In Italia c’è troppo carcere di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 16 giugno 2023 Sette anni di raccomandazioni e sollecitazioni alle Istituzioni deputate non sembrano aver cambiato di molto lo stato delle carceri in Italia. Per questo, alla fine del suo mandato, il Garante nazionale per le persone private della libertà, Mauro Palma, ribadisce quello che rappresenta il problema dei problemi della reclusione in Italia: troppo carcere. Nella sua ultima relazione al Parlamento, presentata oggi a Roma alla Camera, in cui si traccia un bilancio dall’istituzione della figura del Garante in Italia, si sottolinea come a fronte di un numero di reclusi che nella prima relazione del 2016 era di 54.600 persone, oggi si è arrivati a 57.000 detenuti. Tenendo conto poi delle persone in misura alternativa alla detenzione e di quelle messe alla prova si raggiunge un totale di 137.366 persone coinvolte nell’area penale, contro le 98.854 del 2016. L’area del controllo penale, dunque, si è estesa mentre i reati di maggiore gravità sono andati diminuendo, come gli omicidi e i reati di mafia. Un effetto questo dovuto, secondo il Garante, ad un discorso pubblico sbilanciato sul versante populista e sul bisogno di sicurezza. Un mondo quello del carcere in cui è in costante aumento il numero delle persone condannate a pene molto brevi: ad oggi 1.551 persone sono in cella per scontare una pena - non un residuo di pena - inferiore a un anno, altre 2.785 una pena tra uno e due anni. “Si tratta della marginalità sociale che abita il carcere” nota il Garante, di vite i cui problemi avrebbero dovuto trovare altre risposte, come l’istruzione, il sostegno abitativo, la possibilità di un reddito, “così da diminuire il rischio di commettere reati”. Una popolazione troppo numerosa, dunque, che vive in un mondo a parte, dove la mancanza di possibilità lavorative, di formazione e anche spesso di corsi di istruzione, connota il tempo della detenzione come un tempo sottratto alla vita o di semplice attesa. “Non è tollerabile - evidenzia Palma - che ci siano ancora quasi 5.000 persone tra i detenuti che non hanno completato l’obbligo scolastico e che, anche limitandoci ai soli italiani, ci siano 845 persone analfabete e altre 577 che non hanno concluso la scuola elementare”. Dunque il Garante, che in questi anni ha visitato oltre alle carceri, le Rems, le camere di sicurezza, le Rsa e i centri di accoglienza per migranti, descrive un sistema detentivo “caratterizzato da molte criticità irrisolte”. Un pianeta in cui, in sette anni, gli eventi critici sono cresciuti regolarmente, sintomo del malessere all’interno degli istituti di pena. Un mondo fatto in larga misura di strutture degradate, in cui le condizioni igienico sanitarie sono precarie, dove in molti casi sono assenti i locali per le attività trattamentali, dove gli spazi sono sempre insufficienti e il male di vivere è racchiuso in quel numero record di 85 suicidi dello scorso anno. Un male che, nei primi mesi del 2023, ha già portato a 29 suicidi, con altri 12 decessi per cause da accertare, “alcuni dei quali attendibilmente classificabili in futuro come suicidi”, spiega il Garante. Un fenomeno “accompagnato da un numero in aumento di suicidi tra coloro che lavorano negli Istituti di detenzione a diretto contatto con la drammaticità e l’intrinseca violenza all’interno di essi”. Ed è in questi luoghi chiusi, conclude Palma, che lo sguardo del Garante deve continuare a entrare. Mattarella: dignità e diritti in carcere di Alessia Guerrieri Avvenire, 16 giugno 2023 Sovraffollamento, aumento dei suicidi e degli ospiti nelle Rems tra i principali nodi da affrontare. Il messaggio al Garante, in occasione della relazione al Parlamento. Sovraffollamento, l’aumento dei suicidi e delle detenzioni brevi. 632 i detenuti nelle Rems. Palma: servono riforme strutturali. Il rispetto della dignità, anche quando si è in carcere. Il capo dello Stato Sergio Mattarella torna sul tema, più volte affrontato, della detenzione dietro le sbarre nel rispetto della persona. E lo fa con un messaggio inviato al Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, in occasione della presentazione dell’annuale relazione al Parlamento. “Numerosi spunti di riflessione, di analisi e di proposta” sono offerti in quelle pagine, scrive il presidente della Repubblica, nella prospettiva di rendere “rispettosa della dignità della persona la restrizione, anche temporanea della libertà derivante dall’applicazione di norme di legge poste a protezione del consorzio civile”. Nel ringraziare il Garante per essersi impegnato ad “assicurare valore al tempo della detenzione, per favorire il reinserimento sociale e il recupero della soggettività dei reclusi”, Mattarella ne sottolinea l’attività meritoria di contemperare “la funzione di prevenzione con quella propositiva, attraverso un monitoraggio costante delle varie realtà, al fine di garantire la piena applicazione dei principi costituzionali a tutela dei diritti individuali”. Lavoro per cui, ricorda il capo dello Stato, il Garante ha avuto anche un riconoscimento internazionale, che diventa “patrimonio di credibilità destinato a consolidarsi nella perseverante attenzione al delicato tema della condizione detentiva”. I dati sulle carceri - Al primo giugno di quest’anno le persone detenute in carcere sono 57.230; 2.504 sono donne, mentre ne erano 2.285 sette anni fa. Dati comparabili, sebbene in aumento di più di 2.500 persone detenute: la capienza, già allora carente, è aumentata dal 2016 solo di mille posti regolamentari. Due dati indicano mutamenti - è la riflessione del Garante Palma - la percentuale delle persone straniere in carcere è diminuita dal 34 al 31,2%; particolarmente diminuita, è un dato positivo, è la percentuale di coloro che sono in carcere senza alcuna condanna definitiva, passando dal 35,2 al 26,1% nel corso di questi anni. Resta alto, ed è andato aumentando, il numero di persone ristrette in carcere per scontare condanne molto brevi: 1.551 persone sono oggi in carcere per scontare una pena, non un residuo di pena, inferiore a un anno, altre 2.785 una pena tra uno e due anni. Non a caso così, il garante invita a “garantire l’accesso a misure diverse dalla detenzione per pene brevi”. Per quanto riguarda i dati relativi ai minori e ai giovani adulti in questi 7 anni hanno mantenuto un complessivo equilibrio: quelli ristretti negli istituti penali per minorenni sono, alla stessa data, 390, altri 3802 sono in messa alla prova e complessivamente il servizio minorile ha in carico 14473 minori o giovani adulti, mentre erano 14.212 nel 2016. Inoltre, preoccupa anche il dato sui suicidi dietro le sbarre. “A nessuno può sfuggire la rilevanza che nell’ultimo anno e in quello attuale ha assunto il numero di suicidi delle persone ristrette. Oggi, il numero di persone detenute che hanno scelto di togliersi la vita è già salito a 30 con in più altri 12 decessi per cause da accertare - sottolinea - alcuni dei quali attendibilmente classificabili in futuro come suicidi, mentre scorre la ventitreesima settimana dell’anno”. Anche trainato dal caso Cospito il Garante torna sul tema del carcere duro. “È tempo di aprire un chiaro confronto sul regime speciale” del 41bis, per valutare “la sua funzione necessaria per l’interruzione di connessioni, collegamenti e ordini tra le varie organizzazioni criminali, ma anche sulle sue regole, sulla sua attuale estensione numerica, sulla durata troppo spesso illimitata, che si perpetua non di rado fino all’ultimo giorno di detenzione in caso di pene temporanee”. E sul reato di tortura, introdotta nel 2017 nel nostro codice, il garante ricorda che “è una norma di civiltà da difendere”. Una visione che trova d’accordo il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, per cui su questo reato “non si torni assolutamente indietro. C’è ben altro su cui discutere che non cambiare questa legge”. La situazione nelle Rems - Altro capitolo affrontato nella relazione del Garante dei detenuti è la situazione dei cosiddetti “rei folli”, cioè persone colpevoli di aver commesso un reato ma considerate incompatibili con la condizione carceraria per la loro salute mentale. Sono 632 le persone internate nelle attuali 31 Rems funzionanti, aggiungendo in in particolare, “la percentuale delle persone accolte in misura di sicurezza provvisoria: il dato del 46,7% del totale ha certamente incidenza sul numero di coloro che pur in misura definitiva non trovano adeguata sistemazione e conseguente attenzione”. Inoltre, Palma pone l’accento sul fatto che “il numero complessivo di persone che sono state dichiarate destinatarie di tale misura e che supera di molto il numero di coloro che al momento della chiusura erano ospitati negli Ospedali psichiatrici giudiziari: erano 698 a quella data (precisamente al 25 marzo 2015, secondo il rapporto ufficiale del ministero della Salute e del ministero della Giustizia) i pazienti ancora reclusi in quelle inaccettabili strutture. Dato incomparabile rispetto a quello attuale che, oltre alle 632 persone già accolte in Rems, ne indica altre 675 in lista di attesa e di esse 42 illegalmente recluse all’interno di ben 25 carceri, senza titolo detentivo”. La sfida del garante “La politica ci aiuti ma non detti legge” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 giugno 2023 Il carcere, i centri per migranti, le caserme, le strutture per anziani e altre persone vulnerabili: sono questi i luoghi sotto la supervisione del Garante Nazionale delle persone private della libertà. Tuttavia, il presidente Mauro Palma ha tenuto a sottolineare che questo mandato è soprattutto “l’evidenziazione delle tante voci che per molteplici ragioni non raggiungono la collettività esterna provenendo da luoghi a essa poco visibili e spesso da essa non visti”. Lo ha evidenziato durante la presentazione della relazione annuale al parlamento che non è stato chiuso per lutto come è stato fatto passare. È aperto, tanto da aver ospitato il collegio del Garante nazionale. E il presidente Palma, salutando le istituzioni presenti, in primis il presidente della Repubblica, ha reso omaggio alla nostra Costituzione repubblicana che quest’anno ha compiuto 75 anni. “È la Costituzione, il baluardo del nostro essere qui oggi”, ha chiosato. Palma ha annunciato che questa sarà la sua ultima presentazione poiché il suo mandato è scaduto. In questi sette anni, il suo collegio ha collaborato con sei diversi Governi. Egli ha auspicato che le raccomandazioni di questa autorità indispensabile non si basino su posizioni ideologiche o analisi teoriche, ma siano frutto di osservazione diretta dei luoghi, dialogo libero con le persone e analisi delle norme locali che regolano la quotidianità nelle strutture di privazione della libertà. Il Garante ha avviato la procedura per indicare un nuovo collegio che lo sostituirà e garantirà la continuità del lavoro compiuto. Egli ha chiesto che questa autorità svolga il suo ruolo di garanzia senza subire influenze ideologiche, poiché la politica può aiutare e cooperare, ma non deve dettare le regole alle istituzioni di garanzia. La relazione annuale fornisce alcuni dati significativi riguardanti il sistema penale. Al 1° giugno di quest’anno, il numero di persone detenute in carcere era di 57.230, di cui 2.504 donne (rispetto alle 2.285 sette anni fa). Palma ha sottolineato che il numero di persone ristrette in carcere per pene molto brevi è in aumento, con 1.551 persone attualmente detenute per pene inferiori a un anno e altre 2.785 per pene tra uno e due anni. “La loro presenza in carcere, quindi, interroga il nostro tessuto sociale: sono vite connotate da una marginalità che avrebbe dovuto trovare altre risposte, così da diminuire l’esposizione al rischio di commettere reati”, ha osservato Palma. Che fare? Il Garante pensa che sia ormai il tempo di agire per togliere al carcere ciò che non è possibile che rientri nella sua capacità di azione. “Per tali fragilità e conseguenti reati di minore rilevanza che determinano pene molto basse, occorre prevedere strutture diverse con un legame molto più denso con il territorio”, ha riflettuto Palma, confidando che su questo il Parlamento saprà impegnarsi, cogliendo lo stimolo che proviene anche da alcuni Sindaci e al fine di segnare un cambio di passo rispetto alla difficoltà e alla fragilità che oggi si vivono all’interno del carcere. A tal proposito, ha evidenziato che a nessuno può sfuggire la rilevanza che nell’ultimo anno e in quello attuale ha assunto il numero di suicidi dei detenuti. Solo, oggi, dall’inizio dell’anno, il numero di persone ristrette che hanno scelto di togliersi la vita è già salito a 30 con in più altri 12 decessi per cause da accertare. Riguardo alla violenza e ai pestaggi nelle carceri, il Garante ha chiesto che la legge del 2017 che ha introdotto il reato di tortura non venga snaturata. Tale norma è stata promulgata per adempiere agli impegni internazionali assunti con la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Inoltre, essa risponde anche alla prescrizione penale esplicitamente stabilita nel terzo comma dell’articolo 13 della nostra Costituzione, rappresentando quindi una norma di civiltà che va difesa anche in nome della professionalità di coloro che agiscono con dedizione quotidianamente. L’area di azione del Garante nazionale in ambito penale non può concludersi senza una indicazione di massima. Per il presidente, il primo intervento “trattamentale” non risiede nella a volte fantasiosa proposta di progetti e attività, bensì nel dare istruzione e formazione. “Non è tollerabile che ci siano ancora quasi 5000 persone che non hanno completato l’obbligo scolastico e che, anche restringendosi ai soli italiani, ci siano 845 persone analfabete e altre 577 che non hanno concluso il ciclo di scuola primaria di primo livello (nel vecchio lessico, la scuola elementare)”, ha evidenziato Palma. Simmetricamente, un segnale positivo su cui ha ritenuto doveroso informare il Parlamento è dato dai 1427 iscritti ai corsi universitari, nei diversi Poli che si stanno diffondendo nella penisola e che sono coordinati dalla Conferenza nazionale dei Rettori. Oltre all’ambito penale, il Garante si occupa anche della privazione della libertà dei migranti, una privazione derivante non da reati, ma da violazioni di norme amministrative. Si fa riferimento ai Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr). Palma ha evidenziato che i dati presentati nella parte tabellare della Relazione sono significativi, poiché indicano che su 6.383 persone ristrette nei Cpr nel 2022, solo 3.154 sono state effettivamente rimpatriate. Il totale dei rimpatri effettuati è stato molto limitato, con un numero ridotto di persone rimpatriate in Tunisia (2.308), Albania (58), Egitto (329) e Marocco (189). Questi numeri sono modesti rispetto alle frequenti dichiarazioni di intenzioni. “Quello che qui conta - nel contesto dell’assoluto principio che la privazione della libertà, bene definito “inviolabile” dalla nostra Carta, possa attuarsi solo nella prospettiva di una chiara finalità, legalmente prevista e sotto riserva di giurisdizione - è che circa la metà delle persone trattenute - esattamente il 50,6 percento - ha avuto un periodo di trattenimento detentivo senza il perseguimento dello scopo per cui esso era legalmente previsto”, ha denunciato il Garante. Ma c’è anche l’area riguardante la salute. La prima direzione ha riguardato le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, le Rems. “Nonostante alcuni tratti rendano le Rems ancora acerbe nel dibattito pubblico, occorre guardare positivamente al percorso intrapreso, potenziando laddove necessario l’effettività della presa in carico delle persone e della delineazione per ciascuna di esse di un piano terapeutico riabilitativo”, ha affermato con forza Palma. L’altra direzione è stata l’attenzione alle situazioni residenziali. Palma ha ricordato che non sono numeri banali: sono 12630 i presidi residenziali socioassistenziali e sociosanitari, per un totale di più di 400mila posti letto (411992) e attualmente 305750 le persone anziane, autosufficienti o meno e le persone adulte o minori con disabilità in essi ospitati. Nella conclusione della sua presentazione, Palma ha espresso un auspicio rivolto a tutte le persone coinvolte nelle storie raccontate nella relazione annuale: alle vittime, ai gestori delle sanzioni, ai migranti in cerca di un futuro migliore, ai soccorritori, agli accoglienti e a coloro che devono gestire i rimpatri. Questo pensiero abbraccia tutti coloro che lavorano per risolvere i conflitti che affliggono la nostra complessa