I suicidi in carcere e l’ammonimento della Corte europea all’Italia per gravi inadempienze di Andreina Corso lavocedivenezia.it, 13 giugno 2023 Un altro avviso di custodia cautelare, dopo aver cercato di ricostruire la propria esistenza e aver assaporato la semilibertà e un lavoro. Così quell’inaspettata notifica risalente a fatti di qualche anno fa, gli ha sconvolto la vita, fino alla decisione ultima di togliersela da sé, quella vita, impiccandosi. Aveva trentotto anni: lui è B.D, stava scontando la pena alla Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore, a Venezia. Lui, è il 23° suicida dal primo gennaio. Secondo il XIX rapporto di Antigone sulle condizioni delle persone carcerate presentato a Roma, il 2022 è stato l’anno drammatico dei suicidi in carcere. Il Garante Nazionale Mauro Palma, al quale la Legge attribuisce il compito di vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà, ha denunciato 85 suicidi in un anno, uno ogni quattro giorni. Da Strasburgo giunge il monito della Corte europea che, ancora una volta e senza mezzi termini, sollecita le autorità italiane a migliorare le misure preposte a prevenire i suicidi in carcere, che “nel 2022 hanno raggiunto un livello senza precedenti”, e a “proseguire gli sforzi per assicurare una capacità sufficiente e terapie adeguate delle Rems”, le residenze alternative per color che soffrono di disturbi psichici indotti e provocati anche dalle condizioni disumane che sono costretti a subire. A chiederlo è il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che rileva la violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo che proibisce di sottoporre i detenuti a “trattamenti inumani e degradanti”. E invita il governo italiano a fornire, entro la fine dell’anno, le azioni che avrà messo in atto per riparare a questa violazione. La valutazione dell’Ue sui sistemi giudiziari degli Stati membri, fotografa l’Italia tra i Paesi lumaca in molti campi e in particolare nell’attuare le buone riforme. E noi? Con il nostro bagaglio storico e culturale, noi che vantiamo di essere figli di un pensatore come Cesare Beccaria che nel 1764 ha scritto “Dei delitti e delle pene” un’opera illuminista che ha influenzato la giustizia penale in Europa e nel mondo. E ancora noi che ci interroghiamo su come sia possibile garantire un percorso di recupero efficace per coloro che hanno commesso reati nel passato. La finalità del sistema penitenziario non dovrebbe limitarsi alla punizione, ma anche a fornire strumenti e opportunità per la riabilitazione delle persone ristrette, in modo da consentire una reintegrazione positiva nella società. Una delle principali riflessioni riguarda la necessità di investire nella formazione e nell’educazione all’interno e all’esterno delle strutture carcerarie. La cultura come strumento di prevenzione e socializzazione potrebbe influenzare il benessere delle persone attraverso processi di inclusione e accoglienza: è questo uno degli obiettivi del Progetto ‘La cultura come cura’ a Bergamo, ad esempio e della funzione del teatro, dello studio, del lavoro, per proporre ai ristretti di raggiungere un obiettivo, per sollecitare quel cambiamento che può nascere dalla connessione fra il dentro e il fuori. Una prima prevenzione potrebbe essere quella di non dimenticare che un uomo, anche se ha sbagliato, rimane un uomo e come tale deve essere trattato. Per la sua e nostra incolumità e perché così recita la nostra Costituzione. Come fa un uomo che ha bisogno di ritrovarsi, a rimettersi in piedi, se dorme in spazi piccoli e affollati, se non fa niente dalla mattina alla sera, se rimane in cella 20 ore, se assume psicofarmaci e vi si adegua. I bagni delle celle non sempre sono situati in un vano separato, e non sono forniti di doccia né di acqua calda, né di bidet. Il degrado interiore si associa, per somiglianza, a quelle ambientale: senza lavoro, attività, lontano dagli affetti, chiuso a chiave in una cella. Quell’uomo qualcosa dice anche a noi, al nostro senso di responsabilità, a noi che osserviamo da fuori, da lontano. La riforma della giustizia di Nordio è pronta a partire di Claudio Cerasa Il Foglio, 13 giugno 2023 Il ministro ha spiegato che si tratta di un’operazione volta a impedire che il meccanismo mediatico-giudiziario danneggi in modo irreparabile gli indagati anche prima di qualsiasi sentenza di merito, contrastando gli abusi. La riforma della giustizia, che il ministro Carlo Nordio ha preparato, dovrebbe arrivare nei prossimi giorni in Consiglio dei ministri per l’approvazione che ne apre il percorso parlamentare. L’impianto liberale e garantista della riforma, che ha già suscitato l’avversione del mondo giustizialista, sarebbe un importante segnale anche del valore dell’eredità politica di Silvio Berlusconi. Nordio ha spiegato che si tratta di un’operazione che tende a impedire che il meccanismo mediatico-giudiziario danneggi in modo irreparabile gli indagati anche prima di qualsiasi sentenza di merito, contrastando gli abusi e le propalazioni indebite delle intercettazioni, oltre che a rasserenare e rendere più incisiva l’opera degli amministratori locali oggi paralizzati dal rischio di indagini sul presunto abuso d’ufficio. Naturalmente non tutti i problemi e le insufficienze del sistema giudiziario possono essere affrontati dalla riforma. Nordio ha chiarito che obiettivi giusti come quello della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante attengono a un sistema complessivo che può essere modificato solo intervenendo sul testo della Costituzione, il che richiede ovviamente un iter diverso e assai più complesso. Quel che conta è che si dia corpo a una visione della giustizia basata sui diritti dei cittadini, finora spesso finiti nel tritacarne del meccanismo perverso mediatico-giudiziario quando sono indagati, o costretti a subire la paralisi delle attività amministrative a causa delle limitazioni eccessive alla discrezionalità delle scelte degli amministratori. Se, come sembra, sulla riforma liberale della giustizia si raggiungerà un’intesa convinta tra le varie componenti della maggioranza, questo servirà anche a smentire i sospetti di una tendenza autoritaria, proprio perché il garantismo è uno strumento essenziale per contrastare qualsiasi volontà di limitazione delle libertà. L’Anm avvisa Nordio: “Così ci allontana dalla Costituzione” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 giugno 2023 Niente sciopero dopo l’azione disciplinare per i giudici del caso Uss, ma la magistratura associata scrive al Guardasigilli: “Preoccupati dalle future riforme, ne parli con noi”. Sarà l'estate delle riforme della giustizia: il primo pacchetto dovrebbe approdare in Cdm la prossima settimana. Ma sulle norme annunciate dal Guardasigilli lo scontro è con l'Anm, che esce unita dall’assemblea di domenica avendo tutti i gruppi associativi (Area, Md, Unicost e Mi) firmato, dopo una moderata mediazione, una mozione comune che da un lato “esprime profonda solidarietà ai magistrati coinvolti” nel caso Artem Uss, “confermando lo stato di agitazione” ; e dall’altro “dà mandato alla Gec di chiedere con urgenza un incontro con il ministro della Giustizia per interloquire sulle prospettate riforme”. Proprio queste ultime allontanerebbero la magistratura dalla Costituzione: “La direzione in cui da anni si incamminano le riforme sulla magistratura ci sta allontanando progressivamente dal disegno della Costituzione. La prospettiva che prende sempre più consistenza è che la successiva tappa di questa continua esperienza riformatrice segni un ulteriore distacco da quella complessiva, essenziale, architettura”, è stata l'accusa lanciata dal presidente dell'Associazione nazionale dei magistrati Giuseppe Santalucia nella sua relazione. Nonostante questo, all’unanimità si è deliberato di non scioperare ma la tensione resta alta, nonostante il ministro Nordio in una lettera inviata per l’occasione, seppur “sarebbe stato un bel segnale la sua presenza”, hanno detto alcune toghe, abbia cercato di rassicurare i suoi ex colleghi: “Non c’è stato e non ci potrà mai essere alcun atto ministeriale che possa mettere in discussione l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, patrimonio irrinunciabile della nostra democrazia”. Ma intanto, fanno notare dalla platea alcuni magistrati, “ha avviato comunque l’azione disciplinare verso i colleghi milanesi”. Su questo ha detto Stefano Musolino, segretario di Md, “uno dei problemi più gravi che pone questa azione disciplinare è che si svolge sull’esito fallimentare di un giudizio prognostico. Siccome tutti magistrati emettono giudizi prognostici ogni giorno” ecco che “l'azione disciplinare svolta in questo caso ha un effetto intimidatorio”. E poi la stoccata al ministro: “Lo stile della lettera che il ministro ci ha mandato è esattamente elegante e sobria, è una bellissima lettera; il punto è che il ministro ancora oggi mostra di non cogliere la gravità di quello che ha fatto”. Ma attenzione, ha detto Musolino, a limitarci al caso milanese, “trascurando tutto quello che sta