Come negare la “nuova vita” all’ergastolano che si ravvede? di Antonino Catalano* Il Dubbio, 14 giugno 2023 È giunto il momento di riconsiderare la pena dell’ergastolo. La Costituzione della Repubblica ha compiuto 77 anni ma ancora non si è data piena attuazione al terzo comma dell’articolo 27 che testualmente recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “La Costituzione ci dice che tutte le pene, nessuna esclusa, devono tendere al reinserimento sociale, e avere una funzione di emenda”, per citare il Dottor Santi Consolo, Garante dei detenuti in Sicilia, dall’intervista al “Dubbio” dello scorso 17 maggio. È proprio tale obbligatoria previsione dell’orientamento della pena alla “rieducazione del condannato” che rende difficile comprendere come sia con essa compatibile l’ergastolo, ossia il “fine pena mai”, e che impone di riconsiderare la pena dell’ergastolo. Certo non si può trascurare né ignorare come detta pena sia comminata per gravissimi delitti che suscitano profondo allarme e sdegno, offendono profondamente la coscienza sociale e lasciano laceranti ferite nelle famiglie delle vittime. Ma riconsiderare l’ergastolo, oltre che necessario, è un imperativo previsto dalla norma costituzionale citata. Quid juris, allorché la previsione legislativa si avverasse, per il pentimento sincero (e non solo strumentalmente collaborativo) del condannato, per la presa di coscienza della disumanità della propria condotta passata, per il ripudio sincero del pregresso, per la costante e proficua collaborazione al percorso rieducativo, per la condotta dignitosa e irreprensibile tenuta nell’espiazione della pena, quando in altre parole, può constatarsi affermativamente che il condannato ha messo a frutto gli effetti di una detenzione espiata per lunghissimi anni, è cambiato divenendo persona “diversa” da quella che ha commesso il delitto per il quale è stato condannato? Non risponde a Giustizia, oltre che ad un obbligo costituzionalmente protetto e garantito, consentirgli, in tale caso, il reinserimento nei suoi affetti, nella società, offrirgli di mettere in atto tale rinnovato cambiamento, a beneficio della collettività? Papa Francesco, sul ruolo del diritto penale e sulla importanza di saper dosare la pena con prudenza e con attenzione, guardando alle persone in carne ed ossa, ha ricordato che bisogna ricercare una “giustizia che oltre che padre sia anche madre” ; una giustizia che si sappia naturalmente far carico delle vittime, ma che non dimentichi gli autori dei reati, una giustizia che sia “umanizzatrice, genuinamente riconciliatrice, una giustizia che porti il delinquente, attraverso un cammino educativo e di coraggiosa penitenza, alla riabilitazione e al totale reinserimento nella comunità”. Ancora, nel discorso tenuto ai membri dell’Associazione internazionale di diritto penale, in occasione del loro XX congresso, il Pontefice ha detto: “Occorre vigilare” e andare, dunque, verso una “giustizia penale restaurativa”. In ogni delitto c’è “una parte lesa”, ma “compiere il male”, ha ammonito, “non giustifica altro male come risposta. Si tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore”, ha aggiunto. E le carceri, ha concluso, “devono guardare ad un reinserimento”, motivo per cui “si deve pensare profondamente al modo di gestire un carcere, di seminare speranza di reinserimento e ripensare sul serio l’ergastolo, per un modello di giustizia basato sul dialogo e l’incontro, in grado di restaurare i legami intaccati dal delitto”. A cosa servirebbe tanto lavoro se, poi, l’auspicato “reinserimento” non potesse concretamente attuarsi per l’ostacolo frapposto da una pena che non ha mai termine? Va data piena attuazione al concetto di “reinserimento” che altrimenti, nell’interminabile esecuzione dell’ergastolo, rimarrebbe pura ed accademica asserzione. *Avvocato del Foro di Termini Imerese Liberazione anticipata speciale, ecco perché è utile rilanciarla di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 giugno 2023 La misura ha scopo deflattivo ma anche “risarcitorio” per la detenzione durante il Covid. L’appello delle “ragazze di Torino”, sottoscritto da 114 detenute del carcere La Vallette, chiede che venga presa in esame la proposta Giachetti sulla liberazione anticipata speciale. Ricordiamo che si tratta di una misura alternativa introdotta nel 2013 tramite un decreto, volta a risolvere, nel minor tempo possibile, il sovraffollamento carcerario. L’aspetto caratterizzante di questa misura si sostanzia in un temporaneo sconto di pena pari a 75 giorni per ogni singolo semestre di pena espiata, in luogo dei 45 giorni previsti dalla liberazione anticipata disciplinata dall’art. 54 della legge sull’ordinamento penitenziario. Non si tratta di un regalo. Va a favore dei detenuti che danno prova di aver partecipato all’opera di rieducazione. Tale misura ha avuto un carattere temporaneo. Infatti ha avuto applicazione per due anni dall’entrata in vigore del decreto, ovvero nel biennio intercorso tra il 24 dicembre 2013 e il 23 dicembre 2015. Riproporla oggi, ha senso. La liberazione anticipata speciale potrebbe rispondere a due finalità. Una deflattiva, perché indubbiamente il sovraffollamento ha cominciato nuovamente a galoppare. L’altra è risarcitoria. Come spiegò molto bene il garante regionale Stefano Anastasìa, sarebbe necessario un ristoro anche per i detenuti, una minima misura di giustizia dopo quello che hanno sofferto durante i terribili e devastano anni di pandemia: una liberazione anticipata speciale per riconoscere a chi è stato detenuto in questo periodo di aver scontato una pena di fatto più dura della detenzione ordinaria. Una doppia pena. Da ribadire che tale misura non è un “tana libera tutti”. Ha una finalità premiale, in quanto l’abbuono di pena viene riconosciuto al detenuto “meritevole” e comunque discende da una valutazione del magistrato di sorveglianza. L’istituto della liberazione anticipata speciale consente al condannato a pena detentiva di beneficiare di una congrua riduzione di pena, come riconoscimento della sua partecipazione all’opera di rieducazione e ai fini del suo reinserimento nella società. Nel 2021, in occasione della proroga delle misure deflattive anti Covid per il carcere, Giachetti ha presentato un ordine del giorno che impegnava il governo a introdurre, in via temporanea e per un periodo di due anni, l’istituto della liberazione anticipata pari a 75 giorni per ogni semestre di pena, non applicabile ai condannati ammessi all’affidamento in prova, alla detenzione domiciliare o a quelli che siano stati ammessi all’esecuzione della pena presso il proprio domicilio. Ovvero “per quanto riguarda i condannati che, a decorrere da dicembre 2015, abbiano già usufruito della liberazione anticipata, del riconoscimento per ogni singolo semestre della maggiore detrazione di trenta giorni, sempre che nel corso dell’esecuzione successivamente alla concezione del beneficio abbiano continuato a dare prova di partecipazione all’opera di rieducazione”. Purtroppo non è stato preso in considerazione dal governo scorso. Con quello attuale, è tutto finito nell’oblio. Non solo la liberazione anticipata speciale, ma tutto l’intero pacchetto. “Siamo persone anche noi, abbiamo diritto a un futuro” Il Dubbio, 14 giugno 2023 Pubblichiamo di seguito una lettera dal carcere di Torino, sezione femminile, sottoscritta da ben 114 detenute presenti nel padiglione. Sono le “Ragazze di Torino”, che chiedono di aiutarle a sostenere la proposta di legge avanzata dal parlamentare di Italia Viva Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale. Abbiamo deciso di scriverVi perché non possiamo tacere rispetto a tutto ciò che sta accadendo nelle carceri ed anche perché siamo stanche di non essere considerate persone e di non meritare un futuro. Futuro che invece sarebbe previsto dalla legge, ma si sa che chi finisce “dentro” vive in una grande contraddizione: essere condannato a pagare i suoi sbagli in luoghi ed in un sistema che per primi non rispettano la legalità e non assolvono alle loro funzioni. Siamo convinte che per ottenere qualcosa ed opporci al vecchiume del carcere, dobbiamo agire come cittadine e con civiltà per far sì che i nostri diritti vengano riconosciuti; stare buttate sulla branda in cella porterebbe al nulla: solo al nostro completo sfascio. Ci auguriamo che anche da altre carceri partano appelli perché si concretizzi un intervento urgente che renda meno infernale la vita reclusa e di tutta la comunità penitenziaria. Ad oggi sono già 30 coloro che si sono tolti la vita in carcere: non hanno avuto la forza d combattere per sopravvivere a tutto ciò, due di loro sono morti a seguito dello sciopero della fame nel silenzio assoluto: è assurdo! Molti tra coloro che lavorano nelle istituzioni si spendono(giustamente) per ciò che avviene all’estero rispetto ai diritti negati, poi però non hanno il coraggio e la fermezza di portare avanti una battaglia per cambiare la situazione indegna in cui versano le carceri italiane, ennesimo esempio di quanto questo tema non portando voti e consensi venga trascurato. Il carcere non è un mondo a sé non è altro da Voi, anche se la narrazione di massa lo descrive in tal senso; siamo uomini e donne che una volta usciti saranno riconsegnati alla società: si, ma come? Questo dovrebbe interessare a tutti: a “sinistra” come a “destra”. Fortunatamente, così sole non siamo perché è già stata depositata una proposta di legge da Roberto Giachetti scritta con il contributo di Nessuno Tocchi Caino, che prevede l’aumento della liberazione anticipata per coloro che hanno un buon comportamento durante la detenzione, non sarebbe un regalo quindi, ma un beneficio ottenuto da chi è meritevole. È molto difficile non esplodere in carcere, ma la maggioranza tra noi ha un comportamento regolare, nonostante di continuo attraverso alcune notizie si descrivano i detenuti come violenti aggressori e basta. Con questo appello ci rivolgiamo a tutte quelle realtà che si occupano di carcere e si impegnano perché ognuno di noi non venga considerato solo per il reato compiuto in passato (se lo ha compiuto...), ai garantisti delle persone private della libertà, ai collettivi, a chi crede nel diritto e a chi non è omologato al populismo penale. Ci rivolgiamo a tutti voi perché sosteniate il nostro appello attraverso i vostri canali e nelle sedi opportune. Infine ci rivolgiamo ai Giornalisti e a quelle redazioni che non distorcono la realtà e con onestà intellettuale e coraggio danno spazio ai problemi della giustizia penale e dei penitenziari, si occupano quindi degli ultimi tra gli ultimi: noi dal basso continueremo anche grazie a Voi ad alzare la nostra voce... Oltre le sbarre e le prigioni mentali! Supportateci. Grazie, un abbraccio prigioniero dalle Ragazze di Torino Riforma della Giustizia giovedì in Cdm: “L’omaggio migliore per Berlusconi” di Liana Milella La Repubblica, 14 giugno 2023 Dopo sette mesi, Nordio porta sul tavolo del governo la sopressione del reato di abuso d’ufficio e gli altri interventi garantisti che sono stati a lungo sostenuti dall’ex premier. “Il miglior omaggio che possiamo fare a Silvio Berlusconi” dicono in via Arenula dallo staff del Guardasigilli Carlo Nordio. Portare già giovedì in Consiglio dei ministri - dopo ben sette mesi di attesa - la riforma della giustizia che lo stesso Guardasigilli, in più di un recentissimo intervento pubblico, ha definito ormai “pronta”. Domani, come si può leggere in un ordine del giorno inviato da palazzo Chigi a tutti i ministri, alle 10 e trenta, la riforma sarà sul tavolo del preconsiglio, dove i tecnici dei vari ministeri potranno leggere ed eventualmente apportare qualche correzione. Con tempi stretti però perché tutto dovrà chiudersi per mezzogiorno. Il contenuto della riforma è noto, a partire dalla soppressione del reato di abuso d’ufficio, un “segnale” chiaro ai magistrati, l’input a stringere sulle indagini davvero essenziali e non su quelle che producono risultati “deludenti” come, sostiene Nordio, nel caso dell’abuso d’ufficio che vede soprattutto un quasi en plein di archiviazioni. La riforma affronta poi il capitolo dei reati della pubblica amministrazione che, come ha chiesto la Lega con la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno, saranno “rimodulati” proprio per rendere inoffensiva la soppressione dell’abuso d’ufficio. Un reato che il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, in un’intervista e in un intervento di ieri su Repubblica, ha definito “un reato spia” che invece non può essere soppresso proprio perché da esso sono partite indagini sulla corruzione. Ma tant’è. Nordio non la pensa così, lo considera un reato