Mattarella: “In carcere rispettare la dignità umana e i diritti” ansa.it, 15 giugno 2023 Messaggio al Garante in occasione della Relazione al Parlamento. “Rendere rispettosa della dignità della persona la restrizione, anche temporanea, della libertà derivante dall’applicazione di norme di legge poste a protezione del consorzio civile”. Lo afferma il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un messaggio inviato al Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma, in occasione della relazione al Parlamento. Quella del Garante è un’attività “svolta contemperando la funzione di prevenzione con quella propositiva al fine di garantire la piena applicazione dei principi costituzionali a tutela dei diritti individuali”, aggiunge. “Rivolgo - scrive Mattarella - il più cordiale saluto a Lei, Signor Presidente, ai componenti dell’Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e a tutti i partecipanti alla presentazione della Relazione. La sapiente attività sviluppata dal Garante, il cui impegno è stato connotato da una visione puntuale dei vari aspetti che caratterizzano le diverse forme di privazione della libertà, è testimoniata dall’ampia e approfondita relazione che viene oggi divulgata”. “Numerosi spunti di riflessione, di analisi e di proposta sono offerti”, aggiunge Mattarella sottolineando come il Garante abbia “profuso il suo impegno in tutte le aree di interesse per assicurare valore al tempo della detenzione, per favorire il reinserimento sociale e il recupero della soggettività dei reclusi”. L’attività del Garante viene definita “meritoria”: la “dimensione propositiva ha caratterizzato l’agire dell’Autorità - si legge ancora - ottenendo un vasto riconoscimento anche a livello internazionale per il prezioso contributo fornito. Un patrimonio di credibilità destinato a consolidarsi nella perseverante attenzione al delicato tema della condizione detentiva. Con questo auspicio formulo sentiti auguri di buon lavoro”, conclude il capo dello Stato. “Troppe persone nelle carceri per pene lievissime e allarme suicidi”, il rapporto del Garante dei detenuti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 giugno 2023 Cresce la popolazione carceraria, ingiustificata la detenzione dei migranti nei Cpr e lunghissime liste d’attesa nelle Rems. Troppi detenuti nelle carceri italiane e soprattutto troppi di loro in cella a scontare pene di lieve entità, anche sotto l’anno. E tutto questo a fronte di un aumento di capienza di posti ancora assolutamente inadeguata. Si apre così, con un richiamo al principio costituzionale della rieducazione della pena, la relazione di Mauro Palma, garante delle persone private della libertà, arrivato a conclusione del suo mandato dopo sette anni. Una relazione che si esprime anche su due fatti delle ultime settimane: il nuovo accordo europeo sui migranti (con l’ipotesi di rimpatri in Paesi terzi) e gli arresti dei poliziotti di Verona indicati come autori di maltrattamenti e violenze su alcuni fermati. “Fatti - è il giudizio di Palma - indicativi di una cultura, non leggibile con il paradigma autoconsolatorio delle “mele marce”; una cultura che oggi alberga, minoritaria, ma esistente, in settori di operatori di Polizia, che percepiscono la persona fermata, arrestata o comunque detenuta, come nemico da sconfiggere e non come autore di reato a cui viene inflitta quella sanzione che la legge prevede e dei cui diritti si è responsabili nel momento in cui la si detiene. Certamente ogni argomentazione volta a sottolineare la difficoltà di questo compito è valida, ma mai giustificativa e il porla nell’immediatezza di un accertamento, quasi a diminuire la gravità di quanto acclarato, rischia di assecondare quella cultura di silenzi, di compiacimento, di inadempienza del proprio obbligo di denuncia che può sconfinare nell’omertà”. Aumenta ancora la popolazione in carcere, meno stranieri - Sono 57.230 i detenuti nelle carceri italiane, di cui 2.504 donne. In aumento di 2.500 unità comunque rispetto al 2016, anno di insediamento del garante, che sottolinea come nel frattempo la capienza, già del tutto insufficiente degli istituti di detenzione, è aumentata solo di 1.000 posti. In calo la percentuale dei detenuti stranieri che passa dal 34 al 31,2 % e in diminuzione (e questo è uno dei pochi dati positivi) anche il numero dei reclusi senza condanna definitiva che passa dal 35,2 al 26,1 per cento. Troppi detenuti con pene molto lievi - A far scattare il campanello d’allarme sono però le ancora troppe presenze in carcere di persone che devono scontare pene lievi per reati minori, in 1551 addirittura sotto l’anno e 2.785 con pene da uno a due anni. “ Per loro - nota il garante - non ci sono progetti di rieducazione e occorre assolutamente prevedere strutture diverse con legami sul territorio”. Molto alto il numero dei suicidi già nei primi mesi dell’anno - Ventinove i detenuti che si sono tolti la vita in cella nei primi cinque mesi del 2023 più 12 casi di morti ancora da accertare, un trend in linea con gli 85 suicidi dello scorso anno. Sottolinea il garante come a gravare su questi atti estremi siano proprio le condizioni di invivibilità, ma anche “i gravi episodi di maltrattamenti e offesa della dignità delle persone detenute” a fronte soprattutto di detenzioni non necessarie, appunto quelle per reati di lieve entità a cui a da contraltare la diminuzione di reati gravi come gli omicidi (-25 %), le rapine (-33%), l’associazione mafiosa (il 36 %). Rivedere le regole e i tempi del 41 bis - Il garante Mauro Palma affronta anche il delicatissimo tema del regime di detenzione speciale del 41 bis di cui quest’anno si è molto discusso anche per il caso Cospito. “È tempo di aprire un confronto sul 41 bis - dice Palma - sulla sua funzione, sulle regole, sull’estensione della sua applicazione, sulla durata spesso illimitata. Ancora poca istruzione in cella - Il garante chiede al parlamento un investimento nell’istruzione. Tra i detenuti - si legge nella sua relazione - ci sono ancora 5.000 persone che non hanno concluso il ciclo della scuola dell’obbligo. Per altro verso in 1427 si sono iscritti ai corsi universitari. I migranti privati arbitrariamente della libertà - Non piace al garante la prospettiva, prevista dal nuovo patto asilo e immigrazione, di rimpatri dei migranti senza permesso di soggiorno nei Paesi terzi. Già nei giorni scorsi Palma ha detto a Repubblica che la strategia dei rimpatri nella politica migratoria è “a perdere”. Lo confermano i numeri del 2022. Complessivamente i rimpatri sono stati 3.916 (2308 in Tunisia, 329 in Egitto, 189 in Marocco e 58 in Albania), “numeri piccoli rispetto al clamore frequente delle intenzioni”. E soprattutto troppo pochi rispetto alle 6.383 persone che nel 2023 sono state detenute nei Centri per il rimpatrio: di loro solo la metà è stata effettivamente rispedita a casa, gli altri - sostiene il garante - “è stata ugualmente trattenuta senza il perseguimento dello scopo come era da subito ipotizzabile e dunque senza giustificazione”. La lunghissima lista d’attesa nelle Rems - Senza soluzione la delicatissima questione delle residenze destinate ad ospitare persone con problemi mentali che si sono macchiate di reati: sono 31 e ospitano 632 persone ma 675 sono in lista d’attesa e di queste 42 sono ancora illegalmente detenute in carcere. Meno omicidi e rapine, ma più detenuti: 57 mila in carcere, solo 2500 sono donne di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 15 giugno 2023 La relazione del Garante dei detenuti Palma: diminuiscono gli stranieri e quelli che vengono tenuti in carcere senza una condanna definitiva. Ma continuano i suicidi (30 dall’inizio dell’anno) e i casi di tortura. È un effetto paradosso: diminuiscono i reati, aumentano i detenuti. In un anno si è registrato il 25% in meno di omicidi volontari, il 36% in meno di reati di associazione mafiosa e il 33% in meno di rapine. E il numero delle persone in carcere è passato da poco più 54 mila a oltre 57 mila. Sono numeri contenuti nella relazione di Mauro Palma, il Garante delle persone provate della libertà personale, che con questa conclude i sette anni di attività della sua autorità, presentata giovedì mattina a Montecitorio. I numeri della relazione devono essere letti in controluce per non essere ingannati dal paradosso. Si devono andare a guardare le cifre relative ai detenuti per piccoli reati: sono oltre 4 mila quelli con pene inferiori a due anni, quasi mille e cinquecento quelli sotto all’anno. Per legge potrebbero avere accesso a diverse pene alternative al carcere: “Il non accesso ad esso è indicativo di una complessiva povertà di supporto sociale, di assistenza legale, di comprensione delle norme stesse”, spiega il Garante che nella sua corposa relazione si è soffermato ad analizzare le sfaccettature dell’intero panorama carcerario. La popolazione carceraria - Non solo detenuti, ma anche persone in misure alternative e quelle “messe alla prova”: è un esercito di circa 136 mila persone quello che forma il sistema carcerario delle persone private della libertà. Ovvero oltre 57 mila detenuti, oltre 53 mila in misura alternativa e quasi 26 mila quelle “messe alla prova”. Con un dato particolarmente significativo: su oltre 57 mila detenuti solo 2 mila e 500 sono donne. Una proporzione che è rimasta invariata negli ultimi sette anni, quando le donne in carcere erano circa 2 mila e 300. Anche i minori hanno mantenuto inalterata la stessa cifra negli ultimi sette anni analizzati da Mauro Palma: “Il servizio minorile oggi ha in carico 14.473 minori o giovani adulti, erano 14.212 quando relazionai al Parlamento la prima volta”, dice il Garante che nel consuntivo di questa reazione ha potuto rilevare una diminuzione degli stranieri detenuti: la percentuale è passata dal 34 al 31,2%. Particolarmente diminuita la fetta di quelli che sono in carcere senza alcuna condanna definitiva: dal 35,2 al 26,1%. Tortura e suicidi - È il capitolo più drammatico della relazione. Purtroppo anche quest’anno si contano le morti in carcere: 41 quelle fino al 1 giugno, di cui 30 suicidi certi e 12 da accertare. Nel 2022 si erano tolti la vita 85 detenuti, uno ogni quattro giorni. Quindi la tortura. Il reato di tortura è stato introdotto in Italia nel 2017. In quasi sei anni sono numerosi i procedimenti giudiziari avviati per ipotesi di tortura in carcere. E nel 2021sono state emesse anche le prime sentenze di condanna per tortura: il tribunale di Ferrara per un agente di polizia penitenziaria, il tribunale di Siena per dieci agenti di polizia penitenziaria. In ballo poi i procedimenti per i fatti che riguardano gli istituti penitenziari di Sollicciano, di Torino e di Santa Maria Capua Vetere. Le Rems - Molta attenzione da parte del Garante sulle Rems, ovvero le strutture alternative al carcere per le persone con disturbi psichici. Era il 2015 quando vennero chiusi per legge gli ospedali psichiatrici giudiziari e le Rems vennero create per accogliere le persone che erano lì detenute. Ma ad oggi in tutta Italia si contano soltanto 31 Rems: accolgono 632 persone, mentre 675 sono in lista d’attesa. Ovvero recluse nelle carceri ordinarie senza l’adeguata assistenza. In Liguria, a Calice al Cornoviglio, è stata da poco inaugurata una Rems che accoglie detenuti con disturbi psichici provenienti da tutto il territorio nazionale. Una struttura che così realizzata non segue le norme della legge 180 che prevede un’assistenza territoriale. E per questo Mauro Palma si augura che non venga adottata su larga scala. Giustizia è anche riannodare i fili con la comunità di Michele Passione* L’Unità, 15 giugno 2023 Dopo gli articoli di Pugiotto e Corleone, intervengo nel dibattito sulla giustizia riparativa. Riguarda le persone, non si occupa di accertamento del fatto di reato, ascrizione di responsabilità, pena che sono prerogative del processo penale, che va mantenuto impermeabile a ogni deriva etica Polifonia; si definisce in musica uno stile compositivo che combina due o più voci (umane o strumentali) indipendenti, su diverse altezze sonore. È (anche) per questo che dobbiamo esser lieti del ritorno in edicola de L’Unità, capace in questi giorni (e fin da subito, rivendicandolo) di ospitare anche quelle più scomode, con buona pace di chi legittimamente ha opinioni difformi. Cacofonia; l’effetto sgradevole provocato da certi accostamenti di parole, voci o strumenti, non accordati insieme. Con queste premesse, naturalmente opinabili, riprendo qui due recenti interventi di Andrea Pugiotto e Franco Corleone, ai quali mi unisce da tempo immemorabile un profondo sentimento di amicizia ed impegno su temi politici e giuridici, ed ai quali sono grato per aver condiviso tante riflessioni e battaglie. Aggiungo dunque la mia voce, con i limiti che le sono dati, a questo scambio di opinioni in materia, questa volta in dissenso (costruttivo) rispetto alle riflessioni sopra citate. Ma veniamo al dunque. Molto opportunamente Andrea Pugiotto ha evidenziato su queste pagine (20 maggio) che “il paradigma vittimario è cosa ben diversa dalla giustizia riparativa”, invitando non solo a presidiare il labile confi ne tra questi due mondi, ma anche quello liberale e garantista del diritto penale (un ossimoro - in accordo con le acute riflessioni di Massimo Donini - ché più opportunamente occorrerebbe parlare di garantismo penale). E però, possiamo sin da subito chiederci dove sia l’extrema ratio del diritto penale, ciò che dovrebbe confinare nell’angolo la sua leva incapacitante (la sanzione) per far posto a soluzioni alternative ai problemi sociali e politici delle persone, superando (o almeno riducendo) quella “strana pratica, e la singolare pretesa, di richiudere per correggere” di cui parlava Foucault. Invece, ed è noto, trionfa la decretazione di urgenza, l’espansione senza fine del diritto penale totale, pronto a sanzionare qualunque condotta debitamente insufflata nel comune sentire come meritevole di punizione, per poi passare alla cassa del consenso elettorale. È questa, purtroppo, una ricetta invalsa, della quale la destra fa largo uso attualmente, ma certamente non estranea a Governi di altro colore. Dopo aver perciò giustamente stigmatizzato “lo spettacolo del dolore”, che concede strumentalmente spazio alle vittime, sottraendolo alla giustizia sociale, osservando anche che “se tutte le vittime sono uguali, allora hanno anche identica voce in capitolo”, poco più avanti si giunge ad opposta considerazione, volta a smascherare “un uso strumentale del paradigma vittimario”, che discrimina vittime buone e meritevoli di attenzione da quelle ribelli e irregolari per definizione (le vittime cattive), i detenuti, i migranti, i transgender, finendo per mettere in discussione financo il reato di tortura (questo sì, un diritto universale, che qualche patriota vorrebbe eliminare in favore della gestazione per altri. Il figlio del peccato). Emergono dunque due istanze contrapposte, ma per fortuna la forza del pensiero luminoso di Manlio Milani ci ricorda il bisogno di tutte le vittime di uscire dallo stigma pietrificante della vittima perenne, (ri)diventando cittadini, parte della comunità e dei suoi valori, anche mettendosi accanto a chi ha generato il conflitto, trasformando il dolore in un atto politico, e non privato. Anche per questo, non è possibile confondere il perdono con diritti (del reo) o doveri (della vittima); il perdono, questo sì, è un fatto privato, e come di recente affermato (Belpoliti) “sta fuori da ogni logica giuridica, da ogni misura, perché appartiene all’incommensurabile”. Ma è sul perdono e sul pentimento che è tornato su queste pagine Franco Corleone (2 giugno), di nuovo denunciando il rischio per “la matrice laica, liberale e garantista del diritto penale”. Cerchiamo di capire, verificando senza pregiudizi ideologici. Si sostiene che “la giustizia riparativa, prossima a venire” (ma arriveranno i decreti attuativi entro il 30 giugno? Prima gli arresti in flagranza differita, arresti senza querela, sorveglianza speciale, etc. Mica solo i rave..) “dovrebbe realizzare un mondo nuovo e una giustizia penale alternativa a quella che oggi conosciamo”. Crediamo di intenderci, non ci intendiamo mai; nessuna velleità palingenetica, nessun mondo nuovo. Come unanimemente noto, la RJ è complementare - non alternativa - al diritto penale, non fosse altro perché si media all’insegna del precetto, e non suo malgrado. Riguarda le persone, la collettività; non si occupa di accertamento del