Misure cautelari, calo consolidato. A giorni la riforma di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2023 Dal carcere preventivo agli arresti domiciliari, la Relazione della Giustizia conferma la diminuzione alla vigilia di nuove modifiche. Si conferma, nel 2022, la diminuzione delle misure cautelari personali. Dal carcere preventivo agli arresti domiciliari. Una linea di tendenza tanto più significativa se si tiene conto che a giorni, come confermato ieri dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, nel pacchetto di interventi che sarà presentato in consiglio dei ministri, troveranno posto anche misure specifiche di riforma. In particolare, a cambiare sarà il procedimento di decisione sulla custodia cautelare che il progetto del ministero intende affidare sempre a un collegio di tre magistrati, in maniera tale da rendere la decisione finale il più meditata possibile. Scelta che dovrà comunque misurarsi con i vuoti in organico tra i magistrati e non rendere di fatto impraticabile l’intervento negli uffici medio-piccoli, sotto l’effetto estensivo delle incompatibilità. Ancorandosi ai dati contenuti nella Relazione annuale sull’applicazione delle misure cautelari emerge che l’anno scorso sono state emesse 81.568 misure cautelari personali coercitive; dal confronto dei dati relativi al triennio 2020-2022 con quelli del biennio 2018-2019, risulta una diminuzione significativa del numero totale delle misure emesse. Solo nel 2019, infatti, queste ultime erano state in tutto 94.197. Le misure cautelari custodiali (carcere - arresti domiciliari - luogo di cura) costituiscono il 57% circa di tutte le misure emesse, mentre quelle non custodiali (restanti tipologie) ne costituiscono circa il 43%; una misura cautelare coercitiva su tre è quella carceraria (32%), mentre una misura cautelare coercitiva su quattro è costituita dagli arresti domiciliari (25%), il 14% dei quali viene applicato con procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici (“braccialetto elettronico”). La Relazione sottolinea che i procedimenti dove vengono emesse misure di tipo coercitivo sembrano avere tempi di definizione molto ridotti (circostanza verosimilmente dovuta, si spiega, al fatto che già esistono gravi indizi di colpevolezza a carico della persona); ad esempio, il 40,5% (33.039) delle 81.568 misure cautelari emesse nell’anno 2022, è stato emesso in procedimenti definiti nel medesimo anno 2022; di queste 33.039 misure, l’82,3% (27.203) appartiene a procedimenti iscritti (e anche definiti, appunto) nel medesimo anno 2022; Sempre nell’ambito delle misure emesse nei procedimenti definiti. La Relazione osserva come il 76% delle misure sia stato emesso in un procedimento che ha poi avuto come esito la condanna (definitiva o non definitiva) senza sospensione condizionale della pena; se si aggiunge al 76% sopra indicato la percentuale del 14,5 % relativa alle misure emesse in un procedimento che ha poi avuto come esito la condanna (definitiva o non definitiva) con sospensione condizionale della pena, ne deriva che in circa il 90% dei casi la modalità di definizione di un generico procedimento nel quale è stata emessa una misura cautelare coercitiva è la condanna, mentre nel restante io% circa si è avuta un’assoluzione o un proscioglimento emesso a vario titolo. Ma la Relazione permette anche di fare il punto su due altri elementi chiave. Il primo è relativo alla riparazione per ingiusta detenzione dove la serie storica del numero complessivo dei procedimenti sopravvenuti evidenzia una sostanziale stabilità. Detto che i distretti con più richieste sono quelli di Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro e Roma, complessivamente, nel 2022, sono stati 1.229 i procedimenti sopravvenuti. Le percentuali delle ordinanze di accoglimento (definitive e non) e dei rigetti si equivalgono approssimativamente, mentre sono molto residuali le definizioni per inammissibilità. Quanto alla entità delle riparazioni, dai dati forniti del ministero dell’Economia risulta che l’importo complessivamente versato a titolo di riparazione per ingiusta detenzione nel 2022 risulta pari a 27.378.085 euro ed è riferito a 539 ordinanze di pagamento. Una cifra simile a quella versata nel 2021 (24.506.190 euro), di entità significativamente inferiore rispetto agli importi versati nel triennio precedente (2018-2020), dove la media annua è stata pari a circa 38 milioni. Da record è invece il dato, peraltro sempre assai esiguo, sul numero di azioni disciplinari promosse per una misura cautelare applicata fuori dai casi previsti con negligenza del magistrato: una sola azione è stata promossa nel corso del 2022, conclusa oltretutto con un non doversi procedere. 30 mila fratelli di Tortora. Ecco a voi il girone degli innocenti in cella di Angela Stella L’Unità, 11 giugno 2023 Quarant’anni fa l’arresto del celebre giornalista e presentatore. Un caso di “macelleria giudiziaria” (così lo definì Giorgio Bocca) che però ha insegnato ben poco se ogni anno, negli ultimi trenta, circa mille cittadini in Italia sono stati riconosciuti come vittime di malagiustizia. Colossale la spesa per lo Stato. Insanabile la ferita per chi ha subito il carcere ingiustamente, e anche per la nostra civiltà. Quando si parla di Enzo Tortora si è soliti ricordare la sua vicenda processuale come un errore giudiziario. In realtà, tecnicamente, il noto presentatore ha subìto una ingiusta detenzione (è il caso di una persona privata della libertà personale salvo poi essere assolta con sentenza definitiva) ma non è stato vittima di un errore giudiziario (persona condannata con sentenza passata in giudicato e in seguito riconosciuta innocente dopo la revisione del processo). Fatta questa premessa di ordine tecnico è chiaro che quella vicenda, che Giorgio Bocca definì “il più grande esempio di macelleria giudiziaria del nostro Paese”, possa naturalmente appellarsi con errore/ orrore giudiziario perché si trattò di un processo che non sarebbe mai dovuto iniziare. Né Tortora né i suoi eredi ottennero mai un indennizzo per i giorni trascorsi tra carcere (210) e arresti domiciliari (61). Purtroppo Tortora è uno dei tanti finiti in carcere ingiustamente. Come evidenzia il sito dell’associazione Errorigiudiziari.com, fondata dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, tra ingiuste detenzioni e errori giudiziari in senso stretto “dal 1991 al 31 dicembre 2022 i casi sono stati 30.778: in media, poco più di 961 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 932 milioni 937 mila euro e spiccioli, per una media di poco inferiore ai 29 milioni e 200 mila euro l’anno”. L’associazione mette in evidenza che nel 2022 i casi di ingiusta detenzione sono stati 539, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 27 milioni 378 mila euro. Rispetto all’anno precedente, si