società. Inoltre, Palma ha rivolto un pensiero e un augurio ai membri del Parlamento, i quali sono chiamati a rappresentare la speranza di una ricomposizione e di una crescita culturale. Un compito difficile. Nel frattempo, Palma ha annunciato che, in altri ruoli e altre funzioni, i membri del suo collegio (ricordiamo composto anche da Daniela de Robert e Emilia Rossi, che hanno svolto il loro compito con dedizione e sacrificio) continueranno ad agire per i diritti di tutti. Un Garante contro il pupulismo penale di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 giugno 2023 Il discorso di fine mandato alla Camera di Mauro Palma, presidente dell’Autorità di garanzia per le persone private della libertà. “Contro la tortura, nel 1999 ci fu una proposta di Berlusconi e 104 suoi parlamentari”. Sulla legge contro la tortura - “una norma di civiltà da difendere proprio in nome della professionalità” delle forze dell’ordine - e sulla cultura dei diritti non si torna indietro; è necessario raddrizzare quel “discorso pubblico sbilanciato sul versante populista e applicato all’ambito penale che ha portato in anni recenti all’estensione dell’area del controllo penale, pur in presenza della riduzione del numero dei reati più gravi”; “è tempo di aprire un chiaro confronto sul regime speciale” 41bis; “stupore e dissenso” rispetto “a qualche minoritaria proposta volta a diminuire quello slancio inclusivo proprio della Carta costituzionale verso il tendenziale positivo reintegro sociale di ogni persona, anche di chi ha gravemente sbagliato”. Sono solo alcuni dei passaggi del brillante discorso con il quale Mauro Palma ha presentato nella sala della Regina a Montecitorio (unica autorità di garanzia al lavoro alla Camera, ieri) la sua settima e ultima Relazione al Parlamento come presidente dell’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, a conclusione del suo mandato. In realtà nella sala gremita - che lo ha ringraziato con un lunghissimo applauso - di parlamentari non ce n’erano moltissimi (Avs, Pd e qualche M5S). Ministri, nessuno. In parte giustificati dalla lenta ripresa, ieri mattina, delle attività politiche e istituzionali dopo i giorni di lutto per Berlusconi (pre consiglio dei ministri, giuramento dei magistrati, ecc). In sala invece, ad ascoltare anche il corposo e non rituale messaggio di ringraziamento da parte del capo dello Stato Sergio Mattarella, c’era la presidente della Corte costituzionale Silvana Sciarra, la vice presidente del Senato Anna Rossomando, la segretaria di presidenza della Camera Annarita Patriarca (FI) e gli ex ministri Lamorgese, Boschi e Orlando. La presentazione è stata trasmessa anche su Rai3. Una relazione “politica” nel senso più alto del termine, “non di bilancio ma di prospettiva”, quella di Mauro Palma, che è stato il primo a costruire questa figura istituzionale e a riempirla di senso e valore. Un monito, il suo, a chi prenderà il posto del Collegio e della presidenza, a non lasciare che i politici dettino l’agenda e le regole all’Autorità di garanzia. Che in questi sette anni - e sei governi - ha esercitato la propria funzione di prevenzione e, nel dialogo con la magistratura, di accertamento e denuncia delle violazioni del diritto delle persone private della libertà in carcere, nelle Rems dedicate ai “folli-rei”, nelle residenze socio sanitarie e nei centri per i migranti. Palma ha ricordato che compito delle istituzioni pubbliche è costruire “un’identità centrata proprio sulla capacità di saperne includere altre”, “una identità non negata come valore, ma mai assunta come fattore identitario escludente”. Perché, ha detto citando Hannah Arendt, la sventura più grande che può abbattersi su una società non è tanto la perdita dei diritti specifici ma “la perdita di una comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto”. Dei tanti dati raccolti nella corposa Relazione al parlamento, Palma ha citato l’aumento dei detenuti in carcere per scontare condanne brevi: persone fragili, spesso analfabete (845 detenuti attuali), o che non hanno completato l’obbligo scolastico (5000 detenuti), con dipendenze o problemi psichiatrici, che quindi “avrebbero dovuto trovare altri supporti nell’istruzione, nel sostegno abitativo, nella possibilità di un reddito”. Ha parlato delle misure alternative che, in questi sette anni, invece sono diventate aggiuntive alle pene da scontare in carcere: sommando le une alle altre si nota infatti che si è passati dalle 98854 persone raggiunte nel 2016 dall’azione penale alle 137366 di oggi. Malgrado “gli omicidi volontari siano diminuiti nello stesso periodo del 25%, l’associazione mafiosa del 36%, le rapine del 33%”. Sulle persone rinchiuse per illeciti amministrativi nel campo delle migrazioni - “che non costituiscono eventi contingenti” - il Garante nazionale ha fatto notare che dei 6383 migranti ristretti nel 2022 nei Centri per il rimpatrio, il 50,6% non è mai stato rimpatriato. Con “il rischio che la privazione della libertà dei migranti irregolari tenda a legittimarsi più come misura rassicurante della collettività che non come tassello di una strategia efficace”. Da qui l’augurio che lo Stato italiano, “in linea con la nostra Carta”, si tenga distante “dalla tentazione di esternalizzazione delle nostre responsabilità di controllo e tutela” dei migranti. Palma ha anche invitato a continuare sulla strada di riforma intrapresa con l’abolizione degli Ospedali psichiatrici giudiziari e con la realizzazione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, così come sono organizzate al momento, fermo restando la necessità di potenziarne “l’effettività della presa in carico delle persone”, con piani terapeutico riabilitativi personalizzati, finora messi a punto “soltanto per il 46% dei pazienti definitivi accolti”. Infine, parlando di violenze e torture commesse sulle persone private della libertà da parte dei tutori dell’ordine pubblico, Mauro Palma ha spiazzato i presenti ricordando che “il 21 settembre 1999 Silvio Berlusconi presentò un’interpellanza firmata da 104 parlamentari di Forza Italia per introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento”. Abbiamo dovuto attendere 17 anni, per metterci in regola con le convenzioni internazionali, ma oggi la famiglia politica del Cavaliere non sta più da quella parte. “Con carabinieri e polizia lavoriamo sugli allievi, per una cultura del diritto” di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 giugno 2023 Parla Daniela De Robert, numero due del Collegio del Garante dei diritti delle persone private di libertà personale: “Le camere di sicurezza sono luoghi oscuri. Ma l’Arma ci ha chiesto aiuto”. Riferendosi alle violenze sugli arrestati da parte degli uomini della Volante di Verona, e ad altri fatti simili, Mauro Palma ha parlato di “una cultura non leggibile con il paradigma auto consolatorio delle “mele marce” che, sia pure “minoritaria”, alberga “in settori di operatori di Polizia che percepiscono la persona fermata, arrestata o comunque detenuta, come nemico da sconfiggere”. Daniela De Robert, numero due del collegio del Garante nazionale dei detenuti, sono parole forti e chiare... Sono fatti che non possono più essere ricondotti a singoli casi e persone, ma sintomo di una cultura che attraversa alcune aree delle forze di polizia e che considera la persona fermata o trattenuta un nemico da annientare, umiliare e su cui accanirsi. Per questo dal 2021 avevamo sollecitato le forze dell’ordine, chiedendo e ottenendo di incontrare tutti i vertici. Con loro abbiamo ragionato ad un percorso di lavoro concentrando l’attenzione sul tema della cultura. Tra i tanti dati contenuti nel rapporto si evidenzia il numero di persone transitate nelle camere di sicurezza dal 2016 ad oggi. Si nota che dal 2020 sono di più le persone che transitano nelle camere di sicurezza della polizia che in quelle dei carabinieri, mentre prima accadeva il contrario. C’è un motivo per questo? Il passaggio nelle camere di sicurezza spesso viene deciso dal magistrato, non dalle forze dell’ordine. Un motivo possiamo trovarlo nel fatto che se andiamo a vedere il numero di camere di sicurezza disponibili in Italia, notiamo che quelle agibili per la polizia sono passate dalle 327 del 2016 alle 318 del 2023, e per i carabinieri da 1068 a 819 di oggi. Nel 2022 avete cominciato un lavoro “culturale” con i vari corpi, come sta andando? La nostra raccomandazione è stata accolta, ed ora stiamo lavorando con tutti i corpi anche se solo con i Carabinieri siamo entrati completamente nei corsi di formazione, a tutti i livelli. Il primo protocollo è stato firmato con l’Arma il 17 marzo 2022 e rinnovato successivamente. Nei corsi spieghiamo cosa è la figura del Garante e perché è necessario, e affrontiamo i temi dei diritti, della modalità di intervento in situazioni difficili, della de-escalation, della proporzionalità e dell’individualità delle misure di contenzione, e così via. Con i Carabinieri abbiamo fatto formazione per tutti gli allievi dell’ultimo corso. Palma ha incontrato tutti i responsabili provinciali dell’arma, girando per l’Italia. Il problema delle forze di polizia adesso è che i giovani che entrano in questi corpi spesso vengono dall’esercito, dove sono formati all’idea del nemico. Con la Polizia di Stato e la Penitenziaria, invece, abbiamo fatto diverse attività di formazione mirata del personale appena entrato in servizio, ma siamo più indietro. Le camere di sicurezza sono state a volte teatro di violenze e torture, pensiamo solo a Stefano Cucchi… Sono luoghi opachi? Sono sempre stati al centro dell’attenzione perché a differenza del carcere, dove entrano volontari, sanitari, insegnanti, etc., nelle camere di sicurezza non c’è mai uno sguardo esterno. Direi perciò che più che opaco è proprio un luogo buio. Ed è il primo posto in cui la persona si ritrova privata della libertà, perciò in un momento estremamente difficile, in cui la persona può avere reazioni violente. I carabinieri su questi temi sono stati più che aperti: hanno chiesto aiuto. Hanno voluto che lavorassimo insieme perché, hanno detto, sappiamo che c’è una situazione che richiede uno sguardo esterno, oltre che interno. Avete messo a punto un Vademecum per le forze di polizia in cui spiegate anche cosa sono le “opzioni non letali”, dette anche “less than letal option”. Come è stato accolto? Molto bene: è stato stampato in 15 mila copie, distribuito a tutti gli allievi da Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza, diffuso in tutte le scuole e inviato in tutti i presidi territoriali. È uno strumento di diffusione di una cultura diversa. Inaspettatamente, ne hanno chieste altre copie e abbiamo dovuto ristamparlo, malgrado sia scaricabile anche sugli intranet di tutte le forze di polizia. Da dove viene, a cosa è dovuta quella cultura della vendetta e della sopraffazione che ancora alberga in alcuni settori delle forze di polizia? È una cultura che si respira anche all’esterno. E un pensiero diffuso viene assorbito subito, da queste forze. Se i responsabili istituzionali affermano che chi delinque deve marcire in carcere, può succedere che qualcuno si senta spalleggiato da fuori e dall’alto. Sui codici identificativi c’è ancora molta resistenza, vero? Da parte dei vertici non direi, tant’è che lavoriamo insieme sulla formazione e il Vademecum ci è stato richiesto da tutti. È chiaro che non c’è l’abitudine ad essere controllati. All’inizio, quando arrivava il Garante in una camera di sicurezza, c’era sconcerto. Ma è un problema che si sta abbastanza superando. I sindacati sembrano disponibili alla bodycam. Basta? Può essere un primo passo. Dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere abbiamo inviato all’allora ministra Cartabia tre raccomandazioni, una delle quali riguardava proprio i codici identificativi degli armamenti - non delle persone - riconducibili poi attraverso un registro interno all’agente che le ha in dotazione. Questa raccomandazione - siamo nell’ambito della soft low, dove il metodo di approccio è la trattativa - non venne accettata dal ministero di Giustizia che avrebbe voluto prendere una tale decisione non solo per la Polizia penitenziaria ma in sede di coordinamento interforze. Per noi è un punto importantissimo perché, ad esempio, sulle violenze nel carcere di Melfi il giudice ha riconosciuto tutti i fatti delittuosi commessi sui detenuti ma non ha potuto procedere per l’impossibilità di individuare gli agenti colpevoli. Importantissimo perché il casco, da strumento di difesa, non può - mi sembra evidente - diventare strumento di occultamento. Detenuti, 5.000 non hanno completato obbligo scolastico orizzontescuola.it, 16 giugno 2023 Durante la presentazione della Relazione annuale alla Camera dei Deputati, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ha sollevato una questione critica riguardante l’istruzione nelle carceri italiane. Ha sottolineato la preoccupante realtà di quasi 5.000 detenuti che non hanno completato l’obbligo scolastico, tra cui 845 persone analfabete e altre 577 che non hanno concluso la scuola primaria. Questi dati allarmanti richiedono una maggiore attenzione e un impegno specifico da parte del Parlamento per garantire l’accesso all’istruzione in ambito penitenziario. La situazione attuale e l’importanza dell’istruzione - L’istruzione all’interno delle carceri riveste un ruolo cruciale nella riabilitazione e nella reintegrazione sociale dei detenuti. Offrire opportunità di istruzione ai prigionieri non solo contribuisce a colmare le lacune educative, ma offre anche una speranza per il futuro e la possibilità di una vita migliore al di fuori delle mura della prigione. Tuttavia, i dati presentati dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale evidenziano che vi è ancora molto da fare per garantire un’adeguata istruzione a coloro che si trovano dietro le sbarre. La richiesta di un’attenzione speciale - Il Garante Palma ha rivolto un appello al Parlamento, sollecitando un’attenzione speciale sull’investimento nell’istruzione all’interno delle carceri italiane. È fondamentale che il sistema penitenziario metta a disposizione risorse adeguate per fornire programmi educativi efficaci, consentendo ai detenuti di completare l’obbligo scolastico e acquisire competenze di base. Solo così potranno avere maggiori opportunità di reinserimento nella società una volta scontata la pena. La sfida dell’analfabetismo e della scuola primaria - Tra i dati preoccupanti presentati dal Garante Palma emerge il numero significativo di persone analfabete e di coloro che non hanno completato la scuola primaria. Questo evidenzia una situazione critica che richiede un intervento immediato. Offrire programmi di alfabetizzazione e garantire l’accesso a un’istruzione di base è essenziale per colmare queste lacune educative e promuovere l’empowerment dei detenuti. Riforma della giustizia, l’alba di un nuovo conflitto. Ma i magistrati rischiano di dividersi sul governo di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 giugno 2023 I distinguo della corrente di destra e il ruolo di Mantovano. Nordio è espressione di un governo che ha nel suo programma alcune delle riforme tentate e fallite da Berlusconi. Carlo Nordio non è il primo magistrato entrato in via Arenula come ministro. Nel 1995, nel 2008 e nel 2011 ci furono le (brevi) parentesi di Filippo Mancuso, Luigi Scotti e Francesco Nitto Palma; ciascuno per pochi mesi, non ebbero rapporti sempre sereni con gli ex colleghi. Soprattutto Mancuso, che coltivò le ostilità con il pool milanese di Mani pulite aperte dal primo governo Berlusconi. L’esperienza di Nordio è destinata a durare più a lungo, ma le relazioni con le toghe si annunciano ugualmente agitate. Sebbene i tempi siano cambiati e la magistratura (perlomeno quella raccolta nelle correnti e rappresentata dall’Associazione nazionale magistrati) sembri meno compatta nella contrapposizione al potere politico. Cambio di stagione - Le ragioni sono molte, e una è l’uscita di scena (ancor prima della scomparsa) di Silvio Berlusconi nella doppia veste di premier indagato o imputato che non disdegnava accusare apertamente pubblici ministeri e giudici, e piegare leggi e riforme alle sue personali esigenze difensive. Superata quella fase che strinse tutte le toghe a presidio di autonomia e giurisdizione, Nordio è ora espressione di un governo che ha nel suo programma alcune delle riforme tentate e fallite dal leader di Forza Italia. A cominciare dalla “madre” di tutte le altre: la separazione delle carriere tra pm e giudici, che lo stesso ministro ha promesso di proporre entro la fine dell’anno. Sarà un percorso