fatto di reato, ascrizione di responsabilità, pena, che sono prerogative del processo penale, che va mantenuto impermeabile ad ogni deriva etica. Chi scrive ha fatto parte della Commissione ministeriale, guidata da Adolfo Ceretti, che ha predisposto il testo in materia di giustizia riparativa confluito nel D.L.vo n.150/2022; secondo Corleone, si tratterebbe di “una distrazione di massa promossa da coloro che dovrebbero essere protagonisti della contestazione della crisi che si aggrava”. Molto sommessamente, non nutro ambizioni da pifferaio, e anche se a margine, non certo da protagonista, da trent’anni mi occupo di carcere, delle meccaniche del potere, di violenza, e anche di tortura. Non spesso in grande compagnia. Per evitare di “dimenticare i tredici morti dell’inizio della pandemia nel carcere di Modena” non bisognerebbe inseguire “le magnifiche sorti e progressive della giustizia riparativa”, producendo “tanto rumore per nulla…mettendo in campo uno stuolo di mediatori assunti con contratti precari… invece di rafforzare gli UEPE”. Inviterei a considerare un dato; con la disciplina di nuovo conio si rovescia l’ostatività penitenziaria, concedendo a tutti, senza limiti edittali o per titoli di reato, di accedere a percorsi (volontari) di giustizia riparativa, volti a promuovere il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa e la ricostituzione dei legami con la comunità. La giustizia riparativa è per tutti, ma non è da tutti, ed il precipitato della novella, che guarda anche alla concreta utopia di cui all’art.3, comma 2 Cost., non sovverte certo il cognitivismo processuale. Piuttosto, la matrice pubblicistica della RJ pone al riparo, senza rischio di ricreare lo speculare modello punitivo pubblico, dall’ingresso di logiche moralistico - redentive, o addirittura vendicative. Non può dunque convenirsi con l’assunto secondo il quale “la dimensione del pentimento e del perdono diverranno centrali e, nel caso di reati meno gravi, susciteranno notevoli perplessità”, perfino “mettendo in imbarazzo la vittima” laddove un giudice (così equivocando il ruolo che il decreto gli affida) favorisca “la confessione”. Nulla di tutto ciò (malgrado, ad onor del vero, ci sia chi proprio non intende, ritenendo che l’esito riparativo simbolico, nella sua “forma più spettacolare, è il pentimento, consistente in un atto pubblico di contrizione”: così la relazione alla novella sul punto da parte dell’Ufficio del Massimario della Cassazione). Giustizia è tante cose; un giusto processo, il diritto alla salute, l’affettività in carcere, la risocializzazione, anche attraverso le Case di reinserimento sociale, di cui alla felice proposta di legge di Riccardo Magi. Ma anche, senza che una cosa escluda un’altra, una giustizia trasformativa, che non assegni alla vittima un ruolo nella dosimetria della pena, ma consenta alle parti una closure che passi dal riconoscimento, e non dalla restituzione (impossibile) di ciò che si è rotto. Per concludere, di nuovo con le parole di Massimo Donini: “chi fa di mestiere il penalista è oggi consapevole che il penale è ovunque, ha invaso ogni anfratto della nostra vita, ed è diventato - il diritto, o meglio la legge penale, non il delitto - una nuova emergenza. Non possiamo più legittimarlo. Proprio in nome dell’approccio costituzionalistico”. Bisognerebbe tenerlo a mente, pensando a qualcosa di meglio della pena retributiva; su questo, ne sono certo, io e i miei Amici la pensiamo allo stesso modo. *Avvocato del Foro di Firenze Giustizia, se la speranza è il distacco dalle ideologie di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 15 giugno 2023 I nodi della riforma: dopo mesi arriva un disegno di legge molto garantista, “il miglior omaggio” al leader scomparso. Ma il grande cambiamento sistemico non è all’orizzonte. Nel giorno dei funerali di Berlusconi, la riforma della giustizia, infine, si muove. Magari non con passo da gigante. E tuttavia è difficile non cogliere in questa concomitanza una cifra simbolica, accreditata del resto anche negli uffici di via Arenula come “il miglior omaggio” al leader scomparso. Dopo sette mesi, sul tavolo dell’esecutivo arriva un disegno di legge dall’impianto molto garantista, come previsto. Ma la promessa, grande riforma sistemica per ora non è all’orizzonte. Forse perché l’Italia non è un Paese per riformisti, cristallizzata com’è in corporazioni, ordini e conventicole con poteri di veto persino sui regolamenti condominiali. O forse perché stavolta l’oggetto del cambiamento è così divisivo da avere già paralizzato la vita pubblica per trent’anni. Sicché appare sempre meno criptica la dichiarazione d’esordio d’un liberale come Carlo Nordio, il quale, fresco di nomina al vertice del ministero, sentì l’inusuale bisogno di avvisare che si sarebbe dimesso ove non gli avessero consentito di fare il proprio lavoro fino in fondo. Ora quel lavoro è iniziato. Ma, nella visione del guardasigilli, non può consistere soltanto nell’abrogazione dell’abuso d’ufficio (che, si dice, paralizza la firma dei pubblici amministratori), nel porre mano a fattispecie problematiche quali il traffico di influenze, nel tutelare la privacy dei terzi intercettati o i diritti degli indagati (lodevole qui, ma difficile da realizzare, è l’idea di un collegio di gip per decidere sulla custodia in carcere). No, la prospettiva reale di Nordio è una sterzata garantista dell’intero sistema: andando a toccare, ovviamente coi tempi del dettato costituzionale, anche veri baluardi dell’ordinamento giudiziario come l’unicità delle carriere e del Csm o l’obbligatorietà dell’azione penale. Vasto programma, certo, soprattutto perché il fuoco di sbarramento delle toghe è incominciato ben prima di accostarsi a una riforma così profonda. È in tale contesto più ampio, oltre che negli specifici punti d’attrito del caso Artem Uss e dei controlli sul Pnrr, che va inquadrato lo stato di agitazione dell’Associazione nazionale magistrati sfociato nei duri toni dell’assemblea plenaria di domenica scorsa. È indiscutibile che una reazione, diciamo, di categoria sia derivata dalla decisione del governo di eliminare il controllo concomitante della Corte dei conti sull’impiego dei fondi nel Piano di rilancio e resilienza. Ma dalle parole di molti autorevoli magistrati si coglie anche altro: la voglia di dare un colpo di avvertimento al ministro, in vista, appunto, già dei primi cambiamenti presto all’esame del Parlamento. In una recente intervista a Repubblica, il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, teneva insieme la protesta delle toghe contro l’azione disciplinare disposta da Nordio sull’infelice gestione del fuggiasco russo Uss con la difesa delle prerogative della magistratura contabile e, ancora, con l’intangibilità delle intercettazioni e della disciplina sull’abuso d’ufficio. In sostanza riproponendo come unica via della pace l’idea che un governo, di qualunque colore, prima di aprire il libro delle riforme, debba sedersi al tavolo della concertazione coi sindacati dei magistrati, come di qualsiasi altra categoria. Il ministro è certo sostenuto da Giorgia Meloni, ma un tema tanto insidioso non può lasciare del tutto indifferente una premier magari poco desiderosa di attirarsi addosso l’unica opposizione ancora viva in Italia, quella appunto della magistratura organizzata. Ciò rende improbabile che una organica riforma garantista degna di tal nome veda mai la luce. E tuttavia, per una bizzarria della storia, una ben più radicale riforma potrebbe star prendendo consistenza proprio dentro la più nota roccaforte togata, nella sua carne viva. Scorrendo Questione Giustizia, il sito di Magistratura Democratica, accanto a editoriali di piena ortodossia che richiamano i colleghi allo spirito degli “attualissimi” “insegnamenti degli anni Settanta” lanciando una nuova “resistenza civile”, si potrà trovare anche la pacata riflessione di una giudice calabrese, Pina Porchi, che apre dolorosamente la “questione generazionale”: i giovani magistrati stanno allontanandosi dai luoghi dell’associazionismo giudiziario e dalle correnti; “refrattari al discorso identitario o ideologico” si dicono “delusi” dalle degenerazioni e “diffidenti” verso un mondo “autoreferenziale”: quello in cui i colleghi più anziani si dedicano a competizioni personali” sulla pelle degli ultimi arrivati. È troppo facile derubricare tanta disillusione alla voce “effetto Palamara”. Anche se per onestà va aggiunto che la giudice Porchi augura alla storica corrente di sinistra il recupero della capacità di parlare ai giovani, la parte più intrigante della sua analisi si trova in premessa, una vera cesura: qualcosa sta cambiando tra chi ha intorno ai trent’anni e sente nella toga “un sogno realizzato” e subito tradito. Non ce ne vogliano all’Anm: ma se la vera riforma fosse culturale e stesse proprio in questo distacco da identità e ideologie? Se ciò che appare a taluni una iattura fosse una opportunità? Le correnti, e segnatamente Md, hanno avuto una funzione innovatrice negli anni Sessanta e Settanta rispetto a una magistratura codina che, come ricordava Emanuele Macaluso, non riusciva nemmeno a perseguire gli assassini dei sindacalisti nella Sicilia del dopoguerra. Ma le stagioni cambiano, le democrazie maturano, così come cambia e matura la consapevolezza professionale delle nuove generazioni. Se un giorno gli indagati potessero infine ignorare le preferenze politiche dei magistrati e questi ultimi scoprissero che non si raddrizza per sentenza il legno storto dell’umanità, beh, il grosso sarebbe fatto. E persino la riforma della giustizia dalle ambizioni più elevate ci apparirebbe come il dettaglio tecnico a seguire: poco più che una faccenda da azzeccagarbugli. Dall’abuso d’ufficio alle misure cautelari: è l’ora delle riforme di Valentina Stella Il Dubbio, 15 giugno 2023 Oggi in Consiglio dei ministri il ddl del guardasigilli. Il presidente dell’Anm Santalucia: “Siamo preoccupati”. Costa (Azione): “Contenuti apprezzabili”. Sono 8 gli articoli contenuti nel Ddl intitolato “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario” che approderanno oggi in Consiglio dei ministri. Si tratta del primo pacchetto di riforme del guardasigilli Carlo Nordio. Come ha riferito il viceministro Francesco Paolo Sisto a Rainews24, “Berlusconi ha subito tanto, troppo, a causa della giustizia: per questo voglio dedicare a lui la riforma”, che costituisce “un passo importante verso un processo davvero giusto. Non arriva sull’onda emotiva per la scomparsa di Berlusconi ma è stata studiata e calibrata nel tempo, con la diretta partecipazione del presidente stesso”. Abuso d’ufficio. “L’articolo 323 è abrogato”. L’abolizione del reato è motivata “ dalla applicazione minimale da parte delle corti italiane” e dallo “squilibrio tra iscrizioni della notizia di reato e decisioni di merito, rimasto costante anche dopo le modifiche volte a ricondurre la fattispecie entro più rigorosi criteri descrittivi” che “è indicativo di una anomalia”, spiega la relazione illustrativa. Infatti, “rimane ancora alto il numero di iscrizioni nel registro degli indagati: 4.745 nel 2021 e 3.938 nel 2022. Di questi procedimenti, 4.121 sono stati archiviati nel 2021 e 3.536 nel 2022” e il numero complessivo delle condanne assomma nel 2021 “a 18 casi in dibattimento di primo grado”. Traffico di influenze. Viene modificato anche l’articolo 346- bis, che viene meglio definito e tipizzato e “limitato a condotte particolarmente gravi”. Viene innalzata la pena minima che passa da un anno a un anno e sei mesi. Intercettazioni. Verrà escluso il rilascio di “copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione”, quando “la richiesta è presentata da un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori” ; si “amplia l’obbligo di vigilanza del pubblico ministero sulle modalità di redazione dei verbali delle operazioni (c. d. brogliacci)” e, rispettivamente, il dovere del giudice di “stralciare” le intercettazioni, includendovi - oltre ai già previsti dati personali sensibili - anche quelli “relativi a soggetti diversi dalle parti”. Si modifica l’articolo che attualmente vieta la pubblicazione del contenuto delle intercettazioni sino a quando esse non siano state “acquisite ai sensi degli articoli 268, 415- bis o 454”; tale limitazione viene ora resa più stringente prevedendo che il divieto di pubblicazione cessi solo allorquando il contenuto intercettato sia “riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”. Lo scopo - si legge nella bozza - è “rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento rispetto alla circolazione delle comunicazioni intercettate”. Contraddittorio e misure cautelari. Per dare all’indagato e al giudice un momento di interlocuzione diretta, prima di una misura cautelare, si introduce il principio del contraddittorio preventivo nei casi in cui, per il tipo di reato o per la concretezza dei fatti, durante le indagini preliminari non sia necessario “l’effetto sorpresa” del provvedimento. Nel ddl, si prevede che il giudice proceda all’interrogatorio dell’indagato prima di disporre la misura, previo deposito degli atti, con facoltà della difesa di averne copia. Ove compatibile con la situazione concreta, l’indagato potrà avere la possibilità di una difesa preventiva, prima dell’emissione di una misura dall’impatto così dirompente come la custodia in carcere. Le situazioni in cui non sarà possibile una previsione di contraddittorio sono quelle in cui esiste il pericolo di fuga o di inquinamento delle prove o quando, per tipologia di reati, non è possibile rinviare la misura cautelare (qualora, ad esempio, vi sia il rischio di reiterazione di gravi delitti con uso di mezzi di violenza personale o per tutti i delitti gravi). Collegialità e misure cautelari. Si propone di introdurre la competenza di un organo collegiale, formato da tre giudici, per l’adozione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere. La collegialità riguarda solo la più grave delle misure, quella inframuraria; non è estesa ai domiciliari, per valorizzare il carattere di extrema ratio della custodia in carcere. Dato l’impatto sull’organizzazione dei Tribunali, soprattutto per le incompatibilità dei tre giudici rispetto alle successive fasi del processo, si prevede un aumento dell’organico con 250 nuovi magistrati destinati alle funzioni giudicanti. Per consentire le necessarie assunzioni, l’entrata in vigore è differita di due anni in attesa del bando 2024. Inappellabilità delle assoluzioni. Il ddl propone di ridisegnare il potere del pm di proporre appello contro le sentenze di assoluzione di primo grado, rispettando però le indicazioni della Corte costituzionale. La limitazione non riguarda i reati più gravi (compresi quelli contro la persona che determinano particolare allarme sociale). I limiti all’appello, di fatto, riguarderanno solo i reati a citazione diretta a giudizio (ex art. 550 cpp). Le reazioni. Secondo il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, il ddl “non ha ambizioni importanti, sistematiche, ma contiene modifiche che, a mio giudizio, non vanno nella direzione giusta”. Tra le “criticità più importanti”, “l’eliminazione dell’abuso d’ufficio, il giudice collegiale per la custodia cautelare in carcere e la limitazione dei poteri di appello del pm”. Mentre la “limitazione alla pubblicazione di alcune conversazioni crea un’ulteriore tensione tra diritto dell’informazione e diritto dell’imputato”. Invece per il responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa, “il ddl Nordio ha contenuti apprezzabili. Molti temi (abuso d’ufficio, intercettazioni, interrogatorio ante misura cautelare, collegiale per gli arresti) sono in nostre proposte depositate. Sulla prescrizione interverremo in Parlamento”, ha aggiunto. Giudici, intercettazioni e riforma penale di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 15 giugno 2023 Mentre in Italia il governo si appresta ad adottare un’iniziativa legislativa in materia di giustizia penale, su un terreno simile, anche se con contenuto diverso, proprio in questi giorni si muove il legislatore francese. In Italia, dopo le recenti limitazioni poste alle dichiarazioni dei magistrati sui casi di cui si occupano, si vuole ora intervenire vietando ulteriormente la pubblicazione del contenuto di atti processuali (come le intercettazioni). Il tema è quello della presunzione di innocenza e della tutela delle persone non coinvolte nell’indagine penale. In proposito va ricordato