succedendo nel frattempo, trascurando un autoritarismo imperante” che “diventa cultura di governo che si manifesta in quello che succede per esempio alla questura di Verona”. Una critica aspra è arrivata anche dal leader di Area, Eugenio Albamonte, che ha fatto emergere “una chiara distonia”, ossia che l’iniziativa disciplinare di Nordio nasce anche “per non aver adottato la cautela massima della privazione della libertà personale di un determinato soggetto. È un segnale abbastanza brutto, che sicuramente va in controtendenza rispetto alla spinta generalizzata che sicuramente va colta nella Costituzione e nel cpp, che sicuramente fa parte della nostra cultura di magistrati progressisti, quello di utilizzare la custodia cautelare come extrema ratio. Eppure la spinta che viene dal ministero è di senso diametralmente opposto”. E allora “non si capisce più qual è il senso in cui pure una maggioranza e un ministro si riconoscono nel termine di garanzie, di garantisti, di liberale, di liberalismo”. Non sono mancate preoccupazioni anche dalle parole di Rossella Marro, presidente di Unicost: “Trovarci qui oggi all'assemblea dell'Anm serve a richiamare i principi fondamentali base della nostra democrazia, serve per riflettere, per agire insieme, per gettare il seme di una rinnovata identità collettiva che purtroppo è sempre più sfilacciata, proprio intorno a quei principi che iniziative come quelle in oggetto rischiano di minare. L’identità collettiva dovrà essere ritrovata anche in considerazione delle prospettive di riforma costituzionale, mi riferisco alla separazione delle carriere, all'eliminazione del termine “soltanto” dall'articolo 101, in relazione alla soggezione del giudice alla legge”. Pure Angelo Piraino, segretario di Mi, la corrente per molti più vicina culturalmente al governo, ha dovuto ammettere che “la lettera del ministro non dissipa le nostre preoccupazioni” perché c’è il rischio di innescare “una giurisprudenza difensiva”, come avvenne quando due magistrati nel 2006 furono ammoniti dal Csm per aver concesso la semilibertà ad Angelo Izzo. Però fa un appello: “Dobbiamo essere vigili, sono d'accordo, dobbiamo anche manifestare preoccupazione, sono d'accordo”, ma discutendo “di qualcosa di concreto, non di climi, non di proclami ma di provvedimenti concreti sul tavolo con disegni di legge concreti”. Via libera del Cdm al ddl sulla violenza contro le donne ansa.it, 13 giugno 2023 Nordio: “Non sarebbe male se portassimo nelle carceri anche le vittime di reati, a portare testimonianze”. Arriva la stretta dal governo contro la violenza sulle donne. Il consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge con un 'pacchetto' di misure il cui filo conduttore, come ha spiegato la ministra alla Famiglia e alle Pari Opportunità Eugenia Roccella è la prevenzione “per interrompere il ciclo della violenza” e per “agire tempestivamente e efficacemente” tanto che ci sarà la richiesta al Parlamento della procedura d’urgenza. Sono state rafforzate le misure cautelari: il braccialetto elettronico, il distanziamento fissato a 500 metri e non solo dall'abitazione della vittima ma anche nei luoghi che abitualmente frequenta, l'ammonimento e previsto l'arresto in flagranza differita con la produzione di video e foto. Ma è anche un provvedimento che mira a ridurre i tempi di tutte le fasi dei procedimenti visto anche alcune condanne da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo. Sono infatti previsti 30 giorni per il pubblico ministero per poter valutare il rischio e decidere la necessità delle misure cautelari, e dall'altra parte 30 giorni perché il giudice possa poi metterle in atto. Altro punto è la formazione. “Abbiamo stabilito che il magistrato - ha puntualizzato Roccella - debba essere abbastanza specializzato e che questo tipo di processi siano affidati sempre agli stessi magistrati in modo che sviluppino le competenze con una formazione sul campo”. E per sveltire i processi i reati di specie verranno inseriti nell'elenco di quelli considerati prioritari. Inoltre la vittima, o gli eredi, in stato di bisogno può chiedere una provvisionale sulla liquidazione definitiva dell'indennizzo proprio per consentire a chi è stato offeso di non dover attendere la fine dell'iter giudiziario. Vittime che saranno costantemente informate: sapranno quando l'aggressore tornerà in libertà o della presenza nella propria città dei centri antiviolenza. Non solo provvedimenti ma quello che vuole il governo è spingere per una svolta culturale “Tutto questo non basta - ha puntualizzato Roccella - se non viene accompagnato da un cambiamento culturale e se non c'è una presa di coscienza delle nuove generazioni”. Con questo obiettivo le vittime, in occasione della prossima giornata contro la violenza delle donne, in autunno, testimonieranno la loro esperienza direttamente nelle scuole, mentre Nordio ha ipotizzato: “Non sarebbe male se portassimo nelle carceri anche le vittime di reati, a portare testimonianze, in modo da far capire ai detenuti la gravità fisica, morale e psicologica di questi comportamenti odiosi”. Perché, ha concluso Roccella, dobbiamo lavorare su “una consapevolezza crescente che dobbiamo assolutamente alimentare”. Abruzzo. Nuovi percorsi formativi per i detenuti di Alessandra Farias ilpescara.it, 13 giugno 2023 Nasce una vera e propria anagrafe per il loro reinserimento. A presentare il progetto finanziato con circa un milione e mezzo di euro è l'assessore regionale alle politiche sociali Pietro Quaresimale e con lui il garante dei detenuti Giammarco Cifaldi che nel progetto vede anche una possibilità di riduzione drastica della recidiva. L'obiettivo principale è quello di reinserire i detenuti nel tessuto sociale, ma c'è anche quello di ridurre drasticamente la recidiva che oggi, spiega il garante Giammarco Cifaldi, è del 70 per cento e che si intende portare al 30 per cento. Questi dunque gli scopi del progetto di reinserimento finanziato con un milione e 470mila euro (Fondo sociale europeo) realizzato in collaborazione con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise e presentato dall'assessore regionale alle Politiche sociali Pietro Quaresimale. Un intervento in due fasi che prevede la presa in carico dei detenuti in esecuzione di misure alternative alla detenzione e l'avvio di 17 percorsi formativi negli otto istituti penitenziari abruzzesi. Un modello sperimentale grazie al quale, spiega Quaresimale, si creerà una vera e propria anagrafe dei detenuti che sarà messa a disposizione delle imprese. “Si tratta di un progetto di fondamentale importanza - spiega - che va a formare i detenuti cercando di inserirli nel mondo del lavoro. È anche un progetto innovativo che per la prima volta si avvarrà di una piattaforma informatica e del supporto di un comitato scientifico per fare incontrare domanda e offerta in base alle esigenze lavorative”. Avanzata la richiesta tramite la piattaforma dunque, sarà compito del comitato valutare i profili e le competenze e procedere all'avvio delle attività così da bilanciare, spiega ancora l'assessore regionale “il rispetto della dignità personale del detenuto e la misura restrittiva”. Tra i percorsi finanziati ci sono quelli per assistenti famigliare, cuochi, sarti, panettieri, manutentori edili, pizzaioli, affidati a 12 enti di formazione scelti in base ad una procedura di evidenza pubblica. “Siamo estremamente orgogliosi di questo progetto - conclude Quaresimale - tanto da aver deciso di inserirlo anche nel nuovo ciclo di programmazione 2021-2027, aumentano la dotazione finanziaria a 7 milioni di euro”. Monza. Cosima Buccoliero: “Il mio carcere senza sbarre” primamonza.it, 13 giugno 2023 Monza cambia direttrice del carcere e si preannuncia una rivoluzione. “Il carcere? Dovrebbe ospitare molti meno detenuti. Non solo per una questione di capienza. Ma anche perché le misure alternative, così come i progetti di avviamento al lavoro, riducono il rischio di recidiva”. Cinquantaquattro anni, sposata con due figli, la nuova direttrice della casa circondariale di Monza Cosima Buccoliero, ha preso possesso del suo nuovo ufficio il 2 maggio, prendendo il testimone da Maria Pitaniello che ha assunto ora la direzione dell’istituto di Busto Arsizio. Non nasconde di avere una visione del carcere ben lontana da quella che tutti si immaginano. Ma attenzione a definirla “alternativa”, “è la legge che ci impone di lavorare per rieducare e per far sì che i detenuti possano uscire con percorsi di accompagnamento”. Una lunga carriera - Una lunga carriera cominciata a Cagliari, dopo la laurea in Giurisprudenza, e che l’ha vista alla guida di istituti quali il carcere di Bollate, quello di Opera e il Beccaria. Ma che l’ha vista anche capolista del Pd a Milano alle scorse Regionali - voluta dallo stesso Majorino - (“un’esperienza breve, ma intensa”), nonché autrice di un libro edito Einaudi, dal titolo Senza sbarre, nel quale descrive un modello di carcere diverso (e attuato a Bollate), virtuoso, con stanze di detenzione aperte di giorno, nel quale la premessa è quella