inutile. Peraltro proprio questo passo gli garantisce il voto favorevole sulla riforma di Azione che, con il responsabile Giustizia Enrico Costa, si è battuto per eliminare il reato anche con una sua proposta di legge alla Camera depositata già a novembre. Le voci di un possibile contrasto tra Lega e Forza Italia proprio sull’abuso d’ufficio saranno sicuramente superate, almeno in questa fase, dal clima politico che sui è creato dopo la morte di Berlusconi. Ma sono gli altri interventi di Nordio che vanno nella direzione di quelle procedure “garantiste” che proprio Berlusconi ha sempre sostenuto. Ecco le misure sulle intercettazioni, con il divieto di trascrivere quelle che riguardano una terza persona che viene citata da chi parla al telefono oppure viene ascoltato tramite una microspia Trojan. E sempre nella linea garantista vanno le nuove misure sulla custodia cautelare che non potrà essere chiesta e ottenuta se - almeno per i reati non gravi - l’indagato non sarà prima ascoltato dal pubblico ministero in un interrogatorio di garanzia. E ancora, sempre nel rispetto delle linee garantiste, ecco la decisione di sostituire il giudice per le indagini preliminari con un collegio di giudici per esaminare e dare il via libera a una richiesta di arresto. Tutte misure che ancora ieri sono state sollecitate dalle Camere penali. Con un esplicito collegamento con la morte del leader di Forza Italia. “Si metta mano ora - ha scritto l’Ucpi di Gian Domenico Caiazza - con rinnovato impegno e con piena indipendenza del potere politico dai condizionamenti tuttora invasivi del potere giudiziario, al varo di quella riforma della giustizia penale che anche Berlusconi auspicava e sosteneva, volta a ristabilire la più netta separazione tra i poteri dello Stato, e ad affermare finalmente in Italia, a partire dalla separazione tra magistratura inquirente e quella giudicante, un’idea liberale del diritto penale e del giusto processo”. Ma per la separazione delle carriere - “basta con il giudice che va con il cappello in mano dal pm” ha detto mille volte Berlusconi - bisognerà aspettare “la fine dell’anno”, come ha ribadito lo stesso Nordio. Ma di certo già questo antipasto di riforma sarà assai indigesto per l’Anm che, giusto domenica, con la sua assemblea generale sul caso Uss (azione disciplinare di Nordio contro i giudici di Milano che avevano dato i domiciliari all’oligarca russo) che però non è sfociata in uno sciopero, aveva chiesto al Guardasigilli di fermarsi sulla riforma. La stessa Anm che, su Berlusconi, ha avuto parole eleganti nel salutarlo definendolo “indiscusso protagonista, per un lungo ed importante periodo, della vita politica del Paese”, senza alcun riferimento polemico ai tanti contrasti che Berlusconi stesso aveva avuto proprio con il sindacato delle toghe negli anni dei suoi governi. Giustizia, via l’abuso d’ufficio e bavaglio ai giornalisti. Stop all’appello del pm. Ecco il testo di Nordio di Liana Milella La Repubblica, 14 giugno 2023 A palazzo Chigi arriva il disegno di legge del Guardasigilli. Un solo testo in otto articoli. Stasera il consiglio dei ministri. Annacquato il reato di traffico di influenze. Interrogatorio obbligatorio prima dell’arresto. Dopo sette mesi di “passione” a palazzo Chigi si materializza la riforma della giustizia del Guardasigilli Carlo Nordio. Confermate le indiscrezioni di Repubblica a partire dal colpo di maglio alla libertà di stampa, vietato riferire di intercettazioni se queste non sono contenute espressamente negli atti dei giudici. Ma ecco i capitoli del disegno di legge. Via il reato di abuso di ufficio - Nordio cancella il reato di abuso d’ufficio. Perché il numero dei processi che arrivano a buon fine sarebbe limitatissimo. Nel 2021 solo 18 casi in dibattimento. Il ministro assicura che comunque “l’apparato repressivo dei reati contro la pubblica amministrazione è articolatissimo e i singoli delitti sono puniti gravemente”. Cambia il reato di traffico di influenze - Anche il reato di traffico di influenze viene ristretto. Nordio lo definisce un reato “avamposto” e interviene sulla nozione di “altra mediazione illecita” che viene così definita “la mediazione per indurre il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito”. Aumenta il minimo edittale della pena. Si va da un anno e sei mesi a quattro anni e sei mesi. Nella nuova versione l’ambito di applicazione della norma risulta molto ristretto. Viene richiesto il dolo intenzionale e le relazioni del faccendiere con il pubblico funzionario devono essere esistenti e non solo millantate, l’utilità che si riceve dev’essere “economica”. Quindi diventano ininfluenti favori o benefici di altra natura. Le intercettazioni e la stampa - Sotto il capitolo degli interventi “in materia di intercettazioni a tutela della riservatezza del terzo estraneo al procedimento” Nordio materializza il suo obiettivo di limitare la diffusione delle intercettazioni e tutelare la persona, il cosiddetto terzo estraneo, che viene citato nel corso di una conversazione. E qui ecco la stretta per la stampa. Com’è spiegata testualmente nella relazione illustrativa al testo “tale limitazione viene resa ora più stringente prevedendo che il divieto di pubblicazione cada solo allorquando il contenuto intercettato sia riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento” Questo vuol dire che non sarà più possibile pubblicare intercettazioni che non siano già contenute negli atti. L’intervento riguarda l’articolo 114 del codice di procedura penale che stabilisce le regole sul divieto di pubblicare atti e immagini. Ma non è tutto perché Nordio esclude anche che copia degli atti possa essere rilasciata se la richiesta “è presentata da un soggetto diverso dalle parti e dei loro difensori”. La tutela dei terzi citati nelle intercettazioni - Ed ecco il passaggio che fissa il divieto di citare i cosiddetti “terzi” che finiscono nelle intercettazioni perché citati da chi parla. Il disegno di legge stabilisce che “è dovere del giudice di stralciare le intercettazioni includendovi, oltre ai già previsti dati personali sensibili, anche quelli relativi a soggetti diversi dalle parti, fatta salva l’ipotesi che essi risultino rilevanti ai fini delle indagini”. Interrogatorio obbligatorio prima dell’arresto - Confermata anche in questo caso l’indiscrezione che rende obbligatorio un interrogatorio preventivo della persona che deve essere arrestata. E l’obbligo di un via libera collegiale sull’arresto stesso confermata dopo la richiesta del pubblico ministero da tre giudici anziché dal solo giudice per le indagini preliminari come avviene oggi. Le motivazioni di questa misura di garanzia sono le seguenti: “Da un lato si evita l’effetto dirompente sulla vita delle persone di un intervento cautelare adottato senza possibilità di difesa preventiva, dall’altro si mette il giudice nelle condizioni di poter avere un’interlocuzione, e anche un contatto diretto, con l’indagato prima dell’adozione della misura”. Il pubblico ministero avrà inoltre l’obbligo di depositare tutti gli atti trasmessi con la richiesta dell’arresto dando così la possibilità all’indagato di prendere visione. Siamo dunque a una discovery anticipata delle carte dell’accusa. Torna la legge Pecorella sull’appello - Ed ecco un’altra novità esplosiva della riforma di Nordio, viene fatto divieto al pubblico ministero di presentare appello contro le sentenze di proscioglimento. E la stessa norma presentata nel 2006 dall’ex presidente della commissione giustizia della Camera Gaetano Pecorella, avvocato, allora berlusconiano di ferro, norma che fu bocciata dalla Corte costituzionale in quanto non rispettava i principi della stessa Costituzione. Aumenta l’organico della magistratura - Nordio aumenta di 250 unità l’attuale organico della magistratura e cambia le regole del concorso. Se i candidati sono più di duemila, la commissione viene ampliata a 23 magistrati di cui sei professori universitari e quattro avvocati. Regole nuove anche per valutare i compiti, in particolare deve essere considerata la chiarezza espositiva, la capacità di sintesi, quella di inquadramento teorico sistematico. Inoltre i componenti del collegio esaminatore avranno l’obbligo di presentare “una relazione riassuntiva mensile sul numero delle sedute effettuate e sul numero dei candidati esaminati”. Giustizia, arriva la (mini) riforma-tributo al Cavaliere di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 14 giugno 2023 Arriva dopo mesi il via libera a Nordio: domani il disegno di legge su abuso d’ufficio, traffico di influenze e stretta su intercettazioni, arresti e avvisi di garanzia arriva in Consiglio dei ministri. Intanto tra i magistrati è polemica per il messaggio di Cordoglio dell’Anm. Il giorno dopo i funerali di Berlusconi a Milano, i ministri, che parteciperanno tutti o quasi si tutti, si rivedranno attorno al tavolo di palazzo Chigi per approvare un disegno di legge di (modesta) riforma della giustizia. Se Giorgia Meloni ha avuto dei dubbi sulla calendarizzazione di questo provvedimento che tanto ha diviso la sua maggioranza nella preparazione (annunciato da mesi, arriverà solo oggi al preconsiglio) quei dubbi li ha sciolti per cogliere al volo l’occasione. Come ha anticipato nel suo video tributo al Cavaliere - “anche per lui porteremo a casa gli obiettivi che insieme ci eravamo dati” - intesterà il disegno di legge alla memoria di Berlusconi. Che, come ha detto il ministro della giustizia ricordandolo lunedì, avrebbe “sempre inteso orientare il dibattito sulla giustizia in senso garantista e liberale”. Quello che Nordio porterà in Consiglio dei ministri sarà un solo disegno di legge che modificherà il codice penale, il codice di procedura penale e anche le norme dell’ordinamento giudiziario; dovrebbe prevedere anche l’aumento di organico più volte promesso dal ministro (per stabilizzare l’ufficio del processo). Il primo intervento è l’abolizione del reato di abuso di ufficio oggi previsto all’articolo 323 del codice penale. Abolizione secca, come voleva il ministro e come lo spingevano a fare sia Forza Italia che i parlamentari di Azione-Italia viva che sulla giustizia sono pronti a stare con la maggioranza. Questa linea alla fine è passata e la chiosa fatta dalla responsabile giustizia della Lega, Giulia Bongiorno, per la quale l’accordo prevede una complessiva riscrittura di tutti i reati contro la pubblica amministrazione, in via Arenula viene commentata freddamente: “Parole sue”. La Lega ha fatto resistenza, minacciando di votare contro in commissione giustizia alla camera, dove la riforma dell’abuso d’ufficio sta procedendo in parallelo, facendo slittare di un giorno l’adozione del testo base. Al momento però non c’è traccia dell’intervento complessivo sui reati contro la pubblica amministrazione, pur necessario per mantenere l’Italia nel quadro delle norme internazionali. Che, hanno ricordato magistrati e professori ascoltati in commissione, impegnano il nostro paese a non disarmare il controllo di legalità sui pubblici ufficiali. Di certo il disegno di legge governativo si occuperà anche dell’articolo 346 del codice penale, quello che da dieci anni (proprio in ossequio a una convenzione Onu) sanziona il traffico di influenze illecite. Fattispecie rimasta assai vaga che adesso il ministro vuole provare a circoscrivere e tipizzare. Un altro punto dell’intervento governativo riguarda le intercettazioni: come lungamente annunciato da Nordio arriva un divieto più stringente, rispetto alla riforma Orlando, di trascrivere le conversazioni che riguardano terzi non indagati. Ancora, due le novità per le misure cautelari: l’obbligo di ascoltare l’indagato prima di disporne l’arresto - salvo nei casi in cui si proceda per reati di grave allarme sociale - e l’affidamento della decisione finale non più a un giudice (gip) ma a un collegio (tribunale del riesame, con ricorso in corte d’appello). Ci sarà anche una forma di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento di primo grado che però non sarà identica a quella tentata dal centrodestra nel 2006 (legge Pecorella) perché la Corte costituzionale ha stabilito che violava il principio di parità tra le parti processuali. Infine nel disegno di legge sarà contenuta anche una stretta sulle informazioni di garanzia: Nordio cercherà di imporre il segreto e nel contempo garantire l’indagato, consentendogli di conoscere meglio le accuse a suo carico. “Ci auguriamo che il Consiglio dei ministri sui temi della giustizia “dedicato” a Berlusconi non sia occasione per provvedimenti laceranti e riaprire guerre tra politica e magistratura”, dice il senatore del Pd Verini. In effetti l’Associazione magistrati, che