che connesso e non residuale è il diritto alla conoscenza dei fatti di rilievo sociale o politico. È un aspetto della costituzionale libertà di espressione e spetta a tutti e all’opinione pubblica in generale. La vicenda legislativa francese, che anch’essa vuole affrontare questioni varie di disfunzione della giustizia penale, accanto ad un forte aumento del budget della giustizia, al reclutamento di 1.500 magistrati in più e ad alcune modifiche procedurali, ha riguardato nel corso della discussione in Senato anche un aspetto della comunicazione pubblica dei magistrati e dei loro gruppi associativi. Si è proposto di inserire una limitazione al diritto dei magistrati di creare sindacati, aggiungendo alla legge che lo prevede una semplice riga, carica di problemi nella sua apparente ovvietà. Si tratta di aggiungere “nel rispetto del principio di imparzialità che s’impone ai membri del corpo giudiziario”. A fondamento di questa proposta i proponenti scrivono che troppo spesso i sindacati dei magistrati intervengono con dichiarazioni su temi politici non direttamente collegati con lo statuto dei magistrati e il funzionamento della giustizia. Soltanto su tali materie le organizzazioni dei magistrati (in Italia le “correnti” della Associazione nazionale magistrati, altrove le varie associazioni) dovrebbero esprimere le loro opinioni. I problemi non sono pochi, a partire proprio dalla portata che si vuole assegnare al naturale e fondamentale dovere di imparzialità dei magistrati, richiamato dalla Costituzione, dalla Convenzione europea dei diritti umani, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Chiara può essere l’esigenza d’imparzialità del giudice rispetto a ciascuna delle parti in giudizio. Vi sono nella legge disposizioni analitiche in proposito e mezzi per assicurarla, eliminando ogni elemento di vera o sospetta parzialità. Una serie di incompatibilità impedisce ai giudici, che si sono già pronunciati in una fase del procedimento, di partecipare poi alle fasi successive. Il motivo di tali incompatibilità (molto onerose sul piano dell’organizzazione dei piccoli tribunali) è legato al fatto che una volta maturata una opinione - tanto più se formalizzata ed espressa - vi è come una resistenza psicologica a modificarla, quando nuovi motivi o nuovi argomenti svolti dalle parti nel processo vi si contrappongano. Ma un problema può porsi anche quando il giudice si sia espresso fuori del procedimento, donde l’obbligo di prudenza. I casi sono infiniti e quelli che provocano polemiche anche politiche sono solo una parte di essi. Vi sono le questioni generali di diritto e quelle di principio o anche specifiche di carattere sociale e politico. Il problema può nascere quando il giudice si debba occupare di un caso che ricade nel quadro entro il quale egli si è già espresso. Il legame con il caso concreto da giudicare è tanto più tenue quanto più generale è la questione su cui il magistrato si è espresso. Il codice etico della magistratura italiana, che proclama la “piena di libertà di manifestazione del pensiero” dei magistrati, richiede loro di ispirarsi a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste anche quando intervengano senza riferimento a casi di cui si devono occupare professionalmente. Non è menzionata la imparzialità, anche di immagine, ed è un peccato; ma l’esigenza di tenerne conto può essere implicita. La imparzialità, accanto alla indipendenza, rappresenta un dovere per il magistrato, ma è anche un diritto che spetta ad ogni cittadino, anche se non coinvolto in un processo. Ed allora si vede che accanto a quello dell’atteggiamento del singolo magistrato e della fiducia che deve ispirare, vi è un profilo più ampio, che riguarda il corpo giudiziario nel suo complesso o in parti di esso. Viene così in rilievo il tema cui si riferisce l’intervento legislativo in discussione in Francia e che è spesso oggetto di polemica anche in Italia. Esso ha subito cagionato reazioni allarmate da parte dei magistrati e non è detto che nel seguito della discussione parlamentare trovi approvazione definitiva. Si tratta di questione estremamente delicata, come tutte quelle che riguardano i limiti alle libertà. In più è difficile il giudizio su quali dichiarazioni, di singoli o di gruppi, mettano in pericolo la imparzialità che deve garantire la magistratura. Mentre i limiti dovrebbero essere definiti quanto più possibile. È chiaro che non si tratta soltanto di evitare espressioni settarie, incompatibili con i principi costituzionali o impropri esibizionismi. Ed è difficile applicare criteri generali, per materia, per definire e delimitare i temi su cui il magistrato ed i gruppi di magistrati possono esprimersi. È diffusa in Europa la tendenza di governi e partiti politici a tentare di zittire la magistratura, anche con sanzioni disciplinari, contro singoli e contro dirigenti delle associazioni. Ma è anche vero che occorre tener conto della speciale natura delle funzioni di cui il magistrato è incaricato, con i doveri che ne discendono per i singoli e per i gruppi. La fiducia pubblica nell’imparzialità dei singoli e della magistratura nel suo insieme può esser messa in crisi dall’entrata dei magistrati nel contrasto politico. È esperienza conosciuta quella che ha visto in difficoltà la credibilità della magistratura come conseguenza della sua contrapposizione con altre articolazioni istituzionali o sociali. Da parte della magistratura è opportuno il distacco -invece del coinvolgimento- nel conflitto politico. Poiché la magistratura non è un attore qualunque della vita della società e dello Stato. È questa un’esigenza diffusa in Europa, di cui le sentenze della Corte europea dei diritti umani sono un aspetto rilevante. Ferma la titolarità anche per i magistrati della libertà di associazione e di espressione, la Corte ha più volte affermato la violazione della Convenzione europea per sanzioni inflitte a magistrati e, in particolare, a dirigenti di associazioni di magistrati. Anche recentemente nei confronti di Ungheria, Polonia, Turchia, Svizzera, ha affermato che non si tratta solo di un diritto, ma è anche un dovere quello dei magistrati e dei loro sindacati di contribuire con le loro valutazioni al dibattito relativo a temi e riforme legislative attinenti alla magistratura e alla sua indipendenza. Anche quando vi siano implicazioni politiche. Ma, fuori di tali tematiche, la Corte ha riconosciuto che la missione particolare del potere giudiziario nella società impone ai magistrati un dovere di riserbo, poiché “la parola del magistrato … è ricevuta come l’espressione di una valutazione oggettiva che impegna non soltanto chi la esprime, ma anche, per suo mezzo, tutta l’istituzione giudiziaria”. E la Corte ha aggiunto che si ha il diritto di attendersi da parte dei magistrati ch’essi facciano uso della loro libertà di espressione con prudenza ogni volta che l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario rischino di esser messi in discussione. I magistrati e i loro gruppi dovrebbero dunque aver sempre presenti le esigenze di protezione della magistratura e del suo ruolo, di cui ciascuno è in qualche modo portavoce. Specialmente quando il contesto sociale e politico vede frequenti attacchi alla magistratura, la difesa della sua indipendenza più che l’ingresso nel conflitto può richiedere riserbo e responsabilità. Guerra sulla giustizia: Nordio cancella l’abuso d’ufficio di Giulia Merlo Il Domani, 15 giugno 2023 Alla fine ha prevalso la linea più decisa: il reato di abuso d’ufficio sarà soppresso. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha quindi superato le resistenze di una parte della maggioranza e in particolare della Lega e, a distanza di sette mesi dai primi annunci, ha depositato a palazzo Chigi la bozza del suo disegno di legge sulla riforma penale, pronto per arrivare oggi in cdm: otto articoli che contengono la prima tranche delle tante modifiche anticipate dal Guardasigilli. In questo testo vengono toccati i reati contro la pubblica amministrazione, con la cancellazione del reato di abuso d’ufficio, considerato afflittivo nella fase delle indagini per le ombre sull’immagine degli amministratori ma scarsamente incisivo visto l’approdo in dibattimento avviene in un numero molto limitato di casi (nel 2021, ci sono stati solo 18 casi di condanna dopo il dibattimento di primo grado). Quello di traffico di influenze illecite, invece, viene circoscritto e la pena minima aumentata a un anno e sei mesi: le relazioni tra pubblico funzionario dovranno essere esistenti e non solo millantate e l’utilità da ricevere dovrà essere economica e non di qualsiasi altro tipo, come favori o benefici non in denaro. Il testo introduce limitazioni alle intercettazioni. Non ne vengono toccati il numero o i presupposti, ma se ne limita la pubblicazione solo ai contenuti intercettati “riprodotti dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”. L’obiettivo, in questo caso, è di tutelare i cosiddetti terzi estranei, limitando la divulgazione di quanto captato dai telefoni alle parti che si considerano penalmente rilevanti. Sempre in quest’ottica, viene previsto che in capo al giudice sorga il dovere di “stralciare le intercettazioni” che contengano “dati personali sensibili, anche relativi a soggetti diversi dalle parti”. A livello procedurale, le modifiche riguardano la fase delle indagini preliminari. Sorge l’obbligo di interrogatorio preventivo della persona di cui il pm ha chiesto l’arresto, con la comunicazione almeno cinque giorni prima (ma il gip può abbreviare il termine per ragioni d’urgenza). Inoltre, con la richiesta d’arresto il pm deve depositare tutti gli atti così che l’indagato possa prenderne visione e la richiesta di misura cautelare in carcere verrà vagliata da un collegio di tre giudici e non più dal gip. Quest’ultima misura, però, entrerà in vigore tra due anni, per permettere nuove assunzioni. Altro elemento dirompente è il divieto del pm di presentare appello contro le sentenze di proscioglimento, ma solo nei casi di “reati di contenuta gravità”, ovvero quelli per cui si prevede la citazione diretta a giudizio. Questo articolo rischia di essere il più controverso, perchè una norma simile venne dichiarata incostituzionale dalla Consulta nel 2006. La riforma, parzialmente oscurata a livello mediatico dai funerali di Silvio Berlusconi, ha raccolto i consensi del terzo polo, con la presidente del gruppo Raffaella Paita che l’ha definita “una riforma in senso garantista, con un ritrovato equilibrio tra i poteri”. Ha incassato invece le critiche dell’Associazione nazionale magistrati, il cui presidente Giuseppe Santalucia ha parlato a Repubblica di “ferma critica”, in particolare per la “ingiustificabile” cancellazione del reato di abuso d’ufficio. Giustizia, insorgono le opposizioni “Torna il bavaglio alla libera stampa” di Liana Milella La Repubblica, 15 giugno 2023 E sull’abolizione dell’abuso d’ufficio il Parlamento dichiara guerra; De Raho: “Cancellarlo e indebolire il traffico di influenze illecite significa dare un duro colpo al contrasto alla corruzione”. Sulla giustizia la guerra in Parlamento è già assicurata. Opposizioni unite contro il Guardasigilli Carlo Nordio e la sua mini-riforma “anti toghe” e “anti giornalisti” che solo stasera giunge in Consiglio dei ministri. Per via Arenula, “un omaggio a Berlusconi”. Tant’è che il vice ministro Francesco Paolo Sisto, avvocato e berlusconiano di ferro, la considera “un passo importante verso un processo davvero giusto”. Che vieterà di pubblicare le intercettazioni depositate, ma che non siano citate per esteso nei provvedimenti dei giudici. Una misura che, con Repubblica, l’ex procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho, oggi deputato del M5S, definisce “una grave limitazione del diritto all’informazione”. E che la responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani legge come “l’evidente ritorno a un passato che speravano di esserci messi alle spalle”. Quello del “bavaglio”. Proprio il clima che lascia basito l’Ordine dei giornalisti, pronto a definire la misura voluta da Nordio “un ostacolo al diritto dei cittadini di essere informati su eventi di rilevante interesse pubblico”. Mentre la Fnsi già vede l’Italia “scivolare fuori dalle classifiche dei Paesi in cui il giornalismo dev’essere il cane da guardia della democrazia”. Il ddl un caso in Europa - Ma non basta. Perché le misure del ddl Nordio potrebbero costituire un caso in Europa, per via della decisione di cancellare l’abuso d’ufficio e depotenziare il reato di traffico d’influenze che diventa solo un doppione del millantato credito. È qui che Nordio guadagna il pieno consenso di Azione e Italia viva, ma perde qualsiasi dialogo con Pd, M5S e Avs. Se Enrico Costa, il responsabile Giustizia calendiano, definisce “apprezzabile” il ddl perché “va nella direzione giusta e può essere implementato in Parlamento” anche se non contiene la “vera riforma” (cioè la separazione delle carriere, ndr), è da tutta l’ala sinistra delle Camere che si preannuncia tempesta. Già a una prima lettura, la dem Serracchiani elenca tutto quello che non va. “Dopo più di otto mesi di annunci roboanti, ci aspettavamo qualcosa di più e di meglio. Alcune norme appaiono di difficile o dubbia applicazione, altre sono mere enunciazioni di principio”. L’abuso d’ufficio abolito - Ma sull’abolizione tout court dell’abuso d’ufficio Serracchiani è “nettamente contraria” perché “dopo settimane di audizioni in commissione Giustizia, a tutti appare chiaro che questo viola gli obblighi internazionali sulla corruzione, per giunta alla vigilia del varo della direttiva Ue proprio su questo tema”. Cafiero De Raho, di fronte al testo Nordio, chiede subito: “Ma davvero ha eliminato l’abuso d’ufficio?”. E dice: “Cancellarlo e indebolire il traffico di influenze illecite significa dare un duro colpo al contrasto alla corruzione e violare importanti accordi internazionali”. Quanto allo stop alle intercettazioni, la sua reazione è sarcastica: “Evidentemente l’affermazione della legalità in Italia e il diritto alla giustizia di tanti cittadini non sono obiettivi di questo governo”. Preannuncia battaglia anche l’Alleanza verdi e sinistra con Devis Dori perché cancellare l’abuso d’ufficio significa creare “un precedente pericoloso che potrebbe aprire la porta all’abrogazione di altri reati gravi”. Risibili, secondo Dori, le motivazioni di Nordio (ci sono poche condanne) perché “la sanzione dev’essere proporzionata alla rilevanza del bene da tutelare, e non certo fondata sulle statistiche”. Il bavaglio sulle intercettazioni? “Intollerabile”. Giustizia, una riforma di nome Silvio di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 15 giugno 2023 Consiglio dei ministri. Per sfruttare l’onda di commozione, arriva il via libera al disegno di legge di Nordio che cancella l’abuso d’ufficio e pone limiti molto severi alla pubblicazione delle intercettazioni. Ma sulle norme di garanzia per la custodia cautelare in carcere il ministro deve rinviare. Ecco gli otto articoli del disegno di legge sulla giustizia. Arrivati ieri dopo mesi di attesa sul tavolo del preconsiglio dei ministri, oggi saranno approvati dal governo. Più delle tensioni nella maggioranza, più dei distinguo di questo o quel partito sui singoli punti, conta l’occasione da prendere al volo. Che per Meloni è quella di intestare la (mini) riforma alla memoria di Silvio Berlusconi. E persino di presentarsi come colei alla quale è riuscito quello che il Cavaliere avrebbe sempre voluto. Anche se siamo solo alla presentazione di un testo che parte per il lungo iter parlamentare. E se si tratta in fondo di norme di piccolo cabotaggio. Non c’è (perché richiede modifiche costituzionali) la separazione delle carriere. E la misura più radicale, la competenza sulla custodia cautelare in carcere spostata a un collegio di tre giudici, entrerà in vigore solo due anni dopo l’approvazione della legge. L’abolizione dell’abuso d’ufficio (articolo 323 del codice penale) è completa, come da annunci. E c’è anche la restrizione del reato di traffico di influenze illecite: viene depenalizzato il millantato credito, l’utilità data o promessa dovrà essere economica e versata direttamente al pubblico ufficiale. C’è anche una stretta sulla possibilità di pubblicare il contenuto delle intercettazioni, ma come tutte le precedenti andrà verificata nel concreto della sua applicazione. Le novità sono che le conversazioni di soggetti diversi dagli