secondo cui “la pena detentiva deve mirare al reinserimento, non ridursi alla sola punizione”. L'arrivo a Monza - Il suo arrivo a Monza è frutto di una scelta ben precisa. “È una città che mi ha interessato molto per la grande sensibilità nei confronti della realtà carceraria da parte della comunità - ha esordito la direttrice Buccoliero - Ed è questo che mi ha spinto a mettermi in gioco. Al mio arrivo ho trovato un istituto in buone condizioni, anche se ovviamente le sfide non mancano”. Le preoccupazioni per il “dopo” - A partire, precisa, dal problema del sovraffollamento, che affligge praticamente tutti gli istituti di pena italiani. Ma non solo. “Al Sanquirico c’è un alto numero di detenuti con problemi di tossicodipendenza, persone che non dovrebbero stare in carcere, bensì in luoghi alternativi, più adatti, rispetto a un istituto penitenziario, a rispondere alle esigenze di cui necessitano - ha spiegato la direttrice - Innumerevoli sono anche le persone straniere per le quali è purtroppo statisticamente più difficile inserirsi nella società, una volta finito di scontare la pena. In tal senso, la nostra preoccupazione è per il “dopo”, quando, una volta finito di scontare la pena, il percorso che si troveranno ad affrontare non sarà certo semplice”. Le opportunità in carcere - Se il carcere offre infatti agli ospiti percorsi lavorativi o di formazione, è il ritorno alla cosiddetta normalità che spesso è carente di un adeguato sostegno. “La casa circondariale di Sanquirico è un istituto che può contare su ampi spazi dedicati alle attività, come è anche la biblioteca. C’è anche il servizio di lettura alta voce nelle sezioni. I detenuti sembrano interessati a mettersi in gioco e a cogliere le opportunità. La speranza è che poi questo bagaglio che si costruiscono all’interno, non venga meno una volta fuori”. A tal proposito, col sindaco Paolo Pilotto, “ho affrontato il tema del rilancio di alcuni progetti, come quello dell’housing sociale, e del lavoro che è la vera chiave di volta, insieme al mantenimento del legame famigliare, per il reinserimento in società una volta finito di scontare la pena detentiva”. Pene alternative e lavoro - Il punto, ha precisato Buccoliero, “è che bisogna investire di più sulle risorse esterne, sia in chiave di prevenzione che di reinserimento. Non si può pensare che il carcere si sostituisca alla scuola, alle politiche sociali e ad altro ancora. Il carcere fa quello che può con le risorse che ha a disposizione. Una volta fuori, gli ex detenuti vengono spesso lasciati a loro stessi. Se, durante il periodo di detenzione sono previste innumerevoli opportunità, queste spesso terminano con la fine del periodo detentivo. Spesso si ritrovano soli, senza un’occupazione. E il rischio di reiterazione è alto. Anche perché capita che poi non abbiano più una rete famigliare che li sostiene”. “Il lavoro è fondamentale” - Le misure alternative, ma anche i progetti di avviamento al lavoro, costituiscono un deterrente alla reiterazione. “I numeri dicono che, solitamente, la recidiva si attesta sul 70 per cento - ha osservato Buccoliero - Percentuale che si abbassa drasticamente laddove invece vengono attivate misure alternative. O laddove vi siano importanti progetti di formazione e di avviamento al lavoro, come ad esempio a Bollate, dove la recidiva si è abbassata drasticamente, arrivando al 20 per cento circa. Se avessimo la possibilità di garantire un percorso professionale fuori dal carcere a tutti, avremmo rischi di reiterazione decisamente più bassi”. “Il carcere non è adatto ai minori” - Intensa, spiega ancora, la sua esperienza al carcere minorile Beccaria. “E’ necessario avviare una profonda riflessione sulla funzione dei carceri minorili che, così come sono stati concepiti, non fanno che aggravare la situazione. Il carcere non è il luogo adatto a un minore”. Il sistema della giustizia minorile, precisa, “funziona, ma bisogna anche fare i conti con una nuova utenza costituita in gran parte da giovanissimi stranieri che arrivano in Italia non accompagnati, che non conoscono la lingua e che hanno ben poche possibilità di radicarsi. A ciò si aggiunge la sempre minore presenza di comunità educative che accolgono con maggiore difficoltà i ragazzi che entrano nel circuito penale”. Roma. “Il Postino”, l’omaggio a Troisi va in scena a Rebibbia garantedetenutilazio.it, 13 giugno 2023 Spettacolo scritto e diretto da Francesca Tricarico: “Meravigliosa follia, realizzata grazie al contributo della Regione Lazio”. Lo scorso 8 giugno nel teatro della Casa circondariale di Rebibbia Nuovo complesso è andato in scena “Il Postino”, omaggio a Massimo Troisi, spettacolo teatrale scritto e diretto da Francesca Tricarico e interpretato da Federica, Melanie, Jessica, Priscilla e Raissa, attrici detenute della sezione transgender. Questo omaggio a Massimo Troisi, a quasi trent’anni dall’uscita del film “Il Postino”, nasce a seguito del lavoro che dal 2013 l’associazione Per Ananke realizza con Le Donne del Muro Alto, progetto teatrale di inclusione sociale e lavorativa ideato e condotto dalla stessa regista dello spettacolo e rivolto a detenute, ex detenute e donne ammesse alle misure alternative alla detenzione. Lo spettacolo, “meravigliosa follia, realizzata grazie al contributo della Regione Lazio”, come ha tenuto a ricordare la stessa Tricarico durante la presentazione, è stata anche un’occasione riflessione sulla particolare condizione detentiva delle donne trans presenti nelle sezioni maschili, poiché non sottoposte a interventi chirurgici di riassegnazione del sesso. Il protagonista de “Il Postino”, Marco Ruoppolo sogna il cinema, di evadere da una quotidianità fatta di pescatori e pescherecci, e sogna l’amore, proprio come le attrici detenute della sezione transgender di Rebibbia. Vive, sente esplodere dentro di sé milioni di emozioni che non sa esprimere e che solo la poesia riesce a liberare. Mario, inoltre, grazie a Pablo Neruda, scopre che la poesia per rendere la sua vita meno grigia non è lontana, non lo è mai stata, è lì a portata di mano nella sua isola e dentro di lui in ciò che sente. E così anche il carcere con i suoi rumori, con le sue sbarre, con il suo grigiore diviene poesia nel sentire di queste donne a teatro che proprio come Neruda, che nel film porterà sempre con sé l’isola pur essendo stato per lui un periodo di esilio, forse porteranno sempre con loro l’esperienza del carcere e del teatro. Venezia. Il teatro entra in carcere. Le scuole superiori e la pièce alla Giudecca Corriere del Veneto, 13 giugno 2023 Oggi studentesse e studenti nelle vesti di attrici e attori entrano nel carcere della Giudecca di Venezia con lo spettacolo “Monologhi immortali”, nell’ambito del progetto “Teatrando”. La pièce porterà in carcere brani dalle Troiane di Euripide, da Medea e da Filumena Marturano. È una delle tappe del progetto che porta ragazzi e ragazze dentro le carceri del Veneto, per “Teatrando: giovani e scuola in scena”, promosso dal Vicariato di Este. Studentesse e studenti del liceo artistico Ferrari di Este, del liceo scientifico Cornaro di Padova, dell’istituto tecnico Calvi di Padova, protagonisti nelle pièce già entrate nella Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova e nella Casa circondariale di Rovigo. Oggi ragazze e ragazzi vanno in scena nel carcere della Giudecca di Venezia, coordinati dal regista Ivano Bozza. Sul palco tre madri, Andromaca-medea-filumena Marturano, protagoniste di pagine della letteratura classica e contemporanea, da Euripide ad Edoardo De Filippo. Filo conduttore dei “Monologhi immortali” il rapporto madre e figli, la maternità nei suoi più reconditi recessi. Con il Patrocinio della Provincia e del Comune di Padova, dopo tre anni di interruzione, causa pandemia, il “Teatro della Scuola” è tornato dentro le carceri del Veneto. “Teatrando: giovani e scuola in scena” è un progetto ventennale, promosso dal Vicariato di Este, che vuole focalizzare l’attenzione sui percorsi formativi dei tanti laboratori teatrali scolastici di Istituti superiori, valorizzando il talento di studentesse attrici e studenti attori, animati da una grande passione per il teatro. “Da tempo l’amministrazione delle carceri riconosce il teatro come risorsa importante e formativa - dice Manuelita Masìa, coordinatrice del progetto “Teatrando” studentesse e studenti sono disponibili ed entusiasti nel presentare negli Istituti penitenziari le pièce teatrali preparate durante l’anno scolastico”. Per informazioni www.progetto-teatrando.it. Napoli. I ragazzi del carcere di Nisida ottengono il brevetto da sub napolitoday.it, 13 giugno 2023 “Siamo dinanzi ad un risultato davvero unico, importante: i ragazzi dell'Area Penale di Napoli che hanno seguito i corsi, nell'ambito del progetto Bust Busters, domani conseguiranno il brevetto da sub Owd e Aowd. Il progetto vede insieme: Archeoclub D'Italia, Dipartimento di Giustizia Minorile della Campania, Marina Militare, Corpo Militare dell'Ordine di Malta. Attraverso dei corsi di teoria e di pratica, i ragazzi hanno potuto conoscere il