assiste a un leggero calo dei casi di innocenti finiti in manette (-26), a fronte di una spesa che è aumentata invece di quasi 3 milioni di euro. Continua dunque la flessione già notata negli ultimi due anni. Ma, si sostiene, “è obiettivamente difficile immaginare che si tratti esclusivamente di un processo virtuoso del sistema”. Assai più probabile per Lattanzi e Maimone, anzitutto, è “che la pandemia continui a far sentire i suoi effetti sull’attività giudiziaria a tutti i livelli, dunque anche sul lavoro delle Corti d’appello incaricate di smaltire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione”. Tuttavia “un discreto peso su questa tendenza al calo dei casi lo ha soprattutto quella tendenza restrittiva secondo cui lo Stato respinge la stragrande maggioranza delle domande presentate o tende comunque a liquidare importi sempre molto vicini ai minimi di legge”. Nel 2022 per quanto concerne gli errori giudiziari da gennaio a dicembre sono stati in tutto 8: uno in più rispetto all’anno precedente. Ricordiamo alcune delle vicende più emblematiche, alcune tratte proprio dall’archivio di Errorigiudiziari.com. Giuseppe Gulotta ha trascorso 22 anni, ossia 8030 giorni, in carcere da innocente. Il suo è forse il più grande errore giudiziario della storia italiana. Tutto ha inizio il 27 gennaio 1976 quando due carabinieri - Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta - vengono di sei milioni e mezzo di euro. Fu possibile riaprire caso grazie ad un ex brigadiere che raccontò come effettivamente erano andati i fatti: l’uomo che aveva accusato ingiustamente Gulotta subito dopo l’arresto venne portato presso una casermetta di campagna e sottoposto a torture terribili. Bendato, fu costretto a ingerire enormi quantitativi di acqua e sale, con l’ausilio di un imbuto mentre lo stesso veniva schiacciato fra due piani di legno. Subì anche scariche elettriche. Dopo arrivò la chiamata in correità per Gulotta. Poi c’è Angelo Massaro, arrestato il 15 maggio del 1996 e accusato ingiustamente dell’omicidio del suo miglior amico, ha passato 21 anni in carcere. L’uomo finisce nel drammatico buio delle carceri a causa di una intercettazione telefonica trascritta male e interpretata peggio (una “t” al posto di una “s”): parlando con sua moglie, diceva che sarebbe rientrato tardi perché doveva trasportare “umuors”, che in dialetto tarantino fa riferimento ad un oggetto ingombrante, un “peso morto”, nel caso specifico un attrezzo per lavorare la terra. Nella trascrizione diventerà “umuort”, il morto. E da quel momento resterà schiacciato da una mala giustizia. Quando è entrato in carcere aveva 29 anni, si era sposato da poco e aveva un bambino appena nato. Solo grazie alla revisione del processo è tornato un uomo libero. Ha fatto richiesta di risarcimento. Oggi la sua storia si può vedere raccontata nel documentario Peso morto (regia di Francesco Del Grosso, produzione esecutiva di Black Rock Film). E che dire dell’incredibile storia di Giovanni De Luise, incensurato, condannato per uno scambio di persona? Nel 2004, il giovane napoletano, 22 anni, viene condannato in via definitiva a 22 anni di prigione come killer di Massimo Marino, mentre si stava svolgendo una faida a Scampia tra vari gruppi camorristici. Nonostante diversi pentiti abbiano detto che non era stato lui, non gli fu concessa la revisione in quanto le dichiarazioni dei pentiti erano “de relato”: i due cioè non avevano partecipato in prima persona all’omicidio. La svolta avvenne nel 2013 quando il vero assassino confessò il delitto. Ha fatto richiesta di risarcimento. Luigi Vittorio Colitti non era neanche maggiorenne quando fu accusato di aver aiutato il nonno a uccidere il vicino di casa. Ha passato in carcere 14 mesi e sostenuto due processi, prima di essere prosciolto definitivamente. Per i mesi trascorsi ingiustamente carcere ha sviluppato, come ha accertato una perizia medica, “un disturbo post traumatico da stress di grado severo, attualmente in fase cronica”. Nonostante questo si è visto negare un risarcimento di 500 mila euro per l’ingiusta detenzione subita. Raffaele Sollecito aveva 23 anni quando per lui si sono aperte le porte del carcere: era il 6 novembre 2007 e vi è rimasto fino al 3 ottobre 2011. Mancava una settimana alla laurea e invece la sua vita fu stravolta in un attimo: sbattuto in prima pagina insieme alla sua fidanzatina dell’epoca, Amanda Knox, venne dipinto come il mostro che aveva sgozzato la studentessa inglese Meredith Kercher per un gioco erotico finito male. Sei mesi di isolamento, quattro anni di carcere, cinque gradi di giudizio per determinare la sua completa estraneità ai fatti. Il 27 marzo 2015 la Corte di Cassazione lo assolve definitivamente “per non aver commesso il fatto”. Anche a Sollecito è stato negato il risarcimento perché secondo i giudici sarebbe stato lui ad indurre in errore gli investigatori. Diego Olivieri, imprenditore di pellami, finisce in carcere incastrato dalle dichiarazioni di un pentito che lo accusa di narcotraffico in collaborazione con la mafia. Passa 12 mesi in cella al regime del 41 bis in attesa di giudizio, nella sezione di massima sicurezza con gli ergastolani. Dopo 5 anni, assolto con formula piena in tre diversi processi “perché il fatto non sussiste”. La Corte d’Appello di Roma ha respinto la richiesta di indennizzo, non ravvisando alcuna colpa grave nell’emissione del provvedimento cautelare. L’uomo si è rivolto alla Cedu. Non possiamo dimenticare la storia di Daniele Barillà, condannato ingiustamente a 15 anni di carcere. Ha trascorso 7 anni e mezzo dietro le sbarre da innocente. La sua unica colpa è stata di avere una macchina identica a quella di un trafficante di cocaina che i carabinieri stavano pedinando. Barillà era finito in prigione nell’ambito dell’operazione “Pantera”, avvenuta nel febbraio del ‘92, in cui erano stati sequestrati 288 chili di cocaina, condotta dai carabinieri del Ros di Genova. Barillà fu arrestato mentre, alla guida di una Fiat Tipo rossa, viaggiava dietro una Fiat Uno di un boss milanese, sulla quale si trovavano 50 chili di cocaina che doveva essere trasportata a Nova Milanese. Ha ottenuto un risarcimento di circa 3 milioni di euro. Più recente la storia di Marco Sorbara, Consigliere regionale della Valle d’Aosta, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa solo perché conosceva un presunto ndranghetista che è calabrese come lui. Quattro anni di processi, con oltre due anni e mezzo di custodia cautelare (214 giorni in carcere, di cui 45 in isolamento, e 695 ai domiciliari), prima di vedere acclarata la sua innocenza. Ha fatto richiesta di risarcimento. All’ultimo Salone internazionale del Libro di Torino ha riprodotto la cella dove ha trascorso l’isolamento, facendo trascorrere, a chi era interessato alla sua storia, 5 minuti all’interno senza