartabia è stato investito di nuove e complesse funzioni, diventando l’anello strategico di tutto il settore penale. Molti uffici gip già oggi sono in grande affanno per il carico a cui devono quotidianamente far fronte. E l’aumento di organico previsto non è risolutivo. Peraltro è destinato genericamente alle funzioni giudicanti di primo grado, non solo agli uffici gip. Analogamente l’uso della tabella infradistrettuale per far fronte alle esigenze degli uffici piccoli appare alquanto problematico se si considera la distanza tra gli uffici che appartengono allo stesso distretto di Corte di appello. Potrebbe accadere ad esempio che un gip del tribunale di Milano debba comporre il collegio a Lodi o a Busto Arsizio o a Varese per decidere una misura cautelare o un aggravamento. Si rischia la paralisi. Condivide l’allarme dell’Anm per la cancellazione dell’abuso d’ufficio? I dati che porta Nordio parlano di un numero ridottissimo di condanne a fronte di molti procedimenti aperti... I dati vanno letti con attenzione, sapendo che nel nostro sistema vige l’obbligatorietà dell’azione penale per cui di fronte ad una notizia di reato “vestita” occorre procedere all’iscrizione. In realtà sono proprio i dati forniti nella relazione illustrativa del disegno di legge che dovrebbero tranquillizzare se si considera che oltre il 95% dei procedimenti si conclude con un decreto di archiviazione. È quindi la stessa magistratura a operare un’approfondita e rapida selezione degli abusi penalmente rilevanti. Inoltre la norma ha subito nel tempo molto riscritture e dopo la riforma del 2020 non sono più penalmente rilevanti le condotte che rispondono all’esercizio di un potere discrezionale. Con l’abrogazione del reato però alcune condotte che presentano un importante disvalore non potranno essere punite. Penso, ad esempio, ad un caso recente in cui un commissario ha cercato di avvantaggiare un partecipante al concorso di magistratura. Il legislatore è ovviamente sovrano nel decidere ciò che merita di essere considerato reato, noi da tecnici possiamo però segnalare gli effetti che si produrranno. Non ultimo, come ha segnalato in questi giorni il vice procuratore dell’Eppo (la procura europea), diventeremo l’unico Paese tra i 22 stati membri dell’Unione a non avere tale fattispecie penale. I nuovi limiti alla pubblicazione delle intercettazioni: sono corretti? Pensa che saranno efficaci? La legislazione attuale, frutto degli interventi dal 2017 al 2020, ha raggiunto un punto di equilibrio ragionevole tra le esigenze processuali e il diritto alla riservatezza sancito dalla Costituzione e dalla Corte Edu. Il nuovo intervento mira a rafforzare ulteriormente la tutela del terzo estraneo al procedimento. Dal punto di vista dell’efficacia del mezzo di ricerca della prova non vedo particolari problemi dal momento che il giudice potrà sempre utilizzare il contenuto intercettato se è rilevante. Rischia invece di creare tensioni con la stampa e le sue prerogative, essendo affidato al giornalista un controllo sociale esterno per garantire la trasparenza dell’agire pubblico. Riequilibrare i poteri dei pm non è un sacrilegio di Gian Domenico Caiazza Il Foglio, 17 giugno 2023 Le condotte di abuso della funzione e del potere da parte dei pubblici ufficiali sono punite severamente nel nostro Paese e continueranno pacificamente ad esserlo. In vista della sacrosanta abrogazione del reato di abuso di ufficio, è iniziata la narrazione dolente delle sciagure che ne conseguiranno. L’Europa ci incenerirà; le Procure saranno defraudate del “reato-spia” (lo chiamano proprio così) per beccare mafiosi all’opera sottotraccia; i pubblici amministratori potranno tornare a fare il bello ed il cattivo tempo. Se a quei severi critici opponi i famosi numeri (4000 procedimenti per abuso, 18 condanne), ti dicono che è colpa delle troppe modifiche della norma succedutesi nel tempo, senza però interrogarsi sulle ragioni di quelle modifiche succedutesi nel tempo. La norma non funziona, non ha mai funzionato. Ha solo causato danni all’ordinato svolgimento della vita democratica, disseminando a piene mani, e pressocchè sempre senza ragione, dimissioni di sindaci, assessori, giunte, o alterando in pieno corso campagne elettorali ed esiti del voto. È allarmante questa diffusa indifferenza alla tutela, che dovrebbe essere prioritaria, del corretto svolgimento delle competizioni elettorali e, più in generale, dell’ordinato corso della vita democratica. Non sorprende invece che i Magistrati insorgano: per quanti di loro intendano la funzione come un formidabile potere di controllo preventivo e di condizionamento della politica e della pubblica amministrazione, il colpo è micidiale. Intanto, però, sgomberiamo il campo dalle suggestioni, secondo le quali ora i pubblici ufficiali potranno impunemente abusare del loro potere, in una sorta di nuovo bengodi dell’arbitrio. Le condotte di abuso della funzione e del potere da parte dei pubblici ufficiali sono punite severamente nel nostro Paese, ben più che in Europa, e continueranno pacificamente ad esserlo. Abusa dei propri poteri e delle proprie funzioni il Pubblico ufficiale che si fa corrompere, che concute, che commette peculato o malversazione, e così continuerà ad essere. La norma di cui stiamo discutendo è l’abuso, per capirci, in purezza. Un abuso che però non è concussione, non è corruzione, non è peculato, non è malversazione, non è traffico di influenze. Non è, insomma. Non sappiamo esattamente cosa sia, sappiamo cosa non è. Non un buon viatico per il precetto penale, che la Costituzione pretende sia chiaramente descrittivo di una condotta tipica, non deducibile per sottrazione. Si obietta: ma allora il sindaco che assume senza titolo l’amante? Il commissario del concorso pubblico che favorisce il nipote? Ebbene, se queste condotte sono commesse senza corrispettivi illeciti e senza condotte fraudolente (nel qual caso si risponderà di quei reati ben più gravi), ci troveremo di fronte ad atti illegittimi: ci si rivolga al giudice amministrativo per il loro annullamento, si agisca per i danni se ve ne sono i presupposti. In questo Paese, non riusciamo ad imparare un principio molto semplice: non tutti i comportamenti riprovevoli o illegittimi devono necessariamente integrare una fattispecie di reato per essere perseguiti. Tutto qui. D’altro canto, la storia dei processi di abuso conferma esattamente questo quadro: in assoluta prevalenza, indebiti processi penali alla legittimità di atti amministrativi. Basterà leggere il prezioso lavoro svolto dall’inesausto Enrico Costa, che ha avuto una idea semplice e felicissima: un esame a tappeto delle cronache giudiziarie nelle testate locali, luogo privilegiato di ricostruzione dei processi per abuso a sindaci ed amministratori vari. La fotografia che ne consegue è impietosa, e vale più di mille discussioni o convegni. Storie di sindaci, assessori ed amministratori vari incriminati per fatti che a distanza di anni, e dopo le dimissioni, la conseguente alterazione della competizione elettorale, lo svergognamento personale e familiare, sono stati puntualmente dichiarati inesistenti. Qualche esempio delle condotte (ingiustamente) incriminate perché ritenute