indagati non potranno in nessun caso essere pubblicate se non considerate rilevanti per il procedimento. E, più rilevante ancora, l’articolo 2 del disegno di legge stabilisce che è sempre vietata la pubblicazione del contenuto delle intercettazioni, tutte, anche dopo il deposito degli atti, “se non è riprodotto dal giudice nelle motivazioni di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”. Una misura per la quale protesta l’Ordine nazionale dei giornalisti: “Questi limiti alla pubblicazione rischiano di costituire un ostacolo al diritto dei cittadini di essere informati su eventi rilevanti”. Con l’obiettivo di garantire gli indagati, Nordio introduce il principio che prima di adottare una qualsiasi misura cautelare il giudice debba sentirli in contraddittorio. Convocandoli con almeno cinque giorni di anticipo. La regola non vale nei casi in cui ci sia pericolo di fuga, inquinamento delle prove o reiterazione di reati violenti. Ma anche nei casi meno gravi potrebbero sorgere problemi perché la convocazione funzionerà come una sorta di preavviso di arresto. Peraltro nei casi in cui la misura cautelare che si intende disporre è la detenzione in carcere, si prevede adesso che la competenza passi a un collegio di tre giudici (e non più al singolo gip) “per valorizzare il carattere di extrema ratio”. L’Anm però sottolinea da tempo che la novità, comportando nei fatti la competenza di tre giudici in prima battuta, più tre in riesame e cinque in Cassazione, finirà con l’ampliare a dismisura i casi di incompatibilità nei successivi gradi di giudizio. Per questo Nordio nel disegno di legge ha previsto l’assunzione di 250 nuovi magistrati. Ma, nell’attesa, ha dovuto rinviare di due anni l’entrata in vigore della nuova norma. Santalucia (Anm): “Ingiustificabile cancellare l’abuso d’ufficio” di Liana Milella La Repubblica, 15 giugno 2023 Lo stop ai giornalisti sulle intercettazioni crea solo tensione”. “Incostituzionale” togliere al pm il diritto di fare appello. Troppi giudici per decidere su un arresto, così si rischia di incidere sul processo a danno dello stesso imputato. Ed ecco, non appena ha letto il testo della riforma Nordio, la reazione del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. “Ingiustificabile” cancellare l’abuso d’ufficio. Intercettazioni vietate alla stampa? “La norma crea solo tensione col mondo dell’informazione”. Stop all’Appello del pm? “Fortissimi dubbi di incostituzionalità”. Dopo sette mesi arriva la riforma Nordio. Grande riforma o “topolino venefico”? “Non è una riforma di ampio respiro, ma contiene modifiche che meritano una ferma critica”. E qual è la prima? “Come abbiamo già detto in Parlamento, il primo appunto riguarda l’eliminazione dell’abuso d’ufficio. Rispetto al testo attuale che risale al 2020 e che ha già impedito al giudice penale di sindacare l’attività discrezionale amministrativa, l’abrogazione del reato crea un vuoto di tutela penale ingiustificabile. Già questo è sufficiente per consegnare una critica che poi potrà essere più articolata, come abbiamo già fatto davanti alle Camere sui disegni di legge presentati dai deputati”. Nordio sostiene che era un reato con sole 18 condanne nel 2021... “Il numero basso prova che dopo la riscrittura della norma l’area del reato stesso era già ristretta. Ma la condotta va comunque punita, perché esprime un disvalore che non può lasciare indifferente il giudice penale”. Anche lei, come molti suoi colleghi, lo considera un reato “spia” per aggredire la corruzione? “Certamente sì, lo dicono colleghi qualificatissimi sul piano delle indagini. Non ascoltare il loro parere tecnico mi sembra una scelta poco avveduta”. Ha visto che Nordio proibisce ai giornalisti di pubblicare le intercettazioni che non compaiono espressamente citate negli atti dei giudici? “Sì, vedo che viene introdotto un nuovo limite alla pubblicazione delle intercettazioni. Confesso però, che per come è scritta la norma, non riesco a comprenderne pienamente il contenuto. Non capisco cosa significhi quel “utilizzo nel corso del dibattimento”, quando i risultati delle intercettazioni sono già stati considerati rilevanti per quei giudizi”. Ai tempi di Berlusconi lo avremmo se finito un “bavaglio”... “Non v’è dubbio che la norma crea un’ulteriore tensione sul diritto all’informazione”. Con il ddl Nordio i pm non potranno più trascrivere le citazioni di una terza persone che finisce nella telefonata. Si sta togliendo una prova ai processi? “Nella relazione illustrativa del ddl questa ipotesi viene esclusa perché viene fatta salva la rilevanza probatoria di una conversazione. Seppure a una prima lettura, mi pare una norma inutile, già presente nel sistema”. Nordio ripropone pari pari lo stop all’appello del pm che perde il processo. Sarà di nuovo bocciato dalla Consulta come nel 2006 lo fu la legge Pecorella? “I dubbi di costituzionalità sono fortissimi. Aggiungo che questa norma di certo non fa correre i processi in corte di Appello perché già le impugnazioni del pm sono percentualmente modeste. In più crea un forte squilibrio con l’imputato che conserva invece per intero il suo diritto di appellare. Nella commissione Lattanzi che ha preceduto la riforma penale Cartabia una norma di questo tipo era compensata dalla rivisitazione complessiva del giudizio di Appello, con l’effetto di razionalizzare l’esercizio dell’impugnazione da parte dell’imputato. Mentre il ddl Nordio prende un pezzo di quel disegno e trascura tutto il resto che poteva dare una qualche giustificazione alla compressione dei poteri di impugnazione della parte pubblica”. Si passa dall’unico gip a tre giudici per valutare una richiesta di arresto. Ma Nordio dove li troverà anche se prevede un nuovo concorso per 250 magistrati? “Questo è il primo problema, ma non è l’unico. Siamo di fronte a una norma che creerà un fortissimo disagio organizzativo, che si pone in controtendenza con altri annunci riformatori, cioè l’apertura dei piccoli uffici giudiziari. Una scelta che manda un messaggio errato, e cioè che il tribunale, invece del giudice monocratico, sappia “resistere” di più alle richieste del pm. E ancora che creerà le condizioni per cui, di fronte alla richiesta di arresto del pm, si muoveranno in prima battuta tre giudici, poi altri tre in sede di riesame, e ancora altri cinque se l’arrestato ricorre in Cassazione. Stiamo parlando di 11 giudici. E quindi alla fine le valutazioni fatte in sede cautelare rischieranno di avere un peso eccessivo nelle fasi successive del processo con buona pace dei diritti dell’imputato”. Lei sta dicendo che se gli 11 giudici confermano l’arresto questo peserà su tutto il processo? “Sì, c’è sicuramente un rischio molto forte”. Nello Rossi: “Guanti di velluto coi colletti bianchi in una logica da Far West” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 15 giugno 2023 L’ex magistrato: “Con questo ddl il governo di destra punta a un doppio binario: pugno duro per la criminalità violenta e trattamento di riguardo per i reati economici”. “Guanti di velluto per i colletti bianchi in una logica da Far West”, dice Nello Rossi, ex magistrato, esponente di punta di Magistratura Democratica, oggi direttore della rivista Questione Giustizia. Come valuta la proposta sull’abuso di ufficio? “Si è scelta la strada dell’abrogazione totale, anche dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto. Una soluzione sconcertante. Nell’attuazione del Pnrr il nuovo codice degli appalti consente affidamenti diretti fino a 150mila euro, si rende penalmente irrilevante il conflitto di interessi”. Con quali effetti? “Un amministratore pubblico spregiudicato potrà fare ciò che vuole immune da conseguenze penali in una logica da Far West. Appalti dati direttamente a parenti stretti, amici o clienti politici. Anche con spudorati favoritismi”. Non crede che ridurrà la “paura della firma”? “Osservo un singolare cortocircuito. Da un lato si riducono i controlli amministrativi, sostenendo che se ci sono reati interverrà il magistrato penale. Dall’altro lato si eliminano e riscrivono i reati, dicendo che saranno sufficienti i controlli amministrativi. Un gioco delle tre carte: in realtà sono depotenziati entrambi”. E la riforma del traffico di influenze? “Onestamente molti magistrati ne lamentavano la formulazione. Il problema è capire se il governo vuole migliorarla davvero. Elimina la condotta fondata sulla vanteria di una relazione privilegiata con il decisore politico o amministrativo e lascia in vita solo quella basata su una relazione effettivamente esistente, da accertare in sede penale. Ma a volte i sedicenti faccendieri non sono meno pericolosi e non fanno meno danni di quelli “professionali”“. La stretta delle intercettazioni è un bavaglio? “Aumenta l’area dei divieti, ma non si fanno passi avanti per renderli incisivi. Non credo sia la strada giusta per evitare gli abusi, peraltro quasi azzerati negli ultimi anni. E si limita la pubblicazione nella fase delle indagini alle intercettazioni che hanno l’imprinting del giudice”. È una misura garantista? “Una limitazione pesante per il diritto dell’informazione. Si amputa una parte della realtà. E il giudice diventa arbitro unico della pubblicazione di elementi di indagine. Ci possono essere intercettazioni interessanti se non decisive, che il giudice non riporta nei provvedimenti. È giusto vietarne la pubblicazione, anche se non sono più segrete? E se contenessero una prova dell’innocenza dell’indagato o informazioni utili per la generalità dei cittadini? Persino una campagna innocentista “alla Dreyfus” sarebbe bloccata sul nascere”. E le norme sulla tutela dei terzi non indagati nella trascrizione delle intercettazioni? “Questa tutela finirà col valere solo per i processi con indagati eccellenti. In quelli nei confronti di spacciatori, terroristi e criminali di strada nessuno porrà concretamente la questione”. Nordio ha fortemente voluto l’interrogatorio prima dell’arresto, a tutela dell’indagato... “Il modello americano, visto in tv con l’arresto di Trump. Ma per mafia, terrorismo, reati di sangue, armi e violenza, nonché nei casi di pericolo di fuga e inquinamento probatorio, resta in piedi la vecchia misura cautelare a sorpresa. Le nuove regole varranno principalmente per i colletti bianchi. Guanti bianchi solo per loro”. L’Anm critica i limiti all’appello dei pm contro le sentenze di assoluzione... “Su questo punto ho sempre fatto arrabbiare molti dei miei colleghi. Sono favorevole all’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, per un’evidente ragione logica e giuridica. Se il primo giudice ha assolto l’imputato nutrendo almeno un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza, non è sufficiente che il giudice di appello abbia un’opinione contraria. Occorre un di più: dimostrare che la sentenza di primo grado è irragionevole o frutto di gravi violazioni di legge. Per fare questo, il pm dovrebbe poter ricorrere solo in Cassazione”. E la sentenza della Consulta del 2006, che cancellò la legge voluta da Berlusconi? “Il clima è cambiato. C’è stata un’evoluzione nella dottrina e nella giurisprudenza. Con ogni probabilità oggi la Consulta non casserebbe l’inappellabilità”. Questo ddl è un omaggio a Berlusconi? “Il nesso è politicamente e giuridicamente grossolano. Lasciamo stare gli omaggi e guardiamo alla sostanza. Questo ddl è un ulteriore tassello di una politica penale del governo di destra, finora gestita prevalentemente dal ministero dell’Interno, che punta a creare un doppio binario: pugno duro per la criminalità violenta e di strada; trattamento di riguardo per i reati economici e amministrativi, quelli dei “galantuomini”. Si riparla di “persecuzione giudiziaria”. Renzi ha accusato Magistratura Democratica di averla ordita... “Quello della persecuzione è da un trentennio un leitmotiv politico. E ciascuno è libero di avere la sua opinione a riguardo. È invece falso e diffamatorio affermare che le disparate iniziative giudiziarie di diversi uffici siano la trama unitaria di un complotto. E che a gestirlo sia stata Magistratura Democratica. Come ognuno sa, non appartenevano a Md moltissimi dei magistrati, e tra loro i più in vista, che hanno promosso quelle inchieste”. Il tema “toghe rosse” torna di moda? “Viene agitato cinicamente come uno spauracchio, un drappo rosso per aizzare il toro di un’opinione pubblica di destra. Bisognerà mettere fine a questa indegna vulgata. E lo dice un pm di Md che anni fa ha doverosamente chiesto e ottenuto l’archiviazione di una denuncia per aggiotaggio contro Berlusconi sul caso Alitalia”. Ardita: “L’abuso d’ufficio era un deterrente. Si creerà un vuoto nel sistema” di Giulia Merlo Il Domani, 15 giugno 2023 Il disegno di legge del ministro della Giustizia prevede cancellazione del reato di abuso d’ufficio, ma questo “creerà un vuoto nell’ordinamento penale, che travolgerà anche i processi già celebrati”, è l’analisi di Sebastiano Ardita, ex componente del Consiglio superiore della magistratura e oggi tornato a svolgere le funzioni di procuratore aggiunto a Catania. La scelta del ministro Nordio rischia di sollevare polemiche. Quale funzione riveste l’abuso d’ufficio nel sistema dei reati contro la pubblica amministrazione? Il reato di abuso di ufficio non è semplice da provare, ma la sua funzione è quella di impedire l’esercizio di funzioni pubbliche ad uso privato, o per interessi personali. Al di là di ogni considerazione, rappresenta un deterrente per mantenere l’esercizio dei poteri pubblici sul binario della correttezza. Quali effetti creerà e c’è il rischio di un vuoto? Il disegno di legge modifica e restringe anche il traffico di influenze illecite, pur con il minimo edittale aumentato... Certamente si creerà un vuoto nell’ordinamento penale del quale presto sarà possibile accorgersi. Anche la modifica del traffico di influenze finirà per liberalizzare comportamenti che, benché tenuti da privati, finiscono per procurare danni all’immagine della pubblica amministrazione. La cosiddetta millanteria in realtà serve a punire comunque una quota di condotte certamente finalizzate a turbare lo svolgimento di funzioni pubbliche ma per le quali non risulta provato il rapporto con il pubblico ufficiale. Il ministro ha argomentato che attualmente la sua finalità afflittiva era nell’avviso di garanzia, dannoso per l’immagine dei pubblici ufficiali indagati, visto che l’effettivo accertamento dei fatti avveniva in pochissimi casi... Il divario in termini numerici tra le indagini avviate e le condanne conseguite nasce dal fatto che spesso cittadini ritengono di trovarsi dinanzi ad un reato, mentre invece si tratta di semplice violazione amministrativa. E perciò trovandosi davanti a una denuncia è necessario comunque avviare un procedimento penale che poi verrà archiviato. Questo non toglie però che esistono prese di interesse privato in atti di ufficio e occorre essere consapevoli del fatto che rimarranno senza tutela. Sarebbe stato più coerente modificarlo invece che cancellarlo? Nel codice penale italiano a partire dal 1930 l’interesse privato in atti di ufficio è stato sempre reato. Forse basta questa considerazione per rispondere alla domanda. Tenga conto poi che gli effetti dell’abolizione di un crimine non operano soltanto per il futuro, ma in base all’articolo 2 del codice penale travolgono anche i processi già celebrati. In questi casi infatti, anche per coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva, cessano l’esecuzione e gli effetti penali. Uno dei timori della Lega era che, cancellando l’abuso d’ufficio, ora gli inquirenti ipotizzino invece reati più gravi. potrebbe essere una sorta di eterogenesi dei fini? Non credo sia una preoccupazione reale. Per iniziare una indagine sono necessari indizi indizi ricavabili da una notizia di reato. E dunque tutto ciò che prima legittimava l’avvio di un procedimento per abuso d’ufficio, non sempre potrà essere presupposto per ricercare reati più gravi, per i quali sarà comunque necessario comunque avere elementi ricavabili da una notizia di reato. Si toccano anche le intercettazioni, con il divieto di pubblicazione di quanto non riprodotto nella motivazione o non utilizzato nel dibattimento, al fine di preservare i terzi estranei. Condivisibile? Il principio della tutela dei terzi estranei è di per sè condivisibile, anche se trova un limite nelle esigenze del processo; ma tutte le iniziative adottate in questi anni non hanno dato buona prova di sé. Greco a Nordio: “Cancellare i limiti alla