telefonino per immaginare lontanamente cosa avesse passato. Anthony Fusi Mantegazza, 23 anni, è stato assolto a marzo di quest’anno dall’accusa di aver stuprato, insieme ad un amico, una giovane sul treno della linea ferroviaria Milano-Varese la sera del 3 dicembre 2021. Ha trascorso in carcere 457 giorni da innocente. Il tunisino Mohammed Nasreddine finisce in carcere con l’accusa di aver aggredito un connazionale in un centro d’accoglienza per impossessarsi di un telefonino. Ma il vero responsabile non era lui. 330 giorni in carcere risarciti con 75 mila euro. Soprattutto i tifosi juventini ricorderanno la storia di Michele Padovano. Con i bianconeri vinse anche una Champions League. Nel maggio 2006 venne arrestato con l’accusa di essere un trafficante di droga. Nell’ottobre 2011 il pubblico ministero chiese per Padovano 24 anni di carcere: il successivo dicembre il tribunale lo condannò in primo grado alla pena di 8 anni e 8 mesi di reclusione, ridotti a 6 anni e 8 mesi in appello. La Cassazione annullò con rinvio. E poi è stato assolto definitivamente nell’appello bis quest’anno. È stato in carcere da innocente 90 giorni, 270 ai domiciliari. Potremmo continuare a riempire pagine e pagine ma concludiamo con una domanda: naturalmente, perfezione pretenderebbe che l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione non si verificassero mai. Ciò molto probabilmente è umanamente e obiettivamente impossibile. Ma fin dove esso è fisiologico e poi comincia a divenire patologico? Qual è il confine entro cui si mantengono applicate le garanzie costituzionali? Da che punto in poi si trasforma in una stortura del sistema? Francesco Carnelutti, insigne giurista e accademico, una volta disse: “La sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario”. Molti magistrati non la penseranno così. Indennizzi, risarcimenti: quanto vale ogni giorno di galera ingiusta di Angela Stella L’Unità, 11 giugno 2023 Il diritto per un’equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente è stato introdotto con il codice di procedura penale del 1988 ed è in adempimento di un preciso obbligo posto dalla Convenzione dei diritti dell’uomo (cfr. art 5, comma 5, C.E.D.U.). La materia è regolata dagli articoli 314 e 315 del cpp, modificati nel tempo da quattro sentenze della Corte Costituzionale. Ma come si calcola effettivamente il risarcimento per ingiusta detenzione? Ce lo spiega senza l’associazione di Maimone e Lattanzi, Errorigiudiziari.com. In realtà, domandarsi come si calcola il risarcimento, nel caso dell’ingiusta detenzione, non è di per sé corretto. “In caso di ingiusta detenzione, infatti, lo Stato stabilisce che nei confronti di chi l’ha subita debba essere versato un indennizzo - che tecnicamente è cosa diversa dal risarcimento - perché il danno è stato frutto di una legittima attività dell’autorità giudiziaria. Ecco perché, a differenza del risarcimento, viene determinato in base a calcoli precisi, sulla base di parametri di riferimento e con un tetto massimo”. Anzitutto, per quantificare l’importo da corrispondere in caso di ingiusta detenzione, la Corte d’Appello nel cui distretto è stata pronunciata la sentenza o il decreto di archiviazione tiene conto di due criteri fondamentali: quantitativo, che si basa cioè sulla durata della custodia cautelare ingiustamente sofferta; qualitativo, che si fonda sulla valutazione caso per caso delle conseguenze negative derivate dalla privazione della libertà personale (per esempio i danni per la reputazione causati dalla pubblicazione sui media della notizia dell’arresto). “Il limite massimo di un indennizzo per ingiusta detenzione è fissato in 516.450,90 euro (tutti i tentativi di alzare questo tetto finora sono falliti)”. In pratica ogni giorno di ingiusta detenzione vale 235,82 euro. L’ammontare di un singolo giorno trascorso agli arresti domiciliari viene invece fissato di solito nella metà: 117,91 euro. Rimanendo nell’ambito degli assolti, ricordiamo che a gennaio dello scorso anno l’ex Ministro della Giustizia Marta Cartabia di concerto con l’ex Ministro dell’economia e delle finanze Daniele Franco emanarono un decreto che definisce finalmente i criteri e le modalità di erogazione del Fondo per il rimborso delle spese legali agli imputati assolti. L’iniziativa è nata su impulso dell’onorevole di Azione Enrico Costa. Si legge nel decreto che i soggetti che vi possono accedere sono quelli destinatari di una sentenza di assoluzione definitiva pronunciata perché il fatto non sussiste, perché non ha commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, escluso il caso in cui quest’ultima pronuncia sia intervenuta a seguito della depenalizzazione dei fatti oggetto dell’imputazione. Il rimborso è riconosciuto nel limite massimo di 10.500 euro, ripartito in tre quote annuali, a partire dall’anno successivo a quello in cui la sentenza è divenuta irrevocabile. Il richiedente può presentare istanza di accesso al fondo esclusivamente tramite apposita piattaforma telematica accessibile dal sito giustizia.it. Quando in carcere davvero si torna a vivere di Vittorio Feltri Libero, 11 giugno 2023 Nel programma “Quarto grado” un ciclo di storie raccolte da Francesca Carollo. Cinque detenuti raccontano come, con un vero percorso di rieducazione, hanno ritrovato il senso dell’esistenza. Troppo spesso, purtroppo, ci dimentichiamo che lo scopo della detenzione non è punitivo, bensì, come stabilisce la Costituzione medesima, rieducativo, ovvero il fine della pena è quello di riportare l’individuo che ha commesso il reato sulla retta via affinché, una volta reinserito all’interno della società, non intraprenda di nuovo la strada della devianza ma se ne discosti coscientemente e coscienziosamente. Questo almeno nella teoria. Nella pratica, a causa altresì del sovraffollamento delle nostre carceri, impostare un percorso rieducativo, formativo e riabilitativo individuale, il quale includa anche la chance di imparare o svolgere effettivamente un mestiere, è pressoché impossibile e addirittura accade che all’interno dell’istituto penitenziario il ristretto consolidi la sua scelta criminale, ovvero si abbrutisca, peggiori, si incattivisca, divenga ancora più arrabbiato, persuaso che non abbia altra chance nella vita se non quella di delinquere. Per superare la piaga del sovraffollamento non serve creare altri edifici in cui rinchiudere coloro che si macchiano di crimini, più utile sarebbe, oltre all’applicazione - dove possibile - delle misure alternative alla detenzione, fare in modo che chi ha scontato la propria condanna, saldando il proprio debito sociale, non faccia ritorno in cella da lì a pochi mesi o pochi anni. Questo vale soprattutto per i giovani detenuti, ma non soltanto per questi. Mi rendo conto che sovente è anche la società civile ad impedire che l’ex carcerato possa immettersi