lungo, perché implica modifiche alla Costituzione, e in attesa di quel traguardo il Guardasigilli ha messo sul tavolo un primo disegno di legge che ai magistrati non piace. Ai procuratori, prima ancora che all’Anm; quelli ascoltati in Parlamento o dai mezzi di comunicazione hanno bocciato pressoché all’unanimità l’abolizione dell’abuso d’ufficio. E il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha voluto sottolineare che “non ascoltare il parere tecnico di colleghi qualificatissimi sul piano delle indagini sembra una scelta poco avveduta”. Ma quella del presidente - esponente di Area, una delle correnti della sinistra giudiziaria insieme a Magistratura democratica - è e resterà la posizione di tutta l’Anm? L’attuale Giunta riunisce Area, i “centristi” di Unità per la costituzione e la destra di Magistratura indipendente; un “governo” che di fronte a un conflitto dal sapore inevitabilmente politico potrebbe veder incrinare la propria compattezza. Posizioni distinte - Il segretario di Mi Angelo Piraino, interpellato qualche giorno fa sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, prima di dire che “la magistratura può certamente dare un contributo di carattere tecnico” (posizione ribadita ieri dal segretario dell’Anm Casciaro, anche lui di Mi), ha premesso che “si tratta di scelte discrezionali che competono alla politica”. Un’ovvietà che però qualcuno ha potuto leggere come una distinzione dalla posizione del presidente dell’Anm. Tanto più alla vigilia dell’assemblea sul caso Uss (il russo reclamato dagli Usa fuggito dagli arresti domiciliari, per il quale Nordio ha avviato l’azione disciplinare contro tre giudici di Milano) che ha confermato lo stato d’agitazione senza lo sciopero. Su quella vicenda l’Anm è rimasta ferma e unita nell’accusa al governo di “attentare all’indipendenza della magistratura per ragioni politiche contingenti, allo scopo di superare una impasse diplomatica”. Quanto alle riforme, ci si è limitati a denunciare una “accresciuta preoccupazione per le riforme costituzionali che mirano a modificare l’assetto della magistratura”. Non una parola sull’abuso d’ufficio e le altre modifiche ai codici approvate dal governo e partorite dagli uffici ministeriali dove Nordio ha chiamato a lavorare diverse toghe aderenti a Mi: corrente che ha vinto le ultime elezioni per il Csm e che i colleghi degli altri gruppi sospettano abbia un filo diretto non tanto con il ministro quanto con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Magistrato pure lui, ex deputato e uomo di fiducia della premier Giorgia Meloni per tutto ciò che attiene ai problemi della giustizia. La linea del Piave - Se i sospetti fossero anche solo parzialmente fondati, significherebbe avere una sorta di sponda governativa dentro l’Anm che frenerebbe e limiterebbe l’impatto delle proteste contro le riforme. A cominciare da quelle appena varate. L’annunciata separazione delle carriere è una linea del Piave dove finora si sono attestati anche i “moderati” di Mi. Le prossime mosse diranno se in futuro lo sarà ancora per l’intera magistratura, o solo una parte. Riforma Nordio, ok del cdm. Ma è scontro con le toghe di Simona Musco Il Dubbio, 16 giugno 2023 Scontro a distanza sulla giustizia tra l’Anm e il guardasigilli. Il ministro: “Basta con le interferenze. Primo passaggio per quella che si chiama giustizia giusta”. “Basta con le interferenze”. La riforma della Giustizia non era ancora arrivata sul tavolo di Palazzo Chigi quando già impazzava la polemica tra il ministro Carlo Nordio e l’Associazione nazionale magistrati. Uno scontro duro, a distanza, dopo mesi di tentativi di mediazione, da parte del Guardasigilli, e la costante minaccia di una protesta, da parte delle toghe, forse soltanto rinviata. E così, mentre si attendeva l’inizio del Consiglio dei ministri che ha dato il via libera al ddl Nordio, il presidente del sindacato delle toghe già annunciava l’incostituzionalità delle norme. Cosa prevede la riforma - Il ddl è il “primo passaggio per quella che si chiama giustizia giusta”, ha detto al termine del Consiglio dei ministri Nordio, che ha rivendicato soprattutto l’abolizione dell’abuso d’ufficio, sul quale “ho sentito parecchie inesattezze sul vuoto di tutele che si realizzerebbe e che vuoto non è affatto”. E ciò perché l’Italia ha il più “efficiente” sistema di tutele in Europa anche in fatto di corruzione, ha sottolineato. Giro di vite sulla pubblicazione delle intercettazioni da parte dei giornalisti, che potranno riportare solo i colloqui contenuti nei provvedimenti dei giudici, mentre è previsto lo stralcio, oltre che dei dati personali sensibili, anche di quelli relativi a soggetti diversi dalle parti, a meno che non siano rilevanti per le indagini. L’intervento non è quello che Nordio avrebbe voluto, ma è un punto di partenza, un modo per intervenire in concreto e “tutelare quelle terze persone che a loro insaputa vengono citate nelle conversazione di persone intercettate”, a volte anche strumentalmente, e che ora finiranno nel cono d’ombra della impubblicabilità. Il ddl prevede anche lo stop all’impugnazione delle sentenze di assoluzione, che rimane per i reati più gravi. “Se una persona è già stata assolta - ha spiegato il ministro - è irrazionale che il pm possa appellare”, in nome del principio del ragionevole dubbio. Ma tocca seguire la Corte costituzionale e i limiti imposti in merito alla legge Pecorella, limitando così il campo d’azione della riforma. L’obiettivo è, però, quello di “cambiare la Costituzione”. Ridimensionato il traffico di influenze, mentre sarà un giudice collegiale a decidere la custodia cautelare in carcere, norma che entrerà in vigore tra due anni e enfatizzerà, ha detto Nordio, “la presunzione di innocenza: il carcere deve essere l’eccezione dell’eccezione”. Introdotta una norma che accelera i concorsi e una che prevede l’interrogatorio di garanzia prima della misura cautelare, ma solo in caso di pericolo di reiterazione del reato, mentre tale possibilità è esclusa nei casi in cui si è sotto indagine per gravi reati. Si interviene, poi, sull’avviso di garanzia, mettendo fine allo “sputtanamento” sui giornali. “Non è un bavaglio alla stampa - ha detto Nordio -, ma una enfatizzazione del diritto all’onore, alla riservatezza, alla vita civile, previsti dalla Costituzione”. L’obiettivo, ha concluso il ministro, “è portare a compimento l’idea garantista di uno dei più grandi eroi della Resistenza, il professor Vassalli, il cui codice è stato snaturato”. Nordio ha auspicato anche un contributo in “termini razionali” - e non “emotivi” - da parte delle opposizioni. “Siamo disposti ad ascoltare”, purché le argomentazioni non siano le “vuote formule di estrazione metafisica ascoltate fino adesso, che non significano nulla e nascondono la povertà di idee”. “Finalmente si va nel senso delle garanzie del cittadino e non più, come era stato negli ultimi anni, soltanto a una visione di stampo populista e giustizialista, che metteva sotto i piedi i principi fondamentali sui quali la civiltà giuridica italiana è stata costruita - ha commentato al Dubbio Bartolomeo Romano, consigliere giuridico di Nordio -. Mi riferisco in particolare al rispetto pieno e integrale del principio di legalità, stabilito dall’articolo 25 della Costituzione, con il rispetto della tassatività e determinatezza che non erano minimamente garantiti dai testi previgenti su abuso d’ufficio e traffico di influenze, e anche a una maggiore attenzione e cautela nell’emissione delle misure cautelari, nella pubblicazione di dati sensibili e nel segno di una maggiore tutela della persona sottoposta alle indagini, con una rafforzata conoscenza dei contorni dell’accusa tramite la riforma dell’istituto dell’informazione di garanzia. Ed infine una limitazione all’appellabilità delle sentenze del pm, nel solco delle indicazioni che la Consulta aveva già dato in riferimento alla legge Pecorella”. Secondo Nordio, ad essere patologico non è il rapporto tra politica e toghe in sé, ma il fatto che “molto spesso la politica abbia ceduto alle pressioni della magistratura sulla formazione delle leggi. Non è ammissibile: il magistrato non può criticare le leggi come il politico non può criticare le sentenze”. È il Parlamento a decidere, ha detto ai microfoni di Sky Tg24, prendendo spunto dai molteplici interventi del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, che in varie interviste ha preconizzato l’incostituzionalità della riforma e la sua pericolosità. Nordio non ha risparmiato critiche anche a chi, come Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, ha segnalato come pericolosa l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, utile come “reato spia”. “Mi stupisce che un magistrato parli di reato spia e ammetta che non è servito a nulla perché su 5mila indagini sono state pochissime le condanne - ha proseguito Nordio -. Vorrei insegnare a questo collega che un reato o c’è o non c’è, non è che puoi andare a cercare a strascico qualcosa cercando che sia la spia di un altro reato. La replica di Santalucia - La replica di Santalucia è arrivata a stretto giro: è “inaccettabile”, ha tuonato, quanto detto da Nordio. “Intanto ci troviamo di fronte a disegni di legge e quindi è importante un confronto con chi quelle leggi le applica ogni giorno - ha sottolineato -. Non contestiamo che decida il Parlamento nella sua assoluta sovranità, ma credo che il confronto sia doveroso”, ha detto intervenendo a Metropolis, su Repubblica.it. Poco prima era stato Salvatore Casciaro, segretario generale dell’Anm, a dire la sua: “Non credo si possa parlare di interferenza se i magistrati partecipano al dibattito pubblico sulle riforme, anzi credo sia nostro dovere farlo - ha sottolineato -. Non comprendo questi timori, le forze politiche opereranno ovviamente le scelte che riterranno più opportune, ma fornire degli elementi tecnici di valutazione è un nostro dovere istituzionale”. La mini riforma Nordio. Toghe e penalisti contro di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 16 giugno 2023 Abolito l’abuso d’ufficio e poco altro, il Guardasigilli adesso teme il giudizio della Ue. Tajani: Silvio sarebbe soddisfatto. Critici gli avvocati e le toghe, per il ministro “interferenze”. “Ho spiegato al Commissario Ue Reynders che l’arsenale dell’Italia per combattere gli amministratori infedeli è il più agguerrito d’Europa e la Commissione non deve focalizzarsi solo su una norma ma sull’insieme dell’ordinamento. Su questo si è detto d’accordo”. Il ministro Nordio mette le mani avanti, presentando dopo il Consiglio dei ministri che l’ha approvato, il disegno di legge di (mini) riforma della giustizia. Decisa l’abolizione dell’abuso d’ufficio, è chiaro che adesso il governo teme il giudizio, imminente, dell’Europa. Perché le norme comunitarie così come le convenzioni Onu impongono agli stati di non disarmare la lotta alla corruzione. E i magistrati italiani sono chiari: l’abuso d’ufficio è un reato spia, cancellarlo indebolisce la lotta alla corruzione. Presentando il piccolo pacchetto giustizia che Tajani, moderatore in sala stampa, dedica a Berlusconi (“sarebbe soddisfatto”), Nordio sostiene che le misure sulla segretezza dell’avviso di garanzia e il divieto di pubblicazione delle intercettazioni, non solo quelle che coinvolgono i terzi ma tutte, anche dopo il deposito e fino eventualmente alla fase del dibattimento, “non sono un bavaglio” perché “le intercettazioni hanno raggiunto un livello di imbarbarimento”. Più avanti, assicura, il governo farà di più: “Una radicale trasformazione del sistema postula una revisione del codice di procedura penale”. Ma non solo, anticipando le critiche sulla portata ridotta della riforma il ministro garantisce: “Vogliamo cambiare la Costituzione”, com’è necessario se vorranno separare sul serio le carriere di giudici e pm. Nordio riconosce di avere “un vasto programma”, quello di rispettare a fondo lo spirito accusatorio del codice di procedura penale, “adattando” la Costituzione che non solo sulle carriere, ma anche sulla obbligatorietà dell’azione penale e sull’assetto unitario del Csm va in un’altra direzione. “Lo faremo - promette - entro la metà della legislatura”. Intanto però il governo consegna il disegno di legge al parlamento. “Spero - dice il ministro - che possa essere approvato nel più breve tempo possibile e che le critiche siano razionali”. Il Pd è contrario. Così il M5S. Non Azione, Calenda conferma l’appoggio. Ma “non siamo di fronte a nessuna riforma di largo respiro ma a interventi spot, alcuni dei quali allarmanti”, dice la vicepresidente pd del senato Rossomando. Che sia solo “un primo passo” in realtà lo dice anche la Lega, che in Consiglio dei ministri ha messo da parte le sue riserve anche grazie al clima di omaggio alla memoria a Berlusconi. Il Pd però è preso in contropiede dai suoi sindaci. Come spiega quello di Milano Beppe Sala: “Suggerisco al Pd di non scagliarsi contro, perché tutti i suoi sindaci, e parlo di sindaci con la tessera del Pd, sono convinti che si debba mettere mano all’abuso d’ufficio”. Mettere mano, ma non abolire del tutto, come prova ad argomentare il primo cittadino di Bari e presidente dell’Anc Decaro: “Non abbiamo mai chiesto impunità, solo di avere certezze”. Ma il sindaco anche lui Pd di Pesaro Ricci non ci gira attorno: “L’abolizione è un fato positivo ed è una battaglia vinta dai sindaci italiani”. Il ministro riceve l’appoggio (imbarazzante?) dell’ex presidente dell’Anm motore dello scandalo al Csm, Palamara, per il quale “la riforma Nordio è coerente e coraggiosa”. Con l’Anm di oggi invece il ministro continua il suo braccio di ferro. Non gli sono piaciute le critiche del presidente dell’associazione magistrati Santalucia. “Il magistrato non può criticare le leggi - proclama -, noi ascoltiamo tutti ma poi è il governo che propone e il parlamento che dispone, questa è la democrazia e non sono ammesse interferenze”. Replica questa volta il segretario dell’Anm, Casciaro, toga moderata: “Non si può parlare di interferenza se i magistrati partecipano al dibattito pubblico”. Intanto però neanche il giudizio degli avvocati è tutto positivo. “Apprezziamo alcuni primi passi. Molto positivo il divieto di impugnazione delle sentenze di assoluzione, ancorché limitato - dice l’Unione delle camere penali - del tutto deludente invece l’intervento sulle intercettazioni: eluso il tema cruciale dell’abuso dello strumento e la sanzione per la pubblicazione rimane irrisoria”. Gli avvocati penalisti trovano poi un difetto anche nelle norme con le quali Nordio vuole contenere il ricorso alle misure cautelari, in particolare al carcere preventivo, che in teoria apprezzano: “A prescindere dalle preoccupazioni circa la sostenibilità di questa innovazione in termini di organici - scrivono - lascia perplessi la formazione di compagini collegiali costituite da giudici strutturalmente e culturalmente monocratici quali sono i gip”. Preoccupazioni operative in fondo non troppo diverse di quelle dei magistrati. Può avere futuro il garantismo modello Nordio? Tre idee per ragionare di Claudio Cerasa Il Foglio, 16 giugno 2023 Meno gogna, più stato di diritto. La vera battaglia contro il populismo oggi passa da qui: dire no a una Repubblica giudiziaria fondata sulla cultura della gogna. Ora lo sanno anche i sindaci del Partito democratico. Ci sono almeno tre motivi diversi per seguire con molta attenzione il destino della riforma della giustizia annunciata ieri dal ministro Carlo Nordio. Un primo motivo riguarda il merito. Un secondo motivo riguarda il metodo. Un terzo motivo riguarda l’effetto. Sul merito politico la questione è fin troppo chiara. E immaginare che il governo possa portare avanti un pacchetto formato da una revisione del reato dell’abuso di ufficio, da una correzione della norma sulle intercettazioni e da un intervento sul sistema che regolamenta la carcerazione preventiva dovrebbe suscitare un orgasmo politico a tutti coloro che sognano di avere un giorno un’Italia governata più dalla presunzione di innocenza che dalla presunzione di colpevolezza. Un’Italia, cioè, sensibile più allo stato di diritto che alla cultura della gogna. Ci possono essere dubbi sul fatto che un reato idiota come l’abuso d’ufficio, un reato che si trasforma in un rinvio a giudizio solo nell’uno per cento dei casi, che tende a paralizzare l’attività amministrativa dei comuni e che è ormai divenuto uno strumento finalizzato a offrire ai magistrati più ideologizzati un’ennesima occasione per esercitare il proprio potere discrezionale, debba essere rivisto con urgenza, anche per contrastare l’idea che