illegittime? Delibera di conferimento di incarico ad interim per due mesi di dirigenza dell’ufficio tecnico comunale al capo dei Vigili; finanziamento con una Fondazione che gestisce il teatro comunale di una campagna pubblicitaria ritenuta “autocelebrativa”; concessione a due cantine del Paese di scaricare nel depuratore (!) i reflui della vendemmia; ordinanza di rinvio della demolizione di due chioschetti abusivi sul lungomare, nella imminenza delle elezioni; delibera di nomina della sovraintendente al Teatro Lirico della città; concessione dell’utilizzo dello stadio comunale per uno spettacolo privato; e mi fermo qui, i casi raccolti sono almeno 150. Fine di uno scempio, bravo Ministro Nordio. La riforma della giustizia spacca il Pd. I sindaci dem d’accordo con Nordio di Giulia Merlo Il Domani, 17 giugno 2023 Per i primi cittadini la cancellazione del reato di abuso d’ufficio voluta dal governo è “una vittoria”, i parlamentari sono contrari. La segretaria è per l’opposizione al ddl del governo, ma così la conflittualità interna al partito cresce ancora. Il governatore della Campania Vincenzo De Luca, con cui è in corso una guerra a distanza, ha affondato il colpo: “Credo che l’iniziativa assunta dal Governo sia importante e positiva” Sindaci dem contro parlamentari Pd, nel mezzo la cancellazione dell’abuso d’ufficio. Così il governo è riuscito nella duplice impresa: commemorare Silvio Berlusconi con un ddl sul tema che gli è sempre stato caro ma soprattutto spaccare il Pd. La distanza tra gruppo parlamentare e primi cittadini è evidente e nessuno prova nemmeno a dissimularla, tanta e tale è la pioggia di dichiarazioni discordanti. La questione è annosa: da dieci anni i sindaci chiedono una revisione del reato, che considerano vessatorio e tra le principali cause della cosiddetta paura della firma. Per questo per loro la cancellazione è “una vittoria”, come la definisce senza mezzi termini il sindaco di Pesaro e coordinatore dei sindaci del Pd Matteo Ricci. Che poi argomenta: “Capiamo che abolirlo può aprire qualche contraddizione giuridica, ma noi abbiamo sempre espresso la necessità di una revisione radicale”. Quindi portare avanti una posizione di contrarietà rispetto alla scelta del governo non è sostenibile, è l’ovvia conclusione. Anche a costo di essere l’ennesima spina nel fianco - sempre proveniente dall’area del partito più vicina a Stefano Bonaccini - della segretaria Elly Schlein, che invece è allineata al giudizio negativo sul ddl espresso dai gruppi parlamentari dem. “Siamo contrari”, ha detto Schlein, aprendo tuttavia “all’idea che si possa riformare la fattispecie per evitare alcuni effetti distorsivi”. Per il gruppo dem che si occupa di giustizia, infatti, il rischio di abolire l’abuso d’ufficio è quello di aprire la strada a rischi ben più gravi: “Capiamo i nostri sindaci, che hanno sempre chiesto la rimodulazione dell’articolo, alla luce di quelle che erano evidenti storture. Va detto che l’ultima modifica ha ridotto in modo significativo il numero dei rinvii a giudizio e delle condanne”, ha detto la responsabile Giustizia, Debora Serracchiani, “la nostra preoccupazione però è che, eliminando del tutto l’abuso, si riespandano le fattispecie di reati più gravi, come la corruzione”. Una sorta di eterogenesi dei fini, insomma. Obiettivo sbagliato - Fuori dal lessico ufficiale, la sensazione tra i parlamentari è che “i sindaci sbaglino obiettivo”, anche perchè una cucitura tra le diverse posizioni in seno al partito - quella dei primi cittadini esasperati e sempre più rumorosi e i parlamentari più cauti - era stata trovata nel cosiddetto “pacchetto sindaci”, la proposta organica che prevedeva la riforma del testo unico degli enti locali, la modifica della legge Severino e delle norme sui reati omissivi. La questione però è come uscire dall’angolo. Per tutta la giornata ci sono stati contatti trilaterali tra sindaci, parlamentari e segreteria in ruolo di mediazione: i primi avrebbero chiesto di astenersi sull’abrogazione della difesa d’ufficio, nel caso in cui il disegno di legge si voti articolo per articolo, ma la risposta sarebbe stata negativa. Comprensibile, perché “siamo pur sempre all’opposizione”, dice una fonte vicina ai sindaci “ma questo non toglie che il cento per cento dei sindaci del Pd è d’accordo con l’abrogazione”. Il gruppo parlamentare vicino alla segreteria, però, prende tempo: il disegno di legge dovrà essere incardinato in una delle due camere, poi il Pd presenterà i suoi emendamenti ripresi dal “pacchetto sindaci” e la speranza è che qualche crepa nasca anche dentro la maggioranza. Non è detto infatti che il testo approvato in cdm passi indenne il percorso d’aula, visto che la Lega era contraria all’abrogazione. La strategia di Schlein, dunque, sarebbe di far passare la proverbiale nottata. Accogliendo il suggerimento del sindaco di Milano, Beppe Sala, di non rincarare la dose contro l’abuso d’ufficio e di concentrarsi piuttosto su altre parti controverse della riforma. Con la consapevolezza che prima di lei anche Enrico Letta aveva dovuto scontrarsi con lo stesso ostacolo. Tuttavia, ogni crepa rischia di diventare una voragine che i nemici interni di Schlein sono pronti a sfruttare, soprattutto quando la leader dem mostra di non padroneggiare bene la materia del contendere. Il governatore della Campania Vincenzo De Luca, con cui è in corso una guerra a distanza, ha affondato il colpo: “L’iniziativa assunta dal Governo è importante e positiva. Ho ascoltato invece esponenti del Pd, che sono per la loro storia politica esempi di trasformismo e opportunismo, dire altro”. Mentre nel Pd infiamma lo scontro, il centrodestra si gode lo spettacolo. Marijuana in casa: non è spaccio di Debora Alberici Italia Oggi, 17 giugno 2023 Non può essere condannato per spaccio chi detiene scorte di marijuana in casa: il bilancino di precisione e le 45 dosi nel frigo non sono sufficienti a dimostrare la vendita della sostanza. A sdoganare la droga più usata al mondo è la Cassazione. Non può essere condannato per spaccio chi detiene scorte di marijuana in casa: il bilancino di precisione e, in questo caso, le 45 dosi nel frigo non sono sufficienti a dimostrare la vendita della sostanza. A sdoganare la droga più usata al mondo è la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 26216 del 16 giugno 2023, ha assolto un uomo condannato in appello a oltre un anno di reclusione e 2500 euro di multa, per aver detenuto nel frigo un cartoccio di carta stagnola contenente 45 dosi di marijuana. In sostanza l’accusa, ad avviso degli Ermellini, non può dimostrare la finalità di spaccio solo per la presenza del bilancio di precisione e della scorta. Avrebbe dovuto rinvenire nell’appartamento altri elementi, come del denaro, ad esempio. Ma non è tutto: il giovane è stato assolto dallo spaccio e anche dalla detenzione illegale. Infatti, si legge nelle motivazioni, ai fini della configurabilità del reato di illecita detenzione di cui all’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, la destinazione all’uso personale della sostanza stupefacente non ha natura giuridica di causa di non punibilità e non è onere dell’imputato darne la prova, gravando invece sulla