Violenza di Stato: il reato di tortura non va abolito di Riccardo Noury* Il Domani, 12 giugno 2023 Il sistema della tortura è sempre all’opera: un ispettore e quattro agenti di polizia indagati per le torture commesse nella questura di Verona. Intorno a loro, tanti sapevano e tacevano. I dettagli che emergono dall’ordinanza della giudice Livia Magri sono aberranti: dietro la formula, giuridicamente corretta, che chiama in causa comportamenti “gravemente lesivi della dignità delle persone”, emergono azioni criminali abiette, compiute nei confronti di persone inermi, per lo più straniere e in condizioni di grave vulnerabilità. Questi resoconti ci riportano indietro di 22 anni, alla caserma di Bolzaneto stipata di manifestanti arbitrariamente arrestati a Genova durante i giorni del G8: il sadismo contro persone inermi; l’umiliazione perversa che gioca sulla gestione dei bisogni corporali altrui, l’inflizione di ulteriore sofferenza a chi è stato già percosso, il vanto di quanto e come si sia picchiato e la competizione su chi abbia colpito meglio e di più. Segnali preoccupanti - C’è un elemento comune a una serie di recenti azioni da parte delle forze di polizia: il pestaggio di una trans a Milano, quello di un cittadino tunisino a Livorno e ora le torture di Verona. Tutte persone di origine straniera. Come se sul territorio fosse arrivato, grazie a narrazioni stigmatizzanti e criminalizzanti, il messaggio che contro di loro si può fare tutto. A ciò aggiungiamo un altro messaggio che arriva, in queste settimane, dal parlamento e dal governo, dove Fratelli d’Italia spinge per una revisione delle norme in materia di tortura con l’obiettivo, neanche mascherato, di abolirle. Quando nei palazzi del potere manca una forte cultura dei diritti umani, quando ci si mostra cedevoli, il sistema delle violazioni dei diritti umani - in questo caso, il sistema della tortura - si rafforza. Si basa sull’impunità e cerca chi possa garantirla. Ricordo che, nei mesi successivi alle stragi delle Torri gemelle del 2001, anche in Italia c’era chi sosteneva la necessità di norme sulla tortura: non per vietarla, come già da 12 anni chiedevano le organizzazioni per i diritti umani; ma per legittimarla, dati i tempi straordinari e l’esigenza di sicurezza contro il terrorismo globale, magari stabilendo limiti ben precisi perché non si andasse “oltre”. Non è chiaro, per inciso, cosa ci sia “oltre” la tortura. La tortura non è utile - Verona, come Santa Maria Capua Vetere e un’altra decina di procedimenti giudiziari - alcuni già conclusi con condanne, altri in corso - spazza via ancora una volta la narrazione della “tortura utile” e la definisce per ciò che è, nel modo più crudelmente esatto possibile: un’esibizione di potere su coloro che ne sono privi. Un’espressione di odio abbigliato da una divisa. Un’ostentazione di violenza annichilente e sopraffattrice. Un attacco all’umanità delle persone sotto la propria custodia. Contro questo ritorno a Bolzaneto, che trasforma la relazione tra autorità e cittadino in relazione tra aguzzino e nemico, è necessario ripristinare un concetto desueto: la formazione. Non solo al rispetto degli standard internazionali sull’uso della forza o all’osservanza del Codice etico delle polizie europee, ma anche e soprattutto al rispetto dell’umanità che si ha di fronte. Da questo punto di vista, il ruolo dell’Oscad (l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori), col quale da tempo Amnesty International Italia ha avviato una collaborazione, potrebbe e dovrebbe essere centrale. Così come è centrale il ruolo del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, che nel 2018 ha avviato una collaborazione, stipulando un apposito protocollo, con l’Arma dei Carabinieri, mentre quella con la Polizia di stato è ancora in fase di partenza. L’educazione del personale di polizia, la previsione e l’attuazione di programmi formativi ad hoc, finalizzati alla prevenzione di maltrattamenti e tortura, sono del resto oggetto di un obbligo preciso imposto dall’articolo 10 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, di cui l’Italia è parte; programmi che nel 2017, nell’ultima occasione in cui il nostro paese ha dovuto sottoporsi al monitoraggio del Comitato Onu contro la tortura, sono parsi inadeguati tanto da giustificare una raccomandazione a svilupparli ulteriormente e soprattutto a valutarne l’impatto. Cosa insegna Verona - Concludendo, da Verona arrivano in questi giorni un ammonimento e una conferma. Il primo: il reato di tortura deve restare in vigore come unico argine per punire chi si macchia di uno dei più gravi crimini internazionali, ma anche per tutelare la maggior parte degli operatori delle forze di polizia che il loro lavoro lo fanno benissimo. La seconda: se da tempo sappiamo che non è una semplice questione di “mele marce”, il fatto che le forze di polizia abbiano dato un grande contributo all’indagine in corso ci dice che non c’è, almeno non ancora, un “sistema marcio”. Tuttavia, sappiamo bene che il sistema può diventare marcio se le mele marce rimangono nello stesso cesto delle mele sane; se funzionari di polizia, in casi come quello di Verona così come in casi precedenti, si sentono attaccati e pongono il problema di come difendersi piuttosto che pensare a come porre fine a un fenomeno criminale che riguarda il corpo di appartenenza. C’è un sistema, questo sì. Chi tortura non è mai solo: c’è chi si gira dall’altra parte, chi incoraggia, chi giustifica, chi condona. Ma quel sistema può essere incrinato e sconfitto, insieme alla sua architettura dell’impunità. A condizione che il reato di tortura non sia cancellato e che da palazzo Chigi, dai ministeri della Giustizia e dell’Interno così come dal parlamento arrivi un messaggio forte, chiaro e inequivocabile: la tortura non sarà tollerata. Mai. *Portavoce di Amnesty International Italia Forza Italia assicura: “Il reato di tortura non si tocca” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 giugno 2023 Il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia al Senato, Pierantonio Zanettin, chiarisce: “Non abbiamo presentato alcun proposta in tal senso”. La riforma del reato di tortura non è in calendario. Lo hanno fatto sapere ieri dalla maggioranza. “Non abbiamo presentato alcun proposta in tal senso”, afferma il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia al Senato Pierantonio Zanettin. “Riteniamo, peraltro, sconsigliabile un simile intervento normativo all’indomani dell’indagine di Verona su cui restiamo garantisti come sempre, senza posizioni “a pendolo” a seconda dei casi”, aggiunge Zanettin. La proposta di legge per abrogare gli articoli 613- bis (Tortura) e 613- ter (Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura) era stata presentata nelle scorse settimane da Fratelli d’Italia. La norma, introdotta nel 2017, punisce chi “con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”. La pena è della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Se i fatti sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni. La modifica prevederebbe la sanzione solo se il fatto è stato commesso “infliggendo a una persona dolore o sofferenze acuti, fisici o psichici, al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni”, punendola “per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso”, intimidendola o esercitando “pressioni su di lei o su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico”. Una riscrittura che limiterebbe molto l’attuale fattispecie, mettendo al riparo il personale delle forze di polizia impiegato, ad esempio, in attività di ordine pubblico dove i “contrasti fisici” sono inevitabili. “Io penso che il reato di tortura andrebbe meglio circoscritto, probabilmente così eviteremmo che la Cassazione debba poi continuamente correggere una sentenza”, era stato il commento di Tommaso Foti, capogruppo di Fd’I alla Camera. L’Anm decide di non scioperare di Valentina Stella Il Dubbio, 12 giugno 2023 L’assemblea dell’Associazione nazionale magistrati ha votato una mozione unitaria promossa, dopo diverse mediazioni, dalle quattro correnti di Magistratura Indipendente, AreaDg, Unicost e Magistratura democratica, nella quale si chiede un incontro urgente con il ministro Nordio. Non ci sarà nessuno sciopero dell’Anm: è quanto ha deliberato l’assemblea domenica pomeriggio convocata nell’Aula Magna della Cassazione per decidere se prevedere una astensione dopo l’iniziativa del ministro Nordio di avviare un’azione disciplinare contro i giudici della Corte d’Appello di Milano, ritenendo una “grave ed inescusabile negligenza” l’avere concesso il 25 novembre 2022 gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico ad Artem Uss, evaso il 22 marzo 2023 all’indomani dell’autorizzazione alla sua estradizione verso gli Stati Uniti. In particolare, la Corte d’Appello non avrebbe preso in considerazione alcune circostanze che “se opportunamente ponderate avrebbero potuto portare a una diversa decisione”. Il risultato era quasi scontato, dopo che nei giorni scorsi, anche da questo giornale, i vertici dei gruppi associativi avevano lasciato