nel tessuto sociale, questo a causa di un resistente pregiudizio e della nostra incapacità di perdonare o di comprendere che una persona, chiunque, meriti una seconda possibilità, che insomma possa cambiare, divenendo un cittadino perbene. Gli istituti di pena sono costruiti nel cuore delle nostre città per ricordarci che il carcere non è un mondo a sé stante e che quello che accade tra le sue mura scrostate e umide ci riguarda da vicino. Per sensibilizzare tutti noi, cioè per esortarci a realizzare questa presa di coscienza, il programma Quarto Grado, condotto da Gianluigi Nuzzi e da Alessandra Viero e in onda ogni venerdì sera su Rete Quattro, ci ha proposto un ciclo di storie i cui protagonisti sono proprio soggetti detenuti, di cui la prima è stata raccontata lo scorso venerdì dalla cronista Francesca Carollo, la quale ha varcato i cancelli sia del carcere di Bollate sia di quello di San Vittore al fine di intervistare cinque ristretti, tra cui anche donne, i quali si sono resi autori di efferati delitti. I protagonisti di queste vicende si mettono a nudo, senza tralasciare né negare le azioni sanguinarie per le quali sono finiti in gattabuia, mostrandoci che la reclusione, quando un percorso di rieducazione viene effettivamente concesso ed eseguito ed il reo ha quindi l’opportunità di rendersi conto pure del male che ha arrecato, può rappresentare una occasione per abbandonare una volta per sempre uno stile di vita malato, per migliorare se stessi e dare un nuovo senso al proprio esistere. Tutto questo non conviene solamente al detenuto ma anche e in particolare alla società intera, alla quale verrà restituita una persona in grado di essere una risorsa e non un soggetto che entra ed esce dal carcere come se si trattasse di un albergo. Ciascuno di noi è chiamato a fare la sua parte: il condannato, il quale deve avere la forza di volontà di redimersi e riscattarsi, le istituzioni, che devono fare sì che gli istituti di pena garantiscano l’iter rieducativo individuale assolvendo a quella funzione che attribuisce loro la Carta, e infine la comunità, ovvero noi cittadini, in questi ultimi anni intossicati da un giustizialismo primitivo di cui si sono fatti promotori soprattutto i Cinquestelle e che ci ha illusi che domandare giustizia equivalga a pretendere vendetta, cioè che il sangue si debba pagare con il sangue, che l’odio debba chiamare altro odio, in una spirale in cui abbiamo tutti soltanto da perdere. Accordo di collaborazione tra Rete Dafne Italia e Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità di Marco Bouchard* Ristretti Orizzonti, 11 giugno 2023 L’associazione Rete Dafne Italia e il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità hanno firmato un accordo di collaborazione per “favorire una progressiva e pregnante tutela delle vittime di reato - così si legge nella nota informativa del Capo Dipartimento, Antonio Sangermano - attraverso mirate attività di supporto e informazione in loro favore”. Inoltre, l’imminente entrata in funzione dei servizi di giustizia riparativa “richiede la massima attenzione istituzionale a tutela delle persone offese dal reato, anche al fine di evitare forme di vittimizzazione secondaria”. Rete Dafne Italia mette a disposizione del Dipartimento le proprie competenze affinché la giustizia riparativa e le misure di comunità sappiano coniugare i processi di responsabilizzazione e di rispetto della dignità di accusati e condannati con la cura e la riparazione delle persone offese, quali condizioni indispensabili per garantire il senso di sicurezza e la fiducia verso le istituzioni. Il testo dell’accordo: https://www.retedafne.it/wp-content/uploads/2023/06/accordo-Rete-Dafne-Italia.pdf *Presidente di Rete Dafne Italia Ancona. Dramma a Montacuto: detenuto 36enne trovato morto in cella, disposta l’autopsia di Federica Serfilippi Corriere Adriatico, 11 giugno 2023 Scattata l’ora della colazione, si sono accorti che non era ancora uscito dalla cella. Hanno iniziato a chiamarlo. Niente. Si sono avvicinati al letto, dove era disteso e hanno scoperto che non respirava più. Sono stati vani tutti i tentativi di salvargli la vita. La tragedia è stata scoperta all’alba di venerdì nel carcere di Montacuto. A perdere la vita è stato un marocchino di 36 anni, dall’inizio del mese detenuto nella casa circondariale anconetana e trasferito da Rimini. Il decesso è stato ricondotto, da un primo accertamento, a cause naturali. Sul corpo dell’uomo non sono stati riscontrati segni di violenza. Ma la procura ha comunque disposto l’autopsia sulla salma del nordafricano per risalire con certezza al motivo del decesso. L’uomo, che doveva scontare una pena definitiva almeno fino al 2028 per reati come i maltrattamenti in famiglia e i danneggiamenti, pare non soffrisse di particolari problemi di salute. Da ex tossicodipendente, stava seguendo però una rigida terapia farmacologia. Sarà l’accertamento autoptico a definire la causa della morte. Che risalirebbe tra le 3 e le 4 della notte di venerdì. Quindi almeno tre ore prima del rinvenimento del corpo senza vita. L’allarme è scattato durante l’ora della colazione del suo blocco. Quando è arrivato il suo turno, non si è mosso dal letto. Sia gli altri detenuti che gli agenti della Polizia Penitenziaria hanno provato a chiamarlo, ma il 36enne era già morto. Sono stati chiamati i soccorsi e provate le manovre rianimatorie. Per il marocchino non c’è stato nulla da fare. La salma è stata condotta all’obitorio dell’ospedale di Torrette dove, come disposto dal pubblico ministero di turno, verrà eseguita l’autopsia. Non ci sarebbero dubbi circa le circostanze naturali della morte del detenuto. Livorno. Dramma a Le Sughere, muore detenuto 31enne di Marco Solimano* comune.livorno.it, 11 giugno 2023 Ieri mattina, intorno alle 7.00 un detenuto, nato in provincia di Roma, è morto all’interno della propria cella nella Casa Circondariale di Livorno, presso il reparto giallo, ex sezione transito. Il giovane aveva 31 anni ed era recluso a Livorno dal dicembre 2021. Questa mattina un malore improvviso e devastante gli ha fatto perdere conoscenza. L’allarme immediatamente lanciato dai compagni di cella ha messo in moto la macchina dei soccorsi che in pochi minuti ha raggiunto il luogo, ma, nonostante i reiterati tentativi di rianimazione, si è purtroppo dovuto certificare la morte alle ore 7,20. In Istituto si sono prontamente recati il Sostituto Procuratore, il medico legale e funzionari della polizia di stato. Anche il Garante appena informato dell’evento si è immediatamente recato in carcere. Saranno adesso i risultati dell’esame autoptico a chiarire i motivi che hanno determinato il decesso. La morte rappresenta sempre un evento tragico e luttuoso ma quando avviene in solitudine, all’interno di una cella, lontano dai contesti affettivi e familiari, porta