l’immobilismo debba essere necessariamente l’unica forma di legalità consentita in Italia? Ci possono essere dubbi sul fatto che vietare una pratica odiosa come la trascrizione nei brogliacci giudiziari delle intercettazioni tra persone non indagate, una pratica la cui esistenza è giustificata solo dalla volontà dei magistrati di offrire ai cronisti elementi penalmente irrilevanti per montare la panna attorno a indagini evidentemente a corto di ciccia, sia non un cedimento alla cultura del bavaglio ma una riaffermazione del diritto di un cittadino di vivere in un paese non dominato dal metodo Stasi? E, infine, ci possono essere dubbi sul fatto che intervenire sugli abusi della carcerazione preventiva, portando il numero di giudici necessari a valutare la legittimità di questa misura, da uno a tre, sia non un cedimento alla cultura innocentista ma un tentativo di rendere non sistematica, non automatica, una pratica che dovrebbe essere rara, eccezionale, e che invece, dai tempi di Tangentopoli, è divenuta una semplice prassi, in devozione all’idea che sbattere in carcere qualcuno senza un processo possa essere un modo utile per costringere un indagato a dire a un magistrato quello che un magistrato vuole sentirsi dire per poter avere le prove che gli mancano per poter costruire il suo castello di carte? Il merito politico della riforma Nordio, se mai prenderà forma, ci dice che il fatto che questo provvedimento sia stato trasformato dalla sinistra in una riforma di destra è l’ennesimo segnale di un problema che il fronte alternativo a Meloni & Co. sembra voler ignorare. Un segnale che somiglia a un rischio: continuare a regalare alla destra battaglie di buon senso che la destra di governo sta rosicchiando via dall’agenda degli avversari. E qui arriviamo al secondo punto del nostro ragionamento che riguarda il metodo strategico veicolato da questa riforma. Si è detto a lungo in questi mesi che la destra italiana avrebbe messo in campo una serie di misure finalizzate a dividere atrocemente il paese. Ma il caso della riforma della giustizia è lì a dimostrarci che almeno finora molti provvedimenti portati avanti dalla maggioranza hanno contribuito a dividere molto l’opposizione e poco l’Italia. Ha diviso l’opposizione la linea atlantista sull’Ucraina (il M5s sogna un referendum per smettere di inviare armi a Zelensky: potremmo chiamarlo il M5z, in ossequio all’agenda Putin). Ha diviso l’opposizione la linea sull’immigrazione (l’ex ministro del Pd Marco Minniti ha elogiato il governo per aver votato il patto europeo sui migranti andando contro gli interessi dell’Ungheria e della Polonia). Ha diviso l’opposizione la linea sulla Rai (il M5z, astenendosi in cda, ha consentito di far passare il pacchetto delle nomine voluto dal nuovo ad Roberto Sergio). Ha diviso l’opposizione anche sulla surrogata (il Pd è così in difficoltà su questo tema che la segretaria ha scelto di rifiutare nelle interviste ogni domanda su questo dossier). E sta dividendo l’opposizione anche sul tema della giustizia, considerando il numero di sindaci del Pd andati “in pellegrinaggio” da Nordio, come ci ha confessato lo stesso Nordio sabato scorso alla Festa dell’Innovazione del Foglio, per chiedere al governo di andare avanti sul tema dell’abuso d’ufficio. E considerando il fatto che un pezzo di opposizione (il Terzo polo, nel frattempo diventato quarto o quinto polo) ha già annunciato giustamente che voterà a favore di questa riforma e che la stragrande maggioranza dei parlamentari e dei senatori del Pd lo farebbe se non fosse terrorizzata dall’idea ridicola di non lasciare il tema del giustizialismo solo al M5z (i governi si possono combattere anche sfidandoli a fare davvero le cose sagge che hanno promesso di fare). E qui arriviamo al terzo punto del nostro piccolo ragionamento che ha un suo sapore per così dire culturale (scusate la parola). Il fronte politico ed editoriale che in questi mesi ha scelto di combattere Meloni facendo leva sull’antifascismo ha scelto di denunciare ogni presunta svolta illiberale della maggioranza di governo rivendicando la necessità di essere inflessibili contro ogni forma di populismo, contro ogni tentata svolta autoritaria, contro ogni deriva politica caratterizzata dalla volontà di declinare i pieni poteri. Curiosamente però quando la politica sceglie di riappropriarsi dei suoi spazi andando a riequilibrare il rapporto tra potere giudiziario e potere legislativo gli stessi inflessibili anti populisti considerano molto populista fare tutto il possibile per evitare che vi sia un’Italia dominata da una magistratura fuori controllo, abituata a surfare sulla cultura della gogna per utilizzare al meglio i pieni poteri che le vengono offerti da una politica che in questi anni ha accettato di non ribellarsi alla vergognosa trasformazione dell’Italia da Repubblica democratica fondata sul lavoro degli italiani a Repubblica giudiziaria fondata sul lavoro delle procure. Con ottimismo, il ministro Nordio sabato scorso ci ha detto che un suo obiettivo è promuovere una nuova egemonia in Italia: quella garantista. E il fatto che vi possano essere dubbi sull’idea che combattere contro i pieni poteri della Repubblica fondata sulle manette sia solo un atto di buon senso e non una svolta autoritaria della destra ci dice molto su cosa sia diventata una parte d’opposizione in Italia, sia quella politica sia quella editoriale. Un’opposizione mossa dal desiderio di inventare pericoli che non esistono trascurando di combattere pericoli che esistono. Meno gogna, più stato di diritto. La vera battaglia contro il populismo oggi passa da qui: dire no a una Repubblica giudiziaria fondata più sulla cultura della gogna che sullo stato di diritto. Schlein contro Nordio, ma i sindaci dem festeggiano la riforma di Errico Novi Il Dubbio, 16 giugno 2023 Alla fine Elly Schlein prova a cavarsela con un dribbling strettissimo. Forse troppo: “Sì alla riforma dell’abuso d’ufficio, no all’abrogazione”. Un compromesso politico-comunicativo inventato dalla segretaria per attenuare lo strappo con i sindaci dem registrato poche ore prima. Perché da Beppe Sala a Matteo Ricci, da Milano a Pesaro fino a Bari, la folta prima linea degli amministratori democrat addirittura esulta per l’intervento del guardasigilli, per il tratto di penna che cancella l’abuso d’ufficio. Non solo. Perché l’”indipendente” sindaco di Milano Sala è esplicito nel criticare la posizione negativa ribadita, sul ddl Nordio, già ieri mattina di ieri dai vertici del Nazareno: “Il Pd non si scagli contro l’intervento sull’abuso d’ufficio, meglio guardare al tema in maniera non ideologica”, consiglia Sala, “tutti i sindaci dem sono convinti ci si dovesse mettere mano, e hanno la tessera del partito...”. E cosi Elly si trova a scegliere quella formula intermedia, un po’ pasticciata. Perché sì, abrogare, come ha fatto ieri Nordio, è altra cosa dal riformare, ma è anche vero che proprio la “riforma” del 2020 targata Conte del 2020 aveva dimostrato quanto sia vano sforzarsi di circoscrivere l’articolo 323 del codice penale, di limitare la perseguibilità dell’abuso d’ufficiuo. Esercizio un po’ pretestuoso, perché tanto basta un esposto e le indagini si aprono lo stesso, l’avviso di garanzia puntualmente arriva e anche se quasi mai si arriva a condanna comunque il colpo all’immagine (e alla serenità) dell’amministratore è ormai bello che dato. E già un quadretto simile significa tenere paralizzati i decisori politici. Assurdo, in tempi di Pnrr. Poi è chiaro che c’è anche la comunicazione. Così Schlein, oltre a quel distinguo tra abrogazione e modifica, dice anche un’altra cosa, al limite dell’anatema: “Preoccupa che si usi la morte di Berlusconi per soluzioni sbilanciate”. Accusa grave, che fa segnare alla leader dem un punto nella polemica a distanza col governo. Ma prima ancora che gliele rivolga Nordio, gli arrivano repliche stizzite da vari esponenti del centrodestra: l’azzurro Pietro Pittalis ad esempio le rinfaccia “dichiarazioni strumentali, che hanno il solo obiettivo di andare contro la maggioranza”. Difficile d’altronde immaginare una situazione che potesse far emergere più sfacciatamente l’imbarazzo del Nazareno nell’affrancarsi dal tic giustizialista, e dall’eterno terrore di vedersi epurati dal più puro di turno. Nello specifico, ovvio che lo spauracchio abbia i tratti suadenti ma spietati di Giuseppe Conte, che sulla giustizia non smette di recitare il vecchio e comodo copione 5 stelle: “La riforma introdurrà nuovi spazi di impunità, indebolendo i presìdi contro la corruzione, oltre a colpire il diritto all’informazione: abolendo l’abuso d’ufficio e limitando altri strumenti contro il malaffare si dimostra di non avere a cuore la tutela della legalità e del diritto alla giustizia”. In queste condizioni, Walter Verini diventa intransigente e si dice “molto preoccupato per l’abolizione dell’abuso d’ufficio: già oggi è ridotto all’osso, ma rappresenta quello che si chiama reato-spia per altri ben più gravi contro la Pa”. È la linea Gratteri, quella appunto dell’abuso d’ufficio come rete a strascico per andare a vedere se c’è qualcos’altro, logica demolita proprio da Nordio nelle dichiarazioni di ieri. Verini, sempre in sintonia con Conte, si dice preoccupato anche per le “intercettazioni” e il “diritto all’informazione”. Alfredo Bazoli, altra figura attendibile del Pd sulla giustizia, parla di “proposta modesta, che contiene alcune gravi scelte, come l’abolizione integrale dell’abuso d’ufficio, grave perché si butta via il bambino insieme all’acqua sporca”. Ma sono posizioni imbarazzanti, se si pensa a cosa sostengono i primi cittadini del Pd. Valga per tutti la dichiarazione del loro coordinatore, il sindaco di Pesaro Matteo Ricci: “Sono 10 anni che tutti i primi cittadini italiani chiedono la revisione dell’abuso d’ufficio. Il 98% dei procedimenti viene archiviato o c’è una assoluzione: c’è evidentemente qualcosa che non va nella formulazione stessa del reato. Nel frattempo prevale la paura per qualsiasi atto che si firma o si vota. A noi bastava la revisione del reato, il ministro Nordio ha deciso di abrogarlo. Lo riteniamo un fatto positivo e una battaglia vinta dai sindaci italiani”. Battaglia vinta. Con l’abrogazione. Un colpo di lama sanguinosissimo per Schlein. Il governatore pugliese Michele Emiliano, più “indipendente” di Sala ma più intraneo alla sinistra, usa l’ironia: “L’abuso d’ufficio è una norma che punisce l’illegittimità di un atto amministrativo, una fattispecie abbastanza indeterminata, tanto che si dice “un processo per abuso d’ufficio non si nega a nessuno”, l’avrebbe avuto anche San Francesco...”. Ma non è solo una questione di distonia interna. Il Pd deve temere l’appiattimento sui 5S anche alla luce delle dichiarazioni di tutt’altro segno, fortissime, con cui Calenda annuncia, udite udite, il sì formale di Azione alla riforma della giustizia: “La sosterremo, è di buon senso, i contenuti sono anche in una proposta di legge che abbiamo fatto con Enrico Costa: abolire l’abuso d’ufficio è giusto, così come credo sia giusto che se bisogna mandare in galera una persona sottoposta a indagine, e non condannata, decidano tre giudici e non uno solo”. E ancora: “È una riforma garantista, altro che anticostituzionale: lo Stato di diritto si sostanzia nel garantismo. Questa riforma serve a dare più libertà ai sindaci, è per questo che i sindaci del Pd stanno chiesto di appoggiarla nella parte che riguarda l’abuso d’ufficio”. Senza considerare chi come Raffaello Magi, segretario di +Europa, va oltre: “Alcuni punti della riforma della giustizia sono condivisibili: si sarebbe potuto fare meglio sull’abuso d’ufficio rendendolo illecito amministrativo anziché reato, ma condividiamo la limitazione alla diffusione delle intercettazioni. Manca la volontà politica di affrontare il grande tema di una riforma vera: la separazione delle carriere”. Riforma Nordio, il Cnf: “Un passo avanti per le garanzie” di Simona Musco Il Dubbio, 16 giugno 2023 Ollà: “Abolire l’abuso d’ufficio una scelta coraggiosa”. Importante la modifica sulle intercettazioni, ma manca un intervento sui limiti alle impugnazioni. L’Ucpi: “Un segnale importante ma timido”. E i penalisti rilanciano la separazione delle carriere e la prescrizione. Esultano Sisto, Ostellari e Bongiorno. Un rafforzamento delle garanzie degli indagati. È così che il Consiglio nazionale forense sintetizza il pacchetto di norme penali targato Carlo Nordio presentato ieri in Consiglio dei ministri. Ad intervenire per il massimo organo dell’avvocatura è Giovanna Ollà, consigliera segretaria del Cnf, che parte dall’abrogazione dell’abuso d’ufficio, una scelta “coraggiosa” dopo decine di modifiche che non hanno ridotto il divario tra iscrizioni e condanne e il cui “effetto “deterrente” è stato in buona sostanza la burocratizzazione dell’attività della pubblica amministrazione e il timore dei funzionari davanti alla firma di atti di natura provvedimentale”. Se è vero che “non si deve rinunciare all’affermazione di un generale principio di buon andamento della Pa”, evidenzia Ollà, la soluzione “non può essere ricercata all’interno del sistema penale”. La segretaria del Cnf si dice anche favorevole alle nuove misure relative alle intercettazioni, che tutelano i terzi estranei alle indagini, salvo che non sia indispensabile a fini investigativi. “L’auspicio è che ovviamente detta clausola di riserva non si traduca, nella applicazione pratica, nell’elusione sistematica della norma di tutela”, evidenzia. Ma non solo: anche le nuove norme sull’avviso di garanzia sono positive, in quanto mettono “il soggetto indagato nelle condizioni di difendersi con maggiore cognizione già nella fase delle indagini preliminari magari attraverso il ricorso alle investigazioni difensive”. Giudizio positivo anche sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, tranne che per “la limitazione ai soli reati a citazione diretta. Sarebbe stato opportuno estendere la garanzia a tutti i reati e non creare un doppio binario”, spiega ancora Ollà, convinta anche della validità di optare per l’interrogatorio anticipato. Un pacchetto, insomma, che rappresenta “un importante passo avanti sul terreno delle garanzie”, anche se di lavoro da fare ce n’è ancora. Soprattutto, sempre in ambito di impugnazioni, “come più volte segnalato dal Cnf nel corso delle audizioni parlamentari sulla riforma del processo penale, occorre rimuovere i limiti alla possibilità di accedere alle impugnazioni determinati dalla necessità di rilascio di ulteriore procura e dichiarazione di elezione di domicilio dopo il provvedimento contro il quale si intende proporre ricorso - ha concluso -. Un adempimento di natura sostanzialmente burocratica che tuttavia esclude dalla tutela, rappresentata dalla possibilità di ottenere una revisione della pronuncia, a tutti quei soggetti che non hanno possibilità di contatto con il difensore”. Un elemento, quest’ultimo, evidenziato anche dall’Unione delle Camere penali, secondo cui il mancato intervento sulle impugnazioni difensive, promesso dal ministro ai penalisti, danneggia soprattutto i soggetti più deboli, “che spesso non hanno la materiale possibilità di sottoscrivere il nuovo mandato ad impugnare”. Il giudizio dei penalisti sul pacchetto Nordio non è entusiastico: se da un lato vengono compiuti “primi passi” importanti sulla strada verso il rafforzamento delle garanzie, altri aspetti - come il capitolo relativo alle intercettazioni - sono “del tutto deludenti”. Le nuove riforme, a partire dall’interrogatorio preventivo, rappresentano infatti il “segno di una concreta attenzione al tema della libertà personale e dell’abuso della custodia cautelare”. Ma tale modifica del codice rappresenta un’eccezione, dal momento che vengono esclusi i reati di maggiore allarme sociale ed è limitata, per il resto, alla sola esigenza cautelare del pericolo di reiterazione del reato. Un segnale importante, dunque, ma “timido”, secondo la giunta dell’Ucpi. Positiva anche l’idea di un organo collegiale per quanto riguarda la misura cautelare del carcere, anche se rimane, da parte dei penalisti, la perplessità circa la “prospettiva di formazione artificiosa di compagini collegiali costituite da giudici strutturalmente e culturalmente monocratici quali sono i gip”. E se nulla c’è da ridire sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, a non piacere con certezza è l’intervento solo sulla pubblicabilità delle intercettazioni senza intervenire sul problema principale: “La sanzione di quei divieti, che rimane irrisoria e dunque di fatto inesistente. Del tutto elusi, invece, i temi cruciali della