intendere che non ci fossero i presupposti per una controffensiva di tal genere. Al termine l’assemblea ha votato all’unanimità una mozione unitaria, promossa, dopo diverse mediazioni, dalle quattro correnti di Magistratura Indipendente, AreaDg, Unicost e Magistratura democratica. Le conclusioni a cui sono giunte le toghe sono le seguenti. “L’Associazione Nazionale Magistrati: 1. esprime profonda solidarietà ai magistrati coinvolti in questa vicenda e deplora fermamente l’iniziativa intrapresa dal Ministro della Giustizia, confermando lo stato di agitazione già deliberato dal CDC il 14 maggio 2023; 2. dà mandato alla GEC di chiedere con urgenza un incontro con il Ministro della Giustizia per interloquire sulle prospettate riforme; 3. rinnova l’invito al Governo a dedicarsi ai gravissimi e improcrastinabili problemi che affliggono la giurisdizione in Italia, resi oggi ancor più pressanti dall’esigenza di conseguire gli obiettivi del PNRR e che attengono in modo preponderante a carenze di risorse e gestionali di competenza e diretta responsabilità del Ministro della Giustizia; 4. mantiene alta l’attenzione su tutte le eventuali riforme della Giustizia, rivendicando il ruolo dell’ANM di interlocutrice, in quanto soggetto che da sempre ha come unico, irrinunciabile punto di riferimento l’interesse pubblico all’attuazione della giurisdizione secondo il disegno della Costituzione; 5. dà mandato alle GES di promuovere iniziative permanenti di confronto e riflessione - anche attraverso la formazione di Osservatori - con la partecipazione paritaria dell’Avvocatura, dell’Accademia e di tutti gli altri operatori della giustizia sui temi delle riforme proposte dalla politica, in vista di un incontro nazionale; dà altresì mandato alla GEC di stanziare le risorse necessarie a sostenere tali attività; Invita tutti i magistrati a dare lettura del presente deliberato e ad affiggerlo fuori dai locali d’udienza per almeno sette giorni”. In sostanza ricalca quella della Ges di Milano, approvata dopo l’iniziativa del Guardasigilli. Magistratura democratica aveva proposto un emendamento (“Chiedere ai Presidenti di Camera e Senato, rappresentanti di tutto il corpo elettorale, di farsi promotori di un incontro fra la GEC dell’ANM e il Ministro della Giustizia, per ribadire la necessità che le iniziative dell’Esecutivo non indeboliscano l’autonomia e l’indipendenza della magistratura). per, come ha detto il Segretario Stefano Musolino, “far emergere che il livello di attenzione si è elevato”. L’emendamento, tuttavia, è stato bocciato. La mozione unitaria nasce dall’esigenza di far vedere una magistratura unita, dunque ogni gruppo associativo ha rinunciato ad un pezzo della propria mozione per arrivare ad una sottoscritta da tutti e rafforzare il messaggio all’esterno. La mattinata di lavori era iniziata con la relazione del Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “In gioco è un bene collettivo, di cui al più i magistrati possono essere custodi, attenti custodi che avvertono il dovere di lanciare l’allarme ove si avvedano che quel bene viene messo in pericolo. Il bene a cui alludo, lo si è ben compreso, è l’indipendenza dei magistrati, come singoli e come ordine, dal Potere politico, e ciò senza disconoscere o voler noi mettere in discussione le attribuzioni costituzionali che conferiscono al Ministro della giustizia il potere disciplinare nei confronti dei magistrati stessi”. Ha poi ribadito che “l’ho già detto tante altre volte e lo ripeto: l’Associazione nazionale magistrati non cerca e anzi rifugge lo scontro, ma chiede, con ferma volontà, attenzione”. E ha specificato: “L’Assemblea non si tiene per imbastire un processo al processo disciplinare che è stato promosso; e non può essere neanche il luogo in cui si anticipa il processo disciplinare che ha il suo giudice naturale nella sezione disciplinare del Csm. Non è dunque il merito di quella vicenda che possiamo affrontare, per dire se quel collegio della Corte di appello di Milano abbia fatto bene o male. Lo dirà il Csm, e nutriamo fiducia nel suo giudizio. Quello che invece ha destato diffusa preoccupazione tra i magistrati è il non essere riusciti a collocare l’iniziativa del Ministro, l’incolpazione che ha elevato, entro gli ambiti che le sono propri, e ciò al di là della fondatezza\infondatezza. Non siamo in allarme perché riteniamo l’azione del Ministro infondata; ovviamente, se fosse solo questo, non ci ritroveremmo una domenica di giugno in un’assemblea generale. Siamo in allarme per qualcosa di più radicale, perché dalla lettura per quanto attenta della iniziativa ministeriale - in uno con il provvedimento cautelare oggetto della incolpazione - non abbiamo rinvenuto, nella prospettazione dei fatti sì come articolata nell’addebito, gli indici che possano ricondurla, quanto meno in astratto, sul terreno della rimproverabilità dei comportamenti dei magistrati”. All’assemblea era stato invitato anche il Ministro Nordio, la cui presenza per i magistrati, sarebbe “stata un bel segnale”. Ha preferito inviare un messaggio in cui tra l’altro ha detto: “chi, come il sottoscritto, ha avuto per 40 anni il privilegio di indossare la toga conserva - incise nella propria forma mentis - le parole nitide della Costituzione: ‘la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro pretore’. E ha aggiunto “affinché le mie parole non appaiano un esercizio di retorica, desidero rispondere subito alle preoccupazioni di quest’assemblea: non c’è stato e non ci potrà mai essere alcun atto ministeriale che possa mettere in discussione l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, patrimonio irrinunciabile della nostra democrazia”. Il Guardasigilli ha portato come giustificazione, criticata off the record da alcuni presenti, il fatto che “saranno dunque il Procuratore generale della Cassazione - ed eventualmente il Csm a verificare il rispetto delle regole di deontologia giudiziaria”. Dopo ha replicato Stefano Musolino di Md nel suo intervento: “l’azione disciplinare avviata dal Ministro si svolge all’esito fallimentare di un giudizio prognostico. È chiaramente un atto intimidatorio e ascoltando le parole del Ministro, espresse in maniera elegante e sobria, nei suoi indirizzi di saluto si capisce chiaramente che non ha colto affatto la gravità di quello che ha fatto”. Secondo il pm della DDA di Reggio Calabria “la realtà è che non si vuole sottoporre una serie di azioni al controllo della magistratura. Dobbiamo pertanto alzare lo stato di allerta, coinvolgendo anche l’avvocatura e l’accademia”. Ha parlato anche Eugenio Albamonte di Area: “c’è una chiara distonia: l’iniziativa disciplinare di Nordio nasce perché i colleghi di Milano non hanno adottato la cautela massima ossia il carcere, che dovrebbe essere una extrema ratio. Ciò è in contraddizione con il Ministro e la maggioranza che si professano garantisti e liberali. Poi il Ministro nella sua riforma propone per decidere sulle misure cautelari di passare dal monocratico al collegiale, ma la decisione oggetto dell’assemblea odierna era stata presa proprio da un collegio”. E ha concluso: “Abbiamo il diritto-dovere di partecipare al dibattito pubblico. Noi non rimarremo in silenzio”. Il leader di Magistratura Indipendente, Angelo Piraino, ha aperto il suo intervento con “una richiesta pubblica di scuse ai due colleghi che nel 2006 subirono un procedimento disciplinare e furono poi ‘ammoniti’ per aver concesso la semilibertà ad Angelo Izzo (uno dei tre condannati per l’omicidio del Circeo e che uccise due donne durante la semilibertà, ndr). Quell’azione disciplinare non fu avviata per i motivi alla base del provvedimento ma per quanto accadde ex post. Dopo quella condanna si diffuse terrore nel concedere permessi” e si diede vita “ad una giurisprudenza difensiva”. Ha poi terminato: “la lettera del ministro non dipana le nostre preoccupazioni”, auspicando “una mozione unitaria”. Come pure ha fatto la presidente di Unicost Rossella Marro sostenendo che occorre “piantare il seme di una rinnovata identità collettiva”. Tra i vari interventi anche quello della neo presidente della Camera Penale di Milano, Valentina Alberta: “La formulazione dell’addebito da parte del ministro nei confronti dei magistrati milanesi (poi giustificata come un atto di semplice impulso) ci ha lasciato perplessi e abbiamo ritenuto di stigmatizzare, in particolare, il fatto che tale iniziativa vada contro un principio che è proprio del nostro sistema in generale e della normativa sugli illeciti disciplinari dei magistrati in particolare. Il principio è quello per cui ogni restrizione della libertà personale è una deroga alla sua inviolabilità”. “Noi crediamo - ha proseguito - che sia particolarmente importante che l’avvocatura penalistica sia al vostro fianco nel momento in cui paventate il rischio di una ‘giurisprudenza difensiva’, rispetto a tutti i magistrati che ogni giorno sono chiamati al delicato bilanciamento di interessi fra liberta? personale, esercizio della potesta? punitiva, strumenti di cautela e scelta fra questi, o più in generale di un clima, di una cultura, che svilisca