patrimonio ambientale, geologico, naturalistico e culturale dei fondali marini e le tecniche di immersione. Il brevetto darà loro la grande opportunità di entrare nel mercato del lavoro. Partecipando a questo progetto, i ragazzi hanno collaborato anche all'ampia campagna di sensibilizzazione ambientale a tutela del patrimonio, raccogliendo rifiuti e pulendo i fondali. Domani, alla presenza di tutte le autorità, consegneremo i brevetti”. Lo annuncia, in una nota, Rosario Santanastasio, presidente Nazionale di Archeoclub D'Italia. L'appuntamento si terrà nella sede dell'Accademia dell'Alto Mare-Marina Militare alla Darsena Acton di Napoli. “I ragazzi - precisa Aniello Cuciniello, capitano di vascello della Marina Militare - sono stati supportati dai Palombari della Marina Militare del nucleo Sdai di Napoli nelle attività di immersione seguendo un filo conduttore: inclusione e tutela dell'ambiente sempre al primo posto”. “Bust Busters va avanti con sempre più forza - dichiara Francesca Esposito, responsabile Attività sociali di MareNostrum - Archeoclub D'Italia - e sempre più interesse, siamo fieri di poter dire di essere diventati ormai una best practice italiana”. “Captivi”, ovvero lo sconosciuto, ai più, mondo delle carceri di Enzo Sossi elbareport.it, 13 giugno 2023 Parlare o scrivere sul carcere non è facile, nonostante vi lavoro da più di trent’anni, cerco di evitare l’argomento per timore di essere frainteso o mal interpretato ovvero cadere nella retorica tutti liberi o buttiamo le chiavi e provo a mantenere un basso profilo. Per questo sono rimasto favorevolmente stupito quando l’amico Enrico Sbriglia mi ha detto che aveva scritto un libro dal titolo “Captivi”, pubblicato da Edicusano di Roma. Abbiamo lavorato insieme per vent’anni nel carcere di Trieste, poi le strade si sono divise. Una persona, anzi un direttore penitenziario che conosce il carcere meglio della sua mano da quando ha cominciato da educatore fino a terminare da provveditore quando è andato in pensione. Una vita al servizio dello Stato, sempre pronto giorno e notte, domeniche e festivi, Natale e Pasqua. Captivi racconta un mondo in chiaroscuro, probabilmente ai più sconosciuto, le carceri, che fanno discutere, e cerca di portare all’attenzione dell’opinione pubblica le tante professionalità che vi operano in silenzio come servitori dello Stato. Storie nate in alto a destra, a Trieste. La città cara agli italiani con la sua straordinaria atmosfera, multiculturale e multirazziale con il suo miscuglio fatto di genti italiane, slovene, croate, ungheresi, greche e dalle molte religioni che convivono pacificamente. Transfrontaliera fino a ieri, dove si parla il triestino, l’italiano e lo sloveno, oggi al centro dell’Unione Europea a seguito dell’adesione dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Un luogo di contaminazione e di osmosi delle culture che rispecchia le diverse sensibilità che l’animano, in un alternarsi e confondersi di drammi, come la tragedia delle foibe e l’esodo delle genti istriane, fiumane e dalmate, ma anche le gioie, di ricordi e di prospettive verso un futuro da conquistare e che rappresenta con la propria inquietudine il luogo ideale per raccontare le storie di Cesare Sanfilippo, direttore di carcere. Il personaggio protagonista, l’alter ego dell’autore, con le sue storie vere frutto degli appunti meticolosi di tanti anni di colloqui umani con i detenuti, mai considerati come una pratica amministrativa, che nonostante tutto continua a credere a una Giustizia giusta, ma che a volte sente vacillare le sue certezze. Nel libro traspare la sua capacità di raccontare il carcere e le sue storie crude di donne e uomini detenuti e detenenti con i paradossi, i controsensi e forse l’impossibilità delle finalità ai quali il sistema carcerario per cui lavora gli chiede. Comincia a credere che non poche volte sia la fatalità a giocare il ruolo di protagonista nel tragico palcoscenico della giustizia. Quelle che racconta non sono recite, sono storie vere, vissute di persone che pagano con la libertà gli errori commessi. Irrimediabilmente uniti da uno stesso destino di comunità di cui anche lui fa parte e che coinvolge anche le persone e gli affetti più cari. Un libro da portare in spiaggia sotto l’ombrellone per un momento di relax e che parla di persone in difficoltà, da leggere, ma anche un momento di riflessione nel cercare di raccontare aspetti del mondo carcerario ai più sconosciuto e a quanti lo giudicano con troppa superficialità basandosi su stereotipi forse vecchi se non superati in una moderna società italiana del XXI° secolo figlia di Cesare Beccaria. Il fenomeno “Mare fuori” e i motivi del successo di Micol Vallotto Famiglia Cristiana, 13 giugno 2023 Sono da poco iniziate le riprese della quarta stagione, che sulla scorta delle prime tre si preannuncia carica di aspettative. Ma cos'ha di speciale questa serie? Lo abbiamo chiesto al professore Massimo Scaglioni, esperto in media e audiovisivi e docente dell'Università Cattolica di Milano. Sono iniziate il 22 maggio 2023 le riprese della quarta stagione di Mare fuori, la serie firmata Rai Fiction e Picomedia che in pochissimo tempo si è imposta come “must-watch” nel panorama italiano e internazionale. La storia, ormai nota ai più, ruota attorno ai giovani detenuti dell’immaginario IPM di Napoli (nella realtà, si trova a Nisida), che mentre scontano le pene per i reati commessi sognano di raggiungere la libertà, rappresentata dal mare al di fuori delle sbarre. Ma a cosa si deve l’enorme successo? Ne abbiamo parlato con Massimo Scaglioni, docente di Storia dei media e di Economia e marketing dei media e delle industrie creative, nonché direttore del Ce.R.T.A. (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Professore, la prima domanda è anche la più banale: può dirci qual è l’ingrediente segreto che rende Mare fuori così magnetico? “Direi che gli ingredienti sono due: il realismo e la capacità di entrare in connessione con i giovani. Rappresentare in maniera convincente gli adolescenti è la sfida di qualunque prodotto che rientri nel genere del “teen drama”, ma non sempre si è in grado di farlo. In questo caso, invece, Mare fuori è davvero riuscito a trovare un modo di parlare ai ragazzi: non è così banale, se consideriamo che si tratta di una storia carceraria”. Eppure Mare fuori non è l’unica serie incentrata su adolescenti problematici: penso alle serie degli anni 2000 come Skins, o a quelle più recenti quali Skam e Euphoria. Qual è la differenza? “Il teen drama racconta per definizione l’adolescenza, che è sempre in qualche modo fatta di problemi e conflittualità anche con il mondo adulto. Mare fuori, però, lo fa in maniera molto originale, perché racconta di un carcere minorile. Per quale ragione i ragazzi si sono sentiti rappresentati da questi individui, che vivono in prigione? La risposta che mi sono dato io è che Mare fuori sia una serie post-pandemica, dove si percepisce moltissimo l’atmosfera di una realtà giovanile che paradossalmente ha bisogno di protezione. Man mano che la storia procede, infatti, il carcere passa da essere un posto di costrizione a una specie di luogo sicuro dove costruire relazioni autentiche, sia con i propri pari, sia con le figure degli educatori: c’è una dimensione valoriale che è presente nonostante il realismo, la crudezza, e a volte la morte”. Quanto è stato determinante, per il successo della serie, il passaggio dalla piattaforma Rai Play a Netflix? “Moltissimo, perché i giovani hanno abitudini di fruizione degli audiovisivi diverse da quelle dei grandi. Quando le prime due stagioni sono andate in onda su Rai 2, Mare fuori ha avuto un riscontro di pubblico abbastanza classico: la maggior parte degli spettatori erano persone adulte. La mossa - non so se strategica o del tutto casuale - di cedere i diritti per il passaggio delle due stagioni a Netflix ha effettivamente generato, attraverso il passaparola, una grande attenzione da parte del pubblico adolescente, che oltre a non avere nel proprio radar la Rai come brand, è molto più abituato allo streaming. Il successo della serie ha poi convinto la Rai a sfruttare al meglio l’uscita della terza stagione, trasmettendola in anteprima su RaiPlay e solo successivamente sul canale tradizionale: in questo modo, ha spinto circa due milioni di spettatori giovani a scoprire la piattaforma di streaming di Rai, fino a quel momento poco conosciuta”. A proposito di adolescenti: sono state sollevate delle critiche alla serie, in quanto si teme che vi sia un’eccessiva immedesimazione dei ragazzini nelle dinamiche che vengono riprodotte e che in qualche modo il fascino della “vita facile” abbia presa su di loro. È effettivamente un rischio che si corre? “Ci potrebbero essere varie risposte, ma dal mio punto di vista prevale la dimensione del carcere come luogo nel quale di riscoprono dei valori positivi. Non vedo una deriva alla Gomorra, né una realtà in cui è desolatamente assente qualunque forma di bene, anzi: le storie alla fine sono storie di riscatto, di costruzione