difesa” di Errico Novi Il Dubbio, 15 giugno 2023 Dagli Stati generali dell’avvocatura tenuti stamattina a Roma, un vero e proprio mandato politico per il presidente del Cnf, che l’assemblea ha espresso in uno straordinario spirito di unità: il decreto ministeriale sulla redazione degli atti giudiziari non può precludere al difensore il pieno esercizio della propria funzione. “Stamattina il ministro Carlo Nordio, prima di recarsi a Milano per i funerali del presidente Silvio Berlusconi, mi ha chiamato per assicurarmi di percepire con chiarezza la nostra posizione contraria sui limiti agli atti difensivi. Ha colto la nostra intransigenza, e chi ha invitati a un incontro per comprendere i motivi delle nostre preoccupazioni”. Francesco Greco si rivolge ai colleghi accorsi Roma per gli Stati generali dell’avvocatura. Un incontro dal quale il presidente del Cnf ottiene un mandato chiaro. Istituzioni e associazioni forensi lo conferiscono in uno straordinario spirito di unità. “Grazie alla coesione che abbiamo trovato, potrò rappresentare una posizione forte”. Il presidente del Cnf ha appena concluso la prima parte del proprio intervento. Ha riassunto i paradossi del regolamento sulla redazione degli atti giudiziari. Tema dell’incontro alla Pontificia università della Santa Croce, affollato da quasi 300 avvocati accorsi da tutta Italia, in rappresentanza di Ordini e Unioni territoriali, di associazioni forensi, Comitati Pari opportunità e Consigli di disciplina. Il decreto sottoposto da Nordio al Cnf (oltre che al Csm) e, nelle previsioni del governo, destinato a entrare in vigore il 30 giugno è l’emblema di un più generale rischio di compressione per il diritto di difesa. Mentre scriviamo, non è ancora iniziato il previsto faccia a faccia tra il guardasigilli e il vertice della massima istituzione forense. Ma forse per la prima volta da quando la giustizia è entrata nel percorso a tappe forzate del Pnrr, il governo si trova a fare i conti con un’avvocatura coesa nell’idea di fermezza. Indisponibile a negoziare sui contenuti di un decreto ministeriale considerato fuori luogo da tutte le proprie componenti. Greco osserva: “L’unità manifestata negli Stati generali è un dato straordinario. È un elemento di forza del quale l’avvocatura aveva bisogno”. A Nordio, Greco riporta l’altro messaggio condiviso dagli Stati generali di oggi: provvedimenti inaccettabili come il decreto sui limiti di battute per gli atti difensivi sono il prodotto di uffici legislativi composti esclusivamente da magistrati, a cominciare da quello di via Arenula. “Un corto circuito che vede i magistrati fuori ruolo scrivere materialmente le leggi e i regolamenti, fino a travalicare la separazione dei poteri, ad assumere la potestà legislativa che spetterebbe al Parlamento. Una distorsione”, nota il presidente del Cnf, “possibile anche in virtù della tendenza a legiferare attraverso decreti legge, predisposti appunto da uffici presidiati dalla magistratura. Dalla stessa magistratura chiamata poi a interpretare e applicare le norme”. Alla platea degli Stati generali, Greco riferisce un altro episodio sintomatico del “monopolio” che l’ordine giudiziario ha assunto nell’elaborazione normativa: “Di qui a pochi minuti, conclusi i nostri lavori, sarò al ministero della Giustizia per un nuovo incontro sulla riforma ordinamentale. Come sapete, sono al lavoro diverse commissioni che dovrebbero elaborare i decreti attuativi per ciascuna parte della legge delega di Cartabia. Io ho chiesto di far parte del gruppo di lavoro deputato a definire le modifiche sui Consigli giudiziari, tra le quali è previsto il diritto di voto degli avvocati sulle valutazioni di professionalità dei magistrati. Indovinate? Quella commissione aveva praticamente smesso di riunirsi: il nostro voto non è gradito ai magistrati. Finché ho chiesto al presidente se intendeva scioglierla. Allora sono ripresi i lavori, ma è chiaro che non vi sia grande entusiasmo nel realizzare concretamente l’indicazione della delega”. Come già nell’incontro di oggi, Greco continuerà dunque a sottoporre a Nordio l’elemento critico più generale, oltre al nodo specifico del decreto sui limiti agli atti difensivi: “Nell’ufficio legislativo del ministero non possono esserci solo magistrati: devono trovarvi posto anche gli avvocati”. Di sicuro, nel confronto appena iniziato, il presidente del Cnf veicolerà quel principio sul quale, al termine degli Stati generali, ha ottenuto un vero e proprio mandato politico: disponibilità al confronto per trovare una soluzione coerente, e rispettosa del diritto di difesa sancito in Costituzione, sulla sinteticità degli atti. L’obiettivo è previsto, sì, nella riforma civile di Cartabia, ma non vi è certamente declinato, è stato ricordato oggi, in forma di numero massimo di pagine o di caratteri. Il mandato a Greco si completa con un secondo pilastro: “Nessuna possibilità di mediare sulla scelta della linea difensiva. È impensabile che l’avvocato debba selezionare gli argomenti da sottoporre al giudice, che debba escluderne alcuni per evitare sforamenti rispetto alle soglie numeriche fissate dal regolamento. Si tratta di un principio per noi non negoziabile”. Nei suoi interventi di stamattina, Greco ha dato conto fra l’altro dell’interpello promosso dal Cnf presso le avvocature di tutti gli altri paesi europei per verificare se e dove sia previsto un limite di battute per gli atti difensivi: “Ci hanno risposto in 20: in 17 paesi i limiti non esistono. In Grecia, Spagna e Paesi Bassi sono previsti ma sono derogabili”. C’è un ultimo interrogativo: un simile incidente diplomatico può evitarne altri per il futuro? Greco spiega al Dubbio: “C’è da augurarsi che non solo il ministero della Giustizia ma lo stesso Parlamento comprenda la necessità di confrontarsi con gli avvocati quando si interviene sulla giustizia. Noi siamo una componente essenziale del sistema. Non ci mobilitiamo per ragioni corporative ma per tutelare gli interessi dei cittadini. Ignorare il nostro punto di vista significa calpestare le persone”. Csm, approvato il nuovo Codice Etico per i Consigli di Giustizia di Andrea Mirenda Il Riformista, 15 giugno 2023 Per il nuovo codice previsto dall’Ue, i membri dei Consigli di Giustizia non devono abusare della toga per ottenere vantaggi. Si è trattato di un lavoro lungo e delicato, durato anni, sicuramente significativo per il futuro della giustizia italiana. Il Consiglio Superiore della Magistratura, su proposta della Nona Commissione, ha recentemente approvato il “testo finale del modello di Codice Etico per i Consigli di Giustizia” (equivalenti al nostro Consiglio Superiore della Magistratura), elaborato dalla relativa rete europea ENCJ (European Network of Councils for Judiciary). Un lavoro impegnativo e delicato, durato alcuni anni, che ha preso le mosse dalla raccomandazione espressa nel Compendio dell’ottobre 2021 e che mira ad unificare, per quanto possibile, le diverse “sensibilità” etiche e deontologiche dei vari sistemi giudiziari dell’Unione. Significativa l’unanimità che ha sorretto la delibera del CSM, come pure la qualità del dibattito consiliare che l’ha accompagnata. Va subito detto che nonostante si parli del “codice”, questa raccolta nulla a che vedere con i vincoli cogenti propri di un testo normativo. In effetti, per comprenderne meglio portata, è forse meglio immaginarla come uno scrigno prezioso a cui i vari Consigli di Giustizia dei Paesi Membri potranno attingere per elaborare i rispettivi codici etici, con la più ampia facoltà di adattarne le numerose raccomandazioni alle specifiche peculiarità nazionali. Pur nella sua evidente programmaticità, merita comunque di essere evidenziata l’immediata rilevanza pratica del modello approvato: come si legge, difatti, nella proposta, il Codice Etico costituisce già ora, per ogni singolo consigliere, una libera “base per la consultazione e la riflessione personale sugli obblighi dei componenti dei Consigli di Giustizia, prendendo in considerazione i valori principali che dovrebbero guidare le loro attività”; in altre parole, ad ogni membro di un Consiglio Giudiziario viene offerto un ausilio per il suo “convincimento interiore”, al di là e oltre gli stretti obblighi giuridici già imposti dalla legge. Il fine che il codice persegue è chiaro e viene puntualmente esplicitato nel testo: “promuovere la fiducia dell’opinione pubblica nella magistratura, aumentandone l’autorevolezza”. Molte e pregnanti sono, allora, le raccomandazioni che possiamo trovarvi; tra esse, alcune appaiono degne di particolare attenzione per l’evidente attinenza - a contrariis - con le tristi vicende consiliari legate al c.d. scandalo dell’Hotel Champagne. Come, difatti, bene ricorderanno i lettori, nel 2019 venne a galla quanto, purtroppo, già da tempo ben noto a magistrati, politici e stampa: il controllo militare esercitato dalle c.d. correnti, senza distinzioni, sulla vita consiliare, specie in riferimento all’illegale “pilotaggio” delle nomine dei dirigenti secondo logiche platealmente spartitorie, non di rado oggetto della scure demolitoria del Giudice Amministrativo (qui vero Giudice a Berlino…). Un fenomeno, questo, la cui diffusione capillare e la cui gravità fu tale da costringere un solitamente prudentissimo Capo dello Stato a parlare di “modestia etica”. Chiara, quindi, l’assoluta e conseguente necessità per il Governo Autonomo della Magistratura di recuperare, sin da oggi, quell’alto profilo etico che ci si attende da un organo di rilevanza costituzionale. Un compito che - almeno sulla carta - appare a chi scrive tutt’altro che agevole ove si pensi all’ancor oggi persistente e solidissima presenza delle correnti in Consiglio, grazie ad una legge elettorale che non ne ha minimamente scalfitto il potere di condizionamento territoriale. Nondimeno, pur consapevoli della complessiva criticità del quadro istituzionale di riferimento, vale soffermarsi su taluni dei principi etici, morali e deontologici giustamente esaltati nel Codice Etico ENCJ che, laddove dovessero trovare precisa eco nell’omologo codice in fieri del CSM, gioverebbero non poco alla ricostruzione di quel prestigio oggi pesantemente illanguidito sia presso i magistrati che presso l’opinione pubblica e tutta la società civile. Il pensiero corre, così, alle raccomandazioni secondo cui i componenti dei Consigli di Giustizia non devono utilizzare la propria posizione per procurarsi vantaggi personali durante o dopo il proprio mandato né devono intercedere o consentire alcuna ingerenza a favore di qualunque individuo; essi, difatti, devono rimanere indipendenti da qualsiasi influenza interna o esterna e devono sempre evitare di ricevere indicazioni da qualsivoglia individuo, istituzione, organo o ente. Ed ancora, i consiglieri devono comportarsi come una comunità di lavoro, rimanendo indipendenti gli uni dagli altri nonché da ogni possibile gruppo di pressione interno ed esterno alla magistratura, sforzandosi di evitare divisioni in gruppi (maggioranze contro minoranze) con visioni e opinioni diverse all’interno del Consiglio. Infine, essi devono agire “con trasparenza verso l’opinione pubblica, rendendosi disponibili a motivare le decisioni prese”. Non è chi non veda come queste raccomandazioni, di per sé idonee - come detto - ad informare immediatamente la coscienza di ciascun consigliere, se tradotte in un corrispondente “agire” concreto sarebbero in grado di correggere, se non addirittura eliminare in radice, le note distorsioni del correntismo che - da carsico sistema di potere, parallelo a quello istituzionale - tornerebbe al fisiologico ed essenziale ruolo di motore di idealità, prezioso per la crescita trasparente e democratica del pensiero giuridico. Come anticipato, la qualità del dibattito consiliare e l’unanimità della delibera lasciano ben sperare. Significativa, del resto, è stata l’apertura di credito del Presidente della Sesta Commissione che, nel suo intervento, ha lodevolmente sottolineato come il modello europeo ENCJ, accanto al già vigente codice etico dell’Associazione Nazionale Magistrati, dovrà costituire uno dei pilastri su cui erigere il codice etico in corso di elaborazione. Se, dunque, son rose fioriranno… diversamente il Governo Autonomo della Magistratura avrà perso l’ultimo treno per la salvezza. Val la pena di crederci, allora, nell’interesse del Paese. Augusta (Sr). Scioperi della fame in cella: tensione garante-carcere di Salvo Palazzolo La Repubblica, 15 giugno 2023 I due decessi di qualche settimana fa e le altre quattro proteste ad Augusta. Il penitenziario dice che i casi sono rientrati, ma l’istituzione di controllo non ne sa nulla. “Il carcere di Augusta è una polveriera”, ha denunciato sulle pagine di questo giornale il presidente dell’associazione Antigone, l’avvocato Giorgio Bisagna. È il carcere dove sono morti due detenuti per un lungo sciopero della fame. “E altri quattro uomini hanno iniziato di recente la protesta”, ha annunciato ieri Antigone. “Gli scioperi della fame sono comunque già rientrati”, ha spiegato ieri a Repubblica la direttrice della struttura penitenziaria del Siracusano, Angela Lantieri. Ma le quattro nuove proteste sono diventate un caso: “Nelle comunicazioni ufficiali nessuno ha ancora annunciato la fine delle proteste - dice Daniela De Robert, componente del collegio del Garante dei detenuti - abbiamo solo la comunicazione iniziale”. Sulle notizie relative agli scioperi della fame c’è un grande dibattito in queste ultime settimane, dopo la morte dei due detenuti di Augusta che protestavano da 49 e 61 giorni. Nessuno, fuori dal carcere, ne sapeva nulla. Né i garanti locali e nazionali. Né i magistrati di sorveglianza. Alcune comunicazioni sarebbero state anche inserite dopo il decesso, nell’applicativo informatico del Dipartimento delle carceri che registra gli “eventi critici”. È accaduto nuovamente, nonostante le sollecitazioni arrivate da Roma: sono abbastanza scarne le notizie riguardanti gli ultimi detenuti che hanno iniziato lo sciopero della fame. Natale Lettuccio Terenzio ha avviato la sua protesta il primo giugno, ma non è ben chiaro il motivo: non è annotato. Fatto grave, fa notare l’Ufficio del Garante, perché solo comunicazioni efficienti permettono l’attivazione dei soggetti che possono risolvere i problemi manifestati dai detenuti. Il 2 giugno, il detenuto Shamyr Lamloumi ha iniziato lo sciopero della fame perché chiedeva di essere seguito in maniera più adeguata dal servizio tossicodipendenza. Il 7 giugno, Hawra Saidi ha avviato lo sciopero della fame perché chiedeva di essere trasferito in un altro carcere. L’8 giugno, Pietro Urso ha iniziato la stessa protesta per “motivi personali” non ben chiari. In tutte le schede è segnato il peso iniziale, poi nessun’altra comunicazione. Dice Gioacchino Veneziano, della Uilpa polizia penitenziaria Sicilia: “Bisogna occuparsi anche delle drammatiche condizioni in cui si trovano ad operare i poliziotti. Nella nostra regione mancano 739 unità, con oltre 6200 detenuti da controllare”. I sindacati denunciano che alcuni penitenziari parecchio impegnativi sono senza direttore: “Trapani, Agrigento, Favignana, Gela, Castelvetrano, Piazza Armerina, Sciacca e San Cataldo - spiega Gioacchino Veneziano - dunque una situazione drammatica e gravissima, aggravata dagli ormai innumerevoli e insopportabili eventi accaduti l’anno scorso: 137 aggressioni nei confronti del personale della polizia penitenziaria, 154 tentati suicidi da parte di detenuti, undici suicidi, sette tentativi di evasione”. Biella. Maltrattamenti in carcere: Tar annulla sospensione per i 23 agenti accusati di torture di Floriana Rullo Corriere di Torino, 15 giugno 2023 Potranno tornare a lavorare i 23 agenti sospesi dal servizio in carcere a Biella perché accusati di presunte violenze ai danni di alcuni detenuti. Ad annullare le sospensioni il Tribunale del Riesame. È stato inoltre riqualificato il reato di torture di cui erano accusati, sostituito da quello di abusi di autorità nei confronti di arrestati o detenuti, che prevede un eventuale pena massima di trenta mesi e quindi non comprende l’applicazione di misure cautelari. Un ribaltamento di fronte che avrà effetti pesanti anche sull’eventuale processo a carico degli agenti. A segnare la differenza tra le due imputazioni il fatto che per rientrare nell’ambito della tortura i comportamenti violenti verso i detenuti dovrebbero configurarsi come una pratica abituale, cosa che non sarebbe emersa nel corso dell’udienza del