il principio di inviolabilità della libertà personale. Un clima, una cultura, che vanno a danno dei cittadini” e ha concluso con una richiesta, quella di “un percorso comune, quindi, ma con la capacità di confrontarsi anche quando non siamo d’accordo”. Il Presidente dell’Unione Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, ha inviato un messaggio. Nella prima parte ribadiva lo stesso pensiero dell’avvocato Alberta rispetto all’iniziativa ‘inopportuna’ del responsabile di via Arenula ma ha terminato: “L’indipendenza della magistratura, e particolarmente l’indipendenza del Giudice, deve essere da tutti noi, avvocati e magistrati, difesa come il bene più prezioso, a prescindere dalle contingenze politiche, o dalle convenienze mediatiche. Abbiamo assistito a gravissimi attacchi -politici e mediatici- nei confronti di Giudici dopo sentenze assolutorie, o Magistrati di Sorveglianza dopo provvedimenti concessori di benefici carcerari, senza che ad essi siano seguite prese di posizioni così determinate come quella che state giustamente adottando in questo caso. Per non dire di incredibili dichiarazioni di illustri Procuratori della Repubblica, pronti addirittura ad indicare a sospetto di collusioni mafiose collegi di merito o di legittimità, per avere questi adottato provvedimenti non in linea con le tesi accusatorie poste a fondamento delle proprie indagini giudiziarie. L’indipendenza e la terzietà del Giudice va difesa sempre, senza eccezioni, deroghe o ragioni di convenienza”. Volendo tirare le conclusioni: assemblea partecipata, magistratura unita anche se con sfumature, fermezza nel non restare in silenzio mentre il Governo potrebbe approvare riforme a dire delle toghe pericolose non tanto per loro quanto per i cittadini, come la separazione delle carriere e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. C’è un neo però: quasi tutti hanno detto che occorre parlare con i cittadini. Ma non è fissando un cartello fuori dall’aula o facendo qualche intervista che si arriva a partecipare alla cittadinanza i problemi della giurisdizione. Occorrerebbe una azione capillare delle Ges nei territori per intervenire laddove dei gruppi di cittadini sono già formati sotto altri vessilli. Altrimenti la magistratura rimarrà sempre confinata in una bolla a cui nessun può accedere se non gli addetti ai lavori. Il ministro Nordio è stato inviato all’assemblea. Sarebbe uno sgarbo se non venisse? Sarebbe un bel segnale se fosse presente. Nordio sfida i magistrati. L’Anm: “Rispetti la Carta”. Proteste per l’ispezione sul “caso Uss” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2023 Botta e risposta a distanza tra l’Associazione nazionale magistrati e il ministro della Giustizia Carlo Nordio. L’Anm ieri ha deciso di proseguire lo stato di agitazione indetto a maggio a causa dell’azione disciplinare promossa dal Guardasigilli contro i giudici d’appello milanesi che hanno concesso i domiciliari, rafforzati dal braccialetto, al russo Artem Uss, fuggito mesi dopo. Il ministro ha ribadito di aver esercitato una sua prerogativa e ha interpretato pro domo sua dichiarazioni del presidente Sergio Mattarella sul rispetto della separazione dei poteri. Nel documento dell’Anm si legge che l’azione disciplinare “è gravemente lesiva delle prerogative costituzionali che presidiano l’esercizio della giurisdizione” e rappresenta non solo, come “spesso in passato”, il tentativo “del governo di condizionare l’esito della giurisdizione”, ma anche un modo “di superare una impasse diplomatica”. Il riferimento è a Nordio, che ha incolpato i giudici solo dopo le proteste degli Usa che avevano chiesto l’estradizione di Uss. Per il presidente Giuseppe Santalucia “viene messo in pericolo un bene collettivo, l’indipendenza dei magistrati”. Quanto alle riforme, “la direzione in cui da anni si incamminano ci sta allontanando progressivamente dal disegno della Costituzione”. E nel documento dell’Anm si legge che le riforme costituzionali “mirano a modificare l’assetto ordinamentale della magistratura e ad attuare scelte organizzative controproducenti”. Nordio, che ha disertato l’invito delle toghe, ha controbattuto con una lettera che lascia “insoddisfatti” i magistrati: “L’attuazione della Costituzione è un percorso tuttora in atto, nella consapevolezza che le leggi sono l’espressione prima della sovranità popolare, opera di parlamentari eletti e politicamente responsabili. Sono le Sezioni Unite della Cassazione a scriverlo ed è stato il presidente della Repubblica a ricordarlo”. Vero, ma per ribadire, come ha sempre fatto, che ci deve essere rispetto reciproco dei ruoli istituzionali. Ciò non vuol dire che i magistrati in merito a riforme della giustizia “non possano e non debbano esprimere opinioni” hanno rimarcato ieri diversi di loro. Nordio ha sostenuto che “mai sarà messa in discussione” l’indipendenza dei magistrati, ma pure per l’Unione camere penali, con quest’azione disciplinare, ha sconfinato. Casciaro (Anm): “Nordio vuole ridimensionare il ruolo delle toghe” di Giulia Merlo Il Domani, 12 giugno 2023 “La funzione disciplinare non può essere piegata per orientare i giudici”, dice il segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro. Con che umore si arriva all’assemblea? È un’assemblea partita dal basso con una mobilitazione negli uffici giudiziari di tutta Italia. Ci accostiamo con interesse ma anche con inquietudine per i sentimenti che ne hanno provocato l’indizione. C’è la volontà di aprire un canale di confronto, e ne è prova l’invito che abbiamo rivolto anche al ministro a prendervi parte. C’è anche la consapevolezza del valore dell’indipendenza della giurisdizione. Ti accorgi quanto vale se si verifica un’iniziativa in grado di determinare indebite interferenze. Che esiti si attendono? Non sono in grado di fare previsioni. In termini generali mi attendo certo una riaffermazione del valore dell’indipendenza, precondizione per l’esercizio della giurisdizione. Ma anche una riflessione sulle responsabilità della funzione, perché indipendenza e responsabilità sono, nella prospettiva della Costituzione, due facce della stessa medaglia. Di qui il senso delle condizioni e limiti del potere disciplinare, il quale si deve “contenere” entro la soglia, invalicabile, del sindacato sul merito della decisione, per salvaguardarne l’indipendenza. Questo perché la funzione del disciplinare non può essere piegata per spingere i giudici verso un tipo particolare di interpretazione. Come sono attualmente i rapporti con il ministro Nordio? Nella precedente legislatura fu approvato un vasto programma di interventi, preceduti da numerose interlocuzioni con l’Anm, alcuni dei quali abbiamo giudicato tanto negativamente da indire uno sciopero. Ora si rincorrono, invece, voci di ulteriori modifiche normative su intercettazioni, misure cautelari, regime delle impugnazioni, reati contro la pa, e perfino sulla geografia giudiziaria, con la possibile riapertura dei micro-tribunali, iniziative su cui auspichiamo di poterci prima o poi confrontare con il ministro, il quale ci ha consultato finora solo su un aspetto specifico che stava a cuore all’Unione Camere Penali. Mi riferisco alla modifica, da noi ritenuta dannosa per l’efficienza del processo, dell’art. 581 del codice di procedura penale in merito alle impugnazioni. C’è ancora la convinzione che la sua iniziativa di chiedere un procedimento disciplinare sia impropria? Saranno gli organi disciplinari a valutare. La vicenda Artem Uss ha destato comunque forte preoccupazione per varie ragioni. C’è un ministro che, al fine di assicurare la consegna dell’estradando, ne chiede il mantenimento in stato di custodia carceraria. Senonché, decisa in seguito l’attenuazione della misura con i domiciliari, quel ministro promuove l’azione disciplinare nei confronti del collegio giudicante che aveva adottato un’interpretazione della legge diversa rispetto a quella che il ministro si attendeva. Secondo tassello. Il disciplinare viene promosso non subito dopo l’adozione del provvedimento di concessione dei domiciliari, che pure sarebbe stato in ipotesi affetto da errore macroscopico e grossolano, ma a distanza di molti mesi e solo quando l’oligarca russo, nella singolare assenza di controllo e vigilanza degli organi preposti, evade, con grave imbarazzo del governo. Terza singolarità: l’immediata, inusuale pubblicità dell’iniziativa disciplinare, con divulgazione dei nomi dei magistrati incolpati, il che ha dato la sensazione che sulla giurisdizione si volessero scaricare, in tutta fretta, problematiche e disservizi verificatisi al di fuori di tale ambito. Anche visto lo scontro con la Corte dei conti, c’è il rischio di una compressione dell’autonomia e indipendenza delle toghe? Non accosterei vicende tanto diverse. Sulla Corte dei conti ho personalmente colto la volontà di alleggerire l’iter in alcuni passaggi che avrebbero potuto da un lato deresponsabilizzare gli amministratori e dall’altro dilatare le tempistiche stringenti imposte dall’Europa, con la rassicurazione a valle per quegli amministratori di una proroga, nell’orizzonte temporale del