pubblica accusa l’onere di dimostrare la destinazione allo spaccio. Nel caso in esame non è stata in alcun modo provata la finalità di spaccio, mentre la condotta dell’imputato appare compatibile con l’acquisto a uso personale della sostanza stupefacente, anche a mò di scorta. Il dato ponderale della sostanza ha, infatti, solo valore indiziario, e l’impostazione argomentativa dei giudici di merito, nella quale è ravvisabile un erroneo impiego di massime di esperienza, permette di rilevare la mancanza assoluta di prova circa l’esistenza di un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice contestata: situazione questa nella quale si impone l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, non essendo riconoscibile alcuna possibilità di ulteriore sviluppo motivazionale, il che rende super?uo lo svolgimento di un giudizio di rinvio. Il ragazzo è stato assolto con formula piena e non dovrà affrontare l’appello bis. Lombardia. Al via l’Osservatorio carceri dell’Ordine dei Giornalisti odg.it, 17 giugno 2023 Riparte, sotto forma di commissione consultiva, l’Osservatorio sulle carceri dell’Ordine della Lombardia. Il Consiglio regionale dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha approvato la costituzione, sotto forma di commissione consultiva, dell’organismo, già attivato sotto la presidenza di Letizia Gonzales e poi di quella di Alessandro Galimberti. L’Osservatorio avrà la funzione di seguire l’attività giornalistica svolta negli istituti penitenziari della Lombardia e di monitorare come i media lombardi affrontano i delicatissimi temi carcerari. Della commissione faranno parte anche due esterne: Valentina Alberta, avvocata, presidente della Camera penale di Milano, esperta di diritto penitenziario; e Federica Brunelli, avvocata, attiva nel campo della giustizia riparativa. Oltre a loro l’Osservatorio è così composto: Antonetta Carrabs (Oltre i confini - Beyond Borders, Casa circondariale di Monza) Mario Consani Il Giorno Paolo Foschini Corriere della Sera Claudio Lindner Master Walter Tobagi, Università di Milano Stefano Natoli Cronisti in Opera, Casa di reclusione Milano-Opera Renato Pezzini Il Messaggero - Oblò, Carcere di San Vittore Susanna Ripamonti Carte Bollate, Casa di reclusione Milano-Bollate. Taranto. Suicidio in carcere di Francesco Cufone, indaga la Procura di Anna Russo Gazzetta del Sud, 17 giugno 2023 Aperta un’inchiesta sulla morte di Francesco Cufone. Nelle scorse settimane aveva reso dichiarazioni ai magistrati della Dda. Il pubblico ministero titolare dell’indagine ha disposto l’autopsia sulla salma. È stata sequestrata la salma di Francesco Cufone, 33 anni, l’uomo di Corigliano, coinvolto e arrestato nell’ambito delle indagini correlate all’omicidio di Pasquale Aquino, avvenuto un anno fa, che nella mattinata di giovedì scorso si è suicidato nella sua cella nel carcere di Taranto dove era stato trasferito. La Procura della Repubblica tarantina, infatti, ha deciso comunque di procedere con l’autopsia per accertare le cause della morte, benché vi siano pochi dubbi sulla dinamica dell’accaduto. L’uomo era stato ristretto, in isolamento, nel nuovo reparto del carcere pugliese da qualche tempo e da quanto si è appreso si sarebbe ucciso realizzando una corda rudimentale con le lenzuola del letto impiccandosi alla grata della finestra del bagno. A nulla è servito l’intervento dell’agente di polizia penitenziaria in servizio in quel momento e prontamente intervenuto dopo aver notato che il trentatreenne non era nella stanza. Da annotare che con il tragico gesto compiuto da Cufone salgono a tre i suicidi avvenuti dall’inizio dell’anno nel carcere di Taranto che ora balza in testa alla classifica nazionale dei suicidi in carcere, record che lo scorso anno apparteneva a Foggia con ben cinque. Statistiche a parte resta la drammaticità di un gesto che giunge dopo un percorso contrastante che il Cufone aveva tenuto da quando era stato arrestato, ossia il 6 dicembre scorso, poiché, come accennato, era tra gli indagati dalla Procura distrettuale Antimafia di Catanzaro diretta da Nicola Gratteri, unitamente ad altri soggetti sempre di Corigliano, per detenzione e traffico di cocaina e detenzione ed occultamento di un arsenale d’armi scoperto la scorsa estate dai Carabinieri in località Fabrizio. Milano. Detenuta per tre giorni a San Vittore con il figlio di un anno di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 17 giugno 2023 La protesta: “È una vergogna tenere bambini in cella”. A sollevare il caso il consigliere comunale del Pd Daniele Nahum: “Come ci è finito, non potevano essere disposti i domiciliari per la madre?”. In cella con il suo bambino di un anno. È la storia di una detenuta condannata di recente per droga e reclusa per tre giorni assieme al figlio a San Vittore. Una situazione denunciata da Daniele Nahum, consigliere comunale Pd e presidente della sottocommissione Carceri di Palazzo Marino: “È una vergogna che si possa tenere in quelle condizioni un bambino di un anno”, dice. Ieri pomeriggio l’amministrazione penitenziaria ha trovato una soluzione-ponte: madre e figlio sono stati trasferiti nella sezione nido di Bollate, una struttura più adatta, nell’attesa che i magistrati di sorveglianza si esprimano sulla concessione o meno dei domiciliari. Ma la questione resta aperta. La solleva lo stesso Nahum, che giovedì, durante un sopralluogo a San Vittore, ha scoperto la storia della donna: “Ho visto le detenute che si passavano questo bambino, lo facevano giocare. Abbiamo visto celle di pochi metri quadrati che ospitano tre persone, condizioni igieniche compromesse, una turca come water. Ci sono 75 detenute a San Vittore, di cui 27 con problemi psichiatrici forti e altre 20 con alle spalle una storia di abuso di farmaci e psicofarmaci. Il carcere è sovraffollato e mancano strutture alternative. Ecco, pensi a un bambino lì dentro: non ci può stare. Come ci è finito, non potevano essere disposti i domiciliari per la madre?”. Francesco Maisto, già magistrato di sorveglianza e oggi Garante dei detenuti, ricostruisce la vicenda: “Questa detenuta ha un figlio di un anno e, a casa, un bambino di quattro anni con serie difficoltà. Da quando è stata arrestata, tre giorni fa, è stata avviata la pratica per gli arresti domiciliari, che deve essere valutata da un magistrato di sorveglianza. Si stanno facendo accertamenti che serviranno poi all’emissione di un provvedimento”. In generale, per evitare situazioni del genere “serve una comunicazione più forte tra forze di polizia e autorità giudiziaria affinché si trovino alternative prima. Occorre un protocollo d’intesa, regole più chiare”. Anche per l’avvocata Valentina Alberta, presidente della Camera penale di Milano, “oggi il sistema prevede un passaggio in carcere assolutamente inutile, che crea un disagio all’amministrazione e una ferita gravissima alla mamma e al figlio. I danni sono per tutti”. Nelle scorse ore si era valutata la possibilità di spostare la detenuta all’Icam, l’istituto di custodia attenuata per recluse che sono anche madri, ma come spiega Maisto la comunità non poteva accoglierla per una serie di difficoltà linguistiche (parla solo inglese) e di “orientamento”, in altre