domenica scorsa ha tenuto la sua assemblea nazionale proprio contro le iniziative di Nordio, è già in stato di agitazione. Intanto però il suo vertice ieri ha dovuto fronteggiare una notevole dose di critiche piovute nella mailing list per il messaggio - stringatissimo - di cordoglio per la morte di Berlusconi diffuso lunedì. Averlo definito “indiscusso protagonista della vita politica” è sembrato troppo a chi avrebbe preferito il silenzio e troppo poco a chi ha ricordato la quantità di attacchi e insulti che il Cavaliere ha riversato negli anni sui magistrati. Ma tacere non si poteva, è stata la replica del vertice dell’Anm, in fondo era un testo neutro. La riforma della giustizia si chiamerà “Riforma Berlusconi”: patto Gianni Letta-Giorgia Meloni di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2023 Accordo su bavaglio, abuso d’ufficio e inappellabilità delle sentenze. La decisione è stata presa ieri mattina, sulla scia dell’emotività per la morte di Silvio Berlusconi: giovedì la presidente del Consiglio Giorgia Meloni vuole portare in Consiglio dei ministri la riforma della Giustizia firmata dal ministro Carlo Nordio. Si chiamerà “Riforma Berlusconi” perché, spiegano fonti di governo, si muoverà “nel solco delle battaglie del leader di Forza Italia per omaggiarlo”. Ma il passaggio del Consiglio dei ministri non è solo importante per la riforma in sé, ma anche per un fatto politico: per la prima volta dopo la scomparsa di Berlusconi, Meloni ha fatto asse con Forza Italia contro la Lega di Matteo Salvini. L’accordo, infatti, è stato raggiunto dopo diverse telefonate ieri tra la presidente del Consiglio e Gianni Letta, eminenza grigia di Berlusconi e rappresentante delle colombe dentro Forza Italia. Un accordo che eleva la figura di Letta - insieme a Tajani - come una sorta di capodelegazione di Forza Italia, l’architrave tra Fratelli d’Italia e il partito di Berlusconi. I due si sono incrociati nuovamente ieri sera alla camera ardente allestita ad Arcore. Dall’accordo però è stato tenuto fuori Salvini. Uno schema che si ripeterà fino alle Europee, provocando tensioni nel governo. L’intesa si basa su un pacchetto di riforme, scritto dagli uffici del ministero della Giustizia, che riguarda alcune storiche battaglie berlusconiane. La prima sarà l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, storica battaglia berlusconiana. Alla fine dovrebbero essere piegate le resistenze di Andrea Delmastro Delle Vedove (FdI) e Giulia Bongiorno (Lega) che chiedevano solo una rimodulazione del reato perché il rischio è che i magistrati contestino reati più gravi. Per questo potrebbero esserci tensioni in Consiglio dei ministri con il Carroccio, anche se la coppia Salvini-Bongiorno dovrebbe accettare di rivedere alcuni reati contro la pubblica amministrazione in una seconda fase. Alla Lega infatti sarà concessa la possibilità di modificare il testo del disegno di legge in Parlamento. Insieme all’abuso d’ufficio sarà approvata una limitazione anche del traffico d’influenze. Il resto del pacchetto prevederà norme per limitare la pubblicazione delle intercettazioni. Il disegno di legge stabilirà il divieto di trascrivere le intercettazioni che riguardano una terza persona che viene citata da chi parla al telefono oppure viene ascoltata con una microspia Trojan. Inoltre l’idea del governo sarebbe anche quella di impedire di pubblicare l’avviso di garanzia nei confronti dell’indagato. Insomma, l’idea è quella di andare a toccare profondamente l’articolo 114 del codice di procedura penale che riguarda la pubblicazione degli atti giudiziari in fase d’indagine. L’altra modifica di Nordio andrà a toccare la custodia cautelare: la proposta è quella di far decidere un collegio di 3 giudici (invece che uno solo) anche se la riforma dovrebbe entrare in vigore tra tre anni per garantire le assunzioni nei Tribunali e che gli organici siano al completo. Inoltre, prima di disporre la custodia cautelare l’indagato sarà interrogato. In questo caso però saranno esclusi i reati di mafia, terrorismo e nei casi di pericolo di fuga. Dovrebbero valere invece per i reati contro la Pubblica Amministrazione. A queste norme, ieri nell’ordine del giorno è stata inserita anche quella sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte dei pm. Una storica battaglia berlusconiana già approvata nel 2006 (legge Pecorella) e ritenuta in parte incostituzionale dalla Consulta. Riforme chieste a gran voce dalle Camere Penali, da Forza Italia e ostracizzate dall’Associazione Nazionale Magistrati. Il ministro invece ottiene già l’appoggio di Matteo Renzi e Carlo Calenda: “Se Nordio terrà il punto, noi ci saremo”, dice il deputato di Azione Enrico Costa. Riforma giustizia in Cdm. Il tributo del governo al garantismo di Berlusconi di Felice Manti Il Giornale, 14 giugno 2023 Al via il dibattito sulle misure. Dalla separazione delle carriere delle toghe alle nuove regole sul Csm, fino all’abolizione dell’abuso d’ufficio. Mani Pulite, coscienze sporche. La riforma della giustizia appare come il regalo più grande che il centrodestra può fare al Cavaliere, seppure postumo, dopo 30 anni di persecuzione giudiziaria conclamata, ora che le chat tra magistrati hanno disvelato faide e veleni, con i vecchi pm che hanno maciullato la Prima Repubblica come Piercamillo Davigo finiti alla sbarra, ora che persino Paolo Mieli ammette a mezza bocca che il Corriere nel 1994 ricevette dalla Procura la notizia della prima indagine a carico di Silvio Berlusconi. “L’ex premier è stato un indiscusso protagonista della vita del Paese, a lungo anche nel dibattito intorno alla giustizia, che ha sempre inteso orientare in senso garantista”, ha detto l’altro giorno a caldo il Guardasigilli Carlo Nordio, che di questa missione riformatrice è stato investito dal premier Giorgia Meloni. “Nessuno oggi può seriamente mettere in dubbio che Berlusconi sia stato oggetto di una aggressione politico-giudiziaria che non ha precedenti nella storia della Repubblica”, recitava il comunicato di cordoglio delle Camere penali. “È l’amara realtà di un Paese nel quale l’esercizio dell’azione penale è divenuto strumento privilegiato di lotta politica”, sottolineano i penalisti, che invocano “la più netta separazione tra i poteri dello Stato”, a partire dalla quella “tra magistratura inquirente e quella giudicante” e una “idea liberale del diritto penale e del giusto processo”. Un messaggio che l’esecutivo sembra voler ascoltare in pieno. Domani al Consiglio dei ministri arriverà il primo pacchetto di misure: si va proprio dalla separazione delle carriere alla riforma del Csm. Serviranno mesi per trovare il giusto equilibrio in Parlamento, sia per i distinguo laceranti dentro il mondo della magistratura emersi nel corso dell’assemblea dell’Anm di domenica scorsa, sia perché occorre una revisione costituzionale e i tempi sono molto più lunghi. È lecito invece attendersi misure molto stringenti e (forse) immediate su abuso d’ufficio, inappellabilità di proscioglimento da parte di pm - superando i distinguo della Corte costituzionale sulla riforma firmata da Gaetano Pecorella, che nel 2007 ne dichiararono l’illegittimità - segretezza delle indagini (“La sola informazione di garanzia è un’anticipazione di condanna”, ha detto Nordio) e soprattutto intercettazioni. Il dossier è nelle mani dei tecnici di via Arenula, da quel che trapela è lecito attendersi una serie di novità. Si va verso l’abrogazione totale dell’abuso d’ufficio su cui c’è già la proposta di Pietro Pittalis (Forza Italia). “È un reato magmatico, la cui dannosità originaria è mista a comprovata inefficacia preventiva, considerato che la paura di incorrere nella contestazione del reato frena l’azione amministrativa legittima”, dice al Giornale l’avvocato Ivano Iai. Il timore è l’addio all’articolo 323 del codice penale dia a Europa, Ocse e Onu segnali di cedimento sul fronte della lotta alla corruzione: “La potenzieranno. Abbiamo ben 30 norme contro i funzionari infedeli”, aveva sottolineato Nordio nei giorni scorsi. Quanto alle intercettazioni, l’obiettivo dovrebbe essere limitarne al massimo la pubblicazione sui giornali, a tutela del buon andamento delle indagini, soprattutto per i soggetti terzi che dovessero finire incautamente spiati senza essere coinvolti direttamente nell’inchiesta. “Non ho mai dato la colpa ai giornalisti per la pubblicazione di intercettazioni, se è un atto secretato quella notizia non dovrebbe uscire”, aveva detto Nordio. Piccolo inciso. Mentre per anni l’accanimento contro Berlusconi si è nutrito di intercettazioni rubate o soltanto presunte (come quelle sulla cancelliera tedesca Angela Merkel), l’unico quotidiano condannato per le intercettazioni è il Giornale per la famosa frase “abbiamo una banca”, riferita da Piero Fassino sul caso Bnl-Unipol e scovata da Gianluigi Nuzzi in circostanze mai non del tutto chiarite. L’obiettivo è anche quello di ridurre a mafia e terrorismo - non più la Pubblica amministrazione - la possibilità di utilizzare i trojan, “i cui abusi su privacy, attendibilità e invasività documentati nelle audizioni in commissione Giustizia della Camera vanno normati definitivamente”, conclude Pierantonio Zanettin (Fi). “Anm, giornali, sinistra, burocrati ministeriali faranno di tutto per far saltare la riforma. Se Nordio terrà il punto, noi ci saremo”, scrive su Twitter il deputato di Azione Enrico Costa. Le toghe sono avvisate. Venezia. Bassem, suicida in carcere nell’indifferenza di Luigi Manconi La Repubblica, 14 giugno 2023 Pochi giorni fa sul Gazzettino è stata pubblicata la notizia di una donna, Silvia Padoan, che ha sporto denuncia contro il carcere di Venezia: il compagno Bassem, tunisino, lì detenuto, si era appena tolto la vita. Silvia conosceva le intenzioni di Bassem e aveva provato in tutti i modi di avvertire il carcere. Chiedendo alla Direzione di prestare particolare attenzione e di monitorarlo “più del necessario”. Bassem, infatti, aveva appena ricevuto la notizia di una nuova ordinanza di misura cautelare, e le aveva comunicato di volersi togliere la vita. Dal Gazzettino leggiamo la testimonianza della cognata, Elisa Poletto, che così racconta quei momenti drammatici: “Silvia ha chiamato alle 14.41 direttamente la matricola per segnalare, ancora una volta, quello che aveva minacciato suo marito. Le hanno risposto che andava tutto bene e di non preoccuparsi, di stare tranquilla. Bassem, nel frattempo, era morto. Silvia è stata chiamata per la notizia del decesso del marito alle 15.40”. Dal carcere affermano che si è fatto tutto il possibile, che nulla faceva presagire un gesto simile e che è stato “un colpo di testa”. Ora sarà la Procura a indagare su eventuali responsabilità, nel frattempo la salma di Bassem sarà riportata in Tunisia, dalla madre. Nei giorni in cui si consumava l’ennesimo suicidio nelle carceri italiane, il Consiglio d’Europa metteva in guardia l’Italia: “I suicidi in carcere nel 2022 hanno raggiunto un livello senza precedenti e le autorità italiane devono migliorare le misure preposte a prevenire i suicidi in carcere e proseguire gli sforzi per assicurare una capacità sufficiente delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”. Un ulteriore monito che rimarrà senza ascolto? Palermo. Il Garante dei detenuti: “Nelle carceri c’è l’inferno, negati diritti e salute. Istituti minorili da chiudere” di Claudia Brunetto La Repubblica, 14 giugno 2023 La denuncia: “Per la sanità i tempi di attesa in carcere raddoppiano. Vale anche per i tumori”. A Pagliarelli ci sarà anche un reparto psichiatrico. Settantatré anni e quasi trenta a occuparsi della condizione dei detenuti. Come consigliere comunale, deputato regionale, fondatore e presidente dell’associazione Antigone Sicilia e, dallo scorso aprile, nel ruolo di garante per le persone detenute del Comune di Palermo, figura mai esistita prima. Pino Apprendi non usa giri di parole: “Il carcere è un inferno, un posto da cui non sai se uscirai vivo o morto e in ogni caso sei compromesso per tutta la vita. Quando senti la chiave della cella che si chiude alle tue spalle sai che in quel momento si è messa la parola fine ai diritti sanciti della nostra Costituzione”. Apprendi, cosa c’è dietro lo sciopero della fame dei quattro detenuti del carcere di Augusta? “C’è un disagio. La lontananza dalla famiglia, dagli affetti, c’è il non avere voce per avere riconosciuti i propri diritti. Ci sono richieste mai accolte. In carcere c’è soltanto il diritto alla “domandina”, un pezzetto di carta rivolto al direttore attraverso cui il detenuto chiede qualcosa: un vestito, un farmaco. Spesso restano lettera morta. È così dietro gli scioperi della fame, dietro i suicidi: l’anno scorso è stato il più nero degli ultimi venti anni: dieci suicidi in Sicilia su 84 in Italia”. Come viene trattata in carcere la malattia psichiatrica? “Fra i diritti negati in carcere c’è proprio quello alla salute. Se i cittadini fuori si lamentano del sistema della sanità che non funziona per i lunghi tempi di attesa, dentro il carcere il tempo si raddoppia: quattro mesi diventano otto. Non vengono curati come malati psichiatrici per mancanza di medici, di attrezzature, di diagnostica. Vale anche per altre malattie come il cancro, non vengono garantiti tempi adeguati nella cura. Da questo punto di vista il periodo del Covid in carcere è stato il più terribile. C’è gente che entra in buone condizioni psicofisiche e nel giro di poche settimane inizia ad avere disturbi gravi o al contrario altri arrivano in carcere con un disagio psichico accertato perché non ci sono posti nelle Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza”. Ha incontrato qualche esempio virtuoso in questi anni? “La direttrice Rita Barbera dell’Ucciardone aveva creato il “vaso di Pandora”: una struttura dentro il carcere senza sbarre che riproduceva un appartamento, la televisione, la cucina, il salotto, un ambiente familiare insomma. Dentro vivevano otto detenuti con disagio mentale e altrettanti tutor detenuti anche loro. Svolgevano una vita “normale”, incontrando assistenti sociali, psicologi, psichiatri. Gli stessi agenti della polizia penitenziaria scelsero di stare lì in borghese e non in divisa. Sono andato diverse volte a trovarli e ho capito in quell’occasione che se metti i detenuti con dei disagi in un ambiente familiare probabilmente li recuperi. E anche se ne recuperi uno solo hai fatto un favore alla società. Purtroppo il “vaso di Pandora” non c’è più. La buona notizia, però, è che presto aprirà un reparto di psichiatria al Pagliarelli dove i detenuti saranno seguiti in modo diverso”. Perché il sistema delle carceri non funziona? “È il sistema giudiziario in generale che non funziona. Basta dire che per avere una sentenza, qualunque essa sia, passano anni e anni e a volte arriva dopo avere affrontato diciotto mesi di carcere preventivo. Il carcere non è rieducativo, ti fa affrontare una pena in maniera punitiva al massimo delle possibilità. È una lotta impari che fa il detenuto con se stesso per la sopravvivenza: un giorno in più in carcere è un giorno in più per la sopravvivenza. Per non parlare del minorile”. In che senso? “Lo chiuderei. Non è assolutamente rieducativo, se metti un ragazzino di 14 anni in carcere non gli insegni nulla che possa affrancarlo dai reati che ha commesso. Se lo metti in carcere lo perdi completamente. Ma penso anche alla condizione delle donne che rappresentano una minoranza, al Pagliarelli sono 80 e possono fare poche attività visto che anche per formare una classe di scuola media serve un certo numero di persone. Penso ai migranti, gli ultimi degli ultimi, che non hanno proprio nessuno che si occupi di loro: cibo, vestiti, scarpe. Ho buoni motivi per credere che oltre il 70 per cento dei detenuti faccia uso di psicofarmaci, loro, i più deboli”. Quali sono i suoi compiti come garante nei prossimi tre anni? “Posso fare visita alle persone in carcere, nelle camere di sicurezza delle forze dell’ordine, nelle Rsa, ma posso avere anche colloqui privati con i detenuti, cosa che come presidente di Antigone non potevo fare. Posso accedere ai verbali disciplinari”. Prossimi traguardi? “Voglio continuare a parlare con chi sta in carcere, voglio conoscere la verità su quello che accade dentro le carceri e voglio fare soprattutto una battaglia per quanto riguarda il diritto alla salute: i detenuti devono essere curati nel quotidiano, non dietro una “domandina”. Poi ho un piccolo sogno: una trattoria sociale con dipendenti detenuti e disabili, Ci sto lavorando”. Siracusa. Penitenziario di Augusta, altri quattro detenuti in sciopero della fame di Salvo Palazzolo La Repubblica, 14 giugno 2023 Dopo la morte recente di due carcerati, l’istituto torna in emergenza. Oltre 100 i casi di disagio psichiatrico. La visita del presidente dell’associazione Antigone nel carcere del siracusano. Hanno fatto scalpore, ma solo da morti, i due detenuti del carcere di Augusta stroncati da un lungo sciopero della fame, nei giorni scorsi. “Devono fare notizia anche gli altri che hanno avviato la protesta per varie ragioni”, dice l’avvocato palermitano Giorgio Bisagna, il presidente regionale di Antigone, che martedì 6 giugno ha visitato il penitenziario in provincia di Siracusa finito al centro delle polemiche e di un’inchiesta della procura della repubblica. “Quel giorno, erano in quattro a fare lo sciopero della fame - spiega. Uno chiedeva di essere trasferito in un penitenziario della sua regione, la Campania. Dietro queste forme di protesta c’è sempre una forma di disagio”. Ad Augusta, sono addirittura 120 i detenuti che hanno disturbi psichiatrici, 100 hanno problemi di tossicodipendenza. “Con la collega Roberta Guzzardi abbiamo trovato una situazione drammatica”, racconta Bisagna, che arriva dopo un altro attivissimo presidente di Antigone, Pino Apprendi, oggi garante per i detenuti a Palermo. “Molti di quei detenuti non dovrebbero neanche stare in carcere, ma com’è noto in Sicilia ci sono solo un ex ospedale psichiatrico giudiziario, a Barcellona Pozzo di Gotto, e due Rems, le strutture sanitarie che accolgono gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi, sono a Naso e a Caltagirone”. E, intanto, dietro le sbarre c’è un disagio crescente. Ad Augusta la situazione è davvero preoccupante: l’anno scorso, ci sono stati 37 casi di autolesionismo e 40 proteste (molte con sciopero della fame) per le ragioni più diverse. Ancora l’anno scorso, si sono registrate 74 aggressioni nei confronti del personale dell’istituto, sei contro altri detenuti. “Una miscela esplosiva - non usa mezzi termini il presidente di Antigone - una situazione davvero grave, in una struttura per molti versi fatiscente, a cui il Dipartimento delle carceri non ha saputo dare ancora una risposta”. Per uno dei detenuti poi deceduto in seguito allo sciopero della fame, la direzione del carcere aveva chiesto il trasferimento all’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, ma non c’era posto. Nella difficile quotidianità, restano in prima linea gli agenti della polizia penitenziaria: ad Augusta dovrebbero essere 251, invece sulla carta sono 182, in realtà 19 sono assenti per malattia. “Sono altrettanto gravi le carenze nell’assistenza sanitaria - prosegue l’avvocato Bisagna - l’azienda sanitaria assicura solo uno psichiatra per l’intero penitenziario: viene due volte alla settimana, per un totale di sei ore. Gli psicologi sono invece sette, due sono esterni”. Una situazione davvero precaria nel penitenziario che ospita 484 detenuti, dovrebbero essere 357. “Una situazione che rivela tutta l’inadeguatezza del sistema penitenziario a far fronte al crescente disagio psichiatrico”, dice il presidente di Antigone. Anche il nuovo garante regionale per i detenuti, l’ex magistrato Santi Consolo, ha posto il problema dopo aver visitato la struttura di Augusta: “Una sola articolazione di tutela di salute mentale presso l’istituto di Barcellona Pozzo di Gotto è del tutto insufficiente a soddisfare le numerose richieste che pervengono dai 23 istituti siciliani. Si rappresenta, quindi, l’assoluta improcrastinabile urgenza di attivare le ulteriori analoghe due strutture presso l’Istituto Pagliarelli di Palermo e presso l’istituto di Siracusa che, sebbene programmate, saranno oggetto di sollecita attenzione per l’effettiva rapida attivazione”. E, ancora, ha scritto Santi Consolo: “Onde prevenire poi il rischio di illegittime detenzioni di persone destinate alle Rems, appare pure opportuno accelerare l’effettiva attivazione della Rems di Caltanissetta, anche questa già programmata”. Resta il dramma che si è già consumato, quello dei due detenuti morti in seguito a uno sciopero della fame che proseguiva da 46 e 59 giorni, erano un cittadino russo e un italiano di Gela. Nessuno si è accorto di quello che accadeva per davvero all’interno del carcere di Augusta: né i garanti locali e nazionali, né la stampa. “È mancata una completa informazione su queste situazioni”, ha denunciato il garante nazionale per i detenuti Mauro Palma. E, adesso, sulla gestione dei due eventi da parte dei vertici del carcere e della linea gerarchica del Dap c’è un’inchiesta della procura di Siracusa diretta da Sabrina Gambino: i magistrati stanno ricostruendo con precisione cosa sia avvenuto nel penitenziario e quali comunicazioni siano state fatte. Per questo si analizza il registro elettronico degli eventi critici, un applicativo informatico in cui confluiscono tutte le notizie provenienti dalle carceri. Sembra che alcune notizie sullo stato clinico dei detenuti siano state inserite solo dopo il decesso. Di certo, all’indomani della morte dei due uomini, il Dap ha disposto che venga rilanciato un alert quando lo sciopero della fame va avanti da un certo di giorni. Biella. Non basta il reato di tortura. “Servono pene più severe per gli abusi sui detenuti” di Massimo Nerozzi Corriere di Torino, 14 giugno 2023 Non tutti i soprusi in carcere sui detenuti sono “tortura” - giuridicamente - e per questo i reati che stanno al confine, come l’abuso di autorità, dovrebbero ricevere “un trattamento sanzionatorio più severo”, tale da consentire l’applicazione di misure cautelari: è la riflessione contenuta nell’ordinanza del tribunale del Riesame che ha annullato la sospensione dal servizio di 23 agenti del carcere di Biella, indagati per tre episodi di maltrattamenti “fisici e psicologici”. Esaminato il caso, il discorso dei giudici vira sul senso del reato di “tortura”, appunto, entrato nell’ordinamento italiano nel 2017. Di sicuro ha un “importante e positivo valore culturale - osservano - nonché una chiara finalità general- preventiva”, perché le divise “non possono rendersi responsabili di atti che offendano grandemente e arbitrariamente la dignità dell’individuo”, quali che siano le sue colpe e lo spessore criminale. C’è un ma: non tutto può essere definito “tortura”. Ecco dunque l’invito a inasprire le sanzioni per altre fattispecie. Morale: le violenze sui detenuti da parte degli agenti della polizia penitenziaria devono essere punite, se non rientrano nei casi di tortura, con pene più alte. L’occasione per questa valutazione sono i maltrattanti avvenuti nell’istituto penitenziario di Biella, lo scorso anno: c’è la storia dell’albanese malmenato, ammanettato e legato con il nastro isolante, del pestaggio di un georgiano, delle manganellate a un nordafricano. Ogni volta - secondo la ricostruzione delle difese -si trattava di placare dei reclusi intemperanti, minacciosi o addirittura pericolosi. Ma l’analisi minuziosa di quanto accaduto rivela, secondo gli investigatori, che gli uomini in divisa hanno tragicamente esagerato. Per dire, si legge negli atti, il loro vicecomandante - all’epoca messo agli arresti domiciliari e non interessato da questo passaggio davanti al Riesame - aveva metodi anacronistici”, “rudimentali” e “spicci” per mantenere l’ordine all’interno del carcere. Però, anche se i reati sono stati commessi, per il collegio presieduto dal giudice Stefano Vitelli, non sono delle vere e proprie “torture”. Al massimo si può parlare di “abuso di autorità”, che prevede fino a trenta mesi di reclusione e, quindi, non permette l’applicazione di provvedimenti interdittivi. Di conseguenza, la decisione del Riesame: “a prescindere da ogni considerazione di merito sul contributo (materiale, morale, di primo o secondo piano) del singolo indagato”, la sospensione dal servizio va annullata. L’ordinanza è stata depositata a palazzo di giustizia nel giorno in cui il sindacato di polizia penitenziaria Osapp denuncia “il triste record di 17 aggressioni subite e altrettanti agenti feriti in meno di un anno” nel carcere torinese delle Vallette. L’ultima è quella a un poliziotto, finito al pronto soccorso dopo essere stato preso a pugni al volto da un detenuto. Venezia. Detenuti al lavoro negli hotel, patto Ava e carceri per il reinserimento di Maria Ducoli La Nuova Venezia, 14 giugno 2023 Le aziende che assumeranno avranno sgravi fiscali. Gli albergatori: “Avvieremo percorsi di formazione”. Le porte degli hotel veneziani si aprono ai detenuti e alle detenute, per favorire il reinserimento nella società. Si tratta di un progetto che vede la collaborazione tra l’Associazione Veneziana degli Albergatori e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto. Progetto che strizza l’occhio all’aspetto sociale, ma permette