di valori con i propri pari e in parte di crescita in relazione alle figure adulte, che non sono tanto quelle della famiglia quanto piuttosto quelle degli educatori”. Il format è quello continuativo della serie, che a differenza di un film ha confini molto più dilatati e una lunghezza più estesa. Che ruolo ha giocato, questo, in termini di approfondimento della storia e di affezione del pubblico ai personaggi? “Direi un ruolo fondamentale, perché il luogo per eccellenza di Mare fuori - il carcere - diventa il contenitore di tutte le storie che si sviluppano nelle diverse stagioni. Da tanti anni, grazie a molte ricerche, sappiamo che la serialità e la pluristagionalità sono gli elementi che costruiscono la fidelizzazione e l’affezione del pubblico: i personaggi non sono più solo i protagonisti di una serie, ma diventano delle figure familiari. A volte gli attori “escono dallo schermo”, perché sono presenti anche sui social media, oppure perché prestano la propria voce alla colonna sonora: è una fidelizzazione che possiamo quasi chiamare transmediale”. Anche le storie d’amore della serie e le guerre tra famiglie rivali sembrano avere una presa fortissima sul pubblico... “Mare fuori è un racconto nuovo, fresco, contemporaneo, ma sottotraccia nasconde gli schemi narrativi classici che funzionano sempre: è evidente, ad esempio, il richiamo a Romeo e Giulietta. Sotto alla superficie della criminalità e del carcere, dunque, la serie racconta vicende che sono universali: del resto, la tragedia shakespeariana è il primo teen drama della storia”. Una domanda dal punto di vista della comunicazione: la bellezza estetica dei protagonisti ha il suo peso? “Sì, è un elemento che conta sempre molto in tv e nei prodotti seriali di fiction. I protagonisti diventano dei punti di riferimento, anche dal punto di vista estetico e dello stile. L’iconicità dei personaggi è un elemento centrale per un teen drama, e si ricollega al discorso sul realismo: se non ci fosse la capacità di raccontare il presente degli adolescenti in tutte le sue sfaccettature, difficilmente si entrerebbe in sintonia con il pubblico”. Lager e impiccagioni: gli orrori italiani in Libia di Guido Neppi Modona L'Unità, 13 giugno 2023 Prima dei nazisti, i fascisti deportarono 100mila persone, costringendoli a marciare verso campi di concentramento: è tutto documentato ma lo nascondono. Il mito degli “italiani brava gente”, a lungo coltivato dopo il ventennio fascista in contrapposizione ai tedeschi nazisti, trova purtroppo una smentita senza appello nella storia del colonialismo italiano, riferito per quanto qui interessa alla Libia. Non è dunque un caso che nell’Italia democratica e repubblicana sia stato steso un pietoso velo di oblio sul nostro passato coloniale, perché si tratta di un passato che svela la realtà di una repressione feroce e spietata nei confronti della popolazione civile di quel Paese. In Libia gli italiani hanno anticipato di una quindicina di anni, sia pure in scala minore, i metodi utilizzati dal razzismo tedesco per eliminare milioni di ebrei e le altre popolazioni ritenute inferiori alla perfetta razza ariana. Tra il 1928 e il 1932 la repressione della resistenza libica all’occupazione italiana coinvolse indistintamente l’intera popolazione civile - donne, vecchi e bambini - del Geben, vasta regione della parte occidentale della Cirenaica. Pietro Badoglio, allora governatore generale della Libia, nel comunicare al vice governatore della Cirenaica Rodolfo Graziani la decisione di procedere alla deportazione, dichiarò che non si nascondeva la gravità del provvedimento, ma ormai la via era tracciata e doveva esser perseguita “sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica”. La deportazione, attuata con il concorso dell’esercito italiano, riguardò almeno 90-100mila libici, poco meno di un terzo della popolazione della Cirenaica, che a seconda delle località di provenienza furono costretti a una marcia di centinaia di chilometri verso campi di concentramento appositamente istituiti, con al seguito i loro mezzi di sussistenza, seimila capi di bestiame, bovini, pecore e capre. Le disposizioni di Badoglio furono eseguite con grande efficienza e tempestività dal vice-governatore Graziani (per inciso si può qui ricordare che lo stesso Graziani fu poi solerte persecutore dei partigiani e degli ebrei durante la Repubblica sociale italiana, dopo l’8 settembre 1943). Non è esagerato parlare di una vera e propria marcia della morte. Una Relazione del Commissariato regionale di Bengasi del luglio 1932 così descrive le condizioni della marcia: “Non furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava veniva immediatamente passato per le armi. Un provvedimento così dragoniano [sic] fu preso per necessità di cose, restie come erano le popolazioni ad abbandonare le loro terre e i loro beni. Anche per il bestiame che per le condizioni fisiche non era in grado di proseguire la marcia veniva immediatamente abbattuto dai gregari a cavallo del nucleo irregolare di polizia che aveva il compito di proteggerlo e custodirlo”. Punto di arrivo dei sopravvissuti erano i campi di concentramento - due di grandi dimensioni e altri sei minori - ove le condizioni di vita dei deportati erano pessime, dal punto di vista sia alimentare - testimoni raccontano di un pezzo di pane di 150/200 grammi al giorno - che sanitario, a causa della denutrizione e delle disastrose condizioni igieniche. Non si può non rilevare che nell’esperienza nazista la marcia della morte fu disposta dai campi di sterminio in Polonia verso la Germania, sotto la pressione dall’est dell’esercito sovietico, mentre in Libia la marcia fu effettuata per deportare la popolazione dal Geben nei campi di concentramento in Cirenaica. La repressione mediante la deportazione di massa si intreccia con interventi giudiziari contro gli esponenti della resistenza, a cominciare dal capo carismatico Omar al-Mukhtar, tutti condannati a morte “secondo gli usi locali”, cioè mediante impiccagione. La documentazione fotografica delle batterie di patiboli con gli impiccati privi di vita e la sfilata della popolazione condotta forzatamente ad assistere alle esecuzioni denunciano scopertamente la funzione terroristica svolta dalla repressione giudiziaria. Per dare una parvenza di legalità all’eliminazione degli oppositori venne istituito a Bengasi il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, organo militare di giustizia politica. Gli oppositori erano accusati del reato di alto tradimento per avere violato l’atto di sottomissione agli occupanti espresso in precedenza in occasione di un accordo con le autorità italiane. Ai processi veniva data la massima pubblicità: ad esempio, quello nei confronti di Omar al-Mukhtar fu celebrato nell’aula dell’ex Parlamento della Cirenaica, assiepata di folla. La preoccupazione di legalizzare la repressione giudiziaria giunse al punto di istituire i c.d. “tribunali volanti” per trasferire via aerea i giudici militari e il pubblico ministero e celebrare i processi nelle località ove i capi ribelli avevano operato. L’attività del TSDS fu molto intensa: nel solo periodo dall’aprile 1930 al marzo 1931 furono condannati alla pena di morte 133 imputati, eseguita nei confronti di 119. La conoscenza di queste vicende, la cui divulgazione è stata tenacemente ostacolata nell’Italia democratica, è affidata, oltre che alle fonti scritte, alla documentazione fotografica e cinematografica. Al riguardo, chi volesse attingere a queste fonti può utilizzare il recente volume di Alessandro Volterra e Maurizio Zinni, “Il leone, il giudice e il capestro”, accompagnato da una ricca appendice iconografica, nonché i film “Fascist legacy” e “Il leone del deserto”, entrambi liberamente accessibili in rete. Quanto a quest’ultimo l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti lo ritenne “lesivo dell’onore dell’esercito” e nel 1982 il sottosegretario alla giustizia Raffaele Costa negò il visto della censura, impedendone la circolazione nelle pubbliche sale cinematografiche. Tre milioni di italiani chiedono aiuto per mangiare. Disoccupati, piccoli commercianti e artigiani: l’identikit dei nuovi poveri di Paolo Baroni La Stampa, 13 giugno 2023 I dati di Coldiretti: colpa dell’inflazione alimentari, la più alta da quasi 40 anni. Cresce il numero dei poveri e delle persone che chiedono aiuto per mangiare facendo ricorso alle mense per i poveri o ai pacchi alimentari. Secondo Coldiretti siamo arrivati oltre quota 3,1 milioni di persone. Fra i nuovi poveri ci sono anche coloro che hanno perso il lavoro, piccoli commercianti o artigiani che hanno dovuto chiudere, le persone impiegate nel sommerso che non godono di particolari sussidi o aiuti pubblici e non hanno risparmi accantonati, come pure molti lavoratori a tempo determinato o con attività colpite dalla crisi dal balzo costi dell’energia con il caro bollette e dagli effetti del cambiamento climatico che ha devastato le aziende agricole della Romagna. La colpa è dell’inflazione alimentare “più alta da quasi 40 anni”, segnala