pnrr, dello scudo erariale. Spetta al governo fare un passo di distensione? Le riforme sono in cantiere... C’è un filo che lega separazione delle carriere, riforma del Csm con sorteggio della componente togata, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale e istituzione dell’Alta Corte. Ed è la volontà di ridimensionare il ruolo della magistratura disegnato dai costituenti. Attendiamo di conoscere le proposte del governo per confrontarci su di esse ed aprire un dibattito pubblico nel Paese. Giustizia, perché serve il reato di abuso d’ufficio di Raffaele Cantone La Repubblica, 12 giugno 2023 Eliminarlo indebolirebbe il già difficile contrasto alla corruzione. Si rischierebbe di privare la magistratura di uno strumento di deterrenza contro gli illeciti. Il ministro Nordio, parlando delle riforme sulla giustizia, ha affermato che la materia rientra nelle prerogative del Parlamento e che quest’ultimo deciderà senza farsi più di tanto influenzare dal chiacchiericcio riversato sui media. Il ministro ha ragione; in una democrazia compiuta è il Parlamento che legifera: lo fa prendendo anche scelte politiche chiare e assumendosi le responsabilità di esse. In democrazia, però, soprattutto sulle leggi più importanti è opportuno si apra un dibattito preventivo ed è diritto, anzi credo persino un dovere civico, provare a parteciparvi evidenziando eventuali idee. Ritengo sia importante farlo nella fase della discussione pubblica, senza farsi strumentalizzare da logiche di tipo politico. In questa ottica, quindi, vorrei dare il mio contributo al dibattito sulla riforma dell’abuso d’ufficio, che il ministro ha annunciato come imminente e che dovrebbe giungere, da quanto si legge quotidianamente, alla totale abrogazione del delitto. Rispetto a questa solo eventuale ipotesi, vorrei mettere a disposizione non considerazioni dottrinarie ma dati tratti dall’esperienza pratica. Dirigo una Procura medio piccola (quella di Perugia) che ha però una competenza importante in materia di reati contro la pubblica amministrazione, perché si occupa anche di quelli contestati a magistrati del distretto di Roma. Il Parlamento ci ha richiesto le statistiche delle iscrizioni nel registro degli indagati per abuso di ufficio. Io le conoscevo abbastanza bene ma è stato molto interessante rileggerle. Gran parte (oltre l’80%) dei processi avviati per abuso si sono chiusi con richiesta di archiviazione: questi ultimi sono stati definiti quasi tutti senza nemmeno che l’indagato fosse stato a conoscenza dell’esistenza delle indagini, rimaste segrete. Si potrebbe commentare facilmente questi numeri sostenendo “perché stracciarsi le vesti per un reato quasi inutile?”. In effetti, soprattutto dopo la riforma, passata sotto traccia perché approvata in un decreto sulla pandemia del 2020, il reato ha spazi applicativi limitatissimi. Allo stesso tempo però resta di grande utilità. In primo luogo, non mi sembra corretto giudicare l’utilità di un reato solo per le eventuali condanne. Anche le assoluzioni o archiviazioni infatti sono importanti: dimostrano quantomeno che la pubblica amministrazione si è comportata correttamente. Ma la sua principale utilità è un’altra e sta nella natura di “reato spia” della corruzione. Siccome, per esperienza consolidata, le denunce per fatti di corruzione sono rarissime, a questo reato si arriva solo grazie alle indagini partite da altri episodi e soprattutto da quelle relative a presunti abusi nello svolgimento dell’attività amministrativa. All’interno delle fredde statistiche emergono alcuni casi (di cui si può fare cenno sia pure genericamente perché non coperti dal segreto) in cui, partendo da un abuso di ufficio in cui si ipotizzava un conflitto di interesse del funzionario pubblico, si è riusciti a far emergere possibili fatti di corruzione e, in un caso, anche una contestazione gravissima che vedeva coinvolto un magistrato. Pochi casi, si potrebbe dire, non possono giustificare il mantenimento in vita della fattispecie. Ribalterei, però, l’argomento. Senza le indagini avviate per abuso di ufficio nemmeno queste corruzioni sarebbero emerse. E allora credo si possa sommessamente affermare nel rapporto costi/benefici che eliminare l’abuso di ufficio non servirebbe più di tanto a far scomparire la cosiddetta “paura della firma” dei decisori amministrativi che blocca la macchina amministrativa. Essa dipende in verità da tanti altri fattori, anche perché, come nei casi ricordati, i funzionari pubblici non hanno nemmeno saputo del procedimento e quindi non avevano nulla di cui impaurirsi. Avrebbe, invece, purtroppo come effetto indiretto ma certamente deleterio quello di indebolire il già particolarmente difficile contrasto alla corruzione. Si rischierebbe di privare la magistratura di uno strumento di deterrenza contro gli illeciti proprio nel momento in cui alla pubblica amministrazione viene affidata la gestione delle risorse straordinarie del Pnrr, vitali per il futuro del Paese. Giustizia, l’abuso d’ufficio è un reato da abolire. La vicenda sarda che fa discutere di Paolo Pandolfini Il Riformista, 12 giugno 2023 Il caso del Presidente della regione Sardegna Christian Solinas e del capo gabinetto della Giunta Grazia Vivarelli. Il reato di abuso d’ufficio è il classico terno al lotto. La stessa condotta, per alcune Procure è penalmente rilevante, per altre invece rientra in quella che è la normale “discrezionalità amministrativa” del dirigente o del politico di turno. Un caso che sta facendo discutere riguarda la Giunta regionale della Sardegna, finita sul banco degli imputati ad iniziare dal presidente Christian Solinas, prima udienza il prossimo 8 settembre davanti al tribunale di Cagliari. Con il rito abbreviato è stata condannata nelle scorse settimane, per abuso d’ufficio e traffico d’influenze, a 2 anni ed 8 mesi, la sua capo di gabinetto, la giudice del Consiglio di Stato Maria Grazia Vivarelli. La vicenda riguardava la nomina di alcuni dirigenti esterni della Regione Sardegna, nomine come se ne fanno a centinaia nei Comuni, Regioni ed Enti vari. Per il pm di Cagliari Andrea Vacca che ha condotto le indagini, i prescelti, esterni all’amministrazione, non avrebbero avuto i requisiti per ricoprire gli incarichi e la procedura seguita sarebbe stata viziata da gravi violazioni di legge. Una tesi, come detto, accolta dalla giudice Ermengarda Ferrarese. “È proprio fra le maglie della discrezionalità amministrativa che si insinuano le violazioni lesive dei beni protetti”, ha scritto nella sentenza nei confronti di Vivarelli la giudice cagliaritana, dopo aver ricordato che la “non felice formulazione della norma impone all’interprete di individuare quali siano queste norme”. “Non può esistere il delitto di abuso d’ufficio senza la possibilità del sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa”, ha aggiunto Ferrarese, ricordando che autorevole dottrina ha definito icasticamente il binomio indissolubile “abuso d’ufficio e sindacato sul cattivo uso della discrezionalità amministrativa stanno e cadono insieme”. A nulla è valsa l’arringa dell’avvocato Rinaldo Lai, difensore di Vivarelli, che ha eccepito l’assenza di elementi di colpevolezza in capo alla sua assistita, che aveva addirittura chiesto un parere all’Avvocatura prima di procedere. Per la Procura, invece, Vivarelli avrebbe avuto un ruolo rilevante, una ‘spinta’ definita decisiva e persuasiva sul dg dell’assessorato al Personale che doveva firmare gli atti di nomina. Immediata con la condanna la sua sospensione dall’incarico. “L’abuso d’ufficio non è riformabile. Può essere solo abrogato riguardando ogni sfumatura dell’attività amministrativa”, è stato il commento di Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione. Per evitare di bloccare del tutto la macchina amministrativa ed evitare intromissioni dei pm, l’intervento annunciato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio è quanto mai urgente. Il caso Tortora non fu un errore della giustizia ma una vergogna per tutto il Paese di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 12 giugno 2023 40 anni fa l’arresto del celebre conduttore. Le colpe dei giudici, della politica e dei media. Il caso Tortora non fu soltanto un gigantesco errore giudiziario ma l’emblema stesso della deriva giustizialista di un Paese, una vergogna collettiva che ha coinvolto la magistratura, il mondo politico, e (quasi) tutto il sistema dell’informazione. In quel grumo di umori neri c’è tutto: il pregiudizio e la sciatteria delle procure, la vigliaccheria del Palazzo, la gogna pubblica, il processo mediatico, la macchina del fango e della calunnia che fa a pezzi la presunzione di innocenza. In un’escalation kafkiana che non lascia alcuno scampo, tra incredulità e disperazione. All’inizio lo stupore, poi la paura e la solitudine, anche gli “amici” che iniziano ad arricciare il naso a sospettare qualcosa e poi si abbandonano alla vox populi: “Beh se lo hanno arrestato qualcosa avrà pur fatto...”