parole la possibilità di gestirsi in maniera autonoma. La direzione di San Vittore si è comunque attivata per il trasferimento in una struttura più consona come la sezione nido del carcere di Bollate. Posto che in situazioni così delicate ogni caso ha le sue peculiarità e presuppone necessarie verifiche (come quelle che si stanno facendo per concedere o meno gli arresti domiciliari alla donna), gli esperti del settore sottolineano come in questi casi ci si muova in una sorta di vuoto normativo soggetto a interpretazioni diverse, più o meno restrittive. In passato, una circolare della procura di Milano consentiva, in estrema sintesi, di sospendere l’esecuzione di un arresto in carcere qualora le forze di polizia si fossero trovate in presenza di donne incinte o madri di bambini fino a un anno di età, in modo da chiedere prima una valutazione e un provvedimento idoneo al magistrato di sorveglianza. Circolare revocata un anno fa. Da qui nasce l’appello del Garante dei detenuti affinché ci sia una “comunicazione più forte” tra forze dell’ordine e autorità giudiziaria. Milano. Una giornata dentro l’Icam, il carcere “soft” per detenute madri dove i bambini non si sentono in cella di Ilaria Carra La Repubblica, 17 giugno 2023 L’istituto ospita mamme detenute con i loro figli fino a dieci anni: offre ai piccoli una vita simile alla normalità e alle donne una chance di riscatto. Jana è appena rientrata da un’udienza, l’ha scortata avanti e indietro il blindato della Penitenziaria. Il doppio cancello si è aperto piano, e poi si è richiuso subito. Suo figlio è nel passeggino, ha sei mesi, stamattina è agitato, piange un po’ ma poi si dà pace. Lo chiamano Pasqualino, in istituto, una stortura molto affettuosa, troppo complicato come si chiama all’anagrafe e qui i nomi propri si pronunciano in continuazione. Appena tornata Jana lo culla un po’, poi si mette subito in cucina al lavoro. Oggi merluzzo, “l’ho fatto nella stagnola con le olive e un po’ d’aglio”. Maria ha 41 anni, è campana ma vive al Nord da tempo. Ha altri tre figli, che vengono a trovarla regolarmente, nei weekend. È già nonna, di una bimba di 4 mesi. Qui con lei vive l’ultima, 3 anni a luglio. Sono state separate per sei mesi, quando lei era in carcere, 36 mesi di pena da scontare. “Avevo le foto dei miei figli appese sul muro della cella, a un certo punto le ho staccate, era troppo il dolore della separazione” dice oggi. Da agosto si sono ritrovate qui, assieme. Qui è l’Icam, l’istituto di custodia attenuata per detenute che sono anche madri di bambini, fino a dieci anni per le condannate in via definitiva (sei se in via cautelare). Una grande casa d’epoca a piano terra come ce ne sono tante a Milano, di fine Ottocento, proprio di fronte alla Macedonio Melloni che è anche pronto soccorso pediatrico. Una casa che è un carcere a tutti gli effetti, solo in regime attenuato, più che altro per i bambini che vivono qui con le mamme detenute. Sbarre alle finestre ma più larghe di una cella, agenti in borghese, la notte le camere non sono chiuse a chiave ma c’è sempre un agente di custodia di turno che gira a sorvegliare, il giardino è pieno di scivoli e tricicli ma ha cancelli chiusi automatizzati e alte palizzate di plexiglas. È un distaccamento di San Vittore, e quindi dipende sempre dalla direzione di Giacinto Siciliano, ma è l’unica struttura di questo tipo in Italia fuori dal perimetro del carcere. Significa che in giardino e dalle finestre senti la gente che passa, i clacson, le voci, e aiuta a non alienarti. Resta il fatto che da qui, se non per un’udienza o casi eccezionali e comunque sempre scortate, le donne non possono uscire. Si batté molto nel 2006 per far nascere questa struttura, in versione pilota, Luigi Pagano, già direttore di San Vittore e poi provveditore delle carceri lombarde. Perché - era l’ambizione - ne nascessero altre così, in sostituzione dei nidi per le madri detenute dentro alle carceri. Ma l’Icam di via Melloni resta un unicum. E tuttora, raccontano le detenute, è una realtà che si conosce poco dietro le sbarre, anche per chi potrebbe provare a beneficiarne. Oggi ci sono quattro madri detenute qui, se ne aspetta una quinta. Rapine e furti, specie borseggi, i reati più comuni. Tutte hanno figli con meno di 5 anni. Maria è l’unica italiana. I bambini alla mattina vengono portati a scuola dagli educatori, vanno a piedi o con i mezzi. Si cerca di farli vivere il più possibile normalmente. Che non significa mentire. “Mia figlia sa che io non posso uscire di qui - dice Maria - mi chiede spesso: “Mamma vieni anche tu stamattina?” E io le dico che non posso uscire e lei sa che la aspetto qui. È troppo piccola per capire bene perché non posso uscire. Mentre ero in carcere lei stava con mia cognata e chiamava mamma tutte le donne che le stavano vicino, mi cercava, cercava me in loro. Io ho sbagliato, sto elaborando, so che sono una detenuta fortunata perché ho la possibilità di stare con mia figlia tutto il giorno e di mettere le basi per uscire di qui con un lavoro, una consapevolezza e di andarmene con qualcosa in più rispetto a quando sono entrata”. Solo agli inizi, racconta chi lo gestisce, ci sono stati tentativi di fuga, in rari casi riusciti, ma nel tempo il tasso di evasione è praticamente sceso a zero. La struttura è pensata molto per i figli, perché la detenzione delle madri abbia un impatto attenuato sulle loro vite. “Io sono una detenuta, non me lo dimentico, ma so anche che questo è un posto dove ti viene offerto un aiuto e devi essere disposta a coglierlo”. Che vuol dire mettersi in discussione, elaborare gli errori, riflettere sul futuro. E impegnarsi. C’è tutto, qui dentro. La portineria, la sartoria dove ogni giorno si impara l’uncinetto e si dà vita a stoffe nuove che arrivano da fuori. “È qui la festa” è scritto a pennarello sopra la porta della ludoteca, c’è la biblioteca, l’infermeria, le stanze di ognuna, letto e lettino di fianco. “Non è il paradiso qui e nessuno vuole far passare questo messaggio. Ma è un posto che dà alle detenute un’opportunità che va colta e questo dipende da loro” dice la coordinatrice di Icam, Marianna Grimaldi. A sorvegliare ci sono sette agenti uomini e sette donne, più il caporeparto. Le mamme lavorano. Ci sono i turni in cucina, al casellario, in lavanderia, per le pulizie, ognuna ha la sua mansione che cambia a rotazione di due settimane. Ed è regolata da un contratto, pagato, con ferie, festivi, malattie, straordinari se fatti. In cucina sono quattro ore al giorno, due a pranzo e due a cena. Poi sono due le ore per rigovernare i locali, buttare la spazzatura, lavare gli stracci e pulire le scope. Il ministero garantisce a queste donne il mantenimento di base, poi con i propri soldi ogni venerdì ognuna può chiedere prodotti extra. Sigarette (tante), riviste, il gorgonzola, le cozze. Alcol zero, non si può. Un bicchiere solo a Natale, quando si brinda tutti assieme, detenute, agenti ed educatori. “Si lavora ma le donne qui spesso imparano anche a stare con i loro figli, a partire dalle basi pratiche fino a recuperare il loro ruolo di madri” aggiunge Grimaldi. Le pareti sono colorate a tinte pastello e sono tappezzate di quadri quasi tutti opera di chi è passato