con sé un aggravio di tristezza e drammaticità. Ora rimaniamo in attesa di conoscere cosa ha determinato la morte di questo giovane uomo. *Garante delle Persone private della libertà personale del Comune di Livorno Aversa (Ce). Un giorno di ordinaria follia in Casa lavoro di Franco Corleone L’Espresso, 11 giugno 2023 Un reperto di archeologia criminale da buttare trasformato in una lotteria per emarginati. Basta dire Aversa e viene in mente il manicomio criminale per antonomasia. Quelle strutture, orrende, ribattezzate Ospedali psichiatrici giudiziari sono state chiuse nove anni fa, compiendo una vera rivoluzione gentile. L’amministrazione penitenziaria ha pensato di riconvertire una struttura di vergogna civile in una “casa lavoro”: un nome sconosciuto, per molti. In Italia, sono nove le case lavoro, che detengono 280 persone, in misura di sicurezza per pericolosità sociale: definite lombrosianamente delinquenti abituali, professionali o per tendenza che dopo avere scontato la pena per un reato, da detenuti vengono trasformati in internati. Addirittura, la nuova restrizione può durare teoricamente all’infinito, basta che il magistrato di sorveglianza proroghi la misura di sicurezza, valutando che il soggetto non offra garanzie sociali o morali per meritare la libertà, neppure quella vigilata. Il paradosso è che le case lavoro non offrono lavoro e che molti internati sono dichiarati inabili al lavoro. La Società della Ragione sta conducendo una ricerca su tutte le case lavoro, per denunciarne l’abnormità giuridica e proporre una riforma radicale. L’arcivescovo di Chieti, monsignor Bruno Forte, teologo di grande spessore, ha posto un duro interrogativo: “Com’è possibile che a 70 anni dalla nostra straordinaria Carta costituzionale continuiamo ad avere una così palese contraddizione con i principi della Costituzione?”. Con una forma di detenzione senza garanzie, tollerata dallo Stato e dalla politica e applicata dalla magistratura? Il 26 maggio sono stato ad Aversa, ultima tappa di questo giro kafkiano. Ho incontrato i cinquanta internati nella sala socialità e ho ascoltato denunce circostanziate delle incongruenze che si scaricano su di loro. Molti lamentano che il passaggio dalla casa lavoro alla libertà vigilata è segnato dall’incertezza, perché basta una violazione alle prescrizioni di comportamento per tornare in casa lavoro con un nuovo provvedimento di misura di sicurezza detentiva: “Questo è un ergastolo bianco, noi lo sappiamo”, è stato il grido condiviso. Ho verificato che un giovane del Ghana ha un decreto di espulsione che non si riesce ad eseguire e quindi la misura di sicurezza viene prorogata in attesa che l’Ambasciata del suo Paese lo riconosca come cittadino e possa tornare dalla madre. Un altro lamentava di avere finito la misura il 6 maggio e di essere ancora lì; per fortuna il giorno dopo è tornato a casa, seppure con venti giorni di detenzione in più. Ecco alcune voci che dipingono la realtà di dolore: “Internati si chiamavano gli ebrei nei campi. Non sarà un caso. C’à sun s’esce mai”; “Preferiamo tre anni di carcere che uno di casa lavoro”; “Siamo in uno Stato democratico e dobbiamo avere la misura dei tempi di Mussolini”. Rispetto ai 57.000 detenuti, sembra che il numero così ridotto delle misure di sicurezza sia dettato dal caso: una specie di lotteria per emarginati. Anche gli educatori e la polizia penitenziaria mi hanno scongiurato di far chiudere la Casa lavoro. La proposta di legge c’è, la n. 158 alla Camera dei deputati e sarebbe un’occasione per abolire un reperto di archeologia criminale, promuovendo percorsi efficaci di inserimento sociale. Una buona opportunità per utilizzare bene i fondi di Cassa Ammende. Rimini. Trattamenti disumani nel carcere: parola di giudice di Enrico Amati L’Unità, 11 giugno 2023 Le criticità della prima sezione erano già state segnalate dalla Camera penale e dai radicali. L’Ausl aveva evidenziato un rischio sanitario per i detenuti. Non sorprende quindi l’ordinanza del magistrato di sorveglianza di Bologna. Pochi chilometri separano Rimini dalla Repubblica di San Marino. Eppure la distanza è abissale sul piano della situazione delle carceri. A San Marino attualmente non c’è nemmeno un detenuto e si ragiona addirittura sulla possibilità di abolire il sistema carcerario. La prima sezione della Casa circondariale di Rimini riflette invece (purtroppo) la drammatica, e inevitabilmente più complessa, situazione in cui versano le carceri italiane, di recente fotografata anche dall’ultimo rapporto di Antigone. Il tema è stato oggetto di discussione presso il Palazzo Pubblico di San Marino in occasione della tappa romagnola del “Viaggio della speranza” di Nessuno tocchi Caino, al quale hanno partecipato anche alcuni componenti dell’Osservatorio carcere della Camera penale di Rimini e il Garante dei detenuti. Le criticità della prima sezione, più volte segnalate dalla Camera penale e dai radicali riminesi, derivano dall’inadeguatezza della struttura e non possono essere superate dalla grande professionalità e umanità degli agenti e operatori penitenziari. Già nel novembre del 2021 le verifiche dell’Ausl avevano evidenziato condizioni igieniche “molto scadenti”, non risolvibili con interventi di ordinaria manutenzione, tali da rappresentare “un rischio sanitario per i detenuti”. Non giunge pertanto inaspettata l’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Bologna del febbraio di quest’anno che, accogliendo il reclamo di un detenuto, ha riconosciuto che parte del periodo di detenzione subito all’interno della sezione configura un trattamento inumano e degradante in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Le problematiche riscontrate - angolo cottura affianco al wc, presenza di insetti, condizioni scadenti dei locali docce - rappresentano purtroppo situazioni ricorrenti nelle carceri italiane, che evidenziano lo “scandalo” della pena carceraria in Italia. Scandalo, per usare le parole del Prof. Tullio Padovani, “è tutto ciò che suscita reazione di sdegnata meraviglia per l’assurdità del suo stesso accadere […] Sostanzialmente si fa perno sulla constatazione che il carcere realizza una situazione di fatto che è in contrasto con tutti i parametri normativi dettati per disciplinarla” (La pena carceraria, Pisa, 2014). La buona notizia, per quanto riguarda Rimini, è che finalmente sembra siano stati sbloccati i fondi per la ristrutturazione della prima sezione. Bisognerà però attendere i tempi della burocrazia. Nel frattempo? Nel frattempo è ragionevole prevedere che i detenuti continueranno a fare ricorso agli strumenti compensativi che l’ordinamento mette loro a disposizione, probabilmente ottenendo riduzioni di pena e irrisori ristori patrimoniali. Tutto bene, dunque? Personalmente ritengo che, in attesa della auspicata ristrutturazione e