. Rileggere gli articoli di giornale di quei giorni è ancora un tuffo al cuore, plotoni di esecuzione, linciaggi corali, character assassination di stampo lombrosiano e l’infame sarcasmo sulla celebrità che sprofonda nel guano. Il circo dell’informazione italiana dà il peggio di sé, senza distinzione di colore politico, speculando sulla “calma sospetta al momento dell’arresto” (Il Tempo), sul “mestiere con cui fa la parte della vittima innocente” (Il Giorno) ironizzando sulla “lacrimuccia televisiva che nasconde l’ardore per il denaro” (Il Secolo XIX). Sulla prima pagina del Giornale compare un Elzeviro anonimo (si dice fosse di Indro Montanelli) che recita: “Dicono che la tv di Stato è una droga. Mai detto è stato più vero dopo l’arresto di Tortora”. Ma forse la voce che le riassume un po’ tutte appartiene a Camilla Cederna che su la Domenica del Corriere scrive: “Non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni”. Eppoi alla Cederna Tortora non piaceva neanche prima: “Mi innervosiva il pappagallo che non parlava mai e lui che parlava troppo, senza mai dare tempo agli altri di esprimere le loro opinioni”. Questi sì che sono argomenti. Unica voce fuori dal coro quella di Enzo Biagi che in un editoriale si chiede: “E se Tortora fosse innocente?”. La Storia rende merito ai galantuomini. Sono passati quarant’anni dal quel 17 giugno del 1983 ma le immagini di Enzo Tortora trascinato via in ceppi dai carabinieri e dato in pasto ai fotografi rimangono vivide negli occhi di tutti noi. “Le manette, le manette!”, urlano i cronisti con la bava alla bocca, eccitati come fiere, mentre lo stanno trasportando nel carcere romano di Regina Coeli. Gli uomini della benemerita si erano presentati all’alba, alle 4.20, bussando violentemente nella sua stanza dell’hotel Plaza, hanno disfatto le valigie, perquisito ogni cassetto e sequestrato l’agenda con i numeri di telefono. Enzo Tortora, il garbato giornalista genovese, conduttore dell’amatissimo Portobello, che all’epoca collezionava share da finale dei mondiali di calcio, è accusato di appartenere alla nuova Camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Pareva uno scherzo, una scena surreale roba da dissonanza cognitiva, un po’ come l’Ugo Tognazzi “capo delle Br” immortalato dal giornale satirico Il Male. Solo che non era scherzo. Lo avevano chiamato in causa due pentiti: Pasquale Barra detto O’ animale e soprattutto Giovanni Pandico che racconta una strana vicenda di “centrini” spediti a Portobello da un camorrista, tal Barbaro, che in realtà sarebbero state “partite di droga”. C’è poi un’agendina nera rinvenuta nell’abitazione di Gabriele Puca, un altro affiliato all’organizzazione di Cutolo: apparteneva alla moglie e tra i vari numeri telefonici ce n’è uno indicato con il nome Tortora. A dire il vero non si legge benissimo, potrebbe essere Tortona o qualcosa di simile. Sarebbe bastato comporre quel numero per verificare il destinatario, un gesto semplice che in tanti anni non è mai venuto in mente a nessun poliziotto o magistrato. Tortora era convinto di poter chiarire tutto in poche ore, lui che quei nomi non li aveva mai sentiti pronunciare in vita sua, doveva essere uno sbaglio, un ciclopico sbaglio. E invece è l’inizio di un incubo durato quattro anni tra custodia cautelare, domiciliari e due processi penali. Nuovi pentiti si associano al coro e in cambio di benefici, giurano che Tortora è uno di loro, che in carcere il venerdì sera guardano tutti Portobello e fanno battute sul loro “compare”. Il principale accusatore è Giovanni Melluso, camorrista, che racconta agli inquirenti di aver personalmente consegnato a Tortora sette chili di cocaina in un night club di Milano, musica per le orecchie del procuratore Diego Marmo che definì il presentatore “cinico mercante di morte”. Peccato che Melluso si fosse inventato tutto, come confessò nel 2009 in un’intervista all’Espresso. Prima di ottenere i domiciliari Tortora resta in prigione per oltre sette mesi, due a Roma e cinque nel carcere di Bergamo. In prima linea e unico tra le personalità politiche a sostenere la sua causa è Marco Pannella, che lo visita regolarmente nella casa di Milano e lo candida alle europee per il partito radicale. Tortora viene eletto con una valanga di voti. Ma dopo la condanna a dieci anni nel processo di primo grado rinuncia all’immunità convinto che in appello riuscirà a ribaltare il teorema dell’accusa. Una scelta coraggiosa e lungimirante: i collaboratori di giustizia ritrattano uno dopo l’altro, lo stesso Cutolo afferma che Tortora per la Camorra è un perfetto sconosciuto mentre i giudici della Corte d’appello di Napoli lo assolvono con formula piena. Venne stabilito che i pentiti lo calunniarono per ottenere sconti di pena e farsi pubblicità. E tutto il carrozzone mediatico-politico li ha seguiti in un crescendo spaventoso. Estradizione, no agli automatismi. Va valutato il rischio di trattamenti inumani e degradanti di Aurelio Panetta e Francesca Panetta Italia Oggi, 12 giugno 2023 In tema di estradizione per l’estero, ove la richiesta sia avanzata dalla Repubblica Popolare cinese, sussiste il rischio concreto, evidenziato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (nel procedimento Liu c. Polonia), di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti, in quanto plurime fonti internazionali, affidabili, dànno atto di sistematiche violazioni dei diritti umani e del tollerato ricorso a forme di tortura, nonché della sostanziale impossibilità, da parte di istituzioni ed organizzazioni indipendenti, di verificare le effettive condizioni dei soggetti ristretti nei centri di detenzione. Lo ha affermato la Cassazione, con la sentenza n. 21125 depositata il 17 maggio 2023, annullando senza rinvio la sentenza impugnata, in accoglimento di un ricorso di cassazione proposto dalla ricorrente. I fatti traggono origine dall’accoglimento della Corte di appello di Ancona di una richiesta di estradizione avanzata dall’autorità giudiziaria cinese nei confronti della ricorrente. In particolare, alla ricorrente si contestava il reato di “assorbimento illecito di depositi pubblici”, previsto dall’art. 176 della legge penale cinese e quindi di aver gestito una piattaforma digitale mediante la quale veniva realizzata attività di raccolta del risparmio e concessione di finanziamenti, in assenza di autorizzazione, nonché di essersi appropriata di una cospicua somma di cui era venuta in possesso per effetto dei versamenti dei finanziatori privati. II ricorso si incentrava particolarmente sulla ritenuta sussistenza di un rischio concreto di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti nel caso in cui la ricorrente fosse consegnata e sottoposta al regime detentivo in Cina. La Corte ha ritenuto che, a fronte di concreti elementi a supporto della problematica condizione dei detenuti nella Repubblica cinese, la risposta dell’autorità estera alla richiesta di informazioni aggiuntive deve essere tale da fugare qualsivoglia dubbio circa il trattamento dell’estradando, fornendo elementi quanto più possibili specifici e circostanziati, nonché ogni ulteriore garanzia che consenta alla Stato richiesto di superare i dubbi legittimamente derivanti dal quadro emergente dalle richiamate fonti sovrannazionali. L’autorità richiedente nella specie, si è limitata a fornire informazioni generiche che, si risolvono in una mera esposizione della normativa vigente, ma che non contengono alcuna garanzia circa l’effettivo rispetto della stessa e, quindi, non costituiscono adeguata garanzia per l’estradando. La Corte ha inoltre sottolineato, come la verifica in ordine all’esistenza di violazioni dei diritti umani nel Paese richiedente va condotta anche sulla base di documenti e rapporti elaborati da organizzazioni non governative, quali, Amnesty International e Human Rights Watch, in quanto si tratta di organizzazioni ritenute affidabili sul piano internazionale, secondo quanto affermato anche della Corte Edu nella sentenza Saadi c. Italia del 28 febbraio 2008. Nel caso in esame, è emerso dunque da plurime fonti, tutte affidabili e già valutate tali dalla Corte Edu nella sentenza Liu c. Polonia, l’esistenza di un elevato rischio di gravi violazioni dei diritti umani all’interno del circuito penitenziario cinese, sussistendo plurimi indici indicativi di un sistematico ricorso a forme di tortura, nonché una sostanziale impossibilità per le organizzazioni internazionali di condurre verifiche effettive ed indipendenti volte a verificare le condizioni negli istituti di detenzione. Tali criticità osserva la VI sezione, costituiscono di per sé motivo ostativo alla consegna. Napoli. Detenuto massacrato di botte nel carcere di Poggioreale di Paolo Barbuto Il Mattino, 12 giugno 2023 Aniello Arvonio è ricoperto di lividi e ha i denti spaccati: riscontrato un versamento alla milza. Hanno salutato il fratello il 2 giugno, lo stavano portando a Poggioreale per una breve detenzione di sei mesi, quattro giorni dopo hanno ricevuto una chiamata dai carabinieri: “È in ospedale, al Cardarelli, per un problema cardiaco”. Quando sono riusciti a raggiungerlo in ospedale hanno scoperto che era stato massacrato di botte, aveva ferite e lividi su ogni parte del corpo, e non era nemmeno in grado di