di qui. Ci sono i ritratti che ha fatto una detenuta, ribattezzata Bobby, la sua lunga chioma nera e suo figlio, anche lui dal nome abbreviato e cambiato in Diego. Vengono chiamati per nome, gli agenti. “È diverso qui rispetto al carcere, anche per noi, c’è una condivisione più diretta, per forza, devi essere portato e pronto, non sempre è facile in borghese far capire il nostro ruolo, è un lavoro quotidiano, costante” dice una giovane agente, arrivata da poco ma già ben inserita. E Maria specifica subito che “questo non vuol dire che io non sappia chi sono, il loro ruolo. Serve rispetto, che è la base”. Nel suo futuro imminente Maria potrà andare in una casa famiglia, a finire di scontare la sua pena ai domiciliari e con un lavoro. “Tra le due strutture siamo in coordinamento costante - precisa Grimaldi - lavoriamo assieme affinché le detenute, se ne hanno l’opportunità, arrivino preparate e in grado di reggere la vita nella casa famiglia”. E Maria questo l’ha capito: “So che dipende da me farcela e ce la metterò tutta”. Messina. Carcere “inumano”, condannato il ministero della Giustizia di Nuccio Anselmo Gazzetta del Sud, 17 giugno 2023 Una sentenza “apripista” del Tribunale di Messina sulle condizioni subite da un detenuto. Il giudice della prima sezione civile del tribunale di Messina Assunta Cardamone ha accolto il ricorso dell’avvocato Giuseppe Tortora sulle condizioni carcerarie di un suo assistito, e ha condannato il ministero della Giustizia al risarcimento del danno in favore di M.R., oltre al pagamento delle spese processuali. Il giudice peloritano ha riconosciuto che le condizioni carcerarie cui è stato sottoposto presso la casa circondariale di Messina furono “inumane e degradanti e contrarie ai principi dettati da parte dall’art. 3 della Cedu”. Così si legge tra l’altro nella sentenza: “Nel caso di specie appare ictu oculi come, per i periodi di detenzione presso la casa circondariale di Messina sopra elencati, lo spazio complessivo a disposizione di ciascun detenuto, era inferiore al minimo accettabile indicato dalla giurisprudenza comunitaria, ovvero mq. 3. Sul punto deve precisarsi che lo spazio utile di ogni detenuto, calcolato al netto del bagno, si riduce in ragione sia del numero di internati presenti nella stessa cella, ma anche del mobilio fisso, costituito quantomeno dalla branda, sia pure impilata, da un armadietto di tipo A, un armadietto di tipo B, oltre uno sgabello e, infine, un tavolino assegnato ogni due detenuti. Sicché lo spazio a disposizione del R. è stato decisamente inferiore al minimo accettabile indicato nella giurisprudenza comunitaria, ovvero mq. 3 nei periodi sopraindicati”. In concreto - spiega il giudice - il detenuto ha passato 1591 giorni in celle tra 16 e 14 mq insieme ad altri 6 detenuti: meno di 3 mq a persona (“condizione degradante” ). Quella delle condizioni carcerarie dei detenuti presso le case circondariali italiane continua ad essere un problema irrisolto che costa ogni anno allo Stato molto di più di quanto costerebbe l’adozione di serie politiche di riforma del sistema detentivo. Messina. Convegno su “Il tempo trascorso in carcere: solo vita sospesa?” di Maria Salomone sikelian.it, 17 giugno 2023 Un dibattito sul ‘tempo trascorso in carcere’ al centro del convegno di studi, organizzato dall’Ordine degli Avvocati, dalla Camera penale e dalla Ute di Barcellona Pozzo di Gotto, si è svolto nel Messinese il 9 giugno scorso nei locali della biblioteca dell’Ordine degli Avvocati di Barcellona Pozzo di Gotto. Presenti all’evento molti agenti della Polizia penitenziaria. Al tavolo dei relatori illustri tecnici del Diritto, oltre al funzionario del Ministero della Giustizia, Dott. De Gesu, dirigente della direzione del trattamento e dei detenuti presso il Ministero della Giustizia. A portare i saluti istituzionali l’Avv. Mara Correnti, presidente dell’Ordine degli Avvocati insieme all’Avv. Giuseppe Tortora, presidente della Camera penale e alla Prof.ssa Gaetana Caliri, Rettore della Ute, e dal Sindaco Avv. Pinuccio Calabrò. Hanno introdotto i lavori gli avvocati Piera Basile e Paolo Genovese, insieme allo psichiatra Dott. Nunziante Rosania, ex direttore dell’Opg di Barcellona. Piera Basile, L’Avvocata del Foto di Barcellona P. G., si è soffermata sull’art. 27 della Costituzione per trattare poi della funzione rieducativa della pena, anche alla luce delle teorie retributiva, general preventiva e special preventiva della pena. Suo un accenno al compito di rieducazione che lo Stato ha nei confronti dei condannati. L’Avv. Genovese ha invece esposto una disamina sull’origine della pena soffermandosi sulle teorie di Faucalt. Il Dott. Rosania ha parlato dei disagi degli internati con malattie mentali e delle origini spesso organiche di tali malattie. Sono seguiti gli interventi della Dott.ssa Francesca Arrigo in qualità di presidente del Tribunale di sorveglianza di Messina che ha spiegato ai partecipanti il delicato compito del magistrato di sorveglianza anche in relazione al tipo di trattamento rieducativo da applicare ad ogni singolo detenuto. Poi, hanno fornito il loro contributo la Dott.ssa Angela Sciavicco con una lettera di un detenuto dal colletto bianco per spiegare il concetto di tempo vissuto in carcere e la Dott.ssa Romina Tajani che si è soffermata sulla particolare realtà dell’Opg di Barcellona e sul delicato compito degli agenti di polizia penitenziaria che giornalmente si rapportano con situazioni difficili all’interno delle mura carcerarie. Il Dott. De Gesu, dirigente della Direzione detenuti DAP presso il Ministero della Giustizia, ha esposto sulle condizioni delle carceri italiane, sul compito dello Stato riguardo il reinserimento in società dei condannati e, in particolare, sul lavoro dei detenuti nelle colonie agricole. Ha chiuso i lavori il Dott. Cuzzola, psichiatra presso il Dipartimento di Salute mentale dell’ASP 5 di Messina, che si è soffermato sulla tematica della malattia mentale di alcuni internati. Tra i presenti anche padre Pippo Insana, ex cappellano dell’Opg che ha fatto degli interventi parlando della sua esperienza in carcere. Lecce. “Must by Made in carcere”: dallo “scarto” gadget ideati ad hoc per il museo lecceprima.it, 17 giugno 2023 L’iniziativa nasce dalla collaborazione con la cooperativa sociale Officina creativa: attivo anche il bookshop dopo la caffetteria Musticiu. Nasce dalla collaborazione fra il Must - museo storico della città di Lecce e la cooperativa sociale Officina Creativa, titolare del marchio Made in Carcere, il progetto Must by Made in Carcere per la progettazione e realizzazione in co-branding di gadget all’insegna dell’inclusione sociale e della sostenibilità ambientale da vendere nel nuovo bookshop del museo. Da tessuti di scarto e resti di magazzino sono nati fermacapelli/segnalibro, portamatita in pelle con elastico, portamatite in ecopelle con elastico, cubo/trousse da viaggio in patchwork, tovagliette in tessuto vela, velluto e cotone, porta bottiglia/borraccia. Tutti i gadget sono griffati Must by Made in Carcere e vanno ad arricchire il bookshop attiguo alla caffetteria Musticiu, dove sarà possibile anche acquistare i cataloghi delle mostre permanenti e temporanee ospitate