questione: abuso dello strumento, ancor di più con riguardo alle conversazioni tra assistito e difensore”. Manca, infine, l’intervento sui temi più sentiti dai penalisti: separazione delle carriere, prescrizione ed ordinamento giudiziario, temi, questi, al momento rimasti nel cassetto del ministro. Si tratta di una riforma nel nome di Silvio Berlusconi, ha chiarito il viceministro Francesco Paolo Sisto, che ha ricordato la battaglia dell’ex presidente del Consiglio in tema di giustizia e secondo cui l’obiettivo “è fare del processo un luogo di accertamento della verità, non strumento di ricerca di un colpevole - ha detto a “Radio anch’io” -. Il catastrofismo di certa magistratura non ci interessa. Ascolto di tutti e confronto con tutti: ma poi il Parlamento ha il dovere di decidere, senza veti da parte di chicchessia”. Ad esultare è anche il sottosegretario Andrea Ostellari, che parla di una “nuova stagione per la giustizia italiana” che rimette al centro “i cittadini e le necessarie garanzie”. Il prossimo passo sarà una riforma che ridisegni in maniera complessiva “non solo il perimetro dei reati contro la Pa, senza lasciare zone d’ombra, ma consenta anche di superare gli errori del passato”. Un entusiasmo condiviso, in casa Lega, con la responsabile Giustizia e presidente della Commissione Giustizia in Senato Giulia Bongiorno, che parla di provvedimento “ispirato al garantismo, alla tutela della riservatezza e al recupero dell’efficienza del sistema”. E a chi teme vuoti di tutela per l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, la penalista risponde rassicurando tutti: le riforme non sono finite, presto si metterà mano all’intera gamma di reati contro la Pubblica amministrazione. Tutelati soltanto i colletti bianchi di Paolo Colonnello La Stampa, 16 giugno 2023 Se effettivamente il rimpianto per l’abolizione dell’abuso d’ufficio deciso dal Guardasigilli Nordio può ben dirsi minimo, trattandosi di un cosiddetto reato “grimaldello” spesso paralizzante per le attività delle pubbliche amministrazioni (in fondo Silvio Berlusconi abolì il ben più grave falso in bilancio, anticamera della bancarotta fraudolenta), il resto dell’impianto della riforma varata ieri dal Consiglio dei ministri giusto all’indomani dell’addio al defunto leader di Forza Italia, lascia non poche perplessità. Da una parte, infatti, introduce una pericolosa disparità di trattamento tra colletti bianchi e tutti gli altri, e dall’altra riduce ulteriormente il perimetro di controllo democratico della cronaca sugli atti giudiziari, che non è un capriccio voyeuristico dei giornalisti ma un diritto costituzionalmente garantito e regolato da norme deontologiche e leggi severe. L’aspetto più eclatante lo si rileva alla voce “collegialità e misure cautelari”, che introduce ben due ordini di problemi. Il primo è relativo al cosiddetto principio del “contraddittorio preventivo”: d’ora in poi l’indagato, prima di essere arrestato, dovrà essere convocato dal giudice che, dopo avergli inviato tutti gli atti, lo interrogherà alla presenza del difensore e poi deciderà se arrestarlo oppure no: bellissimo. Peccato che non funzioni per tutti. Funzionerà ad esempio, e solo talvolta, per chi è accusato di corruzione o concussione, reati per i quali la flagranza è quasi impossibile. Non funzionerà per il ladruncolo del supermercato, che magari che ha provato a scappare e a buttar via la refurtiva, dimostrando sia il pericolo di fuga che l’inquinamento probatorio, due delle circostanze per le quali non è più possibile la “previsione di contraddittorio” di cui sopra. E se c’è la possibilità di reiterazione del reato, per esempio violento, allora non si discute: scattano le manette. Ma se il discrimine sono i soliti tre elementi che determinano già oggi un arresto, ovvero inquinamento probatorio, pericolo di fuga e reiterazione del reato, quale sarà la differenza con prima? Che chi potrà permettersi un buon avvocato si siederà davanti al giudice per poi evitare quasi sicuramente l’arresto, chi non potrà, andrà in carcere come al solito. Il secondo aspetto invece riguarda l’istituzione di un collegio di tre giudici che dovrà decidere l’eventuale provvedimento di arresto o carcerazione, compito che oggi spetta al solo giudice monocratico. Nei piccoli tribunali, che già faticano a fronteggiare la normale amministrazione, sarà praticamente impossibile fare arresti, poiché i tre giudici che decidono una misura cautelare non potranno partecipare ovviamente ad altri gradi di giudizio, pena la ricusazione. Per i tribunali più grandi sarà comunque un problema. E i 250 nuovi giudici previsti da Nordio, nonché il differimento della norma di due anni, non basteranno davanti a un vuoto di organici già ora pari a mille unità in tutt’Italia. Il che porta la nuova legge direttamente nel limbo dei sogni neanche tanto belli ma soprattutto irrealizzabili. Oppure già realizzati ma rivestiti di nuove e più barocche forme. Infine le intercettazioni che escludono dalla pubblicazione “il terzo estraneo”, cioè chi finisce in un brogliaccio senza essere indagato. A deciderne la rilevanza però sarà ancora il giudice che dovrà depositare gli atti, anche se con tutte le cautele del caso. Cosa cambia? Poco o nulla. Se non che per i giornalisti sarà ancora più difficile pubblicare e raccontare ciò che non sempre appare negli atti depositati. Con buona pace di inchieste come quelle delle violenze alla questura di Verona e di quell’equilibrio tra diritto di cronaca e diritto alla privacy indispensabile per una sana democrazia. Il cosiddetto “avviso di arresto” è una gran riforma. Ecco perché di Maurizio Crippa Il Foglio, 16 giugno 2023 La riforma della procedura sulle norme cautelari è da festeggiare perché concede agli indagati il tempo necessario per chiarire la propria posizione. Ciò che non accadde con Silvio Scaglia, arrestato e detenuto nel 2010 per 363 giorni da innocente. Il 23 febbraio 2010 il gip di Roma ordinò la custodia cautelare per Silvio Scaglia, ormai da tre anni non più manager di Fastweb, con l’accusa di “associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale” nell’ambito di un’inchiesta rivelatasi poi uno dei più colossali flop della magistratura inquirente, “Fastweb-Telecom Italia Sparkle”. Scaglia da tempo lavorava all’estero, concordò tramite i suoi legali un interrogatorio e rientrò il 27 febbraio. Nonostante ciò, venne arrestato e detenuto per 363 giorni (tre mesi in carcere più i domiciliari). Eppure non esisteva pericolo di fuga, era tornato spontaneamente, né di manomettere carte non più nella sua disponibilità. Subì una detenzione contro ogni civiltà e giurisprudenza. Che sia stato assolto con formula piena, non serve nemmeno ricordarlo. La vicenda di Scaglia serve però a spiegare quanto sia garantista e di buon senso la riforma di un aspetto della procedura penale che i tagliagole chiamano sprezzanti “avviso di arresto”. E quanto sia invece un obbrobrio del diritto l’invereconda dichiarazione del presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, secondo cui “è forte il rischio che si assume l’ordinamento. Se domani dovessero chiamarmi e dirmi che mi devono interrogare perché il pm ha chiesto la cattura, e resto a piede libero sino a quando i tre giudici non decidono, il pericolo che mi dia alla fuga è più reale”. Scaglia non si era dato alla fuga, e la sparata di Santalucia fa il paio col brocardo vergognoso di Davigo, “non esistano innocenti”, l’abisso del sospetto. Esistono invece migliaia di innocenti arrestati senza motivo reale, e per reati che non necessitano detenzione. “Guardia di Finanza, apra subito. Cinque del mattino. La voce dal citofono mi scuote mentre sono ancora immerso nello spaesamento del dormiveglia”. Inizia così un altro drammatico racconto, quello di Mario Rossetti, altro manager Fastweb, che fu arrestato all’alba e anche in questo caso senza nessun motivo di gravità, urgenza e necessità. Quattro mesi di carcere, prima della ovvia assoluzione dopo anni di processo. Ne ha scritto nel libro “Io non avevo l’avvocato”. Ma avere l’avvocato o meno, nell’Italia dei soprusi procedurali, non fa poi differenza. E’ per questo che tra le norme della riforma della Giustizia del ministro Carlo Nordio ce n’è una di palmare validità: quella che obbliga il gip a procedere all’interrogatorio dell’indagato, prima di decidere sulla richiesta di misura cautelare del pm, notificando l’invito a comparire “almeno cinque giorni prima”. Nelle “modifiche in tema di misure cautelari: a) estensione del contraddittorio preventivo” si legge: “Si introduce il principio del contraddittorio preventivo in tutti i casi in cui, nel corso delle indagini preliminari, non risulti necessario che il provvedimento cautelare sia adottato ‘a sorpresa’. In tal modo, quindi, ove consentito dalle concrete circostanze, si evita l’effetto dirompente sulla vita delle persone di un intervento cautelare adottato senza possibilità di difesa preventiva”. Questa perfino banale norma garantista è ovviamente riservata ai casi che escludano gravità e urgenza e in tutti i casi in cui “l’intervento cautelare si appalesi indifferibile”. E’ valida insomma solo per i reati amministrativi o di ambito economico che i manettari chiamano “dei colletti bianchi” e che invece, trattandosi di reati di carte, nella maggior parte dei casi richiedono il tempo necessario al comune cittadino per produrle. Santalucia dovrebbe avere la decenza di spiegare per quale motivo il pericolo di fuga sarebbe “più reale”. C’è anche un’altra norma, prevede che sulle richieste di custodia in carcere sia un collegio di tre giudici a decidere, non più uno solo. Non c’è bisogno di ricordare i (ne)fasti di Italo Ghitti per spiegare il valore di una simile norma. Chiunque riconosca la necessità di una giustizia più funzionale e meno soggetta all’arbitrio non può che rallegrarsi per tali riforme, che provano a mettere gli indagati (presunti innocenti) al riparo anche della arbitrarietà dell’applicazione delle norme di procedura. I casi sono migliaia, ma nell’imminenza del trentennale si è tornati a parlare in questi giorni di uno che ha segnato tragicamente la storia italiana, il suicidio di Raul Gardini, 23 luglio 1993. Gardini aveva saputo dal 16 luglio che esisteva un mandato di arresto per l’inchiesta Enimont. Aveva chiesto più volte di essere ascoltato, evitando se possibile (come avvenne per altri manager), un arresto non motivato. Che era però la prassi abusiva su cui si confezionò Mani pulite. La convocazione non avvenne, lo lasciarono crogiolare. “In più occasioni Di Pietro racconterà che la mancanza di tempestività nell’arrestare Gardini è stato uno dei grandi errori della sua vita”. Per chi volesse rinfrescare la memoria, la vicenda è ben riassunta da Filippo Facci in La guerra dei trent’anni. “Ma voleva arrestarlo o no?”, gli chiese anni dopo un cronista del Corriere. “Con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità”. Possono davvero la giustizia e le garanzie dipendere da queste oscillazioni di gusto dell’inquisitore? La riforma della procedura sulle norme cautelari è da festeggiare. Albamonte sulla riforma Nordio: “Intercettazioni limitate perché l’opinione pubblica non sia informata” di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 16 giugno 2023 L’ex presidente dell’Anm boccia la riforma della Giustizia: “Il ministro si era impegnato a discuterne con noi magistrati, ma l’omaggio a Berlusconi ha impresso un’accelerata precipitosa”. Eugenio Albamonte, segretario di Area ed ex presidente dell’associazione nazionale magistrati, boccia la riforma Nordio da ogni punto di vista. Per il metodo: “Il ministro ha impresso un’accelerata precipitosa per celebrare la scomparsa di Silvio Berlusconi, dimenticando l’impegno a interloquire con i magistrati”. E nel merito. Dottor Albamonte, partiamo dalla nuova stretta alle intercettazioni... “La riforma limita il diritto dell’opinione pubblica di conoscere fatti oggetto dei procedimenti. Questo è l’unico obiettivo evidente del doppio divieto di inserire il nome di terze persone negli atti del pm e del giudice e di pubblicare le intercettazioni che non sono in quegli atti”. Non è un tentativo, come spiegato dal governo, di limitare la corsa al gossip? “No. La corsa al gossip era già stata limitata dalla riforma Orlando. Infatti il garante della privacy, in commissione Giustizia al Senato, solo pochi mesi fa, ha dichiarato di non aver registrato alcun caso di pubblicazione di intercettazione relative a terze persone”. Non salva nessun aspetto? “Nessuno. Si impedisce agli organi di informazione di svolgere il loro doppio ruolo di informare l’opinione pubblica e di essere il cane da guardia del potere nell’esercizio delle sue funzioni”. Dell’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, cosa pensa? “Un intervento che sicuramente sarà oggetto di procedura di infrazione da parte dell’Unione europea. In un settore nevralgico in cui l’Italia è osservata speciale, cioè quello delle condotte illegali nella pubblica amministrazione, eliminare il reato porterà a ritenere il nostro sistema non più allineato agli standard richiesti”. Tuttavia i numeri del 2021 riferiscono di una sproporzione netta tra procedimenti per questo reato e condanne: non bisogna intervenire sul rischio che la paura di essere sottoposti a indagini paralizzi gli uffici? “La sproporzione tra indagini e condanne è dovuto ai continui interventi del Parlamento per salvare le condotte illecite. Si realizza la stretta, poi si dice che la norma non serve e quindi la si elimina. Ma il reato di abuso d’ufficio era un campanello d’allarme rispetto al reato di corruzione. Riguardo al rendere più veloci gli iter, la regola per questo governo sembra essere: se si fatica a spendere, allentiamo i controlli. L’abbiamo visto già con la norma che elimina i controlli concomitanti della Corte dei conti. Pur di spendere va bene tutto? Anche generare sperpero e illegalità, alimentando il crimine organizzato? Anche qui, dubito che l’Europa sarà contenta”. Un altro tema: la limitazione della custodia cautelare... “Sulle misure cautelari aver disposto che siano anticipate da un interrogatorio in cui si comunica l’intenzione di arrestare è paradossale. Una norma “si salvi chi può”: chi viene avvertito, avrà tutto il tempo di inquinare le prove o di fuggire, cioè le eventualità che la custodia cautelare dovrebbe scongiurare. Decidere poi di affidare a un collegio, anziché a un giudice solo, l’istanza, metterà in difficoltà gli uffici di città medie e piccole: dove i giudici che fanno penale sono in 4, dopo che in tre avranno disposto la misura, chi si occuperà delle fasi successive?”