Riesame. Tra i casi contestati quello di un detenuto immobilizzato, anche usando del nastro adesivo per bloccargli le gambe, o l’uso di manganelli. Tutto ripreso dalle immagini delle telecamere. Per il vice commissario, già trasferito a Palermo, erano subito scattati gli arresti domiciliari, mentre per gli altri la richiesta aveva riguardato la sospensione del servizio, di sei mesi per chi aveva dato un “supporto morale” ai presunti abusi, per otto o dodici mesi per chi aveva partecipato. Benevento. La criminologa Patrizio Sannino nuovo Garante provinciale dei detenuti di Giammarco Feleppa ntr24.tv, 15 giugno 2023 Patrizia Sannino è il nuovo Garante dei Diritti delle Persone Detenute e private della libertà personale per la Provincia di Benevento. La nomina è stata firmata questa mattina dal presidente della Rocca dei Rettori, Nino Lombardi. La figura preposta era stata istituita lo scorso 15 febbraio con un atto deliberativo del Consiglio Provinciale, che aveva anche approvato il Regolamento che ne disciplina attività, funzioni e compiti. Successivamente era stato pubblicato anche l’avviso pubblico - con scadenza 24 marzo - per la presentazione delle domande. Tre le candidature arrivate e valutate dalla Commissione istituita per l’istruttoria, che ha poi escluso un partecipante per mancanza di requisiti. Lo scorso 30 maggio, infine, Lombardi ha esaminato i curricula delle due candidate ammesse (ed egualmente apprezzabili) e ha scelto la Sannino come ‘profilo professionale maggiormente rispondente a quello ricercato per ricoprire l’incarico”. A fare la differenza, tra le hard skills emerse, l’attività di criminologa svolta nel campo della tutela dei diritti umani negli Istituti di Pena e l’esperienza maturata come collaboratrice del Garante delle persone private della libertà per la Provincia di Caserta. Acquisita l’istanza dalla quale risulta l’assenza di cause di inconferibilità/incompatibilità e di possibili situazioni di conflitto di interesse, il decreto di Lombardi è stato trasmesso anche alla direzione della casa circondariale di contrada Capodimonte e a quella dell’istituto Penitenziario Minorile di Airola. Volterra (Pi): “Punzo? Per detenuti e operatori un compagno di vita” di Marco Belli gnewsonline.it, 15 giugno 2023 Intervista a Maria Grazia Giampiccolo, direttrice della Casa di reclusione di Volterra. “Assolutamente sì. Il laboratorio teatrale contraddistingue la nostra Fortezza da decenni ormai, arrivando a risultati eccellenti, come testimonia, per ultimo, il Leone d’oro alla carriera che è stato attribuito ad Armando Punzo. Ma soltanto un mese fa la Regione Toscana ha conferito alla Compagnia il Gonfalone d’argento, il massimo riconoscimento che l’ente possa attribuire. Al di là dei riconoscimenti formali, c’è proprio un lavoro sostanziale che viene quotidianamente portato avanti all’interno del laboratorio e che caratterizza in maniera importante e significativa i percorsi di chi vi partecipa”. D’altra parte l’istituto di Volterra porta avanti tutta una serie di iniziative di tipo culturale per favorire la crescita delle persone. Basti pensare che qui i detenuti arrivano per frequentare le scuole: è presente un istituto agrario, uno turistico-alberghiero con indirizzo enogastronomico nato come spin-off delle Cene Galeotte e da alcuni anni abbiamo anche il liceo artistico. Per cui è ovvio che all’interno di una realtà dove si vuole favorire la crescita culturale, il laboratorio teatrale non possa che caratterizzare ulteriormente e in maniera significativa questi percorsi. Lei è alla guida dell’istituto dal 2003: chi è Armando Punzo? È una persona con la quale in questi anni mi sono sempre confrontata in maniera importante. È una presenza e una figura di assoluto riferimento per tutti gli operatori all’interno dell’istituto, perché è da tanti anni che si impegna all’interno della Fortezza. È ‘dentro’ da tanto tempo, la sua presenza è quotidiana ed importante. Ma d’altra parte risultati come quelli ottenuti dalla Compagnia non si potrebbero avere diversamente. Lui ha dedicato una vita al teatro e al teatro in carcere e ovviamente i riscontri non possono che essere questi. E per i detenuti chi è? Per loro è una persona che porta avanti un’attività nella quale loro si sentono coinvolti anche nelle scelte più significative. Una persona con la quale loro si confrontano su tutto, perché poi alla fine si trasforma in un compagno di viaggio che cresce con loro e che con loro porta avanti dei percorsi di vita. Soprattutto in un istituto come Volterra, che è una casa di reclusione dove le persone si fermano per tanti anni, è normale che si diventi appunto dei compagni di vita e non solo di una esperienza, per quanto bella e importante possa essere. Ricorda un aneddoto legato alle prime uscite dei detenuti-attori? Ho creduto immediatamente in questa possibilità, tant’è che le tournee con l’art. 21 che prevede il lavoro all’esterno le ho avviate io, proprio perché mi sembrava che fosse una esperienza ormai pronta perché questo potesse accadere. È una importante esperienza professionalizzante e i riscontri sono stati più che positivi. Partecipai alla prima tournee: eravamo a Genova, al Teatro della Tosse, per una rielaborazione dell’Opera da tre soldi di Brecht. Fu un’esperienza bellissima per me: era la prima volta che vedevo in scena la Compagnia della Fortezza, dal momento che ero arrivata in istituto poco tempo prima. Finalmente arriverà il tanto sospirato teatro e la Compagnia avrà una casa all’interno del carcere… Certo! In questo momento c’è un gruppo che lavora al progetto affidato a un prestigioso studio d’architettura di Bologna. Chiaramente in una struttura storica e meravigliosa come quella di Volterra un’opera del genere si deve assolutamente armonizzare. Però io credo che una volta sciolti i vari nodi procedurali, in tempi penso non proprio lunghi si perverrà alla realizzazione del teatro. D’altra parte all’interno della Fortezza esiste già un percorso turistico ispirato alla bellezza, che è partito con la ristrutturazione della torre del Maschio, quella fatta erigere da Lorenzo il Magnifico, che ormai è aperta alla città e al pubblico, e passa per il meraviglioso giardino antistante che abbiamo realizzato. Quindi il pubblico che verrebbe agli spettacoli, attraverserebbe questo percorso fatto di storia, di bellezza e di cultura per poi assistere a un’altra esperienza straordinaria che è quella degli spettacoli della Compagnia della Fortezza. “Liberi di Lavorare”, un podcast della Tgr Veneto rai.it, 15 giugno 2023 Come funziona il lavoro dei detenuti dentro un carcere? Quanti sono i progetti imprenditoriali nati per dare vera applicazione al concetto di rieducazione e reinserimento nella società citato dalla Costituzione? Quali sono le difficoltà che si incontrano? Le risposte in “Liberi di lavorare” un podcast della Tgr Veneto della Rai, a cura di Federica Riva e Paolo Colombatti, disponibile gratuitamente sulla piattaforma di Raiplay Sound e raggiungibile anche sul sito web e sui canali social della Tgr Veneto. Quattro puntate, con la collaborazione tecnica di Andrea Diprizio, per 45 minuti che raccontano le tappe di un viaggio fatto nei laboratori nati dentro le carceri di Belluno, Venezia, Verona e Vicenza con le voci dei protagonisti di una sorprendente realtà che merita di essere approfondita. La volontà è però anche quella di far conoscere alle imprese un mondo che offre manodopera motivata, sgravi fiscali e contributivi, ma soprattutto la soddisfazione di offrire una seconda opportunità a chi ha sbagliato, come dice Gabriel, che sta scontando la sua pena nel carcere di Vicenza: “Quando siamo qui a lavorare nell’officina non siamo più detenuti, ci sentiamo persone normali. Le persone che sono qui hanno sbagliato, ma stanno imparando a non sbagliare più. Adesso posso dare un futuro a mio figlio”. Il laboratorio di pasticceria, la falegnameria, le officine meccaniche, le commesse del settore dell’occhialeria, i prodotti di pelletteria diventati un brand: sono solo alcuni dei progetti raccontati, in collaborazione con il Provveditorato alle carceri del Veneto. Dove il lavoro è un elemento di “normalità” e di “libertà” anche in una condizione di detenzione. Nelle tante interviste le storie dei detenuti, i pareri degli imprenditori, il punto di vista dell’amministrazione penitenziaria, lo sguardo delle associazioni di volontariato. Quel che è stato fatto e quello che ancora resta da fare. “Nate Libere”, una nuova serie al femminile ambientata in un carcere fanpage.it, 15 giugno 2023 Dopo il successo di “Mare Fuori”, la serie che ha superato ogni record di visualizzazioni, sia in tv che in streaming, si parla di un nuovo progetto sempre targato Picomedia. Si tratta di “Nate Libere”, la serie ambientata in un carcere femminile. Nate Libere una nuova serie Picomedia - Come annunciato da Roberto Sessa, produttore della serie, l’obiettivo è quello di raccontare un mondo complesso e sorprendente che possa mostrare, seppur attraverso situazioni di non facile gestione, le sfaccettature di una crescita personale che avviene in un contesto diverso dal solito. Saranno raccontate storie di speranza, di riscatto, di amicizia e umanità, di sacrificio, anche di maternità, ma non mancheranno anche storie d’amore che sono quelle che nasceranno tra le detenute, nascoste nelle loro celle e pronte a confrontarsi durante le ore dedicate ai laboratori di formazione. Il progetto porta la firlma di Franco Bernini e Rosa Ventrella, in merito a questa nuova produzione è stato proprio Sessa a dichiarare: “É da tempo che stiamo sviluppando questo nuovo concept sul carcere femminile che presto finalmente vedrà la luce. Attualmente siamo in fase di discussione con i potenziali broadcaster”. Le serie straniere ambientate in carceri femminili - Non è ancora chiaro, quindi, chi potrebbe distribuirla, ma il progetto è un qualcosa che sembra fosse in cantiere già da diverso tempo e che, quindi, resta solamente da realizzare. In Italia sarebbe la prima produzione dedicata interamente alla detenzione femminile, mentre in altri paesi, come la Spagna, prodotti del genere erano già stati somministrati al pubblico. Un esempio è una delle serie che ha avuto più successo su Netflix, ovvero “Vis a vis”, ma ancora prima in America, c’era stato l’esempio di “Orange is the new black”, in cui sono state raccontate le storie delle detenute, toccando tematiche delicate come il razzismo o temi legati alla comunità Lgbtq. La povertà non dà tregua: un quarto della popolazione è a rischio di Mario Pierro Il Manifesto, 15 giugno 2023 Lavoratori poveri: per Eurostat l’Italia supera la media europea. Per l’Istat la loro condizione non è cambiata dagli anni della pandemia anche se la crescita avrebbe diminuito il numero di coloro che versano in una povertà estrema. Nel frattempo procedono i lavori parlamentari in vista della conversione del “Decreto lavoro” che rinomina il “reddito di cittadinanza”. Sindacati e opposizioni chiedono modifiche: “Questo governo non fa nulla contro le diseguaglianze”. La povertà non dà tregua, la precarietà persiste anche se i redditi aumentano dopo il Covid. Quasi un quarto della popolazione - il 24,4%, pari a 14,3 milioni di persone - nel 2022 era a rischio povertà o esclusione sociale. Secondo l’Istat, che ieri ha pubblicato un nuovo rapporto, sarebbero 11,8 milioni le persone a rischio povertà (il 20,1%), 2,6 milioni gli individui in condizione di grave deprivazione materiale e sociale (il 4,5%), cui si aggiunge il 9,8% di persone che, nel 2021, era precario, cioè vive in famiglie “a bassa intensità di lavoro”. Se non ci fosse stato il “reddito di cittadinanza”, e misure eccezionali come il “reddito di emergenza” o gli altri bonus “600/1.000/2.400 euro”, nei due anni della pandemia la povertà sarebbe cresciuta di più: il 6,4%, invece del 5,6%, nel rapporto fra il reddito equivalente netto totale ricevuto dal 20% della popolazione con il più alto reddito e quello ricevuto dal 20% della popolazione con il più basso reddito. Nell’Unione Europea ci sono oltre 95 milioni di persone a rischio povertà ed esclusione, ha sostenuto sempre ieri l’Eurostat. Di queste, 14 milioni sono nel nostro paese che si mantiene al di sopra della media europea, poco sotto Grecia e Spagna (26%) anche se è ancora lontana da Romania (34%) e Bulgaria (32%). All’interno del paese la situazione è diseguale. Lo confermano i dati della Campania, Calabria e Sicilia dove si registrano valori superiori al 40%, mentre Emilia-Romagna e Valle d’Aosta sono sotto il 10%. Sembra invece diminuire chi versa in una condizione di grave deprivazione sociale e materiale a causa della ripresa dell’economia dopo la crisi pandemica e l’incremento dell’occupazione e dei redditi familiari. La povertà si sarebbe ridotta per chi vive in famiglie con cinque o più componenti (31,2% rispetto al 40,7% del 2021) e in quelle con tre o più figli (32,7% rispetto al 42,4% del 2021). Resta da capire quali saranno gli effetti del record dell’inflazione causato prima all’arresto delle catene del valore globale a causa del Covid, poi con la guerra russo-ucraina dalla speculazione sulle materie prime energetiche e alimentari, dall’aumento dei tassi di interesse decisi dalla Bce per diminuire l’inflazione. E resta anche da capire come questa situazione influirà sulle diseguaglianze. Il contesto non sembra essere univoco, almeno per quanto riguarda i dati sulla deprivazione data in diminuzione, ma conferma la persistenza della precarietà dei lavoratori poveri. Sindacati e opposizioni hanno criticato il governo Meloni che, con il “decreto lavoro rinominerà il “reddito di cittadinanza” in “assegno di inclusione” e vincolerà gli “occupabili” a condizioni tali da perdere il sussidio “per la formazione e il lavoro”. Norme che peggioreranno la loro condizione e non influiranno su quella dei lavoratori poveri che già non ricevevano il “reddito di cittadinanza”. “Sono numeri che richiedono un’azione straordinaria e integrata - sostiene Daniela Barbaresi (Cgil) - senza operare scelte arbitrarie e categoriali o introducendo versioni moderne delle tessere “annonarie” come la “Carta per la spesa alimentare” che esclude proprio i più poveri”. “Serve una misura universale e strutturale contro la povertà, forte attenzione all’inclusione sociale e politiche dedicate al Mezzogiorno” sostiene Domenico Proietti (Uil). A inizio luglio è prevista la conversione in legge del “Decreto lavoro” che liberalizza i contratti a termine. “Sarebbe più corretto chiamarlo decreto precariato - sostiene Francesco Silvestri (M5S, sarà in piazza a Roma il 17) - Il governo sta creando le condizioni per favorire lo sfruttamento di chi ha già stipendi da fame”. Per Maria Cecilia Guerra (Pd) “il contrasto alle diseguaglianze non è nelle corde di questa maggioranza”. L’insostenibile detenzione amministrativa: il profitto sulla privazione della libertà dei migranti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 giugno 2023 Sono 56 milioni di euro, previsti complessivamente nel periodo 2021-2023, gli appalti destinati alla gestione dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) affidati ai soggetti privati. Queste cifre, tuttavia, escludono i costi relativi alla manutenzione delle strutture e al personale di polizia. La detenzione amministrativa si rivela quindi un business molto remunerativo che ha attirato l’interesse di grandi multinazionali e cooperative. La privatizzazione della gestione dei CPR rappresenta uno degli aspetti più controversi di questa forma di detenzione senza reato, consentendo a qualcuno di trarre profitto dalla privazione della libertà personale. A illustrare questa situazione è la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD), che ha presentato un nuovo rapporto intitolato ‘L’affare CPR. Il profitto sulla pelle delle persone migranti’. Nel rapporto, si analizza attentamente il ruolo svolto dalle multinazionali Gepsa e ORS, dalla società Engel s. r. l. e dalle Cooperative Edeco- Ekene e Badia Grande, che hanno contribuito alla storia della detenzione amministrativa in Italia. Purtroppo, questa storia non è nobilitante, ma è caratterizzata da sistematiche violazioni dei diritti delle persone detenute. Gli enti gestori hanno la possibilità di massimizzare in modo illegittimo i propri profitti, anche a causa dell’assenza totale di controlli da parte delle autorità pubbliche. Il rapporto denuncia le condizioni di detenzione che rischiano di essere