al museo e il merchandising della caffetteria. Made in Carcere è una onlus che da oltre 17 anni promuove il lavoro delle donne detenute nelle carceri italiane. La filosofia che sottende al marchio è quella della “Seconda Opportunità”: per donne e uomini detenuti e per i tessuti riutilizzati. I manufatti nascono tutti dall’utilizzo di materiali e tessuti esclusivamente di scarto e vengono prodotti da persone detenute, che per questo vengono formate e poi retribuite. Il progetto è stato finanziato attraverso la partecipazione del Must all’Avviso pubblico per il riparto del fondo per il funzionamento dei piccoli Musei, promosso dalla Direzione Generale Musei del Ministero della Cultura. Con l’apertura del bookshop che segue quella della caffetteria Musticiu, nel Must sono attivi tutti i servizi previsti dall’Amministrazione comunale nel museo. “L’amministrazione comunale è impegnata - dichiara l’assessora alla Cultura Fabiana Cicirillo - a fare del Must uno spazio espositivo moderno e accogliente, dotato di tutti i servizi funzionali ai visitatori. Con questo progetto in co-branding con Made in Carcere mettiamo in vendita gadget che hanno una genesi legata all’inclusione sociale e alla sostenibilità ambientale e stiamo lavorando a una linea editoriale del Must per i cataloghi delle mostre che ospiteremo con uno stile e una veste comune e riconoscibile. I ricavi delle vendite saranno interamente reinvestiti nel riassortimento dei gadget e nelle successive pubblicazioni dei cataloghi”. Torino. Una partita con il papà, il carcere apre ai più piccoli di Marina Lomunno Avvenire, 17 giugno 2023 Trovare spazi di incontro, anche dietro le sbarre. Perché si è genitori sempre, anche se si devono scontare pene per i reati commessi. E soprattutto perché gli errori dei padri non devono ricadere sulle spalle dei figli. In questo mese di giugno in decine di penitenziari italiani è in programma la 7ª edizione della “Partita con mamma e papà” che consente, come spiega Arianna Balma Tivola, responsabile dell’Area Trattamentale della Casa circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno “, di far incontrare i detenuti con i propri figli in un contesto alternativo ai consueti colloqui previsti dal sistema carcerario, in un ambiente informale di famiglia e di intimità. Con addosso le magliette gialle per i bimbi e blu per mamme e papà, ieri nella palestra del carcere torinese per 50 famiglie le due ore di festa tra calci al pallone e partite a calcetto sono volate tra commozione, carezze abbracci… “Che bello essere qui, quando torniamo in palestra a giocare?” dice una biondina asciugando le lacrime di mamma. A contribuire al buon successo della festa, un ricco rinfresco curato dagli educatori della Cooperativa “Il Margine” che collaborano con il progetto “Bambini senza sbarre”. “Ogni settimana” spiega Roberta Portoghese “teniamo “Gruppi di parola” a cui invitiamo papà detenuti a parlare di genitorialità, del rapporto con i loro figli reso complicato dalla distanza e, una volta al mese, li facciamo incontrare con i bambini: sono momenti molto toccanti dove le sbarre scompaiono e c’è solo voglia di stare vicini come a casa, con la certezza che papà tornerà a rimboccarmi le coperte”. Quando un familiare è recluso, peggio ancora se ad essere ristretti sono mamma o papà, tutta la famiglia è come se vivesse dietro le sbarre. Straziante rispondere alla domanda del piccolo che la sera chiede alla mamma “papà dov’è” … Anche se detenuti, genitori si è sempre, soprattutto se tuo figlio è minorenne, quando la mancanza di mamma e papà è una ferita che brucia. Fondamentale dunque, anche per l’equilibrio dei ristretti - perché nel rapporto con la famiglia trovano un motivo per impegnarsi nel percorso rieducativo della pena - è sostenere il contatto tra genitori e figli. Con percorsi che favoriscano la convinzione che non si smette di essere figli, madri e padri anche quando la vita ci fa inciampare. Il legame, anche se papà e mamma sono in cella, non si interrompe: è solo sospeso ‘fisicamente’ ma non nel cuore. Ne è convinta l’associazione “Bambini senza sbarre” (www.bambinisenzasbarre.org) che da 14 anni promuove interventi di sostegno alla genitorialità nelle carceri italiane. Tra queste, c’è appunto “La partita con mamma e papà” promossa da qualche anno dall’associazione (interrotta solo dalla pandemia) in collaborazione con il ministero della Giustizia. Nel solo 2022 sono stati 4.100 i bambini che hanno disputato una partita con 1.900 papà e mamme detenuti. Secondo l’associazione, sono circa 100mila i minori nel nostro Paese che hanno uno dei due genitori dietro le sbarre. Migranti. Il dolore, la vergogna e la ragione di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 17 giugno 2023 I fallimenti delle politiche migratorie si nascondono dietro gli slogan di capi di governo e di ministri, dalla caccia agli scafisti su scala globale fino alla solidarietà europea che si traduce nelle politiche di respingimento verso i paesi di transito, vere e proprie deportazioni. Il dolore, per le vite spezzate e per il futuro di disperazione che attende i sopravvissuti e le famiglie. Ma anche per il fallimento di anni di lotte per affermare il diritto alla vita, per l’abbattimento delle frontiere che uccidono, per un paese più giusto e solidale. Condannati tutti, sembra oggi, ad un cupo futuro nel quale gli egoismi e la cattiveria di regime, la nuova ragione di Stato, prevalgono sulla solidarietà e sulla coesione sociale. La vergogna, per appartenere ad un paese e ad un simulacro di Europa che discriminano anche quando si tratta di salvare vite in mare, di garantire un porto di sbarco sicuro, di riconoscere il diritto di asilo. Vergogna per soccorsi negati come se i naufraghi non avessero chiesto di essere salvati. Una menzogna che sembra non provocare reazioni di sdegno nella popolazione. I naufraghi non avevano affatto respinto l’assistenza offerta dalla Guardia costiera greca, che anzi- secondo quanto dichiarato da alcuni sopravvissuti- poco prima del ribaltamento aveva agganciato con una fune il peschereccio nel tentativo di trainarlo, non si sa dove. Un tipo di operazione che sembra quasi un allontanamento e non ha certo i connotati di una attività di salvataggio secondo le regole e le prassi internazionali. Ma ormai, dopo le notizie sugli arresti dei presunti scafisti, la menzogna è elevata a sistena di governo delle migrazioni (e non solo). I fallimenti delle politiche migratorie si nascondono dietro gli slogan di capi di governo e di ministri, dalla caccia agli scafisti su scala globale fino alla solidarietà europea che si traduce nelle politiche di respingimento verso i paesi di transito, vere e proprie deportazioni, perché non bastano più i rimpatri nei paesi di origine, ed il governo italiano in questo campo si presenta come il principale sostenitore di accordi con paesi che non rispettano i diritti umani, neppure per i propri cittadini, e non riconoscono il diritto alla protezione internazionale. Adesso li chiamano “paesi terzi sicuri”. Nel frattempo non si riesce neppure a garantire la cooperazione tra paesi titolari di zone contigue di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali, lo