. Taranto. Dramma in carcere, detenuto cosentino si toglie la vita di Matteo Lauria cosenzachannel.it, 16 giugno 2023 Gli agenti della polizia penitenziaria lo hanno trovato impiccato nella sua cella, dove era stato recluso dallo scorso mese di marzo. Aveva reso dichiarazioni e poi aveva ritrattato. Il detenuto, di 33 anni, si sarebbe suicidato nel carcere di Taranto. Proprio ieri era stato interrogato nuovamente dai pubblici ministeri dopo aver ritrattato le sue precedenti dichiarazioni. Nel resoconto degli ultimi due interrogatori, svolti in carcere, erano stati esaminati i verbali relativi al coriglianese Francesco Cufone. Il giovane era stato arrestato il 6 dicembre dello scorso anno in seguito a un’indagine condotta dalla Procura distrettuale Antimafia di Catanzaro, diretta da Nicola Gratteri. Cufone e altri di Corigliano erano stati arrestati nello stesso giorno per il possesso e il traffico di cocaina, nonché per l’occultata di un arsenale di armi. Stamattina, poco prima del tragico gesto, aveva parlato con la sua compagna al telefono. Nel tardo mattino di oggi, il gesto estremo. Gli agenti della polizia penitenziaria lo hanno trovato impiccato nella sua cella a Taranto, dove era stato detenuto dallo scorso mese di marzo. Si è suicidato poco dopo aver parlato con la sua compagna al telefono. Cufone lascia due figli, avuti dalla sua ex moglie, da cui era legalmente separato. L’indagine della Procura Antimafia - Cufone era accusato di occultamento di armi, tra cui la cosiddetta “Santabarbara”, insieme ad altri complici. I carabinieri del Reparto territoriale hanno scoperto il nascondiglio all’interno di un casolare abbandonato nella contrada Fabrizio di Corigliano-Rossano nei primi giorni di agosto dell’anno scorso. Nell’arsenale sono state rinvenute anche una pistola e una mitraglietta calibro 7,65, utilizzate per l’omicidio di Pasquale Aquino, un pregiudicato di 57 anni soprannominato ‘U spusato, avvenuto il 3 maggio precedente in un agguato mafioso nei pressi della sua abitazione alla Marina di Schiavonea di Corigliano-Rossano. Attualmente, cinque persone sono indagate per questo omicidio, e alcune sono coinvolte anche nel tentato omicidio di un altro pregiudicato locale, Cosimo Marchese, soprannominato “Il diavolo”, che è stato vittima di un attentato a colpi di fucile caricato a pallini (anche quest’arma fa parte dell’arsenale) la sera del successivo 1° giugno. La giustizia aiuta la pace di Francesco Rigatelli La Stampa, 16 giugno 2023 Un dibattito per gli 80 anni di Gustavo Zagrebelsky su diritto e letteratura, giornalismo e impegno civile, valore dell’amicizia e passione per la musica. Nella Bibbia la parola giustizia ha un significato più ampio che nel diritto romano. È la rettitudine morale, la conformità alla volontà del Signore, e per alcuni significa essere amico di Dio. E questo sarebbe anche il ruolo del giusto, capace dei supremi valori della gratitudine, del rispetto degli altri e dell’amicizia disinteressata. Concetti rievocati ieri sera al Circolo dei lettori di Torino in molti momenti e da tante personalità durante una riflessione in onore degli 80 anni del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, compiuti il primo giugno e celebrati anche stamattina alle 9 con il convegno Al servizio della Costituzione pluralista al Campus Einaudi dell’Università di Torino (Lungo Dora Siena 100/A). Tre forze reggono il mondo secondo l’antica saggezza ebraica, ricorda il festeggiato: “Giustizia, verità e pace. La prima è la più importante perché aiuta la verità e porta alla pace. Un insegnamento molto attuale in questo tempo di guerra”. Dal Salmo 85 Zagrebelsky cita ancora: “Amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo”. Valori che, gli preme sottolineare, vanno a braccetto, si tengono, si sostengono, non esistono gli uni senza gli altri, un po’ come gli amici convenuti ieri a celebrarlo e a cui nel finale ha dedicato al piano la preghiera di Bach Ti scongiuro Gesù Cristo. La filosofa Simona Forti, per esempio, oltre a ricordare “le passeggiate insieme intorno a Tures”, spiega che al giurista “non basta essere tale, perché curioso di altri ambiti e perché ha sempre avuto molto chiaro che non sempre diritto e giustizia coincidono. E questo in lui è diventato un “ethos”, un carattere etico della sua esistenza che lo rende inquieto e bisognoso di filosofia”. “Non so se sia la sua anima russa”, scherza Forti, “ma c’è una domanda in particolare sul male che me lo rende vicino. E soprattutto sul male politico. Da cui la nostra passione comune per Il grande inquisitore di Dostoevskij, a cui lui ha dedicato il libro Liberi servi (Einaudi). Lì si capisce che c’è un potere verticale e uno orizzontale e che solo il primo, nutrito dal basso, è durevole. Non c’è potere vero senza ascolto e cura dei problemi delle persone”. Di amicizia, di passeggiate e di musica tratta anche il linguista Gian Luigi Beccaria: “A Gustavo piacciono le camminate a tema. Passeggiare con lui è impegnativo, perché vuole prefissare l’argomento di discussione. Tanti per fortuna gli interessi in comune, a cominciare dall’amore per la lingua. Entrambi non facciamo pace con l’idea che oggi si pensi contro e non insieme agli altri. Frasi fatte e parole vuote non portano contributo alla discussione politica. E c’è stato un momento in cui il liberalismo non aveva più a che fare con una civiltà di rispetto delle regole, ma col farsi gli affari propri ritenendosi liberi da vincoli. Altro tema caro è una scuola che costruisca cittadini e contribuisca al sapere collettivo”. Beccaria rivela qualche siparietto tra amici: “Il nostro gruppo della palestra da me battezzato “Los traumaticos” e quel grappino che mi offriva a margine delle serate al piano a quattro mani. Sua moglie Cristina, che passava discreta, ci dava degli esaltati, ma era la musica”. Agli aneddoti nonostante la premessa cede anche Ernesto Franco, direttore editoriale dell’Einaudi: “La storia dell’editoria raccontata da dentro diventa un mucchietto di storielle che la diminuiscono, come Einaudi che ruba la fetta di salame a Manganelli, mentre in realtà è un ambiente dove nascono amicizie, amori, avventure che a volte diventano successi, altre disastri. Non racconto allora le numerose telefonate con Gustavo, ma due episodi indicativi di inizio anni ‘90. Io ero un giovane editor trentenne stronzetto e presuntuoso chiamato alla difficile impresa di occuparmi della saggistica e pensai subito a lui, che leggevo da tempo. Gli diedi appuntamento al Caffè Platti e gli spiegai che venendo da una famiglia di avvocati e medici sapevo cosa avrebbe potuto fare. Lui mi lasciò finire e poi disse: “Ora le spiego perché non ha capito niente”. Fu l’inizio della nostra amicizia e del saggio di grande successo Il diritto mite (Einaudi). Nonché l’esempio del rapporto critico tra editore ed autore, in cui il primo sta in superficie e il secondo va in profondità. L’altro episodio risale a qualche anno dopo, quando la Mondadori rilevò l’Einaudi. Alcuni autori se ne andarono, mentre noi interni speravamo di garantire la continuità. Se ne parlò a lungo, anche con Gustavo a una cena con tante personalità tra cui Eugenio Scalfari. Ad un certo punto io e lui battibeccammo, tanto che il celebre giornalista sgranò gli occhi, al che Gustavo propose: “Sigaretta?”. Uscimmo dal ristorante, ci chiarimmo e quella fu una delle basi su cui si costruì l’Einaudi che c’è ora, con la sua indipendenza intellettuale e autori come lui che sono un esempio di affinità”. E su cosa sia l’amicizia torna Ezio Mauro: “Quella vera è fatta anche di aspetti non detti, poi si scopre che individualmente e parallelamente si arriva alle stesse conclusioni. Con Gustavo per esempio non abbiamo mai parlato del fatto che lui si sia sempre sentito come un professore, un giudice costituzionale, un presidente della Corte Costituzionale, ma che entrò nella dimensione pubblica come editorialista de La Stampa e de la Repubblica, abitudine che poi ha coinvolto anche il fratello Vladimiro con successo. Nel caso di Gustavo il bisogno di coinvolgerlo nacque per analizzare il conflitto tra i poteri, poi dagli editoriali è passato anche alla cultura con recensioni che erano rivisitazioni. Tutto questo lo ha fatto grazie a una passione civile gratuita, innocente, quasi ingenua”. La stessa, ricordata con affetto da Angela La Rotella, esercitata come presidente di Biennale democrazia, per cui però Zagrebelsky auspica “un ricambio”: “Ogni giorno in più è un dono, che venga dalla provvidenza, dal caso o dalla fortuna, e bisogna esserne felici”. Rinsaldare il pilastro sociale. La via del coprogrammare cominci con il dopo alluvione di Paolo Venturi* Corriere della Sera, 16 giugno 2023 Nel 2021 i volontari attivi nel 72% per cento delle istituzioni non profit italiane erano 4,661 milioni: un calo molto rilevante (-15,7%) che non può essere unicamente attribuito alla pandemia. Se guardiamo infatti questo scatto e lo mettiamo vicino al quello della mobilitazione civile emersa nell’emergenza alluvione, le cose cambiano perché abbiamo potuto osservare la marea di una solidarietà liquida invadere le zone più vulnerabili dell’Emilia Romagna. L’esondazione dei fiumi ha provocato la “tracimazione” dei modelli convenzionali con cui si interviene nelle emergenze e rilanciato un volontariato informale che disintermedia spesso le istituzioni: una gratuità mossa da una domanda di senso che si realizza dentro un aiuto concreto fatto spesso in compagnia. La proliferazione di piattaforme digitali, allestite in tempi record per connettere la disponibilità del singolo con un bisogno reale e per raccogliere fondi, descrivono nuove forme di intermediazione che nella prima fase dell’emergenza hanno disintermediato il Terzo settore ed i Comuni come a voler reclamare uno spazio di auto-organizzazione capace di connettersi direttamente con il bisogno delle famiglie, per poi lasciarsi, subito dopo, liberi di rientrare dentro alla propria sfera privata. Insomma un movimento di solidarietà, ma anche di profonda e desiderata fraternità che per molti è stata occasione per far un’esperienza arricchente, che ha legato giovani (tantissimi) e meno giovani intorno a bisogni di comunità e che li ha fatti tornare a casa stanchi e felici. Un’esperienza di senso che oggi non può “ritirarsi” e rientrare negli argini della quotidianità senza interrogare le istituzioni pubbliche e le politiche, il Terzo settore e l’agire sociale. Cosi come chi torna al lavoro la mattina seguente dopo una giornata “donata” ad una famiglia invasa dal fango, dovrebbe chiedersi se quell’esperienza è stata un’eccezione o può essere una prospettiva nuova per sé, così dovrebbero fare le istituzioni che sono chiamate a ricostruire la socialità, il paesaggio, l’abitabilità e l’economia di molti territori. È la “seconda campana” che suona per gli amministratori del nostro Paese. Dopo l’emergenza sanitaria, molti cittadini hanno fatto l’esperienza degli effetti dell’emergenza climatica: in entrambe le situazioni abbiamo capito sulla nostra pelle cos’è il bene comune attraverso una esperienza di “male comune”, di vulnerabilità. Occorre essere seri e ammettere che la vulnerabilità è un tratto stabile e costitutivo tanto della nostra epoca quanto della nostra natura, per cui le soluzioni devono passare da nuovi modelli di costruzione sociale che mettono insieme soggetti diversi. Il territorio infatti non è una geografia ma una rete viva (ecologia) di soggetti, luoghi, scambi, relazioni, dimensioni simboliche che prosperano dentro un mutuo riconoscimento ed una mutua azione. Questa fotografia porta a galla un problema strutturale: non si esce da queste transizioni senza una visione trasformativa. Detta in altri termini non è un problema di “governo” ma di “governance”. Non è sufficiente costruire i muri delle Case di Comunità (ad oggi 122 sulle 1430 previste), le Centrali Operative Territoriali (ad oggi 14 su 610), gli Ospedali di Comunità (ad oggi 31 su 434) senza legarli e mutualizzarli con tutte le risorse che stanno fra Stato e mercato. Il Terzo settore, la cooperazione, il volontariato sono un “pilastro” e non un “settore”. Sono un pezzo strutturale dell’edificio e contribuiscono alla sua solidità: senza il pilastro sociale attivato da una autentica sussidiarietà non solo non si svuotano le case dal fango, ma non è pensabile immaginare uno sviluppo umano ed economico migliore di oggi. Ricostruire le strade distrutte dall’alluvione nelle aree interne è una priorità, ma una volta fatta questa urgente azione di “recovery” (ripristino), occorre chiedersi: come immaginare e ridisegnare in quei luoghi, nuove economie, servizi di cura e culturali? Non è una domanda astratta poiché il rischio è che una volta rifatte le strade, queste vengano usate dagli abitanti per abbandonare quel territorio. Le politiche non si misurano soltanto nella capacità di allocare risorse, ma nel costruire nuove soluzioni a base comunitaria, nel dare potere alle aspirazioni che emergono dal basso, nel rendere la prossimità un meccanismo di condivisione delle risorse. Co-progettare il futuro con il territorio diventa perciò la piattaforma più rilevante su cui sperimentare e misurare il contributo concreto di tutti gli attori al bene comune. *Direttore Aiccon L’Europa disumana di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 16 giugno 2023 L’abisso dell’Europa è nelle parole prive di pietas e prive di senso che sa pronunciare all’indomani di una tragedia come quella di Pylos. Ci sono, secondo tutti i testimoni, 600 persone che mancano all’appello: erano partite dall’Egitto, transitate dalla Libia, arrivate nel mar Egeo. La barca su cui erano stipate non è stata soccorsa in tempo, anche se - è un copione già visto - un aereo di Frontex l’aveva avvistata, la Guardia Costiera di Atene era stata allertata. C’erano, anche questo lo dicono tutti i testimoni, bambini e donne chiusi - chiusi - nella stiva. Cento bambini, quaranta bambini, di nulla si ha certezza tranne che in tantissimi erano lì e adesso non ci sono, tra i superstiti. Non ci sono né donne né bambini, tra i sopravvissuti di un barcone che si è inabissato e che nessuno pensa neanche più a cercare. A Kalamata, nel Peloponneso che è meta di viaggi da sogno, ci sono ombre che si aggirano con fotografie plastificate in mano e chiedono: “È mio fratello, qualcuno lo ha visto”. Sono palestinesi, siriani, egiziani, pachistani. Fuggivano per salvarsi e l’unica cosa che la fortezza Europa sa dire è: “Non dovete partire”. Senza sforzarsi neanche un istante di immaginare vie legali che possano mettere fine a tutto questo. E quindi è qui, l’abisso: mentre i militari greci controllano a vista il campo in cui sono stati portati i salvati, mentre il conto dei cadaveri continua - 78, per ora - Giorgia Meloni incontra il premier maltese Robert Abela e dice con linguaggio burocratico: “Abbiamo convenuto che senza una adeguata difesa dei confini esterni dell’Ue diventa molto più difficile parlare di movimenti secondari”. Bisogna pensare ai “movimenti primari”, su questo Italia e Malta sono d’accordo, e così sappiamo che insieme hanno lavorato “per cambiare il punto di vista della commissione Ue”. Si parla di flussi migratori, ma la tragedia di Pylos non merita neanche una dichiarazione a latere. È una delle peggiori di sempre, ricorda quella del 3 ottobre 2013, quando davanti all’Isola dei Conigli ci furono 368 morti. O quella del 2015, quando a inabissarsi nel canale di Sicilia, a sud di Lampedusa, fu un barcone con a bordo tra le 700 e le 950 persone. E i sopravvissuti furono solo 28. Parliamo di numeri simili, forse maggiori, ma per l’Europa è come fosse ordinaria amministrazione. Il portavoce della commissione europea fa sapere che Frontex non può fare che segnalare alle autorità competenti. E quindi, è il sottotesto, “che volete da noi?”. La commissaria agli Affari interni Ylva Johannson, che pure difende l’operato delle Ong che salvano vite in mare (le stesse che il governo italiano ostacola), si limita a dire: “Penso che questo naufragio sia il segno del fatto che la nostra politica migratoria al momento non funziona bene”. Si direbbe un eufemismo, se ci si potesse prendere il lutto di essere ironici davanti a una tragedia. Il nuovo patto sulla migrazione che Johannson vanta come un passo avanti non cambierà nulla di quel che sta accadendo. Così come nulla cambieranno i pellegrinaggi in Tunisia o i tentati accordi con il generale Haftar in Libia. E così come nulla ha cambiato la politica italiana di criminalizzazione dei salvataggi: solo ieri, la nave Aurora di Sea Watch è stata multata, 3333 euro, e sottoposta a un fermo di venti giorni per la grave colpa di aver fatto sbarcare 39 migranti a Lampedusa e non a Trapani, dove per arrivare avrebbe impiegato altre 32 ore. “Non devono partire”, ha ripetuto il ministro della Difesa Guido Crosetto. Come se nei luoghi da cui partono, la Siria, i territori palestinesi, il Pakistan, fosse facile restare. Come non si trattasse di vita o di morte, di speranza o di disperazione. La segretaria pd Elly Schlein è tornata invocare una Mare nostrum europea, una missione di soccorso dell’Unione che metta fine alla farsa degli avvistamenti di Frontex. Ma quest’Europa, quella in cui né Ursula von der Leyen né Roberta Metsola hanno speso in queste ore neanche una parola, appare sorda, cieca, inconsapevole. Una fortezza senz’anima, che non sembra più nemmeno cercarla. Piantedosi: “Abbiamo convinto l’Ue. I migranti vanno fermati” di Giulia Merlo Il Domani, 16 giugno 2023 A destra della scrivania del ministro Matteo Piantedosi al Viminale c’è una televisione seminascosta. Durante l’intervista rimane accesa e muta nel suo angolo. Scorrono le immagini del naufragio in Grecia e Piantedosi getta veloci occhiate per seguire l’aggravarsi della situazione in quel tratto di mare, di cui anche le autorità italiane erano informate: “Le giornate al Viminale si complicano velocemente”. Avellinese doc, cordiale e misurato, considerato da molti la faccia feroce del governo di destra, di persona risulta assai meno rigido di come appare in pubblico. Sceglie con attenzione le parole, ogni tanto cade in un lessico che tradisce i suoi trentacinque anni di carriera da prefetto. Mai si irrigidisce davvero, spesso sottolinea che “altre visioni sono legittime”, ma sull’obiettivo del suo mandato non ammette fraintendimenti: “Bisogna fermare i flussi irregolari”. Ministro, la tragedia dei migranti morti in Grecia riporta alla mente le immagini di Cutro. Anche in questo caso si aprono incognite sui soccorsi dopo l’allarme. Ci risiamo? Ci