parlare. Antonietta e Giuseppe Arvonio sono immediatamente andati alla Procura della Repubblica per denunciare l’accaduto: nostro fratello Aniello è uscito di casa con le sue gambe e non aveva problemi fisici, adesso è in un letto d’ospedale ricoperto di lividi, con i denti spaccati e il volto tumefatto. Trovate il colpevole”. La vicenda viene raccontata a due voci proprio da Antonietta e Giuseppe che vivono con angoscia queste drammatiche ore. È una famiglia di persone perbene che non ha mai avuto nulla a che fare con tribunali e carcere, come in tante famiglie anche nella loro casa s’è presentato il demone dell’alcolismo che ha aggredito il fratello Aniello. Qualche tempo fa, in preda all’alcol, Aniello ha commesso una sciocchezza, s’è avventato contro un uomo in divisa: “E per quel gesto è stato giustamente processato e condannato”, dicono con lealtà i fratelli. Alle difficoltà della quotidiana lotta con l’alcolismo di Aniello, s’è aggiunta, di recente, anche una battaglia decisamente più dura, quella contro un tumore che ha aggredito la mamma dei tre fratelli. Quando il magistrato ha comunicato che i sei mesi di detenzione di Aniello potevano essere scontati ai domiciliari, in casa hanno pensato che sarebbe stato troppo difficile gestire la situazione: così Aniello è stato condotto a Poggioreale. “Dal giorno in cui ci siamo salutati non abbiamo saputo più nulla. Solo la laconica chiamata dei carabinieri che ci avvisava del ricovero”, dice Antonietta. Non avvezzi alle questioni carcerarie, i fratelli Arvonio si sono mossi a tentoni. Il primo istinto è stato quello di raggiungere l’ospedale dove è stato possibile parlare con la dottoressa di turno: “Mi ha detto che mio fratello è giunto in ospedale in stato confusionale e con una spiccata tachicardia. Era quello che mi aspettavo - dice Antonietta - poi la dottoressa mi ha anche chiarito che Aniello aveva il corpo ricoperto di lividi e che gli è stato riscontrato un versamento alla milza che potrebbe anche richiedere un intervento chirurgico”. Alla donna è caduto il mondo addosso, è rimasta in ospedale finché non ha potuto incontrare, fortuitamente, il fratello che veniva trasportato dalla sezione detentiva del nosocomio verso le sale per gli esami specialistici: “Ho visto mio fratello, aveva entrambe le sopracciglia spaccate, con punti di sutura per chiudere le ferite. Gli occhi erano tumefatti e aveva un vistoso ematoma sulla destra del volto. Le labbra erano spaccate e aveva un dente spezzato - sono stata presa dalla disperazione, ho sollevato il lenzuolo che lo copriva e ho visto le braccia e le gambe completamente ricoperte da lividi”. La sorella non ha potuto parlare con Aniello perché l’uomo non è ancora in grado di parlare, “è come se fosse in uno stato precomatoso”, dicono i parenti che aspettano di sapere dalla viva voce del detenuto cosa è accaduto all’interno del carcere. La questione è finita anche all’attenzione del garante regionale per i diritti dei detenuti, Samuele Ciambriello, il quale è stato in ospedale a visitare tutti i detenuti che sono ricoverati e ha avuto modo di incontrare anche Aniello: “Raramente ho visto una persona ridotta in quello stato - dice Ciambriello - ho tentato anche di chiedergli cosa fosse accaduto ma lui non era in grado di parlare. Comunque presto incontrerò la famiglia (incontro previsto per oggi ndr) che merita tutto il sostegno in questa vicenda della quale bisognerà chiarire, al più presto, tutti i contorni”. Sulla questione il direttore di Poggioreale, Carlo Berdini, ha spiega di aver saputo che c’è attenzione da parte della Procura “ovviamente vogliamo anche noi che ci sia piena chiarezza e siamo a disposizione”, ha chiosato, laconico. Roma. Tutti meritano una “Seconda Chance”, specie chi uscito dal carcere è solo di Lucandrea Massaro Avvenire, 12 giugno 2023 Anni lontani dagli affetti, una vita da ricominciare con in più il pregiudizio che ti attende quando esci, è questa la vita per molti ex detenuti. Raccontando la cronaca giudiziaria la giornalista Flavia Filippi (La7) ne ha viste tante di queste storie e da un paio d’anni in prima persona e poi fondando una associazione (“Seconda Chance”), prova a dare una possibilità di riscatto a chi vuole una vita diversa dopo aver fatto una caduta, un errore, dopo averlo pagato. Lo fa mettendo in contatto imprese e detenuti, aiutandoli nei colloqui facendo leva sulla possibilità di fare del bene, ma anche sulla Legge Smuraglia che concede sgravi fiscali a chi li assume. Un esempio è quello di Sergio Paolantoni, patron di Palombini e Presidente della Fipe-Confcommercio di Roma e provincia, alla guida una società che gestisce bar e catering in giro per la città e che ha accolto con calore questa iniziativa e la promuove tra i suoi associati. “Noi abbiamo preso due ragazzi, ben accolte nel gruppo e che spero restino con noi anche in futuro”. E se l’iniziativa è lodevole, spiega Paolantoni, i problemi burocratici la rendono più complessa di quanto dovrebbe, con attese - tanto per fare un esempio - anche di quattro mesi prima di poter prendere una persona dopo i colloqui. Il Presidente ribadisce la disponibilità anche come associazione, purché le autorità semplifichino le procedure. Ma chi è che vive questa opportunità? È Flavia Filippi che ci indirizza a parlare con Giancarlo Mollo che incontriamo fuori dal salone di Balduina, dove lavora come parrucchiere. Giancarlo esordisce, con la sua cadenza napoletana che fa subito simpatia, mettendo in chiaro che “A novembre finisco, io ero incensurato” e racconta “lavoravo a Napoli in un centro estetico, poi è arrivato il Covid e abbiamo chiuso”. Alla fine si ritrova a Nettuno, dalla madre, e una sera mentre è fuori con una persona che frequenta, finisce in una rissa per difenderla. Si conclude con un processo per direttissima per aggressione aggravata e 3 anni e 8 mesi di carcere. Giancarlo lo dice subito “Per amor di Dio, ho sbagliato a reagire così” più avanti nella conversazione dirà “Oggi non farei nulla del genere, ma sul momento a tutti può capitare di sbagliare”. “Mi sono ritrovato 15 giorni al carcere di Velletri in isolamento, senza nemmeno un cambio di biancheria e senza poter contattare la mia famiglia”. Poi Rebibbia, dove tutto è più duro. La buona condotta, e dopo un po’ ha avuto accesso ai benefici del lavoro fuori anche grazie alla Filippi “che mi ha permesso di uscire da quel sistema”. Per Giancarlo è stata davvero una “seconda occasione”, che non solo gli ha aperto le porte del carcere e trovato un lavoro, ma “mi ha dato modo di reintegrarmi nella società e tornare ad essere quello che ero, a fare il mio mestiere”. Riappropriarsi di se stessi è il primo passo per mettersi il carcere alle spalle. “Non è solo tirare fuori una persona dalla sofferenza, ma anche quella di dargli una opportunità futura. E questa cosa non dovrebbe essere negata a nessuno”. Massimiliano Basti ha una storia simile, lui però è “in affidamento” deve stare a casa entro le 21, ma da luglio tornerà ad essere un uomo libero. Massimiliano fa il grafico per uno stampatore part-time, sempre grazie a “Seconda Chance”, l’altra metà della giornata la passa nello studio di tatuaggi sulla Salaria all’altezza di Monterotondo Scalo che è riuscito a riaprire da pochi mesi. Massimiliano racconta come sta vivendo le ultime settimane “Col terrore!” spiega “con l’affidamento ho delle restrizioni sia per gli orari che per le frequentazioni. Ad esempio non devo assolutamente frequentare persone pregiudicate, fare attenzione a certi luoghi, rispettare determinati orari, posso uscire solo dalle sei alle ventuno poi a casa. Se sgarro si ricomincia” e allora gli ultimi mesi vengono vissuti con l’angoscia di fare un errore e si diventa sospettosi. Ma la parte più difficile è la lontananza dalla famiglia “Mentre ero dentro è morto il compagno di mia madre, stavano insieme da quarant’anni e mi ha fatto da padre e io non c’ero quando poteva avere bisogno di me” anche con la compagna dell’epoca è finita “ho perso un pezzo di famiglia, e di tanti amici me ne sono rimasti quattro o cinque che non si sono scordati di me, che mi hanno sostenuto in questo tempo”. Gli amici veri sono quelli che ti aspettano. Forlì. Nuovo carcere: si sblocca il cantiere, soddisfazione di Zattini e Tassinari sestopotere.com, 12 giugno 2023 Buona notizia per la città di Forlì: in base al parere definitivo del Consiglio di Sato, confermato dal Ministero delle Infrastrutture (che aveva emesso il bando) c’è il via libera allo sblocco dei cantieri per la costruzione del nuovo carcere di Forlì, nella zona del Quattro. Si scioglie il nodo di un contenzioso che teneva fermi i lavori dal 2019 e chi ha vinto l’appalto potrà portare avanti i lavori. È stato il viceministro delle Infrastrutture, Galeazzo Bignami, a informare il sindaco di Forlì, Gian Luca Zattini, che si è detto soddisfatto e si ripromette, domani, di ricontattare il ministero per fare il punto sullo stato dei finanziamenti dell’opera. Una “buona notizia” anche per la deputata di Forza Italia e coordinatrice azzurra regionale dell’Emilia Romagna, Rosaria Tassinari. “Mi