Coldiretti nel suo studio “Poveri, il lato nascosto dell’Italia” presentato in occasione del grande mercato contadino di Campagna Amica a San Pietro dedicato alla solidarietà con la “spesa sospesa”, la tavola della fraternità per i più bisognosi e il cestino solidale per i senza tetto ma anche lo spazio dedicato agli agricoltori alluvionati nell’ambito del “World Meeting of Human Fraternity”, ispirato all’Enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco. L’Italia - sottolinea Coldiretti - si prepara a vivere l’estate a tavola più cara da decenni con il numero dei bambini sotto i 15 anni bisognosi di assistenza per mangiare che ha superato quota 630mila, praticamente un quinto del totale degli assistiti, ai quali vanno aggiunti 356 mila anziani sopra i 65 anni oltre a una platea della fame e del disagio che coinvolge più di 2,1 milioni di persone fra i 16 e i 64 anni. Negli ultimi tre anni il numero delle persone che hanno chiesto aiuto per mangiare, secondo le stime di Coldiretti su dati Fead, è salito di un milione: per il 64% risiede al Sud, il 22% al Nord e il resto nelle aree del centro Italia. Oltre 2 milioni di persone hanno ricevuto sostegni alimentari in modo continuativo, il resto si è rivolto ai programmi e alle strutture di assistenza solo in modo saltuario come ultima spiaggia e soluzione per momenti di estremo bisogno. La stragrande maggioranza di chi è stato costretto a ricorrere agli aiuti alimentari lo fa attraverso la consegna di pacchi alimentari (oltre 92 mila le tonnellate di cibo distribuite negli ultimi 12 mesi) che rispondono maggiormente alle aspettative dei nuovi poveri che, per vergogna, prediligono questa forma di sostegno piuttosto che il consumo di pasti gratuiti nelle strutture caritatevoli. Nel paniere della solidarietà - evidenzia Coldiretti - si trovano un po’ tutti i prodotti non deperibili: dal latte a lunga conservazione UHT (23%) alla pasta (9%), dalla salsa di pomodoro (8%) ai legumi (5%), da succhi di frutta e zucchero (5%) a caffè e biscotti (4%), senza dimenticare carne e tonno in scatola (3%), farina, marmellate, formaggio, fette biscottate (2%). Fra tutti coloro che chiedono aiuto per il cibo - evidenzia lo studio - più di 1 su 5 (23%) è un migrante che nel nostro Paese non riesce a procurarsi da solo il “pane quotidiano”, ma ci sono anche oltre 90mila senza dimora che vivono per strada, in rifugi di emergenza, in tende o anche in macchina e quasi 34mila disabili. Nel 2022 hanno ricevuto assistenza per mangiare anche 48mila ucraini proprio nell’anno in cui il Paese è stato invaso e devastato dall’esercito russo. In totale, negli ultimi 5 anni, sono stati oltre 8 milioni i chili di cibo per le famiglie bisognose che sono stati raccolti dagli agricoltori della Coldiretti attraverso le mobilitazioni per la spesa sospesa lanciate attraverso i mercati di Campagna Amica da nord a sud dell’Italia. In questo modo sono state aiutate oltre 400mila famiglie per una media di più di 20 chili a nucleo con circa 100mila i bambini in condizione di difficoltà aiutati in questa operazione di solidarietà a cui hanno collaborato Caritas, mense parrocchiali e fondazioni ospedaliere. “Con la Spesa sospesa abbiano voluto dare un segno tangibile della solidarietà degli agricoltori verso le fasce più deboli della popolazione più colpite dalle difficoltà economiche” spiega il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare che “questa esperienza è diventata un fenomeno strutturale presente in tutti i mercati contadini nel nostro Paese”. Scuola. Va in scena il teatrino dell’immaturità di Eraldo Affinati La Stampa, 13 giugno 2023 Malgrado la buona volontà di tutti, gli esami assomigliano ancora a dei tribunali. Da tanti anni ormai gli esami di Stato, un tempo chiamati di maturità, che si svolgono al termine degli studi medi superiori, hanno perso, se mai l’hanno avuto, il carattere selettivo da molti auspicato, da altri contrastato: un po’ in ragione di quanto raccontano i numeri (stando alle statistiche, quasi tutti gli scolari ammessi all’esame vengono promossi), un po’ perché le prove conclusive rappresentano l’esito scontato di un percorso già compiuto, bisognoso soltanto di un riscontro formale: la discussione all’interno delle commissioni, tranne rarissimi casi di “scena muta” o assenza da parte del candidato, verte unicamente sulla votazione da assegnare agli studenti. Ciò non toglie che questi ultimi, come ben sappiamo, patiscano ancora la ritualità degli scritti e degli orali, vivendo con ansia apparentemente immotivata i giorni del rendiconto finale. Stiamo parlando pur sempre di adolescenti per i quali il giudizio, di qualsiasi tipo, chiunque lo formuli, costituisce un rischio e una minaccia incombente sulla difficile strada verso la maggiore età, spirituale prima ancora che anagrafica. Non sono pochi i tristi ricordi al riguardo conservati sotto chiave nella memoria di alcuni fra noi. Mortificazioni, arroganze e frustrazioni, quasi inevitabili in presenza della discrezionalità da parte del corpo docente, sembrano purtroppo assai frequenti quando ci si pone di fronte al maturando: sebbene si tratti di una patetica messinscena, in quanto gli insegnanti sono per quasi la metà gli stessi che hanno seguito i ragazzi almeno nell’ultimo anno scolastico, è come se il giorno del fatidico colloquio scattassero negli attori chiamati in causa dei meccanismi di comportamento prestabiliti legati al sistema che legittima il valore giuridico del diploma assegnato e conseguito. Con tutta la buona volontà delle persone coinvolte, si sente il peso del tribunale che deve esprimere il verdetto: quanto di più lontano dalla naturalezza propria della dimensione educativa. Personalmente ho sempre vissuto con grande disagio questa sensazione, prima da studente, quando, dentro di me, rifiutavo l’idea stessa di essere sottoposto a una prova esterna di cui non condividevo il criterio, poi da professore, nel momento in cui, durante l’anno, uniformavo tutti i voti al cinque o al sei, allo scopo di non dare troppa importanza al punteggio. Se venivo nominato commissario esterno agli esami, mi piaceva rovesciare le attese dei ragazzi (e ancor più quelle degli adulti che si presentavano come privatisti): secondo il mio ruolo, avrei dovuto incutere soggezione, invece sin dal giorno della prima prova scritta cercavo di entrare in confidenza con loro, dando consigli non richiesti pur di metterli a proprio agio. Cosicché in poche ore potevo arrivare a conoscere le storie di ognuno più di quanto fosse stato disposto a fare il docente interno che in teoria avrebbe dovuto presentarmeli. Era il mio modo di sabotare l’esame che consideravo sbagliato, inefficace, ingiusto. Sbagliato perché confermava l’antica contrapposizione fra insegnante e discente minando sul nascere la reciproca fiducia che entrambi avrebbero dovuto conquistare l’uno a vantaggio dell’altro. Inefficace in quanto domande e risposte non riuscivano a staccarsi da una sfera odiosamente artificiale, in conseguenza della quale l’esaminando si mostrava preoccupato solo di corrispondere alle attese del suo interlocutore, pronto a modificare in tempo reale le proprie opinioni se queste non fossero state accolte come dovevano. Ingiusto perché schiacciava i saperi e le sensibilità e i caratteri di ognuno secondo standard di valutazione falsamente oggettivi, dimenticando che ogni apprendimento ha una forma e un tempo unico e la stazione di partenza dello scolaro è fondamentale quanto il traguardo che egli deve raggiungere. Non avevo ancora letto ciò che, a tale proposito, scrisse il giovane Lev Tolstoj, ma era come se lo tenessi già a mente: “Il ginnasiale studia la storia, la matematica, e, ancor più importante, “l’arte di rispondere agli esami”. Io considero quest’arte un’inutile materia di insegnamento” (Per una scuola viva, per una scuola vera, edizioni e/o, 2020). Sognavo una scuola senza voti, senza classi, senza esami, senza burocrazie, senza diplomi, senza giudizi, come l’aveva declinata ad esempio Ivan Illich, uno dei più grandi maestri del Novecento, e diversi altri e altre insieme a lui, pur sapendo quanto fosse impossibile realizzarla nella realtà di questo mondo, anche nella consapevolezza che il cosiddetto impianto dell’istruzione, così com’è e non come vorremmo che fosse, non si può liquidare con disinvoltura, essendo una delle più importanti invenzioni umane, inesistente in natura, allo stesso modo del matrimonio, della famiglia e dei codici giuridici, la cinghia di trasmissione del sapere - per dirla in breve - da una generazione all’altra: chiunque cedesse, per amore di paradosso o inquietudine anarchica, alla volontà di cancellazione dell’aula col suo magico e a parere di molti obsoleto trittico (spiegazione-interrogazione-voto), dovrebbe poi sobbarcarsi il compito di illustrarci la maniera in cui procedere e non sarebbe, dobbiamo giocoforza ammetterlo, un compito di poco conto. È più facile criticare che costruire. Detto questo, sapendo di dover accettare un certo grado di ipocrisia culturale e un’altrettanto notevole