anche di arginare le difficoltà degli albergatori, sempre più sguarniti di personale. Un percorso per i detenuti - Negli anni, si è cercato sempre più spesso di favorire percorsi di reinserimento lavorativo con le realtà del territorio, per permettere alle persone, una volta scontata la pena, di poter dare il proprio contributo alla collettività. E, in questo senso, il lavoro è un elemento fondante perché, come dice la nostra Costituzione, l’Italia si fonda sul lavoro, che dà dignità, permette di vivere e, se è quello giusto per la persona, anche di sentirsi utili al prossimo, gratificati. Ora, i detenuti che potranno essere ammessi ad un beneficio di legge che dà la possibilità alle imprese di fruire di sgravi fiscali assumendo persone in condizione di restrizione di libertà, avranno l’opportunità di trascorre una parte della giornata all’esterno per svolgere un’attività lavorativa altamente professionalizzante. “L’Ava avvierà percorsi di formazione in carcere per poi inserire alcune persone detenute a lavorare negli alberghi”, spiega il vicedirettore di Ava Daniele Minotto. Non si tratta quindi di momenti fini a se stessi ma di una progettualità che vede al centro la persona, per permetterle di avere una prospettiva sul domani, quello che spesso manca a chi si trova dietro alle sbarre. Il carcere in sé, la privazione della libertà, non ha mai reso nessuno migliore ma sono state le strade alternative, i percorsi e i progetti che hanno consentito ai detenuti di riprendere in mano la propria vita. Minotto spiega come, infatti, l’obiettivo sia proprio quello di “agevolare il reinserimento dei detenuti nella società e nel mondo del lavoro, in un percorso che si spera di poter portare avanti anche al termine del periodo di detenzione”. La scelta dei candidati - Saranno le direzioni delle case circondariali a individuare le persone più idonee ad affacciarsi al mondo alberghiero, in modo da garantire loro e all’albergo, una collaborazione più duratura possibile. Ma l’intento è quello di coinvolgere anche chi non potrà uscire dalla struttura. “Con un secondo protocollo di intesa con l’amministrazione penitenziaria regionale, stiamo sviluppando inoltre un progetto che valorizza il lavoro in carcere ed è destinato ai detenuti che non hanno il permesso di uscita” spiega il vice direttore di Ava, alludendo all’attività della Cooperativa Il Cerchio che gestisce la lavanderia interna al carcere della Giudecca. “Vogliamo lavorare proprio per offrire a queste persone nuove opportunità: la formazione ottenuta in carcere può davvero agevolare un futuro inserimento in un settore che a Venezia garantisce una costante possibilità occupazionale, in un incrocio di domanda e offerta con gli alberghi e le altre strutture associate”. Eboli (Sa). Fuori, ascoltando il mare: prove di riscatto per detenuti di Massimiliano Cassano Avvenire, 14 giugno 2023 Alcuni ospiti a fine pena sono usciti dall’Icatt di Eboli per un giro in barca nel porto di Salerno: “Ci hanno insegnato a orientarci e a ormeggiare”. Greenpeace: “Tanta voglia di emancipazione”. “Nun te preoccupa’ guaglio’, ce sta ‘o mare fore”, è il ritornello dell’apprezzatissima serie televisiva sul carcere e sul riscatto “Mare Fuori”, che esce dagli schermi diventando anche la promessa fatta - e mantenuta - a un gruppo di detenuti a fine pena dell’Istituto a custodia attenuata, l’Icatt di Eboli: per un giorno sono usciti dalla struttura, un castello costruito in epoca normanna su un precedente fortino longobardo che ospita circa 35 persone, e hanno potuto sentire sulla pelle il vento della libertà che li aspetta facendo un giro in barca nel porto di Salerno. L’evento arriva al culmine di una serie di incontri avvenuti nell’Icatt in cui agli ospiti sono state insegnate nozioni sui cantieri navali, sulla motoristica a meccanica marina, sulla pesca sportiva e sui pontili, oltre che sulla tutela del mare e del diritto ambientale. Un progetto reso possibile da Greenpeace e dall’associazione Giuristi per l’Ambiente (GXA), in collaborazione con la sezione locale della Lega Navale Italiana, che ha messo a disposizione l’imbarcazione per la gita in esterna. “È stata un’esperienza molto ricca sul piano umano: dietro ognuno dei detenuti ci sono storie difficili, realtà socialmente ed economicamente precarie, condizioni che spingerebbero chiunque a pensare sempre e solo ai propri interessi e alle proprie necessità. Abbiamo visto, invece, tanta voglia di riscatto” spiega Marco Meo, coordinatore del gruppo locale di Greenpeace Salerno. “Ci hanno insegnato ad ormeggiare una barca, orientarci in acqua, capire come cambia il meteo” dice ad Avvenire Carmine, ospite dell’Icatt di Eboli, non nascondendo la sua più grande speranza: “Magari un giorno questo potrebbe diventare il mio lavoro”. Il mare come metafora di emancipazione e mezzo di riscatto, la luce fuori dal tunnel come viene descritto nella popolare serie televisiva “Mare Fuori” nella quale ha recitato anche Francesco Panarella, 22enne attore napoletano presente anche lui all’incontro ed accolto calorosamente dagli ospiti dell’Icatt. ?”Spero sempre che i ragazzi che guardano la serie ne prendano soltanto il meglio - dice -, il lato che racconta l’altra faccia della medaglia, che va al di là dell’errore e dello sbaglio. È importante trattare le persone in quanto tali, soffermandoci sulle speranze che nutrono, sull’amore, sull’amicizia, che in alcuni contesti possono mancare”. Oltre che esempio di libertà, l’ecosistema marino è stato anche mostrato come un ambiente da difendere dalle minacce antropiche. Ai detenuti sono state infatti date informazioni sulla salvaguardia dell’ambiente, la tutela delle coste e la necessità di comportamenti sostenibili e responsabili da parte di cittadini ed Istituzioni. Temi centrali per la campagna “C’è di mezzo il mare” di Greenpeace, che in tutta Italia cerca con laboratori e incontri con i volontari di promuovere la protezione del Mar Mediterraneo. Il prossimo 20 giugno alle Nazioni Unite verrà ratificato un accordo internazionale che impegna i Paesi membri a proteggere attivamente il 30% delle proprie acque nazionali entro il 2030. Un obiettivo ambizioso visto che in Italia ad oggi soltanto l’1% della costa rientra nelle aree marine protette, dove attività intensive come la pesca e lo sfruttamento turistico sono proibite. Inoltre, studi del Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e della Vita dell’Università di Genova mostrano un aumento di 2 gradi al di sopra della media nelle acque nazionali superficiali, entro i 10-15 metri di profondità. Un fattore che sta già causando drammatici cambiamenti nella biodiversità marina, dalla scomparsa delle specie più sensibili all’invasione di altre, spesso aliene, che meglio si adattano a un mare sempre più caldo. “Un respiro su due lo dobbiamo al mare, il più grande produttore di ossigeno a livello planetario, oltre che un grande baluardo nel difenderci dagli effetti dei cambiamenti climatici” dice Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna. “Il mare è speranza - aggiunge - e va tutelato con misure urgenti ed efficaci. Soltanto così potrà dare a tutti una nuova possibilità”. Pistoia. Il teatro entra nel carcere, detenuti protagonisti davanti ai giovani studenti di Samantha Ferri La Nazione, 14 giugno 2023 Alla rappresentazione de “I miserabili” di Hugo i ragazzi del Capitini di Agliana. La direttrice: “Il progetto va avanti: dopo le riprese video, convegni e incontri”. Il teatro è una forma di espressione artistica universale che travalica culture e luoghi e in questo caso ha voluto creare un ponte con l’esterno. Non è la prima volta che l’arte incontra il carcere di Pistoia, da anni le associazioni realizzano laboratori teatrali per i detenuti che stavolta hanno interpretato una versione rivisitata de “I miserabili” di Victor Hugo. Da anni la compagnia teatrale Biriba -Teatro di natura organizza laboratori per i detenuti del carcere di Santa Caterina in Brana. L’ultimo progetto ha visto la regia di Jacopo Belli e, nonostante la messa in scena tra le porte del carcere, allo spettacolo ha potuto assistere una classe quinta dell’istituto Capitini di Agliana, l’assessore alla cultura del Comune di Pistoia e gli operatori del carcere. “L’obiettivo, oltre che espressivo ed educativo, è anche quello di giungere a una rappresentazione teatrale rivolta al pubblico esterno - spiega la direttrice del carcere pistoiese Loredana Stefanelli -. Perciò durante la rappresentazione del 5 giugno sono state realizzate delle riprese video dell’evento, così da poter far conoscere il lavoro svolto all’interno del nostro istituto anche al di fuori delle mura del carcere. Pensiamo a tavole rotonde, talk, convegni, iniziative di formazione sul tema”. Un’arte senza limiti e senza confini, che nasce in un luogo dove la limitazione e la confinazione sono una condizione costante ma che può arrivare ovunque. “Adesso stiamo lavorando per organizzare delle proiezioni del video dello spettacolo alla Fondazione Vivarelli e al Teatro Bolognini” - conclude la direttrice - “vorremmo far conoscere alla comunità il progetto che ha preso vita all’interno dell’istituto penitenziario”. Brindisi. Una carezza senza sbarre, i bambini abbracciano le mamme e i papà detenuti brindisireport.it, 14 giugno 2023 Si è svolta ieri (13 giugno) a Brindisi “La partita con mamma e papà” organizzata da “Bambini senza sbarre Ets” e dalla cooperativa “Eridano”. Nel cortile del carcere, sono stati messi a disposizione vari oggetti di gioco con l’intento di creare dei momenti di aggregazione, tali da rimanere impressi nella mente dei minori. Che cos’è la libertà? Quanto vale? All’apparenza sembrerebbero due domande a cui parrebbe facile rispondere. In realtà, è tutto più complesso se si ruota la prospettiva e ci si mette nei panni di chi, solo passivamente, è protagonista di una determinata vicenda. In Italia, circa 100mila bambini (2,2 milioni in Europa) hanno la mamma o il papà in carcere, e per questo - spesso - sono emarginati. Si tratta di bambini che vivono in silenzio il loro segreto sul genitore recluso, nel tentativo di non essere stigmatizzati ed esclusi. Queste, però, sono realtà presenti che condizionano la crescita dei piccoli di oggi (gli adulti di domani), così come incidono sul potenziale progressivo allontanamento del minore dalla figura del genitore detenuto. Un’eventualità, quest’ultima, che deve essere scongiurata ad ogni costo poiché contraria alla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Proprio sull’onda di questi temi importanti, ieri pomeriggio (13 giugno), la Casa circondariale di Brindisi ha ospitato l’iniziativa intitolata La partita con mamma e papà. Protagoniste le famiglie di alcuni detenuti, che si sono potute riunire per trascorrere due ore di svago all’interno della struttura penitenziaria. L’evento, che si sta replicando in molti istituti penitenziari italiani, è stato organizzato dall’associazione Bambini senza sbarre Ets in collaborazione con il Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Insieme a “Carceri aperte” si inscrive nella campagna europea “Non un mio crimine ma una mia condanna” del network internazionale Cope (Children of prisoners europe). Per lo svolgimento dell’iniziativa è stato essenziale il lavoro svolto dalla cooperativa sociale Eridano, partner del progetto “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie - applicazione della Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti”, selezionato da “Con i bambini” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Gesti semplici ma speciali - La giornata si è aperta con il saluto ai presenti della dirigente penitenziaria Valentina Meo Evoli, e ha visto la presenza della garante per i diritti dei detenuti brindisini, Valentina Farina. Nel cortile del carcere, sono stati messi a disposizione due tavoli da ping pong, dei palloni, e vari oggetti di gioco che avevano l’intento di unire e creare dei momenti di aggregazione, che rimanessero impressi nella mente di bambini e bambine. I componenti delle famiglie, in questo modo, hanno potuto svolgere dei gesti apparentemente semplici ma significativi, come abbracciarsi, scambiarsi delle parole affettuose da vicino, o mangiare insieme un gelato (offerto dall’azienda Sammontana). “A Brindisi abbiamo avviato un sistema virtuoso - racconta Angela Corvino, referente territoriale di Bambini senza sbarre - nella Casa circondariale è stato predisposto lo spazio giallo, un’area di accoglienza destinata alle famiglie prima e dopo il colloquio con la persona detenuta. Qui avviene una fase di passaggio per metabolizzare il colloquio e per comprendere quali siano le esigenze fondamentali