sempre che sussistano le condizioni per farlo, la sezione dovrebbe essere chiusa. Un ordinamento democratico- liberale non può tollerare che all’interno di una struttura detentiva si assuma violato l’art. 3 della Cedu. Se poi si volge lo sguardo “oltre il giardino” del carcere romagnolo, si deve prendere atto che occorre superare la visione carcerocentrica della pena. La Costituzione, riferendosi alle “pene”, nega la pigra equivalenza tra pena e carcere. La riforma Cartabia, con l’introduzione delle “nuove” pene sostitutive, esprime - almeno sul piano culturale - un mutamento di passo nell’ottica della pena carceraria quale extrema ratio. Occorre tuttavia una revisione profonda del sistema sanzionatorio nell’ottica del superamento della centralità del carcere, intervenendo sullo stesso “catalogo” delle pene principali. Si deve poi tornare a ragionare in termini di diritto penale ‘minimo’, attraverso politiche di depenalizzazione e il recupero degli strumenti di clemenza. A San Marino si riflette addirittura sulla possibilità di fare a meno del carcere. Un’utopia per l’Italia? Può darsi. Ma, forse, richiamando il pensiero dello storico delle idee Isaiah Berlin, si tratta davvero dell’”utopia della decenza”. Reggio Emilia. Antigone: “Il carcere per donne e trans è un sostanziale isolamento” zic.it, 11 giugno 2023 Succede nell’istituto penitenziario di Reggio Emilia, visitato da Antigone Emilia-Romagna: “Mancano, oltre agli spazi per svolgere attività trattamentali, anche risorse investite in corsi di istruzione (non presenti), formazione professionale e lavoro”, segnala l’associazione, rilevando tra gli altri punti anche la presenza di 368 persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di 292 posti. “Le donne e le persone transgender, a causa del numero esiguo, vivono in una condizione di sostanziale isolamento: mancano, oltre agli spazi per svolgere attività trattamentali, anche risorse investite in corsi di istruzione (non presenti), formazione professionale e lavoro”. È uno dei riscontri segnalato dall’associazione Antigone Emilia-Romagna dopo la visita effettuata il 7 giugno all’istituto penitenziario di Reggio Emilia, che è sia casa circondariale che casa di reclusione. “Al momento della visita - riferisce Antigone - sono presenti 368 persone detenute (a fronte di una capienza regolamentare di 292 posti). I condannati in via definitiva sono 285 e gli stranieri presenti sono 201 (dato che supera il 50% delle presenze). Si tratta di un istituto particolarmente complesso, caratterizzato da una significativa circuitazione, che comprende l’articolazione per la tutela della salute mentale - Atsm (l’unica in Emilia-Romagna dedicata agli uomini, con 43 presenze su 45 posti disponibili), la sezione ‘Orione’ per persone transgender (unica in Emilia-Romagna, che ospita attualmente 10 detenute) e un reparto femminile suddiviso a sua volta in una sezione per detenute comuni e una sezione ‘Z’ per congiunte di collaboratori di giustizia, che al momento della visita ospitano rispettivamente nove e due persone”. Continua l’associazione: “Sono stati avviati i lavori di ristrutturazione per far fronte ai gravi problemi d’infiltrazione, già rilevati in passato, che ancora compromettono pesantemente la salubrità degli ambienti: tutti i locali delle docce visitati, la gran parte delle sale della socialità e diverse celle presentano muffe diffuse su soffitto e i pavimenti, muri scrostati e pozze d’acqua. Una cella della casa circondariale, in particolare, posta accanto ai locali doccia si presenta allagata e con il muro e il materasso bagnati. Diversi spazi comuni interni, inoltre, si caratterizzano, in special modo nelle sezioni della casa circondariale, per incuria e sporcizia (con cumuli di immondizia abbandonati); d’altra parte l’area verde esterna appare molto curata, così come i laboratori per le attività e le lavorazioni. Abbiamo visitato la sezione oggi dedicata all’isolamento, appena riaperta dopo i lavori di ristrutturazione. I locali, appena ritinteggiati, al momento della visita ospitano tre detenuti: un detenuto sottoposto a provvedimento disciplinare, un detenuto appena dimesso dall’ospedale all’esito di un serio intervento chirurgico e un altro detenuto incaricato di assisterlo. Nella sezione destinata ai nuovi giunti - dove le persone sono ristrette in celle singole e sottoposte a un regime di sorveglianza chiuso - al momento della visita si trovano anche detenuti comuni, lì allocati per ragioni comportamentali pur in assenza di provvedimenti disciplinari di isolamento. Segnaliamo che nella sezione Atsm sono attualmente ristretti due pazienti in attesa di un posto in Rems, detenuti sine titulo rispettivamente dal novembre 2021 e dal marzo 2023. In linea con l’orientamento regionale, quest’anno si registra una significativa flessione del numero dei Trattamenti Sanitari Obbligatori (extra ospedalieri): se nel 2021 sono stati effettuati 24 Tso e nel 2022 18 Tso, nella prima metà del 2023 sono stati soltanto due”. Con l’occasione, Antigone segnala che il 29 giugno alle ore 18 a Bologna, nella Sala Marco Biagi di via Santo Stefano 119, l’associazione presenterà il XIX Rapporto di Antigone nazionale e il secondo rapporto regionale sulle condizioni di detenzione. Firenze. Visita al carcere di Sollicciano sezione femminile di Paola Scuffi paesesera.toscana.it, 11 giugno 2023 Garante dei diritti dei detenuti, Difensora civica e presidente della commissione Pari opportunità, hanno insieme toccato con mano quale sia la condizione delle donne detenute, per poter fare un “lavoro corale sul piano istituzionale”. Focus sulla condizione delle donne nel carcere di Sollicciano, grazie ad una visita il 7 giugno di tre istituzioni della Regione Toscana: Giuseppe Fanfani, Garante dei diritti dei detenuti; Lucia Annibali, Difensora civica; Francesca Basanieri, presidente della commissione Pari Opportunità. Come sottolineato da Annibali: “Penso sia stato un pomeriggio positivo anche perché tre importanti istituzioni di questo territorio, la commissione regionale Pari Opportunità, il Garante dei diritti dei detenuti e l’ufficio del Difensore civico si sono uniti per cercare di approfondire, di verificare quelle che sono le condizioni delle donne detenute, quindi per cercare di andare ad esplorare anche nuovi terreni”. “È stato un confronto sicuramente emozionante, le visite in carcere ci interrogano sempre nel profondo, ci mettono di fronte a storie di sofferenza, e sarà nostro compito quello di unire forze, esperienze, pensieri e riflessioni per provare a dare il nostro contributo - ha concluso la Difensora civica - per vedere di offrire a queste persone più possibilità; questo era lo scopo della nostra visita: cercare di fare un lavoro corale su un piano istituzionale”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche la presidente della commissione regionale Pari Opportunità Francesca Basanieri: “La visita è stata molto emozionante, siamo andate al Carcere di Sollicciano in particolare per comprendere la situazione delle donne e soprattutto delle madri, perché non faremmo il nostro lavoro di commissione Pari opportunità se non cercassimo di aiutare tutte le donne, specialmente quelle che sono in difficoltà, che sono in carcere, per cercare di portare loro più diritti”. “Ci siamo rese conto della loro situazione, ci hanno raccontato che cosa fanno durante la giornata e ci hanno fatto richieste sia per la vita in carcere che per la loro vita futura - ha sottolineato la presidente - insieme poi al Garante dei Detenuti e alla Difensora civica costruiremo dei progetti proprio per aiutarle in questo senso”. Roma. Il presidente Rocca visita Rebibbia: “La mia attenzione sarà massima” online-news.it, 11 giugno 2023 Il presidente della Regione Francesco Rocca si è recato oggi nel carcere romano di Rebibbia, per constatare la situazione riguardante i detenuti e le persone che lavorano all’interno della struttura, tanto che si è soffermato con gli stessi per raccogliere le istanze relative alle maggiori criticità. Il Governatore del Lazio, dopo essere stato a Regina Coeli, ha visitato il più grande carcere del Lazio. Ad accompagnarlo Rosella Santoro, direttrice della casa circondariale, il vicepresidente del Consiglio Regionale Pino Cangemi, il direttore generale della Asl Rm2 Giorgio Casati, il direttore della Uoc Salute penitenziaria Antonio Chiacchio, Il comandante della polizia penitenziaria Claudio Ronci ed il presidente dell’Ordine dei Medici di Roma Antonio Magi. Rocca ha visitato il reparto G8 in cui si trovano 300 detenuti impiegati in attività lavorative interne ed esterne a Rebibbia. Subito dopo si è recato al reparto G14: si tratta del reparto sanitario dove si trova la sezione ricoveri per malati infettivi e quella psichiatrica. “Oggi a Rebibbia - ha evidenziato il presidente della Regione Lazio - seconda tappa delle visite che ho intenzione di compiere nelle carceri del Lazio. Sovraffollamento, personale insufficiente, offerta sanitaria da potenziare: tante sono le criticità e le sfide. Le Istituzioni devono garantire i diritti fondamentali a chi è privato della libertà personale. Su questi valori non abbasseremo la guardia. Nonostante tutto ho visto bellissime attività e un personale straordinario. La mia attenzione sarà massima sulla vivibilità delle strutture penitenziarie e sul rispetto della dignità dei detenuti”. Nel nome di Paola, morta di fatica, e che ora rischia di non avere giustizia di Giuliano Foschini La Repubblica, 11 giugno 2023 Uccisa dal caldo mentre lavorava per tre euro all’ora. Era una donna. Era una madre. Era italiana. Era anche una schiava e, come una schiava, è stata fatta morire. Eppure oggi, otto anni dopo, rischia di non avere una giustizia: un processo è già finito con un’assoluzione, un altro rischia di finire in prescrizione, probabilmente già in primo grado. Certamente in appello. Paola Clemente è la bracciante pugliese ammazzata dalla fatica il 13 luglio del 2015: raccoglieva per 3 euro all’ora acini d’uva a 160 chilometri da casa sua, lei di San Giorgio Jonico, il campo dove è morta ad Andria, sotto il sole a 40 gradi, quando ebbe un malore improvviso. Non stava bene dalla mattina, quando la portarono in ospedale era già troppo tardi. Paola lavorava per 3 euro all’ora eppure sulla carta era tutto in regola: in borsa il suo caporale le aveva messo una busta paga fittizia, in modo che in caso di controlli tutto sarebbe andato bene. E così era stato: Paola è morta, i suoi cari l’hanno pianta, il suo corpo era stato già seppellito. Denunciare lo sfruttamento: un atto di coraggio - Fin quando però la cocciutaggine e la determinazione di suo marito, Stefano Arcuri, aveva fatto in modo che le cose non finissero come al solito: Stefano, con accanto la Cgil, avevano presentato una denuncia alla procura di Trani, il corpo della Clemente era stato esumato perché potesse essere svolta l’autopsia, un’inchiesta era stata aperta. Ma Paola, sin da subito, aveva dimostrato di essere speciale: davanti alla sua morte, così incredibile, eppure così incredibilmente banale in quel mondo lì, anche le sue colleghe avevano deciso di non stare zitte. Nonostante le minacce del presunto caporale, nonostante la certezza di non poter lavorare più, hanno deciso di sfilare davanti al magistrato per raccontare cosa era accaduto quel giorno. E soprattutto la modalità con le quali si svolgeva ogni giorno il loro lavoro. Hanno depositato l’elenco dei loro giorni di lavoro effettivi e quello, invece, che veniva denunciato all’Inps: meno della metà. Hanno portato le buste paga vere e quelle fasulle raccontando cosa è accaduto quel 13 luglio: “Paola non stava bene. Ha chiesto di tornare indietro ma tutti continuavano a ripetere che non era possibile perché dovevano accompagnare le altre donne per la giornata in campagna. Paola chiese di poter parlare con il marito per farsi venire a prendere. È troppo distante Andria da San Giorgio Jonico, è inutile, le fu detto, e le consigliarono di sedersi sotto un albero all’ombra così il malessere le sarebbe passato in fretta”. Oltre al dolore l’impotenza verso una giustizia a rallentatore - Non passò. La storia di Paola Clemente è diventata un simbolo: la Flai Cgil, la Cgil Puglia con l’allora segretario Pino Gesmundo, hanno creduto che il sacrificio di Paola potesse diventare un monito. La nuova legge sul caporalato, la 199, nacque un anno dopo a lei è dedicata. “La legge di Paola” l’hanno chiamata. Eppure non è bastato. La morte della bracciante ha dato vita a due fascicoli: il primo, per omicidio colposo, a carico del proprietario dei campi dove Paola lavorava, è finito con un’assoluzione. “Aspetteremo di leggere le motivazioni e presenteremo appello” dice l’avvocato della famiglia, Giovanni Vinci. Il punto è però che anche il secondo fascicolo, quello ai presunti caporali, rischia di finire nel nulla. A quasi otto anni di distanza dai fatti si è ancora al dibattimento. “Procura e tribunale hanno dato un’accelerata ma è un reato che si prescrive in sette anni e mezzo - spiega l’avvocato - speriamo di farcela almeno per avere una sentenza di primo grado. Ma è difficile. Certamente in un eventuale appello sarà tutto prescritto”. Nel mezzo restano le parole del marito, Stefano (oggi ospite a Repubblica delle Idee insieme con l’ex presidente della Camera, l’onorevole Boldrini): “Nessuno potrà ridare vita a chi la vita l’ha persa per eccessivo lavoro, per eccessivo caldo, per sfinimento. Nessuno potrà toglierci il dolore. Ma abbiamo il dovere di dire ai nostri figli che un mondo diverso è possibile”. Non lo stiamo nemmeno facendo. All’Arghillà di Reggio i pregiudizi anti rom li spacciano a