dose di convenzionalità sociale, in nome del migliore degli universi possibili, non possiamo neppure arrenderci al piccolo teatrino degli esami come sono spesso ridotti ora con le formulette imparate a memoria, recitate alla maniera di parti in commedia, dei riassunti tematici che aggirano il testo, delle mappe concettuali in sostituzione dei ragionamenti complessi. Dimmi cosa vuoi che io ti ripeta e lo farò: il contrario di ciò che dovrebbe essere lo spirito critico. Urgono interventi legislativi per modificare perlomeno questo deplorevole andazzo. Senza fare la rivoluzione, ma cercando, nel nostro piccolo, di essere più seri. Migranti. In gioco c’è il diritto di asilo di Francesca Napoli* La Stampa, 13 giugno 2023 Migliaia di persone migranti, uomini, donne e bambini, trattenuti per mesi, in ghetti alle frontiere d’Europa, in attesa che le loro domande di protezione vengano esaminate attraverso procedure accelerate e sempre meno garantiste dei diritti fondamentali. Accordi con Paesi di origine e transito, soprattutto in Africa e in Asia, investendo milioni di euro per bloccare le partenze e favorire le riammissioni. È questo lo scenario che si prospetta nel caso in cui l’accordo raggiunto lo scorso 8 giugno dal Consiglio degli Affari Interni dell’Unione europea su alcuni pacchetti legislativi che riguardano il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo diventasse legge. I ministri dell’Interno dei 27 Stati membri riuniti a Lussemburgo hanno votato a maggioranza qualificata il contenuto di due regolamenti europei che riguardano la gestione dell’asilo e dell’immigrazione e le procedure per l’esame delle domande di asilo. Questo apre la strada ai negoziati tra il Consiglio (ovvero gli Stati) e il Parlamento europeo previsti dalla procedura legislativa per varare la riforma. Laddove venisse raggiunto un accordo i Regolamenti diventerebbero vincolanti in tutte le loro parti e direttamente applicabili in ogni Stato membro. Questo significa che una persona sbarcata in Italia, se proveniente da un Paese il cui tasso di riconoscimento della protezione è inferiore al 20%, potrebbe essere destinata alla procedura di frontiera. Bloccata in centri chiusi, con difficoltà ad accedere all’assistenza legale senza poter far valere in maniera effettiva le ragioni che fondano la sua domanda di protezione. Significa che una persona giunta sulle nostre coste, stremata da un lungo viaggio e con le cicatrici ancora fresche delle torture sulla sua pelle, correrebbe un alto rischio di essere rimandata indietro verso Paesi definiti sicuri sulla base di considerazioni effettuate dagli Stati membri e che purtroppo non garantiscono affatto un reale rispetto dei diritti umani. Basti pensare al Memorandum siglato con la Libia nel 2017 e rinnovato nei mesi scorsi, che prevede che il governo italiano fornisca aiuti economici e supporto tecnico alle autorità libiche per ridurre i flussi migratori, consentendo alla guardia costiera di intercettare migliaia di esseri umani in fuga e ricondurli verso le sue coste, nonostante siano ben noti i trattamenti disumani e degradanti che le persone migranti subiscono per mano delle autorità e delle milizie locali. Lo stesso vale per la Tunisia, considerato Paese sicuro, sebbene la guardia costiera eserciti continui abusi e violazioni nei confronti degli individui che intercetta in mare come dimostra un video circolato nelle ultime settimane che è stato registrato di nascosto da alcuni naufraghi approcciati dalle autorità tunisine e colpiti violentemente con un bastone prima di essere riportati indietro. L’aspetto più sconcertante è che il nuovo Patto non verrebbe a ridurre la pressione migratoria sui Paesi di frontiera, come l’Italia, perché non modifica il principio che è alla base del sistema Dublino secondo cui il Paese di primo ingresso è quello responsabile a farsi carico della procedura di asilo. Il nuovo meccanismo di solidarietà introdotto dai Regolamenti non introduce un obbligo per gli Stati membri di ricollocare nei loro territori una parte delle persone migranti giunte in Europa, bensì prevede che questa sia solo una delle scelte possibili, assieme ad altre, come quella di offrire contributi finanziari o differenti forme di supporto. Tutto questo rappresenta un ulteriore passo verso l’erosione del diritto di asilo, in quanto l’accesso a una procedura equa di protezione sarà sempre più difficile per gli individui in fuga, e un totale svuotamento dei principi di solidarietà, responsabilità e rispetto dei diritti umani che sono alla base del Sistema Comune europeo di asilo. *Giurista esperta in diritto di asilo e immigrazione Non ci sono soluzioni facili al caos tunisino di Mario Giro Il Domani, 13 giugno 2023 La profonda crisi della Tunisia mette l’Italia e l’Europa davanti a un dilemma quasi irrisolvibile. Da una parte si tratta di evitare la caduta dello stato tunisino che avrebbe conseguenze geopolitiche enormi: una nuova Libia, un altro paese a pezzi che si trasformerebbe in un buco nero che potrebbe finire in mano a trafficanti di carne umana ma - ancor peggio - di jihadisti o chissà quali reti criminali globali. Dall’altra c’è l’ambiguità di essere costretti a trattare con regime autoritario che non sopporta nessun condizionamento, ha distrutto la fragile democrazia tunisina, provoca la fuga delle giovani generazioni, aizza il razzismo a casa propria e spinge contro Lampedusa gli africani subsahariani presenti nel paese. Il Fondo monetario internazionale e gli Stati Uniti sono dell’opinione che un tale regime non vada sostenuto, perché tanto alla fine ci imbroglierà lo stesso, non rispetterà i patti, tanto meno quelli migratori. Il governo italiano e l’Unione europea pensano invece che la Tunisia vada aiutata subito per non peggiorare la situazione e per non dover assistere ad un’altra morte di uno stato in nord Africa. Stranamente la Francia tace. Hanno ragione entrambi e Ursula von der Leyen, Giorgia Meloni e Mark Rutte hanno avviato una difficile mediazione, cercando di ottenere qualcosa dal presidente tunisino Kais Saied. Quest’ultimo resta inamovibile: dateci tutti i denari che vi chiediamo e basta. Ciò è ovviamente impossibile. L’intelligence avverte quanto la Tunisia sia già preda della criminalità globale che ha solide basi nella vicina Libia. La frontiera tra Tunisi e Tripoli non esiste quasi più. Accordarsi con Saied è un rischio; non farlo potrebbe essere peggio, considerando ciò che accade nel Sahel. Non ci sono soluzioni facili al caos tunisino ma una cosa deve essere chiara: qualunque sia la scelta finale, sarà necessario continuare a impegnarsi con la massima attenzione. Comunque la si presenti comunicativamente, non avremo una soluzione definitiva a causa della debolezza geopolitica di tutti gli attori in campo. L’Algeria vicina sostiene il presidente Saied per solidarietà tra regimi militari. Il Marocco invece è di tutt’altra opinione. In Libia le numerose fazioni si posizioneranno in maniera variabile, a seconda degli interessi del momento. L’Egitto non avrà capacità di influire sul breve termine. Vedremo l’ascendente dei paesi arabi del Golfo e della Turchia. Tuttavia l’Europa dovrà tener conto della reazione dei tunisini: ancorché impoverita, la classe media del nostro vicino ha una forte maturità democratica. Non a caso colloquialmente la Tunisia viene chiamata l’Africa latina. Un accordo che ceda alle attuali autorità sarà considerato l’ennesimo tradimento europeo nei confronti di paesi in transizione, aumentando la frattura sentimentale tra i popoli arabo-africani e l’occidente, le cui conseguenze si pagano eccome. “Non basta dare soldi al governo di Tunisi, servono quote e corridoi sicuri per i migranti” di Giacomo Galeazzi La Stampa, 13 giugno 2023 L’ex presidente della Consulta Cesare Mirabelli: “Senza cooperazione rischiamo un’altra emergenza Libia”. Uno scudo giuridico Ue per impedire che la Tunisia diventi la nuova Libia. Solo un’azione geopolitica europea, secondo l’ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli, può risparmiare all’Italia un altro “hub” mediterraneo per le partenze dei migranti. La Tunisia è un’emergenza italiana o europea? “C’è una evidente connessione tra fenomeni diversi, che riguardano la condizione dello straniero, le situazioni che impongono l’accoglienza, i rapporti tra gli stati. Il diritto umanitario è un capitolo del diritto internazionale che si è progressivamente sviluppato, anche in attuazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Onu nel 1948, che intende garantire a ogni individuo i diritti umani e le libertà fondamentali. Primo tra tutti il diritto alla vita, alla dignità, alla sicurezza. Diritti economici, sociali, culturali connessi alla dignità della persona che ne assicurano lo sviluppo”. Meloni e Von der Layen a Tunisi: è un cambio di rotta? “È una presa d’atto. Quando i diritti fondamentali sono violati, e la vita, la integrità, la sicurezza, la libertà della persona son messe a rischio, si ha diritto ad essere accolti e trovare rifugio in un altro stato, impegnandosi a