unisco alla soddisfazione del sindaco di Forlì, Gian Luca Zattini, per la ripresa dei lavori nella nuova struttura da realizzare presto, perché la vecchia nella Rocca di Caterina Sforza ormai è inadeguata”. Aggiunge Tassinari: “Risolvere il sovraffollamento delle carceri è un vantaggio per il benessere e la rieducazione dei detenuti, ma anche per il lavoro di tutti quelli che vi operano, dalla polizia penitenziaria a tutto il personale carcerario”. La deputata di Forza Italia, che conosce bene la situazione, anche come ex assessore comunale al welfare e per essersi interessante nel recente passato dello sblocco dei lavori presso il competente ministero, sottolinea: “A Forlì il carcere è una realtà viva nella città e nel territorio, non chiusa in se stessa, ma aperta a varie associazione di volontariato che collaborano con le istituzioni pubbliche, sia carcerarie sia comunali e con il mondo sanitario e sociale delle istituzioni del settore. Quindi, il nuovo carcere risponderà ad una vita carceraria adeguata alle leggi e alla nuova concezione della pena e della riabilitazione delle persone che si trovano a dover scontare la pena inflitta dal sistema carcerario. L’umanità della pena, che la nuova struttura potrà garantire, è uno dei primi obiettivi di un sistema carcerario moderno, inserito a pieno titolo nella realtà sociale del territorio in cui opera, come da anni avviene a Forlì, grazie alla collaborazione fra l’istituzione carcere nel suo complesso e le varie realtà sociali, culturali e del volontariato che operano in città”. E conclude la deputata Tassinari: “Liberando poi la Rocca dal carcere, quello storico monumento troverà una degna destinazione per attività culturali, che potranno arricchire la già ricca vita culturale di Forlì”. Migranti, una crisi che divide di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 12 giugno 2023 La vulnerabilità rispetto agli arrivi dipende dalla posizione geografica: più alta per i Paesi del Sud, Italia e Grecia in testa. Quindi è diverso l’approccio al problema. Seppure con molte difficoltà, le crisi dell’ultimo quindicennio (euro, Brexit, pandemia) hanno portato a un significativo rafforzamento della solidarietà europea. Ricordiamo il sostegno ai Paesi in difficoltà da parte della Banca centrale europea o la compattezza con cui Bruxelles ha gestito la Brexit, tutelando l’interesse comune Ue. E pensiamo al Next Generation Eu, l’ambiziosa strategia per la ripresa e la resilienza, con le sue sovvenzioni a fondo perduto finanziate da debito comune. L’unica crisi che non ha sinora trovato uno sbocco unitario è quella migratoria. Deflagrata nel 2016 con la massiccia ondata di profughi siriani, l’emergenza non si è mai risolta: tutti gli sforzi per gestire i flussi tramite un sistema integrato a livello europeo sono miseramente falliti. Nel 2020 la Commissione europea ha proposto un Patto sull’immigrazione: procedure uniformi e più rapide alle frontiere esterne, condivisione degli oneri tramite i ricollocamenti cross-nazionali e cooperazione con i Paesi di origine. Dopo l’invasione di Putin, la buona gestione dei rifugiati ucraini faceva ben sperare. Invece l’accordo di giovedì scorso fra i ministri degli Interni si è limitato a pochi e modesti ritocchi del sistema attuale. L’unica innovazione è un embrionale meccanismo di solidarietà, che prevede una quota di ricollocazioni obbligatorie oppure - se un Paese è contrario - il versamento di ventimila euro per ogni migrante rifiutato. Perché è così difficile raggiungere una soluzione comune? L’immigrazione sfida un elemento costitutivo dello Stato moderno: il potere di controllare chi entra nello spazio nazionale e può goderne i benefici (diritti, lavoro, welfare). L’integrazione europea è riuscita nel tempo ad abolire quasi interamente le frontiere interne e a liberalizzare la circolazione di merci, capitali, servizi e persone. Per spostarsi in Europa i nostri nonni dovevano chiedere il visto, i nostri figli non si accorgono nemmeno di attraversare le linee di confine entro l’area Schengen, e quando si trovano in un altro Paese Ue hanno gli stessi diritti dei nativi. Raggiungere questo risultato straordinario non è stato facile. Lo ha mostrato la Brexit: gli inglesi l’hanno appoggiata perché impauriti dalla supposta “invasione” di cittadini est europei (polacchi, rumeni) dopo che i loro Paesi erano entrati nella Ue fra il 2004 e il 2007. A differenza di quelle interne, le frontiere esterne restano sotto il controllo degli Stati membri. Per i cosiddetti migranti economici e i profughi extra-comunitari sono ancora i governi a manovrare le “sbarre” d’ingresso. Con l’incremento dei flussi, l’immigrazione extra-Ue è diventata un tema chiave della competizione fra partiti, e alcuni di essi continuano ad agitare opportunisticamente gli spettri del nazionalismo etnico. Oltre agli ostacoli di natura politica e culturale, nel campo dell’immigrazione la cooperazione europea deve affrontare un secondo problema. La vulnerabilità rispetto agli arrivi dipende dalla posizione geografica. È bassa per i Paesi del Nord e del Centro, media per i Paesi dell’Est, alta per i Paesi del Sud, Italia e Grecia in testa. Ci sono delle somiglianze, ma non c’è un vero e proprio “mal comune” da superare insieme; ciascuno può teoricamente fare da solo chiudendo le frontiere. Durante la crisi Covid, nessun Paese poteva difendersi in questo modo dal virus. Il sentirsi parte della stessa barca ha facilitato in quel caso l’adozione di risposte comuni. Nella gestione dei flussi domina invece la logica dello scaricabarile, per quanto riprovevole sul piano etico e umanitario. Per chiudere la cosiddetta rotta balcanica, nel 2017 la Ue versò dei soldi (tanti) alla Turchia di Erdogan perché trattenesse i profughi sul proprio territorio. Fermamente voluta dalla Germania, questa soluzione non è certo stata edificante (condizioni di vita precarie nei campi, violazione di diritti umani, deportazioni forzate). È però una esperienza che si può ripetere in forma più virtuosa. Un massiccio piano di aiuti ai Paesi africani di origine e di transito potrebbe convenire a tutti. Pensiamo a vantaggi come una maggiore stabilità politica dell’area, la formazione di capitale umano in linea con le esigenze europee di manodopera, l’espansione dei mercati. E non da ultimo, un maggiore rispetto dei diritti umani in un continente dove, in alcune zone, vige ancora la schiavitù. Giorgia Meloni si è fatta promotrice di una iniziativa in tale direzione con la Tunisia. Ieri si è recata in questo Paese insieme alla presidente von der Leyen e al premier olandese Rutte. Stipulare un accordo con Tunisi sarebbe un passo importante. Purché il progetto sia bene impostato e ben gestito. Evitando di trasformarsi in un nuovo (e, diciamolo, inumano) scaricabarile esterno. La Tunisia gela Meloni e la Ue: no al baratto soldi-migranti di Francesco Olivo La Stampa, 12 giugno 2023 La premier, Von der Leyen e Rutte a Tunisi con un pacchetto da 150 milioni, ma l’accordo è lontano. L’Unione europea pretende l’accordo con il Fmi. La presidente del Consiglio: “A Roma la conferenza su migrazione e sviluppo”. Una dichiarazione congiunta per poi arrivare a un memorandum. E poi un nuovo strappo del padrone di casa: “Non accettiamo i migranti in cambio di soldi”. L’Unione europea si presenta al palazzo presidenziale di Cartagine con un po’ di soldi, 150 milioni di euro per le disastrate casse tunisine, altri 100 per il controllo dell’immigrazione irregolare. Solo in caso di un accordo con Washington l’Ue è pronta ad intervenire pesantemente per evitare il fallimento dei conti pubblici nel Paese mediterraneo. Dietro al linguaggio diplomatico, ci sono un fatto e alcune incognite. Giorgia Meloni è tornata a Tunisi cinque giorni dopo l’incontro con il presidente Kais Saied, stavolta accompagnata da due partner considerati strategici, in vista del Consiglio europeo di fine giugno che, nelle intenzioni italiane, si dovrà occupare di migranti: la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il capo del governo dei Paesi Bassi Mark Rutte. Il presidente tunisino, poche ore prima dell’arrivo dei tre, aveva già messo le mani avanti: “Non saremo la guardia di frontiera di altri Stati”. Concetto ribadito in un comunicato diffuso quando gli ospiti avevano già lasciato il Nordafrica: “La soluzione che alcuni sostengono segretamente di ospitare in Tunisia migranti in cambio di somme di denaro è disumana e inaccettabile, così come le soluzioni di sicurezza si sono dimostrate inadeguate, anzi hanno aumentato le sofferenze delle vittime della povertà e delle guerre”. L’incontro avviene lontano degli occhi della stampa, nel palazzo presidenziale di Cartagine i giornalisti non vengono ammessi e le dichiarazioni finali dei tre leader europei vengono diffuse in streaming senza alcuna possibilità di fare domande e nemmeno di poter assistere a strette di mano e saluti, in ossequio a una esplicita decisione della presidenza tunisina. Come già accaduto martedì scorso, Meloni evita poi di incontrare i giornalisti all’interno dell’ambasciata italiana, forse per evitare