dei minori - L’evento appena svolto - prosegue - è di particolare rilevanza perché per la prima volta i piccoli sono entrati all’interno del corpo centrale della struttura penitenziaria, e le famiglie si sono potute riunire”. “Questo è il culmine di un percorso complesso, iniziato nel 2020 e proseguito con tante difficoltà anche durante l’emergenza covid - afferma Federica Esposito, referente per la cooperativa Eridano, che si è occupata del progetto insieme alla collega Tamara Pentassuglia - In totale, sono state coinvolte sedici famiglie - prosegue - In questo lasso di tempo, il sabato mattina, i padri detenuti hanno svolto delle attività di gruppo con noi per discutere su temi di importanza sociale”. La giornata si è conclusa nel migliore dei modi, ed è stata un’occasione importante per contribuire al mantenimento del legame tra bambini e genitori detenuti. Un’occasione che ripercorre quanto prescritto dalla Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, un protocollo d’intesa che impegna il sistema penitenziario a trasformare gli aspetti di trattamento e di cura del detenuto, considerando il suo ruolo genitoriale, per una cultura dell’accoglienza consapevole della presenza del minorenne innocente e libero. Trani (Bat). Il detenuto che fa origami per i bimbi malati: “Sono supereroi” di Roberta Barbi vaticannews.va, 14 giugno 2023 Nella casa circondariale di Trani, un ristretto, papà di un bimbo malato ed esperto nell’antica arte giapponese, ha realizzato pupazzi di carta poi recapitati ai 12 piccoli pazienti ricoverati nel reparto di Oncoematologia pediatrica del policlinico di Bari. Supereroi. È la parola chiave di questa storia, in cui i protagonisti sono i bambini, quelli più sfortunati che devono lottare un giorno dopo l’altro per sopravvivere, come i bambini malati ricoverati nel reparto di Oncoematologia del policlinico di Bari, che intorno a Pasqua si sono visti recapitare un dono inaspettato, assai più gradito del classico uovo: pupazzi di carta, grandi, bellissimi, orsacchiotti ma anche supereroi e perfino una macchina, realizzata con perizia, quella di chi è profondamente esperto nell’antica arte degli origami. L’altro ingrediente è la pazienza, ma quella ne sviluppa tanta chi vive in carcere perché sta scontando una pena, e ne ha tanta di più se ha dovuto combattere anche lui in prima persona con il male più grande: quello di vedere un figlio soffrire, nello specifico di diabete. Perciò il protagonista è anche lui, il donatore di questi pupazzi: un papà detenuto che ha messo a disposizione la capacità appresa dalle sue mani, facendo fruttificare il tempo, spesso vuoto, della detenzione. “I bambini sono rimasti stupiti e naturalmente contentissimi di questo regalo”, racconta a Vatican News don Raffaele Sarno, cappellano dell’istituto di pena di Trani che ha aiutato il detenuto a realizzare questo sogno, in collaborazione con l’associazione Apleti Ets che ha fatto da tramite. Li ha esortati a essere supereroi, come quelli dei cartoni animati che tanto amano, il detenuto di Trani, nella lettera di accompagnamento che ha mandato ai bambini assieme agli origami: “Supereroi era un termine ricorrente nella lettera di questo papà - rileva ancora don Sarno - con questo dono la sua intenzione era alleviare per un poco la sofferenza dei piccoli degenti, spingerli ad essere forti e coraggiosi, desiderosi di guarire, dei veri e propri guerrieri come lo è anche suo figlio che ogni giorno combatte contro il diabete”. Tra i piccoli destinatari, però, una bambina di tre anni, che aveva ricevuto da Trani proprio il suo supereroe preferito fatto di carta, non ce l’ha fatta: “È volata in cielo - prosegue il cappellano - mi piace pensare che i suoi ultimi momenti li abbia trascorsi abbracciata a questo eroe di carta”. Sono tante le molle che hanno spinto il papà detenuto di Trani al gesto che ha fatto: “Sicuramente c’è la sofferenza del proprio figlio che ha creato empatia verso questi bambini malati - ha spiegato don Raffaele Sarno - ma non credo sia così semplice, ritengo piuttosto che questo gesto semplice, spontaneo e sincero sia da inquadrare in un percorso più ampio di revisione del proprio passato per aprirsi, in futuro, a una nuova mentalità, a un nuovo stile di vita. In questo senso la sofferenza provocata e quella provata, qui si sono trasformate in amore. L’amore provoca riflessione e una spinta positiva verso il domani, almeno io qui i segnali di riscatto li vedo tutti”. Uno di questi segnali è certamente il pianto liberatorio che si è fatto il papà ristretto quando don Raffaele gli ha raccontato la risonanza che aveva avuto, anche sui media, il dono che a lui era venuto dal cuore. E la commozione, ancora più della maxi forza o della velocità supersonica, è un tratto distintivo dei supereroi. Cremona. Detenuto pittore e bibliotecario: “Combatto lo sconforto grazie a libri e pennelli” di Mariagrazia Teschi La Provincia di Cremona, 14 giugno 2023 Mohamed è uno dei protagonisti della mostra “Artistica-mente. Opere dal carcere di Cremona” inaugurata ieri mattina nel giardino terapeutico di Casa Medea. “Al momento il mio corpo appartiene allo Stato italiano ma la mente no, appartiene a me. E se mi appartiene, allora devo imparare a gestirla. L’ho fatto. E se mi viene un po’ di sconforto, non depressione, sconforto, magari un po’ d’ansia, incomincio a mettere in movimento prima la testa e poi le mani. Funziona”. Indossa con leggerezza un berretto alla francese da pittore, un po’ inclinato sul viso, la visiera al contrario, Mohamed, uno dei detenuti-pittori protagonisti della mostra ‘Artistica-mente. Opere dal carcere di Cremona’ inaugurata ieri mattina nel giardino terapeutico di Casa Medea, a due passi dalla un’altra ‘casa’, quella in cui sta scontando la pena, diventata definitiva, per un reato commesso anni fa. “Ho un debito da pagare, è ovvio che non posso lamentarmi. Chi sbaglia deve pagare, vale per me e anche per le persone più importanti”. Mohamed ha avuto il permesso di partecipare al taglio del nastro cimentandosi lungo il percorso espositivo - una quarantina le opere esposte - in veste di cicerone, con grande abilità, padronanza della materia e della lingua italiana, che parla con un lieve accento francese. Grande appassionato di lettura, da alcuni anni è il responsabile della biblioteca del carcere; ha una inclinazione naturale per la pittura, scoperta frequentando i laboratori di arteterapia che Valeria Pozzi tiene da tempo a Cà del Ferro. “Libri in italiano, ma anche inglese, francese persino cinese: romanzi, saggi, narrativa, molti fumetti. I detenuti mi chiedono consiglio, cerco di capire la persona che mi sta davanti, che livello di studi o conoscenza ha, e poi propongo. In genere cerco di offrire libri in lingua italiana: è giusto che chi non la conosce bene la impari. La conoscenza fa crescere, ti inserisce nella piccola società del carcere e poi in quella che ci aspetta fuori. L’Italia ha bisogno di lavoratori ma anche di cittadini. Almeno io la penso così”. I laboratori condotti da Pozzi sono rivolti sia ai detenuti protetti (che per il tipo di reato commesso non possono vivere insieme alla popolazione detenuta) e i comuni. Il gruppo dei protetti è l’autore di una grande tela dal titolo emblematico ‘Non siamo vuoti a perdere’. “Vogliono dire al mondo che non sono da buttare nonostante tutto - spiega Pozzi - che il desiderio di riparare e essere reinseriti nella società c’è ed è molto forte”. Una sezione della mostra è dedicata ai detenuti fragili psichicamente (grandi tele a olio o tempera dai colori brillanti e le pennellate spesse e dense), la maggior parte delle opere, invece, è frutto dell’abilità dei detenuti comuni, che sulla tela buttano i ricordi del passato, il loro vissuto biografico, cosa vorrebbero vedere fuori dalla finestra che non siano sbarre o muri. Gli allievi di Pozzi sperimentano le tecniche più diverse (tempera, carboncino, acquerello, olio, pastello, gessetti) nel figurativo come nell’astratto che aiuta a “esprimere liberamente ciò che, fuori dalle sovrastrutture, è la lingua della mente, lo stream of consciousness”. Nel dipinto ‘lo specchio’ un musicista con la chitarra stretta in mano balza fuori urlando da una macchia rossa e gialla, l’esito di una esplosione, il caos, la guerra. La tela è divisa in due, e nella parte inferiore rapide pennellate di tanti colori disegnano un mondo dove trionfano pace, bellezza, serenità. L’ha realizzata Moahamed insieme a due paesaggi che gli sono venuti così, senza pensare, di getto. In uno c’è il mare, una coppia innamorata seduta sulla panchina sotto la luce di un lampione. L’altro è un lungo sentiero che si inoltra in un bosco, ai lati alberi altissimi a raffigurare un abbraccio. Laggiù, in fondo al tunnel, una luce sfolgorante. Non ci sono presenze umane, perché il dipinto non è “autobiografico ma lo dedico a tutti quelli che si sono trovati dentro a un tunnel. Per disperazione, dipendenze da acol o droga. Ci vuole tanto lavoro e tanta pazienza ma una via d’uscita si trova. La pittura ci permette di raccontare quello che non riusciamo a esprimere con le parole”. Da Rossella Padula, direttrice del carcere, l’elogio per il lavoro svolto da Pozzi e i risultati raggiunti dal carcerati-pittori unito al ringraziamento rivolto a tutti gli operatori, volontari e non. Le cornici che ‘vestono’ le tele di Artistica-mente escono dal laboratorio di falegnameria tenuto in carcere da Maurizio Lanfranchi, vicepresidente di Medea. Una comunanza di intenti e obiettivi che unisce due realtà capaci di accogliere e accompagnare storie di sofferenza e riscatto. Firenze. Nel Segno della Libertà comune.fi.it, 14 giugno 2023 Dal 14 giugno al 23 luglio al Murate Art District la mostra nata per dare voce attraverso l’arte ai sogni di giovani detenuti minorenni. La mostra è dedicata alla libertà vista dal carcere e alla luce dell’arte. L’iniziativa nasce per dare voce attraverso l’arte ai sogni di giovani detenuti minorenni collegando i loro pensieri alle riflessioni sulla libertà e sulla dignità della pena dei padri fondatori dell’Europa, Altiero Spinelli in primis. Il progetto artistico - che è già stato ospitato presso l’Istituto Centrale di Restauro di Roma - nasce dalle intenzioni dell’onorevole Silvia Costa, Commissario straordinario di Governo per il recupero dell’ex carcere borbonico sull’isola di Santo Stefano a Ventotene. Organizzato assieme ad alcuni degli Istituti di Cultura dei Paesi europei in Italia (Eunic-Cluster Roma) quali il Centro Ceco, l’Istituto Bulgaro di Cultura, l’Istituto Polacco, l’Istituto Slovacco, l’Istituto Yunus Emre Centro Culturale Turco, la Rappresentanza Generale della Comunità fiamminga e della Regione delle Fiandre, ha ricevuto la collaborazione dell’Archivio storico dell’Unione Europea di Firenze e del Ministero della Giustizia e viene accolto da MAD Murate Art District, coinvolgendo giovani artisti e curatrici dell’Accademia di Belle Arti di Firenze. L’eterogeneo percorso della mostra, curato nella sua sede fiorentina da Dispositivi Comunicanti e Mind the GAP, raccoglie le opere di Stefano Bellanova, Giorgia Errera, Sadra Ghahari, Weronika Guenther, Martin Jurik, Katerina Kutchova, Federico Niccolai, Marianna Panagiotoudi, Karina Popova, Ilaria Restivo, Zoya Shokooi, Maria Giovanna Sodero, Valerio Tirapani e Laura Zawada. Gli artisti coinvolti, chiamati a partecipare dalle istituzioni promotrici, sono stati esortati a interpretare con le loro opere alcuni dei concetti a fondamento dell’Unione Europea: libertà, unità, memoria, comunità e parità. E proprio partendo dalla parola libertà sono stati evocati desideri, sogni e aspirazioni da parte di alcuni giovani reclusi nel Carcere minorile di Casal del Marmo a Roma coinvolti in un laboratorio di scrittura creativa dall’attore Salvatore Striano, realizzato in collaborazione con il Dipartimento della Giustizia minorile del Ministero della Giustizia. I testi prodotti sono stati poi affidati tramite gli Istituti di Cultura ai diplomandi delle Accademie di Belle Arti dei sei Paesi europei (Bulgaria, Repubblica Ceca, Fiandre, Polonia, Slovacchia, Turchia) che hanno realizzato, partendo dalla reinterpretazione, opere artistiche di grande valore, collegate tra loro da un elemento simbolico: la dimensione delle celle del carcere. La scelta degli spazi del Complesso delle Murate per la tappa fiorentina di questo percorso non è casuale, ma deriva dall’importante storia di questo luogo. Dal 1424 al 1808 la struttura ha ospitato il Convento della Congregazione delle Suore Murate; tra il 1848 e il 1983 fu convertito in carcere maschile, con un’ala adibita a carcere duro nel periodo del Ventennio fascista, destinato