rispettarne le leggi. La Costituzione è su questa linea, si uniforma alle convenzioni internazionali che riguardano la condizione giuridica dello straniero, assicura il diritto di asilo a chi sia impedito nel suo paese l’esercizio delle libertà democratiche. Stesso adeguamento a convenzioni internazionali è nel diritto Ue”. Di chi è la responsabilità morale delle stragi in mare? “Oggi il fenomeno migratorio non riguarda solo le figure classiche dei rifugiati, la fuga, pur presente, da territori di guerra o da conflitti violenti nel proprio paese. L’impulso migratorio è determinato largamente dalle condizioni di vita, dalla necessità di un lavoro per il mantenimento proprio e della famiglia. Quindi è opportuno e necessario regolare i flussi migratori e creare strumenti e strutture per un afflusso ordinato dei migranti e per un’accoglienza delle persone in sicurezza e dignità. È un impegno che riguarda non solo i paesi ai confini dell’Ue, ma le istituzioni europee nel loro insieme. Per un’immigrazione ordinata serve cooperazione con i paesi dai quali proviene. È nell’interesse comune: dei paesi verso cui l’emigrazione è diretta, di quelli di partenza, delle persone che percorrono questo tragitto”. Quali soluzioni intravede? “I corridoi umanitari sono un esempio di cooperazione sperimentata prevalentemente per l’afflusso da zone di guerra e che ha visto impegnate unitamente allo stato organizzazioni umanitarie, religiose e laiche. Sono essenziali per il metodo, le garanzie e la sicurezza che offrono, ma possono soddisfare un flusso ristretto di domanda. Vanno ideati e implementati meccanismi più strutturati, che consentano i controlli, l’orientamento e l’accompagnamento effettuati dai luoghi di partenza. E l’individuazione dei paesi di destinazione. Ciò richiede la collaborazione tra paesi rivieraschi del Mediterraneo (punto di partenza dei migranti) e l’Europa, verso i cui paesi sono diretti, spesso per ricongiungersi con familiari o connazionali”. Dove sbaglia il governo? “È necessaria un’azione condivisa ed unitaria dell’Europa, ed è essenziale il ruolo dell’Italia, non fosse altro per la condizione geografica, come paese più prossimo all’altra sponda del Mediterraneo. Il dialogo con la Tunisia, che si sta sviluppando in questi giorni è un elemento positivo. Non dovrebbe esaurirsi in modalità finanziate di trattenimento dei migranti, quale altra faccia del respingimento, ma tradursi nella più complessa organizzazione di centri per l’emigrazione, per un regolare, sicuro ed efficiente flusso migratorio”. Ritiene che ciò accadrà? “Sarebbe una soluzione non solamente rispettosa della dignità e dei diritti degli individui, ma anche più conveniente. A fronte della crisi demografica, in Italia è stata stimato in circa 300 mila unità il numero di immigrati che sarebbero necessari per soddisfare la domanda di lavoro. Proporzioni non dissimili valgono per gli altri paesi europei. Un flusso regolare, organizzato e ordinato, contribuirebbe a risolvere questo problema. La cooperazione è efficace se è assicurata la stabilità dei paesi con i quali si coopera. Se divengono luogo di conflitti o di compromissione dei diritti fondamentali, tutto diviene più difficile. La cooperazione costituisce un fattore di stabilizzazione dei paesi, che contribuisce a prevenire i conflitti”. Rischiamo un’altra Libia? “L’esigenza di fondo, nel medio e lungo periodo, è lo sviluppo pacifico dei paesi dai quali la emigrazione tra origine. La pace nei paesi del medio oriente, lo sviluppo nei paesi dell’Africa sub sahariana. La emigrazione può essere una scelta, non deve essere una necessità per sopravvivere. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo indica lo spirito con il quale anche questo fenomeno va affrontato. All’articolo 1 sottolinea che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” e “devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Proteste e violenze, il pacifico Senegal è precipitato nel caos di Luca Attanasio Il Domani, 13 giugno 2023 La condanna del leader dell’opposizione Sonko ha scatenato un’ondata di proteste tra i giovani, contro l’eventualità di un terzo mandato del presidente Macky Sall. Le manifestazioni e la repressione della polizia ora devastano il paese, andando anche a colpire luoghi simbolo come l’università Cheikh Anta Diop di Dakar. La rete e i social sono stati bloccati o funzionano al minimo mentre lo scorso 6 giugno, il ministero degli Esteri del Senegal ha annunciato la chiusura temporanea dei suoi consolati all’estero Tutto è cominciato quando, alla fine del maggio scorso, il leader dell’opposizione senegalese Ousmane Sonko è stato condannato a due anni di carcere per “corruzione di giovani” e, quindi, all’impossibilità di candidarsi alle prossime elezioni del 2024. Sonko, a capo del partito Pastef (Patrioti del Senegal per l’etica, il lavoro e la fraternità), forte del grande seguito specie tra i giovani, ha chiamato i suoi seguaci alla rivolta e dall’inizio di giugno, il Senegal, uno dei paesi più stabili del continente, è precipitato nel caos. Nel giro di pochi giorni le manifestazioni che si sono susseguite a Dakar e in altri luoghi, hanno fatto registrare violente repressioni da parte delle forze dell’ordine, devastazioni da parte dei dimostranti, centinaia di feriti e tra i 20 e i 30 morti. Le forze di opposizione, a nove mesi dalle presidenziali che si terranno a febbraio del 2024, imputano a Macky Sall, attuale presidente, al termine del suo secondo mandato (è in carica dall’aprile 2012), di usare il martello giudiziario per annientare Sonko che lo incalza nei sondaggi fino forse a superarlo. Il capo del Pastef agita l’incostituzionalità del terzo mandato che Sall se vincesse andrebbe a ricoprire (la costituzione vieta tassativamente la ricandidatura dopo due incarichi e non è stata emendata) e incarna il sentimento di una fetta sempre maggiore di popolazione che chiede cambiamento. Al di là del merito delle motivazioni alla base della condanna di Sonko per la quale i suoi legali hanno presentato un ovvio ricorso, colpisce l’estrema violenza delle forze di polizia così come quelle di alcuni partecipanti alle rivolte, in un paese fin qui pacifico, stabile, tra i più avviati verso un percorso pienamente democratico iniziato all’indomani dell’indipendenza dalla Francia nel giugno del 1960. Oltre alla triste conta di morti e feriti, vanno inserite nel computo di questi giorni di caos, le continue devastazioni di luoghi importanti per la società. L’ultima, in ordine di tempo, è quella toccata all’università Cheikh Anta Diop di Dakar, la principale, presa d’assalto nei giorni scorsi. Gli studenti stanno ora cercando di salvare circa 200mila documenti universitari conservati negli archivi dati alle fiamme. Non mancano voci secondo le quali i facinorosi a capo dell’assalto all’università Diop non farebbero parte dei manifestanti fedeli a Sonko e c’è chi si spinge a ipotizzare che siano gruppi mandati ad arte a creare disordini e innescare una strategia del caos. Le condanne - L’acredine di Sall verso Somko risale al 2017 quando il leader dell’opposizione pubblicò Pétrole et gaz au Sénégal, un testo nel quale accusava apertamente il presidente di svendere petrolio, gas e terre all’Europa e alla Cina e di curare i propri affari a scapito dei cittadini del paese che governava. Da quel momento in poi, sostengono i suoi supporter, si è scatenata una macchina del fango che ha condotto Sonko a una prima condanna nel 2021 per un presunto stupro di una massaggiatrice (da cui è stato assolto a fine maggio) e, più recentemente, alla condanna di due anni per un non ben precisato reato di “corruzione di giovani”. La rete e i social sono stati bloccati o funzionano al minimo mentre lo scorso 6 giugno, il ministero degli Esteri del Senegal ha annunciato la chiusura temporanea dei suoi consolati all’estero in seguito alle forti tensioni politiche che hanno alimentato gli attacchi alle sue missioni diplomatiche a Parigi, Bordeaux, Milano e New York. La diaspora in Italia - In Italia la comunità senegalese conta oggi più di 110 mila presenze. Il legame tra il nostro paese e quello dell’Africa occidentale è molto radicato e di vecchia data e rappresenta una fetta consistente di una diaspora mondiale enorme che è considerata ufficialmente la quindicesima regione del Senegal e ha diritto di voto. Anche a Roma e Milano si è manifestato e non sono mancate tensioni. “C’è una forte preoccupazione nella diaspora in Italia per quanto sta avvenendo in un paese storicamente stabile”, spiega Valentina Geraci, ricercatrice ed esperta del Senegal: “Al tempo stesso c’è una forte condanna di ogni violenza, compresa quella registrata al consolato di Milano il 6 giugno a opera di un gruppo di persone che hanno fatto irruzione, spaccato vetri e materiale. Fortunatamente il caso è stato immediatamente stigmatizzato e isolato da tutta la comunità che continua a manifestare pacificamente e a richiedere l’attenzione dell’Italia e la comunità internazionale nella speranza che tutto torni presto alla normalità”.