sarà modo e tempo per capire cosa è successo nell’area Sar Greca. Ho piena fiducia nelle autorità elleniche. Ho letto da fonti giornalistiche che l’imbarcazione si sarebbe ribaltata proprio durante le operazioni di soccorso. Di fronte a tragedie così dolorose andrebbero evitati giudizi sommari e strumentalizzazioni. Si torna a parlare di responsabilità, è cambiato qualcosa in Italia dopo Cutro? Negli ultimi venti anni ci sono stati innumerevoli naufragi prima di Cutro in varie parti del Mediterraneo. Questa ennesima tragedia conferma che i trafficanti di esseri umani fanno affari in maniera spregiudicata con totale disprezzo della vita dei migranti che sono esposti a rischi inaccettabili. L’Italia, insieme agli altri partner europei, sta lavorando per contrastare i trafficanti di esseri umani e rafforzare i canali di immigrazione regolari: uomini e donne che devono arrivare soltanto in maniera legale, sicura, pianificata, con strumenti di programmazione adeguati come il decreto flussi. La strage in Grecia ripropone l’aumento dei flussi di sbarco in estate. Come si sta muovendo il governo? Sui flussi migratori si stanno iniziando a cogliere timidi segnali incoraggianti rispetto alle previsioni pessimistiche di inizio anno. I dati dimostrano un rallentamento delle partenze dal nord Africa. Sappiamo però che il complesso lavoro che stiamo facendo è destinato a produrre effetti significativi nel più lungo periodo. Eppure la missione tunisina della premier Giorgia Meloni insieme a Ursula von der Leyen per incontrare Kais Saied non ha prodotto gli esiti sperati di un accordo... Non condivido la sua lettura. La missione ha avuto innanzitutto il merito di mostrare plasticamente l’importanza del lavoro che sta svolgendo il presidente Meloni anche in ambito europeo. La visita in Tunisia con la presidente della Commissione Ue dimostra che il nostro paese si sta ritagliando un ruolo centrale per l’attuazione di politiche di sostegno e sviluppo nel nord Africa e nel corridoio mediterraneo. È la visione italiana del “piano Mattei”, con un approccio non predatorio nei rapporti con i paesi africani, che presuppone accanto alla collaborazione per frenare le partenze, anche un forte sostegno economico-finanziario. Questo è un grande successo del governo Meloni. Intanto, però, le tragedie in mare continuano e per ora la misura principale del governo è stata il decreto Cutro, che ha introdotto la norma decisamente complicata da applicare del reato universale per gli scafisti... In realtà proprio il cosiddetto decreto Cutro, da alcuni tanto criticato, ci ha permesso di rendere più ordinata la gestione della prima accoglienza, affinché tutto avvenga con doverosa umanità per le persone che arrivano. In questo modo affrontando anche le comprensibili preoccupazioni di chi teme che gli arrivi massicci creino complicazioni sui territori. Il governo si sta muovendo su questi due fronti: gettare le basi perché la collaborazione internazionale aiuti a fermare le partenze e nel frattempo organizzarsi sul territorio per gestire chi arriva. L’obiettivo dello stop alle partenze sembra realizzabile vista l’entità dei flussi migratori e le ragioni che li causano. Lei rimane convinto? Le confermo che per il governo fermare - o quantomeno limitare il più possibile - le partenze indiscriminate e illegali è sempre l’obiettivo principale. Nella consapevolezza, però, che si tratta di un obiettivo non sempre immediatamente a portata di mano. Per questo, intanto, è necessario gestire al meglio gli arrivi evitando, come già detto, ricadute problematiche sul territorio. Ricordo che il governo con il decreto approvato a Cutro ha ribadito il principio di offrire canali di ingresso regolare ai migranti per garantire in sicurezza gli arrivi. La questione migratoria solleva sia interrogativi pratici che questioni di approccio. Lei è stato molto criticato per la formula “carico residuale” per i migranti che inizialmente non erano stati fatti sbarcare da una delle navi ong. Lo ridirebbe? Premetto che le mie frasi sono state in molti casi decontestualizzate e ritagliate ad arte. Tuttavia, capisco che la contrapposizione politica può portare a ricorrere anche a queste strumentalizzazioni. Le rispondo che per me parlano gli atti: contano la storia personale e ciò che si è fatto. Non credo si possa parlare di disumanità nei confronti di un paese che a partire dall’inizio dell’anno ha soccorso e dato accoglienza finora a 56 mila persone. E lei ritiene di aver agito in modo corretto? La correttezza dell’azione di governo è testimoniata dal fatto che alcune delle norme approvate a Cutro hanno anticipato in ambito europeo le norme contenute nel Patto asilo e immigrazione. Dice che parlano i fatti, il governo sta migliorando le condizioni dell’accoglienza? L’evidenza è Lampedusa: confronti come è ora la struttura, rispetto a come era ridotta solo due mesi fa. Tante anime candide del passato non si sono mai preoccupate delle condizioni in cui versavano i luoghi di prima accoglienza, che gestiscono picchi di migliaia di persone. Anche questo è stato possibile con il cosiddetto decreto Cutro, che ha introdotto procedure di emergenza per dare speditezza agli iter amministrativi con cui rafforzare il sistema di accoglienza. L’altro decreto varato dal governo è il decreto Ong, che contiene regole stringenti. Pensa che le navi non governative siano un ostacolo? Noi non pensiamo che le ong siano un ostacolo, abbiamo ritenuto che servisse mettere ordine. Le missioni di salvataggio in mare sono una cosa molto seria e c’è in gioco la vita delle persone, per questo non è possibile gestirle in modo deregolato e magari anche con accenti di contrapposizione nei confronti di chi poi, secondo le norme internazionali, ha la responsabilità ultima della missione. Mi sembra tutto molto logico: Infatti, dopo che lo abbiamo fatto noi, ora anche in Europa si comincia a parlare di regolamentazione delle navi private. E le sembra logico anche che una nave ong possa procedere a un solo salvataggio e poi debba rientrare in porto? Ma la missione che si sono date le ong non è quella di recuperare i naufraghi e portarli al più presto in un luogo sicuro? Prima del nostro codice, c’erano casi di navi che rimanevano in mare anche diverse settimane prima dell’approdo. Ritengo logico e razionale che l’evento di soccorso debba essere aperto e chiuso. La percezione è che sia un tentativo vessatorio per ridurne l’attività... Io non credo che si possa permettere la prassi di recuperare più migranti possibili a prescindere dalle condizioni di sicurezza in cui lo si fa. Noi abbiamo ritenuto necessario regolamentare la materia senza alcun intento vessatorio ma solo per renderla più coerente con la missione di soccorso delle persone. C’è poi il fatto di averle indirizzate in porti progressivamente sempre più lontani dalle acque di recupero, per esempio a Ravenna. Anche in questo caso non ci sono intenti di disincentivo? La motivazione è quasi banale: abbiamo indicato i porti di quasi tutte le regioni italiane, nell’ottica di favorire una equa distribuzione degli sbarchi su tutto il territorio nazionale. Sicilia e Calabria sono la principale destinazione degli sbarchi autonomi con i barchini. Per dare un aiuto al decongestionamento dei luoghi di primo approdo naturale, abbiamo stabilito che gli sbarchi delle ong vadano redistribuiti. Non vedo cosa ci sia di strano. Nel tempo, il governo ha archiviato la logica dei porti chiusi. Quindi c’è stato un ripensamento sulla sua correttezza? C’è stata una evoluzione di approccio, perché la pressione migratoria è crescente e variabile nelle sue caratteristiche. Ma io considero il pragmatismo una nota di merito sia per me come ministro che per il governo: significa che abbiamo seguito il fenomeno e abbiamo adeguato le politiche per affrontarlo. Tutto questo non cambia il punto: per noi i flussi irregolari vanno fermati o comunque ridotti il più possibile, perché dietro si nascondono i trafficanti di esseri umani e i loro loschi affari che sono portati avanti senza nessun rispetto per la sicurezza dei migranti, esposti a rischi rilevanti. La dimensione del fenomeno però supera l’Italia, ma a livello europeo non si sono percepiti passi avanti significativi... Non è vero. Il negoziato dell’8 giugno è stato un punto importantissimo. Si è trattato di una discussione, in cui l’Italia ha avuto un ruolo centrale, che ha visto un salto di qualità, perché il lavoro non si tradurrà in semplici dichiarazioni di intenti, ma in atti normativi. Abbiamo gettato i presupposti per riscrivere le regole formali, che poi entrano nella vita degli ordinamenti europei e rimarranno nei prossimi anni. Tradotto in concreto, cosa produrrà? Siamo ancora in un contesto di negoziazione, ma intanto l’Italia ha ottenuto la condivisione di un principio basilare che è anche alla base del nostro agire: l’obiettivo finale è quello di ridurre se non fermare le partenze irregolari, distinguendo chi ha diritto ad arrivare e chi no. Infatti il patto si chiama di “asilo-immigrazione”. Rimane un obiettivo decisamente complicato da raggiungere. La redistribuzione non è in cima all’agenda, quindi? Bisogna chiarire. Il nostro governo ritiene che se arrivano migranti irregolari è giusta una logica di distribuzione degli oneri a libello europeo, ma l’obiettivo è sempre quello di bloccare gli sbarchi irregolari. La differenza è con chi ritiene ineluttabile e anzi auspicabile l’arrivo di irregolari pensando che la questione migratoria si risolva con la redistribuzione. Venendo a vicende interne, i pestaggi da parte dei poliziotti di Verona hanno riportato in primo piano il tema delle violenze delle forze dell’ordine. L’indagine avviata è per il reato di tortura, che la sua maggioranza vuole abolire in parlamento. Lei condivide l’iniziativa? Anche qui va chiarito il punto fondamentale. Il dibattito parlamentare si sta sviluppando sui contorni, sulla definizione, sulle caratteristiche del reato di tortura. Ma nessuno mette in discussione il disvalore di certi fatti e tantomeno il reato di tortura in quanto tale. Nessuno immagina che fatti come quelli di Verona possano essere legittimati o derubricati. Abolirlo vorrebbe dire far rientrare quei comportamenti in fattispecie molto più lievi, come le lesioni. Sarebbe sufficiente? Le ripeto che nel governo nessuno vuol far sì che la tortura come comportamento in sé non sia opportunamente perseguito e sanzionato oltre che prevenuto. Il parlamento è libero ed è in corso una legittima discussione. Come ministro, il mio obbligo è capire come sia potuto accadere che dentro la polizia dello Stato si siano verificati fatti di quel tipo, anche se fosse uno solo. Chi è in divisa è responsabile due volte: per la lesione dei diritti delle vittime ma anche dell’immagine del corpo a cui appartiene. Si discute anche dell’ipotesi di un numero identificativo per i membri delle forze dell’ordine, così da renderli riconoscibili in caso di fatti violenti. Lei è d’accordo? Penso che sia un dibattito ideologico e fine a sé stesso. Il codice identificativo è inutile perché l’identificazione di chi ha commesso violazioni è sempre avvenuta. Non è stato così al G8 di Genova e nemmeno nel caso dei pestaggi in carcere a Santa Maria Capua Vetere tutti i poliziotti della penitenziaria ripresi sono stati identificati. A me sembra che i processi siano in corso e nel caso di Genova abbiamo i nomi dei condannati, con responsabilità oggettive individuate anche nella dirigenza. Dunque non parlerei di impunità. Se penso anche alle varie manifestazioni di ordine pubblico, non ricordo casi in cui i fatti censurabili non siano poi stati ricondotti al responsabile. Dunque l’introduzione di un numero identificativo non dovrebbe essere un problema... Io credo che non ci sia alcuna necessità di farlo. Chi propugna una misura del genere mostra una visione di ideologica sfiducia nei confronti delle forze dell’ordine. Peraltro non bilanciata da misure che per converso offrano strumenti di tutela per lo svolgimento di un lavoro tra i più difficili. Se si guarda alle statistiche consolidate, sono le forze di polizia a registrare il maggior numero di feriti e vittime in occasione di scontri nelle manifestazioni di ordine pubblico. Lei usa un lessico molto specifico e la si accusa di essere troppo burocratico, è colpa del suo passato da prefetto? Ci sono opinioni divergenti, alcuni dicono che io finga di essere un prefetto ma in realtà sono molto politico, altri invece che io sia eccessivamente burocratico. Ognuno è figlio della sua storia personale, io ho fatto il prefetto per 35 anni e questo ha inciso, nel bene e nel male. Si definisce un ministro politico o tecnico? Fare il ministro è di per sé un ruolo politico a prescindere da dove si proviene. Il salto da un ruolo tecnico a uno politico risiede nel fatto che, da ministro, si devono fare scelte di fondo per dare una direzione e una visione al proprio operato. Ed è quello che cerco di fare. A proposito di politica, la scomparsa di Silvio Berlusconi ha un impatto nel centrodestra e c’è il rischio che uno dei tre alleati, Forza Italia, imploda. Va rivista la geografia interna alla maggioranza? Lo dico vivendo dall’interno le dinamiche del governo: non prevedo effetti sull’esecutivo o sulla maggioranza, né nel breve né nel lungo periodo. Berlusconi con la sua intuizione politica ha fondato il centrodestra italiano, così come rappresentato dal governo attuale. Per questo non vedo rischi di instabilità. Berlusconi era un leader con caratteristiche uniche che lo rendono insostituibile. Ha lasciato un patrimonio politico e ideale solido, che prescinde dalla necessità di far subentrare un “successore”. Meloni ripete che il suo governo durerà cinque anni. Per cosa le piacerebbe essere ricordato, al termine della legislatura? Non credo per un singolo progetto, perché il Viminale è una amministrazione che vive soprattutto la gestione della quotidianità. Lei tornerà a dirmi che parlo da prefetto, tuttavia le rispondo che mi piacerebbe, quando tutto questo finirà, che di me si possa dire che ho ricoperto il mio incarico con responsabilità, dignità e onore. Il naufragio dei migranti in Grecia: “Cento bambini nella stiva”. Le vittime potrebbero salire a 600 di Gianni Santucci Corriere della Sera, 16 giugno 2023 Fermati nove scafisti egiziani. Le salme recuperate sono 78, centinaia i dispersi. Il medico dell’ospedale: “Tra i 104 sopravvissuti c’è chi ricorda molti minori sottocoperta”. La notte non porta nuovi sopravvissuti. Non porta neppure altri corpi di morti (per ora 78). L’alba illumina soltanto voci d’altra disperazione. Dei 104 messi in salvo, una trentina sono in ospedale. Una dozzina passano l’intero pomeriggio sotto interrogatorio negli uffici della guardia costiera: nove, in serata, finiscono in arresto, accusati di far parte dell’equipaggio al comando del peschereccio affondato. Sono tutti egiziani. Il comandante sarebbe riuscito a scappare nel pomeriggio prima del naufragio, ma non ci sono conferme della testimonianza raccolta dagli attivisti di Alarm Phone. Gli altri salvati, gli innocenti, sono rimasti in un silos d’acciaio azzurrognolo nel porto di Kalamata, Peloponneso sud-occidentale, prima di venire trasportati (tra ieri sera e oggi) in una struttura di accoglienza a Malakasa, non lontano da Atene. Tre giorni in mare - Sono gli unici sopravvissuti (tutti uomini) al naufragio del peschereccio che s’è ribaltato a 80 chilometri dalla costa greca nella notte tra martedì e mercoledì. Secondo le testimonianze raccolte dalla polizia, avrebbero pagato tra i 4 e i 7 mila dollari per il viaggio, e sarebbero partiti dalla Libia orientale, zona di Tobruk, Cirenaica, il 10 giugno. Quando è scattato l’allarme, erano dunque in mare già da tre giorni, con poca acqua e pochi viveri. Tre giorni in cui il peschereccio ha avuto due guasti al motore, riparati in qualche modo da chi era al comando. Fino alla rottura definitiva, nel pomeriggio di martedì, e l’inizio della lenta deriva, a 45-50 miglia nautiche da Pylos. “Non si trova nessuno” - Una soccorritrice dell’Hellenic rescue team racconta: “I sopravvissuti hanno fame, sete. Cercano di farsi capire a gesti”. Anche loro, cercano i dispersi. “Sono in totale stato di choc - racconta ieri all’agenzia Ap Erasmia Roumana, capo delegazione dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati - Chiedono di potersi mettere in contatto con le famiglie. E continuano a chiedere dei dispersi. Sul peschereccio avevano amici, parenti, figli. E di tutte queste persone che mancano, non si trova nessuno”. Un ragazzo egiziano, di fronte alle telecamere, implora un