a anarchici, socialisti ed antifascisti. Tra i numerosi detenuti di alto profilo politico spiccano i nomi di Carlo Levi, Gaetano Salvemini, Nello Rosselli, Carlo Ludovico Ragghianti e Alcide De Gasperi; quest’ultimo, insieme ad Altiero Spinelli, tra i promotori dell’Unione Europea. I progetti artistici contestualizzati nel carcere duro delle Murate esplorano il concetto di libertà all’interno della cella carceraria, si interrogano non solo sulla natura, ma anche sulla forma che questa può assumere quando è vissuta, desiderata o immaginata all’interno di un luogo di detenzione. Le opere, impiegando media diversi, spaziano dalla scultura alla performance, alla proiezione di un mondo virtuale, trasformando le celle in varchi verso realtà sconosciute, esperienze condivise e luoghi di memoria. Dal 14.06.23 al 23.07.2023, da martedì a sabato dalle 14.30 alle 19.30, ingresso libero. Sorveglianza di massa, algoritmo di razza di Martina Turola* Il Manifesto, 14 giugno 2023 L’Unione Europea sembra pronta a regolamentare l’intelligenza artificiale e a vietarne gli usi più lesivi dei nostri diritti, come quelli legati alla sorveglianza di massa e al riconoscimento biometrico, invece il governo italiano annuncia di voler andare nella direzione opposta. Qualche giorno fa è trapelata la notizia che il Dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno stia coordinando lo sviluppo di Giove, un software di polizia predittiva destinato alle questure per tentare di prevenire i cosiddetti reati predatori, furti e rapine. Questo software, da quanto si è appreso, si basa su un algoritmo di intelligenza artificiale capace di analizzare, a partire dalle banche dati delle forze dell’ordine, un’enorme quantità di informazioni - dove e quando sono stati commessi i reati, i mezzi usati, ecc. - con l’obiettivo di rilevare comportamenti ripetuti che possano condurre agli autori. Questi sistemi sono però estremamente problematici e finora hanno prodotto risultati controversi e discutibili. Oltre a comportare potenzialmente una massiccia violazione della privacy dei cittadini, possono generare errori dovuti ad assunzioni errate nel processo di apprendimento automatico, i cosiddetti pregiudizi algoritmici, in particolare legati all’etnia e alla provenienza geografica. È infatti difficile riuscire a collegare con certezza un reato ad un altro e si sono già verificati scambi di persona nei Paesi dove sono stati utilizzati sistemi di polizia predittiva. Su Giove è chiamato a pronunciarsi il Garante della Privacy, ma nel frattempo il senatore del PD Filippo Sensi ha presentato una interrogazione parlamentare, in cui si evidenzia che il ministero dell’Interno appare incurante del dibattito europeo in atto sull’intelligenza artificiale. L’ultima versione del Regolamento approvato in Commissione, che verrà votato il 14 giugno in seduta plenaria del Parlamento Europeo vieta infatti i sistemi di polizia predittiva, con un’unica eccezione: la sicurezza nazionale. Si tratta di un risultato ottenuto anche grazie alla pressione delle organizzazioni della società civile, fra cui la coalizione internazionale Reclaim Your Face, che da anni si impegna per contrastare la sorveglianza di massa, di cui The Good Lobby fa parte assieme ad Hermes Center for Digital Rights e info.nodes. Il testo del regolamento contiene anche un divieto estensivo all’utilizzo di sistemi di riconoscimento biometrico come quello facciale, capace di risalire all’identità di una persona a partire da un video o da un’immagine catturata da una telecamera di sorveglianza, incrociati poi con altri dati disponibili, come i database delle forze dell’ordine, e usati per questioni di sicurezza. Anche in questo caso i rischi di queste tecnologie, temporaneamente vietate in Italia fino alla fine del 2023 per effetto di una moratoria, sono molteplici: invasione della privacy, profilazione di massa di specifiche categorie di persone, spesso di minoranze. L’effetto collaterale è evidente: molte persone possono essere portate a evitare di partecipare alle manifestazioni per proteggersi o a non esprimere le loro opinioni per paura di essere sempre osservate. L’idea del Ministro dell’Interno di introdurre il riconoscimento facciale nelle stazioni, negli ospedali e nelle aree commerciali di Roma, Milano e Napoli è pericolosa: in nome della sicurezza si finirebbe per sottoporre chiunque ad una sorveglianza continua. Raccogliere migliaia di dati di tutti coloro che si trovano a passare in un luogo sovverte la presunzione di innocenza, un principio cardine della democrazia. Per questo motivo è fondamentale ora fare in modo che la versione finale del Regolamento che verrà approvata in seguito al voto in Parlamento e al successivo confronto con il Consiglio e la Commissione europea non venga annacquata. *The Good Lobby Non si parla più delle ludopatie di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 14 giugno 2023 Negli anni del Covid la peste del gioco d’azzardo è dilagata ancora di più, soprattutto online. “Italiani tutti al mare. Se ne infischiano del virus”, titolava a tutta pagina Libero il 22 giugno 2020. E spiegava: “Nel primo giorno d’estate è scattata l’evasione di massa dalle galere domestiche. C’è voglia di divertirsi, alla faccia dei menagramo che continuano a metterci paura”. Tre anni dopo quella febbrile euforia, i numeri di Avviso Pubblico riassunti ne La pandemia da azzardo. Il gioco al tempo del Covid, edito da Altra Economia, dimostrano che le cose andarono molto peggio di quanto previsto dagli ottimisti più scriteriati non solo sul fronte epidemiologico (i morti già contati allora, 34.610, sarebbero stati seguiti fino al febbraio scorso da altri 152.941) ma anche sul fronte della sanità pubblica nel senso più ampio, a partire dal dilagare delle ludopatie. Spiega infatti il dossier di Claudio Forleo e Giulia Migneco, con una prefazione dell’ex procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho (“Numerose indagini evidenziano come la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra e le altre organizzazioni criminali siano interessate a infiltrare il mondo dei giochi e delle scommesse sia nella modalità fisica che in quella on-line, offrendo, tale settore, canali di riciclaggio più facilmente mimetizzabili per i gestori di raccolta delle giocate”) che negli anni del Covid la peste dell’azzardo è dilagata ancora di più: “La pandemia infatti ha imposto una forte accelerazione delle giocate telematiche, tanto da invertire in un lampo il trend: la raccolta fisica è crollata sotto il 40%, quella telematica ha superato il 60%”. Salendo dai 34,7 miliardi del 2006 a quasi 112: oltre il triplo. Anzi, secondo Maurizio Fiasco, il sociologo nemico acerrimo dell’azzardo premiato anche da Sergio Mattarella, il totale del giocato sarebbe stato nel 2022 addirittura di 131 miliardi. Il quadruplo dell’ultima manovra di bilancio di Giorgia Meloni. Peggio: il margine economico per lo Stato sarebbe calato fino ad essere inferiore a quello del 2014. E su quei 131 miliardi quelli giocati on-line (più difficili da individuare) sarebbero 71. Sui quali lo Stato ha una percentuale di circa l’1%. Incassi totali: circa 700 milioni. Somma ridicola rispetto ai problemi posti dagli oltre 18 milioni di italiani che “giocano” almeno una volta l’anno. Ne vale la pena? E perché in questi ultimi mesi, nonostante la premier avesse denunciato in passato i gravi rischi delle ludopatie, se ne parla così poco? Abuso di antibiotici, in Europa muoiono 35 mila persone l’anno di Andrea Capocci Il Manifesto, 14 giugno 2023 Il Consiglio dell’Unione Europea adotta una raccomandazione agli Stati membri per incoraggiare un uso più consapevole e parsimonioso di questi farmaci. Ogni anno circa trentacinquemila persone nell’Unione Europea perdono la vita a causa di infezioni resistenti agli antibiotici, malattie un tempo facilmente curabili e che oggi possono diventare letali. Per affrontare questa emergenza sanitaria il Consiglio dell’Unione Europea ieri ha adottato una raccomandazione agli Stati membri per incoraggiare un uso più consapevole e parsimonioso degli antibiotici. Il provvedimento è parte della generale revisione della legislazione farmaceutica presentata il 26 aprile dalla Commissione Europea. A differenza di regolamenti e direttive, però non si tratta di un atto vincolante. La norma fissa alcuni obiettivi che gli Stati membri devono raggiungere entro il 2030. L’Ue invita a diminuire il consumo complessivo di antibiotici del 20% rispetto al 2019, soprattutto di quelli più suscettibili di generare resistenza agli antibiotici. Inoltre, entro la fine del decennio i governi dovranno adottare misure per ridurre le infezioni da stafilococco (-15% entro il 2030), E. coli (-10%) e Klebsiella pneumoniae (-5%) resistenti ai corrispondenti antibiotici. Infine, stabilisce un obiettivo radicale per quanto riguarda la vendita di antibiotici per l’allevamento e l’acquacoltura: dimezzare le vendite entro il 2030, un target già fissato nella strategia “Dal produttore al consumatore” del 2020 e richiesto dall’approccio cosiddetto One Health, secondo cui salute umana e ambientale sono strettamente legate. L’Italia è uno dei Paesi che abusa di antibiotici e dovrà adeguarsi. Consumiamo 17 dosi di antibiotico per mille abitanti al giorno, contro una media europea pari a 15. L’eccesso di antibiotici colpisce soprattutto le regioni del Sud: in Campania, ad esempio, si toccano le 25 dosi giornaliere per mille abitanti. Secondo l’ultimo “Rapporto sull’uso degli antibiotici in Italia” dell’Aifa basato sui dati del 2021, sono spesso i medici di famiglia a prescriverli in modo inappropriato. Sono ritenute tali il 28% delle prescrizioni nei casi di influenza o raffreddore e un terzo delle ricette per tonsillite e faringite, un dato peggiorato rispetto al 2020 a causa della pandemia. L’abuso di antibiotici in Italia non è una novità. Già dal 2017 l’Italia si è dotata di un “Piano nazionale di contrasto dell’antimicrobico-resistenza” che sta lentamente migliorando la situazione. Proprio perché partiamo da un livello di consumo storicamente molto elevato, per l’Italia oggi è più facile raggiungere gli obiettivi di decrescita. Rispetto al 2019, ad esempio, nel 2021 si è somministrato il 21% in meno di antibiotici come richiesto dalla raccomandazione. Tra il 2013 e il 2021, il consumo complessivamente è calato addirittura del 37%. Il problema però è che consumiamo soprattutto quelli sbagliati. Gli antibiotici, infatti, non sono tutti uguali. L’Oms li ha classificati per rischio crescente di stimolare resistenza batterica nelle tre categorie “access”, “watch” e “reserve”. La raccomandazione europea prevede che in ogni Paese almeno il 65% degli antibiotici consumati appartengano alla categoria “access”, quella più sicura e di cui fanno parte principi attivi ben noti come l’amoxicillina. L’Italia invece consuma troppi antibiotici della categoria “watch”, che tra gli altri include prodotti popolari come azitromicina (largamente e inappropriatamente prescritta contro il Covid), claritromicina e eritromicina. Le dosi di farmaci del gruppo “access” da privilegiare in Italia rappresentano solo il 53% del totale di quelle prescritte. Nessuna Regione raggiunge l’obiettivo europeo: in Friuli-Venezia Giulia e nel resto del nord-est si preferiscono gli antibiotici meno a rischio, ma dalle Marche in giù le percentuali si invertono. L’Italia è messa anche peggio per quanto riguarda il consumo di antibiotici per gli animali da allevamento. Rispetto ai 31 Paesi europei monitorati dal Sistema di sorveglianza europea del consumo di antimicrobici veterinari (Esvac, dati 2021) ne usiamo oltre il doppio della media europea e solo Polonia e Cipro ne fanno più uso di noi in proporzione alla quantità di bestiame. Anche in questo caso, tuttavia, la situazione italiana è in netto miglioramento: seguendo un trend europeo, dal 2011 al 2021 il consumo di antibiotici si è all’incirca dimezzato. L’Europa a patti con la Libia. Che l’Onu accusa di Giulio Cavalli La Notizia, 14 giugno 2023 Per tastare con mano gli effetti della “collaborazione con i Paesi africani” che l’Unione europea e l’Italia stanno propagandando in queste settimane convulse in cui l’immigrazione è tornata al centro dell’agenda politica basta andare in queste ore in Libia. Le autorità libiche hanno arrestato migliaia di uomini, donne e bambini nelle strade o case oppure in seguito a raid in campi e magazzini di presunti trafficanti. Lo denuncia la missione di supporto in Libia delle Nazioni Unite, l’Unsmil. Secondo l’Unsmil, le autorità libiche hanno condotto operazioni di arresto in cui sono state coinvolte migliaia di uomini, donne