inumane e degradanti e la negazione strutturale dei diritti fondamentali dei detenuti. Sì, perché, nonostante non abbiano commesso alcun reato, i migranti sono privati della loro libertà. Quindi detenuti. Con la differenza che non essendo formalmente reclusi, non hanno i diritti previsti dall’ordinamento penitenziario. Il diritto alla salute, alla difesa e alla libertà di corrispondenza non è tutelato all’interno dei CPR, luoghi brutali che permettono ai privati di speculare sulla sofferenza dei detenuti, grazie alla totale assenza di supervisione pubblica. ‘Da sempre questi centri rappresentano un buco nero per l’esercizio dei diritti delle persone trattenute’, ha dichiarato Arturo Salerni, presidente di CILD. ‘Essi rappresentano anche un buco nero in termini di spesa a carico dell’erario, nonostante le gravi carenze nella gestione e le condizioni disumane in cui si trovano i soggetti che vengono privati della libertà senza aver commesso alcun reato. L’intenzione del governo di aumentare il numero dei CPR è il risultato di scelte ideologiche che non trovano fondamento nell’analisi del fenomeno. L’esperienza degli ultimi 25 anni, indipendentemente dalla gestione pubblica o privata dei centri, ci insegna che bisogna guardare a forme alternative e non coercitive per affrontare la questione delle persone irregolari sul territorio nazionale. Dobbiamo accompagnare le persone in percorsi di regolarizzazione ed emersione, cancellando l’obbrobrio della detenzione senza reato’. Il rapporto ha messo in evidenza alcuni dati preoccupanti riguardanti i Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) in Italia nel periodo 2021- 2023. Al febbraio 2023, risultavano attivi 10 CPR in diverse città italiane, con una capacità teorica di circa 1.105 posti. Tuttavia, nel marzo 2023, è stato chiuso il CPR di Torino a causa delle proteste dei detenuti contro le condizioni di detenzione, che hanno reso la struttura inagibile. Ciò che emerge da questo studio è che nel periodo preso in esame le Prefetture competenti hanno bandito gare d’appalto per un costo complessivo di circa 56 milioni di euro (56.674.653,45 euro, IVA esclusa) finalizzate alla gestione dei CPR da parte di soggetti privati. A questi costi si aggiungono quelli relativi alla manutenzione delle strutture e al personale di polizia impiegato. Tuttavia, le richieste di accesso civico presentate da CILD per ottenere informazioni sui costi delle forze dell’ordine nei Centri sono state rigettate dalle Prefetture per motivi di sicurezza. Questa cifra evidenzia come la detenzione amministrativa sia diventata un’attività molto remunerativa, in cui sembrano realizzarsi due tendenze preoccupanti. Da un lato, le imprese che gestiscono i Centri sembrano essere orientate alla massimizzazione dei profitti. Dall’altro lato, lo Stato sembra spinto a minimizzare i costi, scaricando la responsabilità della gestione delle strutture sui soggetti privati. Soluzioni? Secondo il rapporto di CILD, è urgente affrontare il problema migratorio in modo più efficace ed equo, superando completamente il sistema dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio. Già nel 2007, la Commissione parlamentare ‘De Mistura’ aveva evidenziato la necessità di creare vie più accessibili e realistiche per l’ingresso regolare dei migranti, al fine di prevenire l’immigrazione irregolare e ridurre la necessità di detenzione amministrativa. Purtroppo, questo monito è rimasto inascoltato e il sistema di detenzione si è invece ampliato nel corso degli anni. Anche il nuovo governo italiano ha destinato ingenti fondi per espandere la rete dei CPR, allo scopo di accelerare le espulsioni dei migranti. Questo approccio - secondo il rapporto non solo perpetua un sistema inefficace e disumano, ma dimostra anche una mancanza di volontà politica nel trovare soluzioni alternative e più umane. Il decreto immigrazione adottato dal governo, dopo la tragedia di Cutro, ha introdotto nuove forme di detenzione amministrativa per i richiedenti asilo e ha dato la possibilità di commissariare la gestione dei Centri, bypassando le norme sugli appalti fino al 2035. Queste misure, volte a velocizzare la realizzazione di nuove strutture, secondo il rapporto sono estremamente preoccupanti. “È deplorevole che alcune figure istituzionali, come il sindaco di Firenze, Dario Nardella, alimentino discorsi che generalizzano e criminalizzano tutte le persone migranti. Tale disinformazione crea un clima di paura e pregiudizio, colpevolizzando indiscriminatamente coloro che cercano una vita migliore”, denuncia CILD. E sottolinea che la detenzione amministrativa è un sistema inumano che viola la dignità umana. Nessuno dovrebbe essere privato della libertà personale per aver commesso una violazione amministrativa riguardante l’ingresso e il soggiorno in un paese. Per questo, secondo la coalizione italiana libertà e diritti civili, bisogna allontanarsi da questa concezione e lavorare verso un mondo in cui le frontiere siano aperte e il diritto alla libertà di movimento sia garantito a tutti. Il rapporto ritiene importante sottolineare che passare da una gestione privata dei CPR a una gestione totalmente pubblica non risolverebbe il problema di base. Il sistema stesso della detenzione amministrativa deve essere superato, poiché rappresenta un fallimento umanitario e non offre una soluzione adeguata al problema migratorio. È necessario quindi investire risorse nella promozione di vie d’ingresso regolari, nell’integrazione delle persone migranti e nella creazione di politiche di regolarizzazione. Invece di concentrarsi sulla detenzione amministrativa come soluzione, secondo CILD dovremmo promuovere alternative efficaci e rispettose dei diritti umani. Queste possono includere programmi di accoglienza e supporto per i migranti, affinché possano integrarsi nella società ospitante, contribuendo al contempo al progresso economico e culturale delle comunità locali. Un approccio basato sui diritti umani implica anche la promozione di iniziative che contrastino le cause profonde delle migrazioni forzate, come la povertà, il conflitto e l’instabilità politica. Questo richiede una cooperazione internazionale più stretta, in cui i paesi si impegnino a lavorare insieme per affrontare le radici dei flussi migratori. Inoltre, è essenziale contrastare la narrativa discriminatoria e xenofoba che spesso accompagna il dibattito sull’immigrazione. La soluzione non risiede nell’ampliamento dei CPR o nella gestione pubblica o privata di tali centri, bensì nell’adozione di politiche inclusive, rispettose dei diritti umani e improntate alla solidarietà. Il Garante: “Su chi fugge l’Europa sia più solidale, troppe e inutili privazioni della libertà” di Donatella Stasio La Stampa, 15 giugno 2023 Mauro Palma: “Troppo arbitrio nel respingere i migranti verso i Paesi definiti sicuri. Inefficaci i centri di rimpatrio, sbagliata la prigione per condanne inferiori a un anno”. “Solidarietà è una parola centrale nella Costituzione e nella Carta dei diritti Ue e non può significare equivalenza tra una somma da pagare e il diritto/dovere di proteggere chi fugge da conflitti, persecuzioni o comunque crisi, anche climatiche, del proprio paese”. Mauro Palma ha l’autorità, e soprattutto l’esperienza, per richiamare l’Europa al dovere di solidarietà nei giorni in cui prende forma il nuovo Patto su immigrazione e asilo che amplia l’ambito del respingimento e consente ai paesi Ue di sottrarsi al dovere di accoglienza pagando 20mila euro a migrante. Da sette anni, Palma presiede l’Autorità indipendente che porta il nome di Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, riconosciuta in ambito Onu, e prima ha presieduto il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e quello per la cooperazione nell’esecuzione penale. Con questa storia alle spalle, il Garante dedica al nuovo Patto sui migranti un passaggio della relazione annuale al Parlamento, oggi alla Camera, di cui parliamo in questa intervista: un bilancio finale sui diritti delle persone vulnerabili - nelle carceri, nei servizi psichiatrici, nei centri per migranti e nelle residenze per anziani o disabili - visto che il mandato di Palma, Emilia Rossi e Daniela de Robert è in scadenza e il governo li sostituirà con una nuova terna. Presidente, il Patto Ue consente di respingere i migranti, fin dalla frontiera, anche verso “paesi terzi sicuri”, indicati da ciascuno Stato in una lista. Le sembra una soluzione efficace e rispettosa dei diritti dei migranti? “Il respingimento è sempre uno strumento molto debole rispetto alla tutela dei diritti delle persone, tanto più se non è verso il paese di origine ma verso un paese terzo, considerato sicuro non sulla base dei legami, familiari o affettivi, che la persona respinta può avere in quel luogo, ma di una lista predisposta da ciascun paese con propri criteri. Così la valutazione sulla sicurezza diventa politica e può essere centrata sui rapporti economici con quello Stato invece che sulla sua capacità di tutelare le persone e i loro diritti, come nel caso dei rimpatri in Egitto”. E in Tunisia. Che non brilla per rispetto dello stato di diritto... “L’Europa deve sviluppare un piano di interventi in Tunisia, e in generale in Africa, che rifletta un’effettiva politica e che non sia solo il corrispettivo di una funzione di controllo. Né può affidare il tema dei diritti al Fondo monetario internazionale, che ha una logica del tutto diversa. Il tema dei diritti dev’essere sempre un asse dell’Europa, così come già lo è verso alcuni paesi dell’Uee”. Nel 2022, a fronte di 55.135 ingressi negli hotspot, i rimpatri sono stati 3.916, principalmente in Tunisia (2.308), Albania (518), Egitto (329), Marocco (187). Numeri piccoli rispetto alle intenzioni annunciate”... “Gli accordi di riammissione sono pochi e quindi tanti paesi non si riprendono le persone; inoltre i costi sono molto alti: per le scorte, l’uso di mezzi, i biglietti aerei o l’affitto di voli charter. Ma il costo più alto è in termini di privazione della libertà perché, sempre nel 2022, 6.383 persone sono passate per i Centri di permanenza per i rimpatri ma solo la metà è stata rimpatriata; l’altra metà ci interroga su quanto sia stato legittimo quel trattenimento e, poi, su dove siano finite quelle persone. Dubito che abbiano ottemperato al foglio di via ricevuto dopo la permanenza nei Cpr”. La cronaca ci dice che chi è privato della libertà a volte è vittima di una cultura violenta delle forze di polizia. Santa Maria Capua Vetere, Verona: immagini agghiaccianti. Com’è possibile, nonostante la Costituzione, le Carte sui diritti, la riforma della polizia, il reato di tortura, calpestare la dignità delle persone più vulnerabili, in un delirio di onnipotenza e di impunità? “Negli ultimi decenni, le forze di polizia hanno fatto grandi passi avanti. Tuttavia, in alcuni settori si è insinuata sempre più una concezione della persona fermata, arrestata, detenuta come “nemico”, e non come persona, che, certo, ha commesso un reato e che perciò va custodita e assicurata alla giustizia, ma che va anche tutelata nei suoi diritti. Purtroppo questa cultura è assecondata dal discorso pubblico e dal linguaggio, talvolta anche istituzionale, basato sulla contrapposizione tra “noi” e “loro”. Ma non ci può essere simmetria, non sono due attori equivalenti: uno agisce in nome della legalità e della comunità, l’altro ha ferito l’una e l’altra, ma in quanto privato della libertà è in una posizione di maggiore vulnerabilità”. Non le pesa come sconfitta delle istituzioni questo degrado culturale dello Stato che si trasforma in violenza e sangue? “Ciò che mi pesa di più è vedere che molte istituzioni non colgono la drammaticità di questo degrado. A Santa Maria nessun operatore, che magari non era presente al momento delle botte ma era entrato in servizio al turno successivo, ha fatto una denuncia. E a Verona, la prima reazione di qualche istituzione è stata: cambiamo il reato di tortura”. Arrivare al reato di tortura è stato faticoso e ora che i pestaggi escono dal sommerso si chiede di “tipizzarlo”, ovvero cambiarlo. Risultano forzature nell’applicazione pratica? “Al momento non vedo forzature. Bisogna dare il tempo alla giurisprudenza di stabilire qual è l’area di applicazione del reato e la sua effettiva capacità deterrente. Quanto all’emersione dei pestaggi, vedo due dati positivi: la sempre crescente insofferenza da parte di poliziotti più giovani, anche con maggiore cultura, verso atteggiamenti di violenza; il crescente sviluppo di indagini interne da parte di settori specializzati dei vari corpi di polizia”. Il 2022 è stato l’anno record dei suicidi in carcere, 85, e in questi sei mesi del 2023 siamo già a 30. “Fermo restando che la decisione di mettere fine alla propria vita ha aspetti imperscrutabili che sempre meritano rispetto, va detto che se il discorso pubblico tende a descrivere il carcere come luogo di non ritorno, dove le persone devono marcire, questo può accrescere l’angoscia di chi ci finisce dentro”. Sette anni fa l’area del penale contava 98.854 persone, oggi 137.366 (di cui 57.350 in carcere); intanto gli omicidi volontari sono scesi del 25%, l’associazione mafiosa del 36%, le rapine del 33%. Cosa raccontano questi dati? “Che stiamo affidando sempre più al penale la risoluzione di contraddizioni che dovrebbero trovare risposte nel territorio. Il diritto penale dovrebbe entrare in gioco solo in via sussidiaria mentre è il primo strumento usato per comporre i conflitti. Peraltro, le 80mila persone in misura alternativa dovrebbero essere seguite da personale specializzato e anche supportate con adeguate strutture. Ma dubito che questo avvenga”. Aumentano i detenuti che scontano pene brevi o brevissime. Qual è il senso del carcere in questi casi? “Nessuno. Avere in carcere 1.551 persone condannate a meno di un anno significa solo sottrarre loro del tempo di vita senza dare alcun significato a quella sottrazione: non potrà essere un tempo di rieducazione né funzionerà da deterrente perché la persona non cambierà e in più avrà lo stigma della detenzione. Quindi, la situazione che l’ha portata in carcere si ripeterà. Meglio pensare a strutture diverse, collegate al territorio, e lasciare il carcere ai reati più gravi”. Lei propone di ripensare il carcere ostativo e il 41 bis - nati dopo le stragi mafiose degli anni 90 ma estesi poi ad altri reati - perché incompatibili con il mandato costituzionale della rieducazione del condannato... “Terrei separati i due discorsi. Sull’ostatività: bisogna sempre tener fermo il principio che una pena deve prevedere la speranza della sua fine e ricordare che, nel caso di pene temporanee, tenere una persona chiusa fino all’ultimo giorno senza mai sperimentarne la capacità di reinserimento diminuisce la sicurezza collettiva. Quanto al 41 bis, ritengo doveroso e necessario un regime che impedisca la comunicazione con l’esterno, ma le regole di questo regime speciale devono essere sempre sottoposte a un vaglio scrupoloso di necessità, proporzionalità e razionalità”. Dalla Libia a Saied si punta solo a fermare i migranti. Con ogni mezzo di Carlo Lania Il Manifesto, 15 giugno 2023 Le politiche di Roma e Bruxelles. L’incognita Tunisia pesa sul risultato del prossimo Consiglio europeo. Eppure un modo per evitare che tragedie come quella di ieri in Grecia, o quella avvenuta del 26 febbraio scorso a Cutro, si ripetano ci sarebbe. O quanto meno per limitarle. Basterebbe che l’Unione europea si decidesse a ripristinare una missione navale che raccogliesse i naufraghi in mare portandoli in salvo, in modo da consentire di chiedere asilo alle persone bisognose di protezione e nel caso rimpatriare chi non avesse diritto di restare. Invece non si fa, preferendo spendere inutili parole di dolore di fronte alle ultime decine di morti affogati. Eppure l’Europa, e l’Italia in particolare, per fermare i migranti le navi in mare le mette, e non solo quelle. Anche jeep, camion, droni, attrezzature elettroniche, uomini per addestrare gli equipaggi di cosiddette Guardie costiere il cui unico compito non è salvare, bensì fermare chi fugge attraverso il Mediterraneo. Come poi questo compito venga svolto non importa, come dimostrano le ripetute violenze compiute dai libici su uomini, donne e bambini, o le bastonate assestate dai tunisini su altri uomini, donne e bambini come denunciato due giorni fa da Repubblica. Gli ultimi equipaggiamenti sono stati consegnati proprio ieri dal nostro ministero degli