abbiamo visto anche nelle stragi di Cutro e adesso a sud-ovest del Peloponneso, nel mare Ionio. Aumenta il sostegno ai paesi di transito per bloccare le partenze e si allungano le rotte ma non si fermano le traversate. Se non si parte dalla Tripolitania, si parte dalla Cirenaica, e se si chiudesse anche quella rotta si partirebbe dall’Egitto o dal golfo di Sirte. Malgrado gli accordi tra Unione Europea e Turchia, è proprio Erdogan che sta mettendo in atto una sistematica politica di espulsione dei profughi siriani ed afghani presenti in quel paese. Questo succede quando si coinvolgono governi che non rispettano i diritti umani in quella che chiamano “gestione dei flussi migratori”. Ma si tratta di uomini, donne, minori che si condannano a morte con la certezza dell’impunità. La ragione, per individuare responsabilità penali e politiche, per ritornare al rispetto delle norme che vincolano gli Stati ai soccorsi in mare, per impedire che in futuro queste stragi continuino a ripetersi nell’assuefazione generale, addirittura come se la morte fosse sanzione del tentativo di fuga, ed alla fine uno dei tanti strumenti, il più terribile, di dissuasione delle partenze e di contenimento della mobilità migratoria. Ma le stragi non fermano le partenze e i tentativi di attraversamento del Mediterraneo di chi non ha più nulla da perdere, se non la vita. Ragione dunque, per individuare una catena di responsabilità. La ripartizione del Mediterraneo in tante diverse zone di ricerca e salvataggio (SAR), che non possono diventare spazi di giurisdizione esclusiva, ma sono aree di responsabilità concorrente, non deve impedire di individuare le autorità statali responsabili di garantire la sorveglianza delle frontiere, ma anche il fine superiore, anche in base alle Convenzioni internazionali, della salvaguardia della vita umana in mare. Secondo l’art. 9 del Regolamento Frontex n.656/2014/UE “se, nel corso di un’operazione marittima, le unità partecipanti hanno motivo di ritenere di trovarsi di fronte a una fase di incertezza, allarme o pericolo per un natante o qualunque persona a bordo, esse trasmettono tempestivamente tutte le informazioni disponibili al centro di coordinamento del soccorso competente per la regione di ricerca e soccorso in cui si è verificata la situazione e si mettono a disposizione di tale centro di coordinamento del soccorso”. In base al Manuale internazionale sul Soccorso in mare (IAMSAR), i diversi centri di coordinamento di soccorso nazionali sono tenuti a collaborare nel caso di soccorsi di massa in acque internazionali, come si è verificato altre volte in passato. Al di là delle indagini della magistratura greca, ci vorrà una inchiesta internazionale, probabilmente a livello europeo, per accertare cosa non ha funzionato in occasione dell’affondamento del peschereccio a sud ovest del Peloponneso, con molte analogie, rispetto alla strage di Steccato di Cutro, se si fa riferimento ai primi avvistamenti aerei, operati da Frontex, la mattina del 13 giugno scorso. Perché oltre il dolore e la vergogna, solo la ragione ci può spingere davvero all’accertamento delle responsabilità ed alla individuazione di nuove modalità di soccorso, coordinate tra diversi Stati, senza esclusioni per le navi del soccorso civile, che impediscano in futuro il ripetersi di queste stragi da abbandono in mare. Migranti. Tre milioni di euro per morire abbandonati nel Mediterraneo di Sarita Fratini Il Manifesto, 17 giugno 2023 Ci si chiede spesso quanto guadagnino gli scafisti per ogni viaggio organizzato, per ogni maledetto gommone sgonfio o barca fatiscente stipata all’inverosimile di essere umani disperati a cui danno l’addio nella notte africana, dopo averla messa in mare e indirizzata verso l’Europa. Le cifre variano molto, a seconda delle rotte, della grandezza dell’imbarcazione e del costo dei guardiacoste locali da corrompere. Nella Libia occidentale gli organizzatori incassano già molto: dagli 800 ai 1500 euro a passeggero. Spese ne hanno: l’imbarcazione, che farà un viaggio di sola andata, e il pagamento della cosiddetta guardia costiera libica. Ma sono costi sostenibili, non superano mai i cinquemila euro. Tutto il resto è guadagno. In un gommone imbarcano circa 100 persone, il ricavo si attesta sugli 80-150 mila euro. In alcune barche di legno, salgono anche duecento persone, che fruttano dai 200 ai 300 mila euro. La nuova rotta della Libia orientale vede imbarcazioni ancora più grandi, su cui vengono stipate anche 600 persone. Un viaggio di questi porta nelle casse degli scafisti più di mezzo milione. A volte molto di più: i pochi sopravvissuti alla strage di qualche giorno fa in Grecia hanno testimoniato di essere partiti dalla Libia e di aver pagato dai quattro ai seimila euro a persona. Si parla di 750 persone a bordo, che vorrebbe dire un guadagno di almeno 3 milioni di euro. In passato la Tunisia teneva a freno le partenze dei migranti non tunisini, le sue barche erano poco cariche e su di esse si vedevano più che altro cittadini tunisini. Nel corso del 2022 la tendenza si è invertita: dei 32mila migranti arrivati in Italia, solo 18mila erano tunisini. Ad inizio 2023 la costa di Sfax ha spalancato il suo mercato a tutti i migranti e le persecuzioni razziali verso gli stranieri incitate dalle parole del presidente Kais Saied hanno indotto migliaia di persone a cercare di fuggire dal paese. In un weekend di marzo 2023 la guardia costiera tunisina ha catturato in mare 2034 persone su 30 diverse barche: 2025 erano migranti subsahariani e soltanto 9 erano tunisini. Anche le tariffe si sono abbassate: dai tre o cinquemila euro di tre anni fa si è recentemente scesi ad appena poco più di mille euro a persona. Il motivo di questa inversione di tendenza è al momento oscuro ma l’esperienza libica ci insegna che un sistema di imbarchi illegali non può essere portato avanti senza accordi con le forze dell’ordine locali. I punti di partenza sono sempre gli stessi e l’arrivo di centinaia di persone su una spiaggia non resta mai inosservato. Le guardie costiere sono fondamentali per il business, senza di loro non si parte, lo confermano tutti i testimoni. In Libia il metodo è rodato: gli scafisti corrompono la guardia costiera del porto di partenza, la barca salpa tranquilla nella notte, gli aerei spia di Frontex la individuano la mattina successiva in acque internazionali, viene chiamata la cosiddetta guardia costiera libica, ma inviata quasi sempre una motovedetta diversa rispetto a quella che è stata corrotta. Famoso è anche il caso di Zuwara (Libia), dove lo scafista di zona è stato addirittura un poliziotto libico. Ultimamente si sono intensificati anche i viaggi attraverso il Mediterraneo orientale, molto più costosi ma per nulla più sicuri. I sopravvissuti al naufragio di Cutro hanno testimoniato di aver pagato addirittura ottomila euro a persona. Raramente ci si chiede in modo serio chi siano le persone dietro il business. Decine migranti africani, denutriti e senza scarpe, al momento dello sbarco in Italia vengono arrestati come “scafisti”. Prova a loro carico una: tenevano il timone. Nel frattempo gli scafisti, quelli veri, rimangono in patria, nelle loro ville, a godersi il denaro guadagnato