e bambini, che sono stati prelevati dalle strade, dalle loro case o durante raid nei campi e nei magazzini di presunti trafficanti. In una serie di messaggi su Twitter, l’Unsmil ha denunciato le condizioni disumane in cui molti di questi migranti sono detenuti, comprese donne incinte e bambini. Le strutture di detenzione sono state descritte come sovraffollate e antigieniche. Inoltre, l’Unsmil ha riferito che migliaia di migranti, compresi coloro che sono entrati legalmente in Libia, sono stati espulsi collettivamente senza alcun controllo o processo legale appropriato. Questa ennesima campagna di arresti arbitrari e deportazioni è stata accompagnata da un preoccupante aumento dell’incitamento all’odio e del discorso razzista contro gli stranieri sia online che nei media. L’Unsmil ha evidenziato la necessità di porre fine a tali azioni e ha sottolineato l’importanza di trattare i migranti con dignità e umanità, in conformità con gli obblighi internazionali assunti dalla Libia. L’Unsmil ha anche fatto appello alle autorità libiche affinché garantiscano alle agenzie delle Nazioni Unite e alle organizzazioni non governative un accesso senza ostacoli ai detenuti che necessitano di protezione urgente. “È cruciale che gli enti internazionali possano monitorare le condizioni dei migranti detenuti e fornire l’assistenza necessaria per garantire il rispetto dei loro diritti fondamentali. Il rispetto dei diritti umani, compresi quelli dei migranti e dei richiedenti asilo, è un principio fondamentale sancito dalle convenzioni internazionali delle quali la Libia è parte”, ha scritto in una nota la missione di supporto. “È responsabilità delle autorità libiche assicurare che tutte le persone presenti sul territorio libico siano trattate con dignità e rispetto, indipendentemente dal loro status migratorio. La missione Onu chiede alle autorità di fermare queste azioni, trattare i migranti con dignità e garantire l’accesso a Nazioni Unite e Ong nei centri di detenzione”. Non è la prima volta che in Libia si assiste a una vera e propria operazione di “polizia etnica”. A ottobre del 2011 le forze di sicurezza libiche e gruppi di miliziani di Tripoli hanno fatto irruzione nel quartiere di Gargaresh, sparando, razziando beni e danneggiando abitazioni e rifugi di migranti e rifugiati provenienti dall’Africa sub-sahariana. L’operazione, nella quale si sono contati almeno un morto e 15 feriti, si è conclusa col rastrellamento di oltre 5000 uomini donne e bambini, parecchi dei quali registrati ufficialmente presso l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Proprio ieri l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha fornito i dati dei morti sulle rotte migratorie: quasi 3.800 persone sono morte sulle rotte migratorie all’interno e dalla regione del Medio Oriente e Nord Africa (Mena) nel 2022, il numero più alto dal 2017. L’11% in più rispetto all’anno precedente. Del resto il lavoro sporco per l’Ue qualcuno deve pur farlo. Kais Saied, chi è il presidente della Tunisia che ha “sospeso” la democrazia di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 14 giugno 2023 Eletto col 75% nel 2019 dagli scontenti dei partiti islamisti, ha licenziato il premier. Un conservatore rivoluzionario che voleva “ripulire” la democrazia tunisina dalla “corruzione dei partiti”. Si è invece imposto come dittatore populista in nome della salvezza nazionale, senza comunque risolvere la crisi economica endemica. Questo è Kais Saied, il 65enne presidente della Tunisia che 12 anni fa si propose al mondo come motore primo delle “primavere arabe”. Eletto nel 2019 col 75% dei suffragi, sin dall’inizio Saied lasciò capire che sarebbe stato un leader atipico, in alternativa ai movimenti e personaggi assurti alla guida della politica tunisina dopo la defenestrazione quasi indolore di Zine el-Abedine Ben Ali a febbraio 2011. Giurista e professore di diritto costituzionale all’università di Tunisi, abituato a parlare ai suoi studenti con la flemma e il vocabolario del cattedratico isolato nella torre d’avorio dell’accademia, Saied riuscì a incantare le folle grazie alla sua fama di incorruttibile e soprattutto con la promessa che avrebbe fatto barriera contro il nepotismo e la corruzione imperante nei circoli legati al potente partito religioso Ennahda dei Fratelli Musulmani. “Sospendo la democrazia, ma sarà solo per un breve periodo. Presto vi presenterò la road map della rinascita”, sostenne a luglio 2021 per legittimare ai tunisini la scelta di licenziare il premier in carica e congelare il parlamento. Per qualche tempo il mondo libero rimase come in preoccupata attesa. Erano molti tra gli stessi intellettuali, giornalisti, politici e difensori ad oltranza della ricca tradizione laica tunisina a sospendere il giudizio e voler “concedere tempo a Saied per combattere i religiosi”. Ma lo scorrere dei mesi vide via via il rafforzamento autoritario e verticistico del ruolo del presidente a scapito del legislativo, del giudiziario e in effetti di tutte le manifestazioni di dissenso da parte della società civile. Già a settembre 2021 veniva sospesa la carta costituzionale votata nel 2014 e cinque mesi dopo era sciolto il Consiglio superiore della Magistratura, mossa seguita poco dopo dalla chiusura del parlamento. “Voglio una democrazia senza partiti, che sono all’origine delle nostre difficoltà. La fonte del potere risiede nel popolo”, sostenne in sostanza per introdurre il nuovo progetto di riforma costituzionale, da lui stesso emendato, presentandolo a referendum il 27 luglio 2022. Ottenne il 90% delle preferenze, ma alle urne andò solo il 30,5% degli aventi diritto. Quattro mesi dopo alle elezioni parlamentari, dove i candidati potevano presentarsi unicamente come singoli senza alcun simbolo di partito, il tasso di partecipazione precipitò ulteriormente al 9%. L’eclissi della democrazia non ha visto peraltro soluzione ai problemi economici che attanagliano il Paese. Da oltre un anno si assiste a sporadiche manifestazioni di protesta nelle piazze. Saied replica additando le responsabilità a mai chiariti “poteri occulti” che tramerebbero ai danni della Tunisia. In febbraio le sue accuse sono state per i migranti africani che sarebbero manovrati per destabilizzare il Nord Africa arabo. E comunque l’arresto lo scorso 17 aprile di Rachid Ghannushi, leader storico del partito islamista Ennahda, ha visto solo poche manifestazioni di dissenso: tuttora, per molti tunisini, la causa maggiore delle difficoltà è da imputare più ai gruppi islamici che a Saied. Arabia. Italiana condannata a sei mesi di carcere per uno spinello di Laura Berlinghieri La Stampa, 14 giugno 2023 Condannata a sei mesi di carcere per detenzione di stupefacenti. È questo il finale della sentenza letta ieri. Questa la gravità della sentenza pronunciata contro Ilaria De Rosa, hostess trevigiana di 23 anni, trovata il 4 maggio dalla polizia saudita con uno spinello nascosto nel reggiseno. Lei si è sempre professata innocente. Le crede la madre, Marisa Boin, che continua a parlare di un “errore”, sostenendo che la figlia “conosce bene le regole dell’Arabia Saudita e mai avrebbe fatto una cosa simile”. Non le crede il giudice monocratico dell’Arabia Saudita, che ieri l’ha condannata. Anche di fronte all’ennesima ricostruzione, che la 23enne ha potuto esporre solo in videocollegamento dal carcere. Anche dopo le tre udienze nelle quali gli altri imputati al processo si sono addossati ogni colpa, scagionando la ragazza italiana. Il dispositivo della sentenza sarà depositato entro cinque giorni, a quel punto la famiglia avrà disposizione un mese per decidere di proporre appello. Intanto la Farnesina fa sapere di avere già fatto richiesta di una nuova visita consolare, per permettere alla 23enne di vedere la sorella Laura, che, in Arabia Saudita da alcuni giorni, ieri ha assistito alla lettura della sentenza proprio dall’aula del tribunale, assieme al console italiano a Gedda, Leonardo Maria Costa. Sperava di vedere Ilaria già ieri, ma non è stato così: il suo volto è stato proiettato in collegamento video. Provata, ma in buone condizioni di salute. Hostess per la compagnia lituana Avion Express, Ilaria De Rosa è sprofondata in questo incubo il 4 maggio. Si trovava a Gedda, a una festa, nel giardino di una villa in un compound. Era in compagnia di alcuni amici tunisini, quando è stata raggiunta da una decina di uomini. “Ci hanno circondati, erano armati. In borghese. Pensavo fosse una rapina”, avrebbe confidato dal carcere, al console italiano. Erano poliziotti. L’hanno perquisita - riferisce lei: in maniera piuttosto invadente - trovando uno spinello nel suo reggiseno. Ma è una ricostruzione a cui non credono i familiari di Ilaria: sia perché la ragazza non fuma, sia perché era perfettamente a conoscenza della severità della legge saudita. Figlia della “generazione Erasmus”, è nata a Treviso, ma poi ha lavorato alla Nato, ha vissuto a Maastricht, conosce cinque lingue. E da qualche mese si era trasferita a Gedda. Da buona cittadina del mondo (assicura chi la conosce), mai avrebbe commesso una tale leggerezza. Dopo la perquisizione, la 23enne è stata portata via dalla polizia saudita. Racconta di avere capito di essere stata arrestata soltanto una volta condotta in una stazione di polizia, e poi di essere stata formalmente interrogata soltanto cinque giorni dopo. Un primo epilogo di questa storia è arrivato ieri. Oltre a lei, il giudice monocratico saudita ha condannato, con pene più severe, altri tre uomini che quella sera erano presenti alla festa. Si tratta un saudita, di un tunisino e di un egiziano, tutti dovranno scontare un anno e sei mesi di carcere. Dopo la retata, i genitori della 23enne non erano più riusciti a mettersi in contatto con la figlia. Il telefono squillava a vuoto, i messaggi sempre senza risposta. Una situazione che li ha fatti preoccupare, dato che i contatti con la ragazza erano quotidiani. Quattro giorni dopo la sua scomparsa, la madre ha sporto denuncia ai carabinieri di Castelfranco, cittadina del Trevigiano, a poca distanza da Resana, il paese di origine di Ilaria. La notizia dell’arresto è arrivata il giorno stesso, dalla Farnesina, ed è stata una doccia fredda. Ilaria è detenuta a 45 chilometri da Gedda da più di quaranta giorni. La sorella Laura chiede di poterla visitare, per vedere come sta e, soprattutto, per vedere con i suoi occhi le condizioni del carcere. Anche questo è un pensiero fisso per la famiglia di Ilaria, dato che la legge saudita proibisce agli ex detenuti di raccontare le condizioni in cui si trovavano, in cella. Circostanza che aggiunge preoccupazione alla preoccupazione. Intanto la Farnesina assicura l’attenzione costante al caso: “Nel rispetto della decisione della magistratura locale, il Consolato Generale a Gedda e l’Ambasciata d’Italia a Riad, in stretto raccordo con la Farnesina, stanno prestando tutta l’assistenza possibile alla connazionale Ilaria De Rosa e ai familiari”, è la nota emessa dopo la lettura della sentenza. Un’attenzione importante, ma che non anestetizza l’angoscia. “L’Iran ha impiccato dieci detenuti in una settimana” Avvenire, 14 giugno 2023 Diverse Ong per i diritti umani hanno identificato le vittime. Il regime, secondo Amnesty, lo scorso anno ha ucciso quasi seicento persone. Dal 6 al 12 giugno 10 condanne alla pena capitale sono state eseguite in Iran. Lo denunciano varie organizzazioni non governative, tra cui Hengaw e l’associazione degli attivisti per i diritti umani iraniani Hrana. Per crimini relativi allo spaccio di droga, due persone sono state impiccate il 6 giugno a Karaj, Einollah Badri-Nejad e un altro non identificato, mentre l’8 giugno è stata eseguita a Zahedan la condanna a morte per omicidio ricevuta due anni fa dal 45enne Alidoost Sulamani. Ghobad Farhadpour e Jafar Mohammadpour sono stati impiccati il 9 giugno a Urmia per condanne relative allo spaccio di droga mentre il 10 giugno sono eseguite nella prigione centrale di Karaj le condanne a morte di altre due persone: Masoud Sasani e Saeed Nasiri, entrambi condannati sempre per spaccio di droga. L’11 giugno sono stati impiccati, nel carcere di Hamedan, Hossein Amani-Nejad per crimini relativi allo spaccio di droga e Hamed Yavari, ritenuto colpevole dell’omicidio della sorellastra 16enne. Ieri è stata invece eseguita la condanna a morte, ad Ahvaz, per Hadi Al-Naser, arrestato cinque anni fa con l’accusa di omicidio premeditato. Secondo un rapporto di Amnesty International, nel 2022 in Iran sono state eseguite oltre 576 condanne a morte portando la Repubblica islamica ad essere il secondo Paese al mondo per l’esecuzione della pena capitale, dopo la Cina con oltre 1.000 esecuzioni.