imbarazzi con ospiti poco sensibili alla libertà di stampa. Il risultato formale della visita è una dichiarazione congiunta, propedeutica a un patto più ampio: “Un importante risultato - dice Meloni - primo passo verso un partenariato, vogliamo arrivare al Consiglio europeo di fine giugno con un memorandum d’intesa già firmato”. Secondo la premier, l’immagine dei tre leader europei nel palazzo presidenziale di Cartagine, “rende l’idea di quanto siamo impegnati a dare una risposta ai nostri vicini tunisini”. Meloni chiude con un annuncio: “Roma sarà pronta a organizzare la conferenza internazionale sulla migrazione e lo sviluppo che è un ulteriore tappa di questo percorso”. Von der Leyen dà qualche dettaglio in più sul negoziato in corso: “La Commissione europea valuterà l’assistenza macrofinanziaria non appena sarà trovato l’accordo necessario. E siamo pronti a mobilitare fino a 900 milioni di euro per questo scopo di assistenza macrofinanziaria. Come passo immediato, potremmo fornire subito un ulteriore sostegno al bilancio fino a 150 milioni di euro”. La questione dei diritti umani viene sottolineata con nettezza soltanto da Rutte. La destra celebra la giornata: “La missione segna un altro importante successo della politica estera italiana portando ad un importante accordo di cooperazione che servirà a stabilizzare la Tunisia”, dice il capodelegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento europeo, Carlo Fidanza. “Aiutare la Tunisia non serve solo a governare i flussi migratori ma innanzitutto a dare un grande segnale di attenzione al continente africano”, aggiunge Maurizio Lupi, leader di Noi moderati. Un trionfalismo che non convince le opposizioni: “Sui migranti non c’è nessuna svolta. Il problema in Tunisia è serio e non si risolve con una visita”, dice Giuseppe Conte, leader del M5S. Laura Boldrini del Pd, è critica: “Nessuna istituzione italiana o europea può ignorare la violazione delle libertà democratiche e dei diritti umani che sta avvenendo in Tunisia”. Mentre dal Terzo Polo, arrivano le osservazioni di Osvaldo Napoli, dirigente di Azione: “Il viaggio a Tunisi non ha cavato un ragno dal buco, e questo dispiace perché questo insuccesso lo pagheranno gli italiani”. Libano. La crisi economica causa un drammatico aumento dei decessi in carcere di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2023 Nel 2022 nelle carceri libanesi sono morte 34 persone. I decessi erano stati 14 nel 2015 e 18 nel 2018, l’anno precedente l’inizio della crisi economica che tuttora attanaglia il paese. I dati sono ufficiali, forniti dal Ministero dell’Interno. Sulle ragioni di queste morti, tuttavia, non viene data alcuna spiegazione. Amnesty International ha condotto un’indagine che collega, in modo preoccupante, l’aumento dei decessi dei prigionieri alla crisi economica. Tuttavia, la crisi non può in alcun modo rendere giustificabile il sacrificio del diritto alla salute dei detenuti, il diniego di cure mediche ai prigionieri, l’imposizione delle spese di ospedalizzazione ai loro familiari e la mancanza di personale medico specializzato all’interno degli istituti di pena. Oltretutto, in almeno tre casi sono emerse responsabilità ben precise. Uno è quello di Khalil Taleb, morto nella prigione di Roumieh il 21 agosto 2022, dove era arrivato già malconcio il primo giorno di detenzione. La sua famiglia si era presa carico delle cure mediche ma il medico della prigione ha negato che stesse male e la direzione ha ritardato il suo ricovero in ospedale. Il sovraffollamento delle prigioni libanesi è del 323 per cento e l’80 per cento dei reclusi è detenuto in attesa di processo. Il valore reale del budget assegnato al ministero dell’Interno per garantire le cure mediche ai detenuti è sceso da quasi sette miliardi di dollari del 2019 a 628 milioni di dollari l’anno scorso. Il governo non riesce più a pagare le spese per l’ospedalizzazione dei detenuti. Succede anche che, in violazione della legge, gli ospedali presentino il conto anche per le cure mediche di emergenza. Il risultato è che, se nel 2018 846 detenuti erano stati ricoverati in ospedale, nel 2022 il numero è sceso a 107. Amnesty International ha sollecitato le autorità di Beirut a prendere provvedimenti immediati, come decongestionare le prigioni evitando il massiccio uso della detenzione preventiva e ricorrendo a misure alternative e aumentare le risorse a disposizione per garantire cure mediche adeguate ai detenuti e il loro immediato accesso ai servizi di emergenza. I ministeri dell’Interno e della Salute hanno risposto alle richieste di informazioni di Amnesty International e le loro repliche sono state incluse nel rapporto finale. *Portavoce di Amnesty International Italia Hong Kong. “I giovani in carcere sono indottrinati 24 ore su 24” di Leone Grotti Tempi, 12 giugno 2023 Ex detenuti tra i 14 e 20 anni, in prigione per le proteste pro democrazia del 2019, raccontano la loro routine tra marce militari, film di propaganda, confessioni pubbliche, pene corporali e lavaggio del cervello. Hong Kong ha lanciato una campagna di deradicalizzazione in carcere per fare il lavaggio del cervello ai tanti giovani arrestati dopo aver partecipato alle proteste di massa del 2019. La “riabilitazione mirata”, questo il nome ufficiale del programma del quale il governo non ha mai fornito dettagli, è già stata testata al 30 aprile su 871 giovani, alcuni appena 14enni. Il programma, secondo quanto riportato al Washington Post da 10 ex detenuti e 2 guardie, comprende marce militari, letture di propaganda, sessioni pubbliche di autocritica e punizioni per chi non dimostra di essere cambiato. Nel novero di queste ultime rientrano anche pene corporali e periodi di isolamento. Chi manifesta “è come Boko Haram” - La vita in prigione dei ragazzi che devono essere deradicalizzati inizia con il passo dell’oca: seguendo i comandi delle guardie, i giovani devono marciare in cortile in uniforme beige come i soldati dell’Esercito popolare di liberazione. Seguono sessioni di lavaggio del cervello: i partecipanti al movimento di protesta per la democrazia, al quale si unirono fino a un terzo dell’intera popolazione di Hong Kong, vengono paragonati ai drogati, ai terroristi islamici della Nigeria e agli stragisti di estrema destra di Norvegia e Nuova Zelanda. Le manifestazioni popolari sono definite messinscene finanziate e manipolate dall’estero. Non manca mai, negli interrogatori quotidiani, la domanda: “Quanto ti hanno pagato?”. Film di propaganda e confessioni pubbliche - Ogni giorno le guardie devono mandare un rapporto ai superiori su ciascun detenuto per descrivere la loro giornata e i loro eventuali “progressi”. Anche i ragazzi, tutti sotto i 21 anni, devono scrivere rapporti. Dopo l’ennesima visione del film di propaganda comunista La battaglia del lago Changjin sulla guerra di Corea, ad esempio, devono indicare chi è il loro personaggio preferito e perché. Seguono anche lezioni per imparare la “vera” storia cinese e video promozionali sui benefici della legge sulla sicurezza nazionale, quella che dal luglio 2020 ha completamente azzerato le principali libertà civili a Hong Kong. In determinate occasioni, i detenuti devono scrivere lettere di scuse, indirizzate alla famiglia o alla madrepatria cinese, e leggerle ad alta voce davanti ai parenti, alle guardie o agli altri detenuti. Le sessioni con gli psicologi, secondo uno dei professionisti impiegati dal carcere, hanno come obiettivo quello di far “confessare” i giovani, spingendoli a provare rimorso per la propria condotta politica e a convincersi di essere estremisti. “Lavaggio del cervello 24 ore su 24” - “Ci dicevano esplicitamente che l’obiettivo, alla fine del percorso, è instillare nei giovani il desiderio di disinteressarsi della politica e di trovare modi di andarsene da Hong Kong”, spiega una ex guardia. Un detenuto che ha finito di scontare la sua pena racconta: “Ciò che piega lentamente la tua volontà è la vita di tutti i giorni in carcere. È il lavaggio del cervello che subisci 24 ore su 24”. Chi si ribella o non fa abbastanza progressi viene definito “problematico” e punito di conseguenza. Come prima ritorsione le autorità carcerarie sequestrano e non consegnano le lettere di amici e parenti per far sentire il detenuto isolato. Poi mettono i riottosi in isolamento. Un 20enne racconta di essere stato colpito 40 volte con un bastone sulle suole dei piedi dalle guardie per non aver saputo recitare a memoria le 19 regole del carcere. Altri dicono di aver ricevuto ginocchiate e gomitate. “Non c’è più niente da fare per Hong Kong” - I giovani intervistati dal Washington Post (tutti tranne uno) non sono pentiti di essersi battuti per la democrazia e assicurano di non essere cambiati dopo la detenzione. Tutti però confermano di sentirsi senza speranza e di volersi ritirare dalla politica attiva. Spiega Man (nome di fantasia): “L’odio che provo verso il regime comunista è più grande di prima. Ma ho anche paura delle autorità ora e quando vedo un poliziotto mi giro dall’altra parte. Cerco di non immischiarmi in politica. Tanto non c’è niente che possa fare”.