Esteri alla Tunisia del presidente Kais Saied, uno che imprigiona gli oppositori e che ha accusato i migranti subsahariani di volersi sostituire ai tunisini: 82 mezzi che - hanno spiegato fonti del Viminale - serviranno per rafforzare la capacità operativa del paese nordafricano per il controllo delle frontiere. Non sono gli unici. Le motovedette con cui Tripoli insegue i migranti per riportarli nell’inferno dei centri di detenzione, le fornisce l’Italia. E il Viminale si starebbe preparando a rifornire il generale Kalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica dalla quale da mesi partono i barconi, con cinque motovedette, radar, droni e fondi per sostenere l’agricoltura. Fermare i migranti, impedire che attraversino il mare è diventato l’unico obiettivo. A Bruxelles come a Roma dove se non si trova una soluzione all’impennata di sbarchi (55.560 dal primo gennaio al 14 giugno, contro i 22.071 dell’analogo periodo del 2022) il governo Meloni rischia di veder crollare tutta la narrazione sui migranti che ha contribuito non poco alla vittoria elettorale delle destre. Dal blocco navale più volte promesso e oggi finalmente accantonato, all’impegno di difendere i confini esterni dell’Ue, passando dall’imperativo “Se l’Europa non si muove facciamo da soli”, al più realistico “L’Europa ci aiuti, non possiamo fare da soli”. Peccato che è dal 2015 che sui migranti l’Unione europea è divisa, incapace di trovare una politica comune. Come conferma la spaccatura registrata giovedì scorso sul nuovo Patto immigrazione e asilo che non riconosce niente di quanto avrebbe voluto l’Italia: no ai ricollocamenti obbligatori, resta la responsabilità dei paesi di primo approdo ai quali si chiede di realizzare centri chiusi per accogliere i richiedenti asilo e maggiori controlli per evitare i movimenti secondari. In cambio il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha ottenuto il via libera alla possibilità di rimandare i migranti nell’ultimo paese di transito sicuro non europeo. Misura che bisognerà vedere quanto realmente applicabile e che rischia di mettere in discussione il principio di asilo. Senza considerare la freddezza mostrata finora da alcuni paesi del Nord Europa verso il credito mostrato nei confronti della Tunisia. Il viaggio fatto domenica scorsa da Meloni con la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e il premier olandese Marc Rutte non ha di fatto portato alcun risultato concreto. Solo lo stanziamento di 250 milioni di euro da parte dell’Unione europea. Briciole rispetto alle reali necessità economiche di Tunisi e ai 900 milioni di euro che Bruxelles sarebbe pronta a investire se Saied si decidesse a accettare le condizioni poste dal Fmi per sbloccare un ulteriore prestito di 1,9 miliardi di dollari. Per ora invece tutto resta fermo, al punto da allungare più di un’ombra sula possibilità che il Consiglio europeo del 29 giugno possa davvero approdare a qualche decisione. Migranti. Nel 2022 dodici milioni di bambini sfollati per il clima di Marina Della Croce Il Manifesto, 15 giugno 2023 L’allarme dell’Unicef. In tutto i minori costretti a fuggire sono 43,3 milioni. Servono garanzie e diritti certi. Secondo le stime dell’Unicef, gli eventi climatici estremi hanno causato altri 12 milioni di bambini sfollati nel 2022. Secondo i calcoli dell’organizzazione per i diritti dell’infanzia, nel corso dell’anno si arriverà in tutto a 43,3 milioni di bambini in condizioni di sfollamento forzato. La maggior parte di loro si ritroverà a vivere questa condizione per tutta l’infanzia. Il numero è raddoppiato negli ultimi dieci anni. La guerra in Ucraina ha costretto più di due milioni di bambini a lasciare il paese e ha portato a oltre un milione il numero dei bambini sfollati all’interno dell’Ucraina. “Per oltre dieci anni, il numero di bambini costretti a lasciare le proprie case è cresciuto a un tasso allarmante - spiega Catherine Russell, direttore generale dell’Unicef - La nostra capacità globale di risposta rimane ancora sotto pressione L’incremento è in linea con l’aumento consistente di conflitti, crisi e disastri climatici nel mondo, e tuttavia sottolinea anche la risposta non sufficiente di molti governi a garantire che ogni bambino rifugiato e sfollato interno possa continuare a studiare, crescere in salute e sviluppare il proprio pieno potenziale”. Anche il numero di bambini rifugiati e richiedenti asilo ha raggiunto un nuovo record di 17,5 milioni, dato che non include gli sfollati nel 2023 anche a causa del conflitto in Sudan, dove quasi un milione di bimbi ha dovuto abbandonare casa. Inoltre, eventi climatici estremi, come le inondazioni in Pakistan e la siccità nel Corno d’Africa, sono stati causa di sfollamento per altri dodici milioni di bambini nel corso del 2022. “I bambini sfollati interni e rifugiati sono spesso fra i più vulnerabili” dicono dall’Unicef. Per Russell, dunque, “è necessaria una maggiore volontà politica per affrontare le cause dello sfollamento e fornire soluzioni a lungo termine. Un numero di bambini che eguagliala popolazione dell’Algeria, dell’Argentina o persino della Spagna, richiede una risposta adeguata. Abbiamo assistito a cambiamenti duraturi quando i governi investono adeguatamente nell’inclusione dei bambini e delle famiglie sfollate. Lavorando insieme, possiamo garantire loro sicurezza, accesso alla salute, istruzione e protezione”. L’Unicef chiede ai governi di riconoscere il diritto alla protezione, all’inclusione e alla partecipazione e di garantire percorsi sicuri e legali ai bambini in movimento assicurando che nessun bambino sia rimpatriato senza garanzie. Strage di migranti, a picco il peschereccio diretto in Italia: “Centinaia a bordo” di Michele Farina Corriere della Sera, 15 giugno 2023 Il barcone partito dalla Libia è affondato al largo della Grecia: 79 corpi recuperati, almeno 500 dispersi. La tragedia è avvenuta nell’area dove il Mar Mediterraneo è più profondo. Abisso Calipso: un vecchio peschereccio di metallo con centinaia di persone a bordo si è ribaltato ed è affondato verso il Mar Ionio quando ancora era buio, nella notte tra martedì e mercoledì, vicino al punto dove il Mediterraneo si fa più profondo e porta il nome della ninfa che amò e nascose Ulisse, in acque internazionali ovvero di tutti e di nessuno (ma il Paese più vicino è la Grecia), a una settantina di chilometri a sud ovest della mitica Pylos dove nell’Odissea il figlio Telemaco andò a cercare notizie del naufrago forse più famoso della storia. Per tutta la giornata di ieri è andata crescendo la conta dei naufraghi senza nome e senza vita recuperati dalle navi di soccorso greche. Al mattino sembravano solo trenta, poi il bilancio è salito: cinquanta, poi settantanove. Mentre la conta dei salvati si è paurosamente inchiodata a una cifra che a sera inoltrata sembrava definitiva: 104 persone ce l’hanno fatta, tutti uomini, in prevalenza giovani ventenni, fra cui 30 egiziani, 10 pachistani, 35 siriani, 2 palestinesi. È dai primi racconti dei sopravvissuti, condotti a terra nel porto di Kalamata nel Sud del Peloponneso (35 ricoverati per ipotermia), che sono arrivate le notizie di prima mano, di primo dolore, sull’ultima tragedia dei migranti nel Mare Nostrum: il peschereccio era partito da Tobruk, nella Libia orientale controllata dalle forze del generale Kalifa Haftar, ed era diretto in Italia, probabilmente verso le coste della Calabria. A bordo c’erano dalle 500 alle 700 persone. Nella stiva donne e bambini. “Continueremo ad operare per tutta la notte con l’assistenza dei C-130 dell’Aeronautica Militare”, diceva ieri sera Nikolaos Alexiou, portavoce della Guardia costiera greca, nella tardiva speranza di poter individuare qualche naufrago ancora in vita, o comunque i corpi dei morti da restituire alla terra se non alle famiglie. Ma se centinaia erano sul barcone, allora vuole dire che la maggior parte di loro non sarà recuperata: inghiottiti dal mare intorno al cosiddetto Abisso Calipso, quella fossa circolare di 50 km di diametro a oltre 5.100 metri sotto il livello del mare. Laggiù, dove arrivano solo rare spedizioni di scienziati o di ricchi esploratori, si deve essere posato da qualche parte il relitto dei migranti. Non un vascello fantasma: il barcone era stato segnalato da un aereo dell’agenzia europea Frontex martedì sera. Il primo appello nel pomeriggio da Alarm Phone, ombrello di ong che fornisce una sorta di numero verde a naviganti in difficoltà. Dal barcone arrivano voci sempre più allarmate. Secondo la ricostruzione della Guardia costiera di Atene, due mercantili presenti nella zona forniscono cibo e acqua ai migranti in difficoltà. Ma il peschereccio sovraccarico prosegue la sua rotta. Sempre secondo la versione di Atene, un mezzo della guardia greca lo raggiunge in serata, confermando tanti migranti sul ponte “e il rifiuto a ogni offerta di aiuto”. Fino a che, nelle prime ore dell’alba, il barcone affonda con il suo carico di vite. A quel punto è allarme generale: Atene fa arrivare sul posto sei navi, una fregata, un elicottero, un aereo da trasporto, mentre un drone dell’agenzia Frontex sorvola l’area. Centoquattro persone salvate. Comincia la conta delle salme, e la stima dei dispersi per quello che si annuncia come il peggior naufragio dal 2015 (un altro peschereccio a picco al largo della Libia, 1.100 persone a bordo e solo 28 in salvo). Comincia anche la corsa dell’indignazione e dell’”ora basta” (dal segretario dell’Onu Guterres alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen), come accadde già a febbraio per la strage di Cutro. Anche allora il barcone fu inutilmente individuato prima della tragedia. Questa volta nessuna fila di corpi sotto lenzuoli bianchi: il mare li avvolgerà per sempre nell’abisso di Calipso. Il grido di un medico in Sudan: “Siamo a un passo dal disastro” di Luca Attanasio Il Domani, 15 giugno 2023 La vicenda dell’orfanotrofio di al Mayqoma di Khartoum, da dove lo scorso 7 giugno sono stati evacuati circa 300 neonati e bambini in tenera età in condizioni disastrose dopo che nei giorni precedenti 71 loro piccoli compagni erano morti per fame, disidratazione e malattie, è l’immagine probabilmente più esplicita e crudele della situazione in cui il Sudan versa al momento. A due mesi dallo scoppio del conflitto tra le forze fedeli al Generale Abdel Fattah Burhan e quelle delle Rapid Support Forces (RSf) guidate dal Generale Mohammed Hamdan Dagalo detto Hemedti, il contesto sta degenerando di ora in ora. I morti sono migliaia, solo nella zona del Darfur occidentale sarebbero oltre mille, mentre secondo le Nazioni Unite i combattimenti hanno portato alla cifra record di 25 milioni di persone - più della metà della popolazione - in emergenza umanitaria, con estrema necessità di aiuti e protezione. Le tregue - una decina circa - decise a Gedda, dove da oltre un mese è aperto ufficialmente un tavolo negoziale sponsorizzato da Usa e Arabia Saudita, e firmate da entrambe le fazioni, sono state ripetutamente violate. Il momento sembra favorevole alle Rsf che, oltre ad aree di Khartoum e del Darfur, hanno ottenuto il controllo di Um Dafuq, una città al confine con la Repubblica Centrafricana. Con Bangui, Dagalo intrattiene buoni rapporti che gli fruttano introiti nell’estrazione dell’oro e sostegno armato. Sui social media si moltiplicano le voci secondo cui il controllo di questo punto strategico al confine faciliti potenziali consegne di armi da parte del gruppo Wagner. Nel frattempo precipita la situazione nel Darfur: i cittadini di El Geneina sono sotto assedio, intrappolati all’interno della città e molti di coloro che sono fuggiti in auto o a piedi sono stati uccisi. Alcune fonti affermano che i residenti rimasti in città sono stati costretti dalle Rsf a trasferirsi nei quartieri settentrionali, stipati a migliaia in 5 km quadrati. Come riporta Al Jazeera, salgono i timori che, se lasciato incontrollato, l’attuale ciclo di violenza possa diventare peggiore della rivolta del Darfur di 20 anni. In quell’occasione la dura reazione del dittatore Omar al Bashir che chiese alle truppe Janjaweed di reprimere le tribù ribelli non arabe, causò 300mila morti e 2,5 milioni di sfollati. A completare un quadro molto problematico, la decisione di al Burhan di dichiarare Volker Perthes, capo della missione Onu in Sudan, “persona non grata”. Al suo posto è stata nominata la vice Clementine Nkweta-Salami. Per provare a capire la situazione e avere notizie dall’interno, Domani ha raggiunto al telefono un medico appartenente alla Sudan Doctors Trade Union, il Dottor Atia Abdalla Atia, Segretario Generale dell’organizzazione. Dottor Atia, dove si trova in questo momento? Sono a Khartoum ma non posso dirle il luogo esatto per motivi di sicurezza. Qual è la situazione nella capitale e nel resto del paese? Siamo a un passo dal disastro, ci prepariamo a dichiarare il default totale del sistema sanitario anche qui a Khartoum mentre nel Darfur è già stato raggiunto da settimane. Mancano rifornimenti, cibo, medicine e ogni tipo di bene primario, gli aiuti umanitari non arrivano a destinazione anche perché non ci sono corridoi sicuri di passaggio, i mezzi umanitari vengono colpiti di continuo e 11 ambulanze sono state distrutte. 21 nostri colleghi che prestavano servizio volontariamente sono stati uccisi, mentre due medici sono stati arrestati e cinque rapiti. Le vittime aumentano, i feriti sono ormai un numero incalcolabile e questo per quanto riguarda la capitale, dal resto del paese abbiamo notizie frammentarie a causa dello scarso funzionamento di elettricità e della rete. Nel frattempo ci riportano di un numero sempre maggiore di donne e ragazze violentate: lo stupro viene nuovamente utilizzato come arma di guerra e, come sempre, a rimetterci sono le popolazioni civili, le fasce più vulnerabili. La branca della vostra associazione in azione nel Darfur, qualche giorno fa ha paragonato l’intensità della violenza ai massacri del genocidio ruandese del 1994, c’è questo rischio? I timori sono molti, nel Darfur solo qualche decennio fa, abbiamo vissuto una durissima guerra, se non si pone fine a questo terribile stato di cose, finirà come allora se non peggio. Le tregue non vengono mai rispettate e la popolazione è sempre più isolata, le Ong internazionali hanno lasciato il paese anche perché senza corridoi che garantiscano la sicurezza, la loro presenza è a forte rischio, molti operatori umanitari sono stati attaccati in questi mesi. È in corso anche una guerra mediatica, le Rsf stanno facendo di tutto per accreditarsi quale vera forza affidabile sul campo: quando la scorsa settimana al Burhan ha dichiarato Volker Perthes “persona non grata”, Hemedti ha subito fatto sapere di sostenere pienamente il lavoro svolto da Volker e da altri attori internazionali. Chi la sta vincendo la Guerra della comunicazione? Le Rsf si danno molto da fare. La scorsa settimana un convoglio di Medici Senza Frontiere è stato fermato mentre lasciava un magazzino di un centro medico gestito dalla Ong e controllato dalle forze della Rsf. I soldati hanno chiesto al personale a bordo di rilasciare una dichiarazione davanti alle telecamere riguardo alla correttezza e al rispetto delle procedure da parte della Rsf. Se si fossero rifiutati il convoglio non avrebbe potuto procedere. Il video (poi smentito da Msf, ndr) è stato poi fatto circolare sui social media al fine di dimostrare che le Rsf sono dalla parte del popolo. La guerra si combatte anche mediaticamente e non risparmia colpi. Dottor Atia cosa deve succedere per fermare questo disastroso stato di cose e cosa può fare la comunità internazionale per venire in concreto soccorso del Sudan in fiamme? La guerra deve finire subito, i combattimenti devono cessare immediatamente, questa è la prima condizione, devono capire che si devono fermare, altrimenti si scivolerà verso una guerra civile totale e sarà una catastrofe dalle dimensioni inimmaginabili. La comunità internazionale deve fare quadrato e spingere le due parti a silenziare le armi subito e incondizionatamente. L’esercito e le Rsf devono impegnarsi ad aprire corridoi di sicurezza per gli aiuti umanitari e per la circolazione sicura di persone e mezzi, a non attaccare il personale sanitario, umanitario, le ambulanze, gli ospedali. Ci deve essere un modo per costringerli e per controllare che lo facciano. Al momento non arrivano più medicine, rifornimenti di beni primari e se non succede qualcosa subito, sarà la catastrofe per il nostro paese.