aiuto per ritrovare il cugino, che era a bordo con lui. Soprattutto, non si trovano i bambini. I bambini mancanti - Dicono che ce ne fossero molti, nella stiva. Almeno 50, forse 100. Le stime ipotizzano, in totale, 750 migranti a bordo. Considerato che le persone in salvo sono 104, il numero delle vittime potrebbe essere enorme, più di 600. In ospedale a Kalamata ieri mattina c’erano ancora 29 persone. Manolis Makaris, cardiologo, ha parlato dello stress dei ricoverati, e soprattutto di chi chiama per sapere se ci siano bambini: “Per tutta la notte mi hanno mandato foto di minori per scoprire se sono stati salvati. Alcuni sapevano che c’erano bambini nella stiva”. Quanti? “Ci sono testimonianze diverse, alcuni dicono 50, altri 100, nessuno di loro può sapere con precisione chi ci fosse sottocoperta”. Tante versioni - I magistrati greci hanno aperto un’inchiesta. L’organizzazione Alarm Phone fornisce una ricostruzione dettagliata dei contatti col peschereccio, tra le 14.17 e le 20.05 di martedì, quando la barca già in mattinata viene comunque individuata da un aereo dell’agenzia Frontex, e avvicinata da almeno sette imbarcazioni, tra qui lo yacht che trasporterà i sopravvissuti, il mercantile Lucky Sailor che riesce a fornire acqua, alcune vedette della guardia costiera greca che, secondo la versione delle autorità elleniche, avrebbero ricevuto due informazioni: il peschereccio non era in imminente pericolo e le persone a bordo intendevano proseguire verso l’Italia. Versioni che potrebbero essere smentite, e che sono ora al centro delle polemiche internazionali. Ha detto l’ammiraglio della guardia costiera greca in pensione Nikos Spanos: “La nave era un cimitero galleggiante, una barca molto vecchia. Di solito donne e bambini in tali viaggi li mettono sul fondo. Li bloccano in modo che non possano muoversi. Il ministero della navigazione è stato informato tramite Frontex. L’Italia ci ha “affidato” l’incidente poiché si stava svolgendo nella nostra zona. La nave era in difficoltà. In un caso del genere, lo stato greco doveva agire immediatamente. Far partire il piano operativo, le barche di soccorso dovevano precipitarsi nell’area”. La nave ferma in porto - Secondo alcune fonti, una delle navi più moderne per interventi in mare, la Aigaion Pelagos della guardia costiera greca, non sarebbe stata impiegata, nonostante fosse in un porto del Peloponneso abbastanza vicino. Le autorità di Atene ripetono che dal barcone hanno rifiutato ogni aiuto. Ancora l’ammiraglio Spanos: “Non si chiede alle persone su una barca in difficoltà se hanno bisogno di aiuto. Si interviene e basta, dal momento che la barca è alla deriva”. La ricostruzione del naufragio diventa ancor più drammatica quando Kriton Arseni, rappresentante di Mera25, il movimento fondato da Yanis Varoufakis, raccoglie le testimonianze di alcuni superstiti: “Ci hanno detto che mentre la guardia costiera stava trainando il peschereccio, dopo averlo agganciato con una corda, all’improvviso la barca si è capovolta, anche se il mare era abbastanza calmo”. È uno dei momenti critici di ogni salvataggio, perché vecchie imbarcazioni sovraccariche possono andare in completo squilibrio per i movimenti a bordo, anche se i superstiti hanno negato: “Eravamo troppo accalcati per muoverci”. Il portavoce della guardia costiera, Nikos Alexiou, si limita a commentare: “Non si può far cambiare rotta a un’imbarcazione in quelle condizioni, e con tutte quelle persone a bordo, senza collaborazione”. Le salme e il relitto - Le salme sono state trasferite ad Atene, per le autopsie e la raccolta dei dati (impronte, foto, Dna) necessarie per un’identificazione. Per i bambini, forse, non sarà possibile neanche questo. Il naufragio è avvenuto in un uno dei punti più profondi del Mediterraneo, oltre 5 mila metri. Chi era sottocoperta, con ogni probabilità, è rimasto intrappolato nel relitto. Migranti. Fermiamo la strage degli innocenti di Filippo Miraglia* Il Manifesto, 16 giugno 2023 Un dato terribile che ci riguarda, visto che guerre, crisi ambientali, persecuzioni e violenze, sono quasi sempre il prodotto di un modello di società ingiusta e di relazioni internazionali avvelenate, che i governi dei Paesi più ricchi e potenti del pianeta hanno prodotto e sostengono. Uomini, donne, tantissimi bambini e bambine che scappano per mettersi in salvo e quasi mai trovano rifugio e assistenza in Europa, se si esclude la fuga delle persone dall’Ucraina nell’ultimo anno e mezzo, alle quali è stato riservato ben altro trattamento. Eppure i governi europei, di fronte a tragedie come quella di Steccato di Cutro del febbraio scorso e l’ecatombe nel Peloponneso di questi giorni, oltre a versare lacrime di coccodrillo e a sprecare poche e imbarazzanti parole di cordoglio, spesso offensive per le vittime e i familiari, trovano un terreno comune solo nelle politiche che negano i diritti umani e impediscono a profughi e rifugiati di viaggiare in sicurezza e legalità. Non sembrano interessati a intervenire su un fenomeno sociale che ha cause e dinamiche note e evidenti a tutti. Da anni praticano politiche che rispondono quasi esclusivamente alle campagne della destra xenofoba e alla paura di perdere consenso. Nulla di quello di cui discutono e che propongono ha a che fare con la necessità di governare la mobilità delle persone rendendola possibile, di individuare soluzioni praticabili, in modo da sottrarla al controllo dei trafficanti e di ridurre stragi e violenze. Serve immediatamente un programma europeo di ricerca e salvataggio. Uno strumento pubblico che impedisca le stragi, pattugliando il Mediterraneo per rintracciare le imbarcazioni in pericolo e metterle in sicurezza. Non c’è niente che possa fermare le persone che subiscono violenze nei campi di concentramento libici, spesso fino alla morte, dal tentare la traversata del Mediterraneo per mettersi in salvo. Rafforzare i legami con le milizie libiche, finanziare la cosiddetta guardia costiera, continuare a investire sull’esternalizzazione, come hanno concordato i governi dell’Ue nei giorni scorsi, servirà solo ad aumentare il numero dei morti, le violenze e gli affari dei trafficanti. Nessuno potrà impedire alle famiglie, in prevalenza afghane e siriane, bloccate in Turchia dal vergognoso accordo con Erdogan del 2016, di tentare la fuga, pagando e rischiando la vita, per non essere rimandati indietro come sta facendo il governo turco. Le domande che rivolgiamo al nostro governo e ai governi europei sono semplici: quelle persone morte nell’ennesima strage di frontiera, scappate dalle violenze della Libia, pagando con la propria vita le scelte politiche dell’Unione europea, avevano alternative? Potevano mettersi in salvo rivolgendosi ai governi europei? Rischiare la vita continuando a subire violenze nei lager oppure cercando di mettersi in salvo? Voi cosa avreste fatto al posto loro? La risposta non sta nel cosiddetto ultimo “Patto Europeo”. E neanche nelle coscienze sporche e ciniche dei governi che l’hanno votato. La risposta è scritta nella convenzione di Ginevra e nel diritto internazionale, come in quello dell’Unione europea. Leggi alle quali i governi vogliono sottrarsi per interessi privati, elettorali. Non chiediamo pietà umana di fronte a guerre e violenze sempre più diffuse nel pianeta, di fronte a milioni di bambini che hanno diritto ad un futuro come i nostri figli. Non chiediamo senso di responsabilità e dello Stato. Avete già dimostrato di non averne e di pensare solo alla vostra carriera politica e ai facili consensi costruiti su campagne razziste. Chiediamo di rispettare le leggi e le convenzioni internazionali. Di chiudere la stagione delle stragi tornando a rispettare regole scritte nel corso dei decenni proprio per impedire che la violenza e la cultura della morte tornassero a prevalere. Fermare la strage è possibile soltanto ripristinando la legalità internazionale. Migranti. “La Libia tortura e l’Italia la riempie di soldi” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 16 giugno 2023 Intervista a Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch. Tutto ciò in connivenza tra trafficanti e autorità costiere. E noi la riteniamo sicura per fare accordi. Sulla Libia: “Ho parlato recentemente con persone che hanno visto compagni di viaggio cui è stato dato fuoco per torturarli, mentre venivano filmati per ricattare le famiglie. E persone decapitate e la cui testa è stata impalata per non aver trovato i soldi per pagare la traversata. Tutto ciò in connivenza tra trafficanti e autorità costiere. La Libia continua a non concedere i visti. La riteniamo sicura per fare accordi di contenimento ma non si dà nemmeno accesso minimo alle organizzazioni umanitarie”. A parlare è Giorgia Linardi, portavoce della Ong Sea Watch in Italia. Tunisia, Libia, il Mediterraneo che continua ad essere il “Mare della morte”. Ciononostante si continua con la linea securitaria... È una realpolitik serrata, senza prospettive di lungo periodo. Una politica tragicamente fallimentare. È impressionante vedere quello che è accaduto a livello di relazioni internazionali, incontri e sviluppi sia in ambito bilaterale che europeo, in una settimana. Ripercorriamola questa settimana... Martedì la premier Meloni era in Tunisia, una visita bilaterale. Mercoledì ha ricevuto a Palazzo Chigi una delegazione di ministri libici per siglare un nuovo accordo con la Libia che tra l’altro va proprio a rafforzare gli aspetti più critici del Memorandum del 2017, quelli più securitari e che riguardano il supporto tecnico-logistico per il controllo delle frontiere e il contenimento dei migranti. Due incontri in cui l’approccio resta quello di trattare i Paesi del Nord Africa come dei Paesi “scatolone” da riempire di migranti ad ogni costo. Prestandosi ad un ricatto notevole perché questi Paesi la pressione migratoria è una carta importante che possono giocare per chiedere più soldi, più legittimazione, più supporto in Europa. Per quel che riguarda la Libia, non dimentichiamo che la premier Meloni ha incontrato sì esponenti del governo di Tripoli la settimana scorsa per siglare una nuova intesa attraverso il Viminale. Tuttavia poco prima ha incontrato anche il generale Haftar che controlla l’area della Cirenaica da cui negli ultimi mesi si sono registrate moltissime partenze. Parliamo dell’area più a Est di Tripoli, l’area di Bengasi. Da una parte il generale Haftar che ha bisogno di legittimazione politica e ha un interesse a stringere relazioni aldilà del Mediterraneo e dall’altra c’è l’Italia che ha interesse a prevenire gli arrivi dal Nord Africa. Ma la settimana non finisce qui. Cos’altro c’è stato? Dopo la visita in Tunisia, il giorno dopo la premier Meloni riceve la delegazione di ministri libici a Palazzo Chigi. Nelle stesse ore in cui avviene questo incontro, un ragazzo soldato sudanese a cui era stato messo in mano un fucile a 12 anni, poi scappato dopo essere passato attraverso 17 prigioni in Libia, ha raccontato la sua storia alle Commissioni riunite Affari esteri e Difesa in un’audizione che ha riguardato le più importanti Ong operanti nel Mediterraneo. Nello stesso momento in cui si siglava una nuova dichiarazione d’intenti con la Libia attraverso il Viminale, che va a rafforzare gli aspetti più critici del patto del 2017, a livello securitario e per il contenimento dei migranti senza guardare in alcun modo all’aspetto relativo ai diritti, le Ong e un sopravvissuto venivano audite in Parlamento. Ciò denota l’ipocrisia massima di questa situazione. Qual è il valore che viene dato alla nostra testimonianza se nello stesso momento si procede con uno sviluppo fortissimo nella direzione opposta rispetto a quella che si era evidenziata in Commissione. È un approccio che calpesta malamente i diritti umani e anche la dignità dell’Italia, un Paese che questi diritti si è impegnato a difendere attraverso l’ordinamento costituzionale che si è dato. Nella giornata di giovedì si procede in ambito Ue con la votazione del patto europeo su migrazione e asilo. Un patto in cui non c’è nessuna traccia rispetto a tre punti per noi fondamentali… Quali? Vie alternative per arrivare in Europa. Se l’Europa afferma che vi sia una pressione migratoria insostenibile e rimarca che la lotta al traffico di esseri umani sia una priorità, quale altra possibilità viene data a persone che oggettivamente hanno la necessità di lasciare il proprio Paese? Grande assente, come sempre, è il rafforzamento delle alternative legali e sicure per raggiungere l’Europa. Altro grande assente è l’impegno nel soccorso in mare. Le persone continuano ad annegare davanti alle nostre coste. Stando agli ultimi dati condivisi dall’Oim siamo a 1166 persone morte nel Mediterraneo da inizio anno. E questo prima dell’ultima strage a largo delle coste greche. E sono i morti accertati, chissà quanti sono quelli di cui non sapremo mai nulla. Sul soccorso in mare ancora una volta non c’è nulla se non l’obiettivo di rafforzamento delle frontiere attraverso i patti bilaterali volti all’esternalizzazione delle frontiere da parte dell’Europa. L’altro punto mancante è quello relativo all’integrazione. Le novità, in negativo, introdotte dal patto europeo riguardano i ricollocamenti. Un approccio che tratta i migranti come pacchi. Il nostro ministro dell’Interno qualche mese fa aveva definito le persone rimaste a bordo di una nave di soccorso, “carico residuale”. Un ministro, Piantedosi, che rispetto alle negoziazioni con l’Europa ha tenuto il punto dicendo non vogliamo diventare, cito testualmente, “il centro di raccolta” di migranti dell’Unione Europea. “Centro di raccolta” è un linguaggio più da netturbino, con tutto il rispetto per i netturbini, che da ministro dell’Interno. Come si può definire quelli che sono negoziati politici a livello europeo su un tema fondamentale, com’è quello migratorio, che ci riguarda e ci riguarderà negli anni a venire, con una terminologia che elimina completamente la dimensione umana e la riduce a pacchi se non addirittura a spazzatura. Una novità è il meccanismo dei ricollocamenti... Un meccanismo che non fissa obblighi e che comunque prevede che gli Stati possano riuscire a non permettere l’ingresso nel loro Paese di persone ricollocate dal primo Paese d’arrivo, attraverso le compensazioni economiche. L’Italia ha tenuto il punto anche su questo dicendo non vogliamo soldi dai Paesi membri dell’Ue che non vogliono prendersi migranti che arrivano in Italia, questi soldi vogliamo che siano utilizzati per creare un fondo che vada a finanziare i progetti di cooperazione con Paesi terzi, cioè la dimensione esterna, il contenimento delle persone ad ogni costo in Paesi che non sono sicuri. Lo sappiamo ormai da anni. In Tunisia è nota la condizione drammatica delle persone migranti che già era difficile prima della dichiarazione razzista del presidente Saied, del febbraio scorso. Ci sono state persone della società civile tunisina che hanno nascosto persone nere a casa loro. Persone terrorizzate costrette a lasciare i loro alloggi, il loro lavoro, e letteralmente nascondersi, non farsi vedere, in un Paese dove fino al giorno prima, in qualche modo pur non vedendo riconosciuto alcuno dei loro diritti, perché in Tunisia manca un sistema nazionale di asilo, lì stavano. Ora è iniziata questa caccia all’uomo nero che rende insopportabile la condizione di queste persone in un Paese che sta peraltro collassando di suo. In Tunisa c’è inoltre un problema enorme legato al rifiuto dei visti da parte di chi ne fa domanda. Ma l’Italia e l’Europa stanno chiudendo gli occhi di fronte a questa tragica realtà. Una realpolitik cinica, miope, senza prospettive di lungo periodo, e che per giunta si presta perfettamente e sempre di più al ricatto. Stiamo insegnando noi, Unione Europea, ai Paesi nordafricani come ricattarci. A quale prezzo? Rinunciando in tutti i modi a chiedere in cambio una cosa fondamentale. Che noi abbiamo non il diritto ma il dovere di chiedere: il rispetto nei confronti dell’Unione Europea che avviene attraverso il rispetto dei diritti umani. I diritti umani, almeno sulla carta, sono parte dei valori fondanti delle democrazie dell’Unione Europea e dell’Unione Europea come istituzione comunitaria. Il fatto che non si chieda nulla quanto al rispetto dei diritti umani delle persone e si accetti che questi Paesi possano contenere le persone ad ogni costo, è qualcosa che trovo estremamente doloroso dal punto di vista umanitaria ma anche poco lungimirante dal punto di vista politico e delle relazioni internazionali. Si sta solo facendo una corsa forsennata per trovare il modo di arginare le partenze dalle coste del Nord Africa.