e ad organizzare il prossimo viaggio. Eroina, cocaina, droghe sintetiche. Europa sempre più “dopata” di Emanuele Bonini La Stampa, 17 giugno 2023 L’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Emcdda), nel suo ultimo rapporto, denuncia una situazione complessa. Eroina, cocaina, ma pure prodotti sintetici di nuova generazione dagli effetti per la saluta ancora tutti da verificare. L’Unione europea continua a essere “dopata” di sostanze stupefacenti e sommersa di droghe. Un mercato sempre più fiorente, che non sembra arrestarsi e che anche tende ad allargarsi sempre più a macchia d’olio sulla scia di una corruzione crescente di chi dovrebbe smascherare i traffici illeciti e nuove modalità di consegna. L’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Emcdda), nel suo ultimo rapporto, denuncia una situazione sempre più complessa. Segnali incoraggianti ci sono, come i sequestri record, che però non sembrano sufficienti a controbilanciare gli altri aspetti di un fenomeno che desta nuove e maggiori preoccupazioni. Perché “i sequestri storicamente elevati di cocaina sono un indicatore della sua diffusa disponibilità e sollevano preoccupazioni sul fatto che ciò potrebbe potenzialmente contribuire all’aumento dei livelli di consumo e dei danni associati”. Eroina e cocaina restano le sostanze pesanti di uso comune e diffuso. L’Emcdda non ha dubbi. “L’eroina rimane l’oppioide illecito più comunemente usato in Europa e rimane anche la droga responsabile di gran parte del carico sanitario attribuito al consumo di droghe illecite”. Anche se, a ben guardare, i dati disponibili suggeriscono anche che l’eroina “non svolge più un ruolo centrale come una volta” e gli oppioidi sintetici sembrano svolgere un ruolo più significativo nei problemi correlati agli oppioidi in alcuni paesi. Ciò non toglie che il traffico ha dimensioni ancora molto estese. Ne è una riprova la quantità sequestrata dagli Stati membri dell’Ue: rispetto al 2020 (4,4 tonnellate) è più che raddoppiata nel 2021 (9,5 tonnellate). I maggiori quantitativi intercettati e tolti al mercato illegale si registrano in Belgio (1,5 tonnellate), Romania (1,4 tonnellate), Francia (1,3 tonnellate), Bulgaria (1,2 tonnellate) e Italia (0,6 tonnellate). In sostanza “la disponibilità di eroina rimane relativamente elevata”. La maggior parte dell’eroina consumata in Europa proviene dai papaveri da oppio coltivati in Afghanistan, rileva l’organismo europeo. Nell’aprile 2022, i talebani hanno annunciato il divieto della coltivazione del papavero da oppio, sollevando la questione delle implicazioni che ciò avrà per l’uso di oppiacei in Europa. “Dopo l’acquisizione del paese da parte dei talebani nell’agosto 2021, la coltivazione stimata di papavero da oppio è aumentata nel 2022 di quasi un terzo” contribuendo dunque all’offerta. Non conosce crisi la domanda di cocaina. Anche qui i dati sulle operazioni condotte aiutano a far capire le dimensioni del business. Nel 2021, gli Stati membri dell’Ue hanno segnalato 68mila sequestri per un importo storicamente elevato di 303 tonnellate (rispetto alle 211 tonnellate del 2020). Il Belgio (96 tonnellate), i Paesi Bassi (72 tonnellate) e la Spagna (49 tonnellate) hanno rappresentato quasi il 75% del quantitativo totale sequestrato, a riprova dell’importanza di questi Paesi come punti di ingresso per il traffico di cocaina in Europa. Nel 2022, solo la quantità di cocaina sequestrata ad Anversa, il secondo porto marittimo più grande d’Europa, è salita a 110 tonnellate dalle 91 tonnellate del 2021, con volumi sequestrati in aumento ogni anno dal 2016. Il traffico di grandi volumi di cocaina attraverso i principali porti marittimi europei, in container commerciali intermodali, “è un fattore significativo” dell’elevata disponibilità di questa droga in Europa oggi. Anversa (Belgio), Rotterdam (Paesi Bassi), Barcellona e Bilbao (Spagna) sono i punti di approdo e smercio per il continente. Ma anche i moli di Amburgo (Germania), Lisbona (Portogallo) e Atene (Grecia) sono punti chiave delle rotte commerciali di droga. L’Osservatorio europeo mette in guardia sul fenomeno della connivenza di chi dovrebbe contribuire ad arginare i traffici illeciti. Il traffico di cocaina via mare attraverso container “è anche associato a livelli crescenti di criminalità legata alla droga, tra cui la corruzione del personale lungo le catene di approvvigionamento, l’intimidazione e la violenza”. Un modus operandi già denunciato ad aprile da Europol, l’agenzia di polizia europea, che proprio sulla corruzione nei porti e l’uso improprio di codici di riferimento di container aveva richiamato l’attenzione in un rapporto dedicato al fenomeno. Accanto alle reti consolidate e tradizionali però il mercato della droga ne sta sempre più costruendo di nuove. “Esiste ora anche un’industria di produzione secondaria di cocaina ben consolidata in Europa che facilita l’uso di metodi innovativi per il traffico, che possono rendere più difficile l’individuazione della cocaina nascosta nei carichi commerciali”. Per l’Emcdda ci sono anche segnali che i gruppi di trafficanti stanno esplorando sempre più nuovi approcci per ridurre il rischio di essere scoperti, come ad esempio spostandosi su “piccoli porti potenzialmente vulnerabili nell’Unione europea e nei paesi limitrofi”. Se la cannabis resta la droga leggera “più comunemente consumata”, ed eroina e cocaina le sostanze pesanti più diffuse, tra il 2009 e il 2022 sono stati individuati in totale 74 nuovi oppioidi sul mercato europeo della droga, con il sistema di allarme rapido dell’Ue che ha ricevuto notifiche formali di un nuovo oppioide sintetico aggiuntivo nel 2022 e tre nei primi quattro mesi del 2023. La maggior parte dei nuovi oppioidi rilevati negli ultimi anni, appartengono piuttosto agli oppioidi benzimidazole (nitazene) molto potenti. Si sa poco degli effetti sulla salute. Tra le sostanze illegali “alternative” si registra un utilizzo crescente in particolare di ossido di azoto, o gas esilarante. “Sembra essere diventato più accessibile ed economico”, si avverte, con la maggiore disponibilità in alcuni paesi di bombole di gas più grandi destinate agli utenti ricreativi, che possono anche aumentare il rischio di danni ai polmoni, a causa della maggiore pressione del loro contenuto. Si segnala inoltre un aumento dell’utilizzo della dimetiltriptammina (Dmt), sostanza psicoattiva dagli effetti allucinogeni. Nel 2021 ne sono state sequestrate 1,1 tonnellate. soprattutto nei Paesi Bassi (971 chili) e in Italia (75 chili). Il rapporto annuale dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze dedica anche una breve analisi all’aggressione della Russia in Ucraina e le ripercussioni per il mercato delle droghe. Quello che emerge dalle informazioni disponibili è che “la disponibilità di eroina in Ucraina sembra essere diminuita”. Tuttavia la produzione e l’uso di droghe sintetiche sembrano essere state meno colpite. Anche il traffico di eroina attraverso l’Asia centrale e il Caucaso e attraverso il mar Nero verso l’Europa sembra essere stato interrotto dalla guerra, e una possibile conseguenza di ciò è che le attività di tratta su altre rotte verso l’Europa potrebbero essere aumentate.