scuola di Silvio Messinetti e Claudio Dionesalvi Il Manifesto, 11 giugno 2023 Nel Rapporto di autovalutazione dell’istituto Radice-Alighieri: “La loro forte presenza rallenta l’apprendimento generale”. Non ci si lamenta spesso che gli “zingari” non mandino i figli a scuola? Che disertino il percorso educativo per andare a chiedere l’elemosina? Che non accettino di integrarsi, anzi che in quanto cosiddetti “nomadi” risulterebbero non includibili, e che non lo sarebbero in quanto non legati ad un territorio. Quindi che si tratti di soggetti etnicamente “asociali”. Nient’altro che pregiudizi! Nient’altro che stereotipi ovvero barriere mentali che noi stessi costruiamo. Poi andiamo ad Arghillà, quartiere dormitorio di Reggio Calabria, e scopriamo che questi luoghi comuni sono radicatissimi, difficili da estirpare persino nelle istituzioni scolastiche, dove in mezzo a tanti insegnanti accoglienti, che operano con impegno, passione e professionalità, può serpeggiare il virus xenofobo. Mentre si celebra don Lorenzo Milani nel centenario dalla nascita, nella scuola pubblica si continua ad emarginare gli alunni “indesiderati”. Negli istituti di istruzione privata il problema neanche si pone: entrano soltanto alunni provenienti da famiglie che possono permettersi di pagare le rette per iscriverli. E così i minori rom non subiscono solo l’emarginazione abitativa, ma anche quella scolastica, con un processo di colpevolizzazione e di inferiorizzazione. Accade dovunque, in Calabria come nel resto d’Italia, si siano insediati nel corso del tempo i rom divenuti stanziali da ormai tanti decenni: nei rioni meridionali di Catanzaro, alla Ciambra ed a Timpone Rosso nelle piane di Gioia Tauro e Sibari, Scordovillo a Lamezia, San Vito a Cosenza, ad Acquabona a Crotone. A Reggio galeotto fu il Rav, il famigerato Rapporto AutoValutazione che il sistema scolastico italiano impone alle scuole di redigere costringendole a scimmiottare logiche e strumenti d’azienda. Un vero e proprio lapsus. Come se i ristoratori fossero chiamati periodicamente ad autorecensirsi e qualcuno di loro riconoscesse la scarsa qualità dei propri piatti. In un imbarazzante eccesso di sincerità, infatti, il Rav della scuola reggina del quartiere di Arghillà dichiara che i 127 ragazzi in età scolare, che vi abitano, rappresentano un problema per la didattica. Alla pagina 36 del documento pubblicato dall’Istituto Comprensivo “Radice - Alighieri” viene messo nero su bianco che: “Nella scuola la forte presenza di alunni di diversa etnia e rom distribuiti, come da scelte di Istituto, in tutte le classi, rallenta i tempi di raggiungimento dei livelli ottimali di apprendimento generale, nonostante l’impegno di tutta la comunità scolastica”. Secondo molti esperti di prevenzione del fenomeno dell’abbandono scolastico, applicando la strategia del capro espiatorio, con questa dichiarazione la scuola scarica sugli alunni rom, ma pure sulle altre “etnie”, tutte le responsabilità dei ritardi negli apprendimenti dei suoi alunni. Responsabilità che chiaramente sono dello stesso sistema scolastico nel suo insieme. Le reti sociali reggine denunciano l’accaduto. “Secondo le disposizioni del ministero dell’Istruzione la scuola non dovrebbe utilizzare i dati etnici degli alunni, tantomeno utilizzarli per un trattamento inferiorizzante e colpevolizzante. Le scelte dell’istituto violano le disposizioni Miur sui dati etnici, la nuova Strategia nazionale di inclusione dei rom, diverse norme e la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”, afferma l’associazione “Un mondo di mondi” che insieme all’European Roma rights centre (Errc) ed all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha formalizzato il proprio indignato disappunto a questo Istituto comprensivo, al comune di Reggio Calabria ed a tutte le istituzioni preposte, segnalando i contenuti dei documenti di questa scuola e le tre classi a prevalenza rom. E richiedendo i necessari provvedimenti. Tutto questo già da un anno. Da allora, poco o nulla è cambiato. La dirigente del “Radice - Alighieri”, Simona Sapone, contattata da il manifesto, nel ribadire la propria disponibilità ad un confronto sereno con i responsabili dell’associazione “Un mondo di mondi”, sottolinea che “non si possono estrapolare parole o frasi, togliendole da un più ampio contesto che fa parte di documenti articolati e complessi”. E respinge le accuse. “Il territorio su cui insistono i plessi dell’Istituto comprensivo fa parte di un’area “a rischio” dove, purtroppo, è in aumento il numero di persone che vivono in condizioni di disagio socio-economico e in cui, soprattutto, i minori sono i soggetti più fragili e indifesi”. Rammenta, inoltre, che “nessuna segnalazione di discriminazione è mai arrivata all’ufficio scolastico competente da parte dei genitori di tali alunni”. Segnala infine che la sua scuola ha attuato strategie di inclusione, a partire proprio dalla formazione dei docenti mediante il progetto “Rom Sinti Camminanti”, realizzato con gli esperti dell’Istituto degli innocenti di Firenze. Nell’attività di prevenzione della dispersione scolastica, attenendosi al progetto “Ali spiegate contro la dispersione scolastica … un fenomeno da contrastare 2”, è stato realizzato un monitoraggio costante delle assenze. Pur tuttavia sono tanti anni che le associazioni antirazziste evidenziano la complessità del fenomeno discriminatorio e la sua estensione in termini sociali e geografici. “Sono i rom che non mandano i figli a scuola… è la loro cultura, si alzano tardi, sono pigri dalla nascita… per colpa loro, le famiglie italiane non iscrivono i figli in certe scuole”, simili frasi si rincorrono sulle bocche di tanti insegnanti italiani. La consapevolezza che dietro tali affermazioni regni tanta ignoranza ha spinto di recente l’”Associazione 21 luglio” di Roma a distribuire tra i docenti un kit di strumenti per “Promuovere la comprensione di come il pregiudizio in atto nei confronti di Rom e Sinti affondi le sue radici nel trattamento storico riservato loro dalle dittature nazista e fascista, ma anche nei primi anni della Repubblica, attraverso ad esempio l’istituzione delle classi speciali “Lacio Drom” (in lingua romanes significa “Buon viaggio”) serve ad aumentare la conoscenza di quel periodo per superare i pregiudizi odierni”. “Torino è una città vecchia, serve lo ius scholae per integrare i ragazzi stranieri che vivono qui” di Andrea Rossi La Stampa, 11 giugno 2023 Il sindaco: “Tra 15 anni Torino avrà un numero di anziani preoccupante per una città che vuole crescere”. Il sindaco di Torino Stefano Lo Russo, lunedì sera nel santuario della Consolata, uno dei simboli di Torino, durante un incontro con i cittadini ha esternato, numeri alla mano, le sue preoccupazioni: se la città continua a invecchiare, e lo fa con questa rapidità, rischia di sgretolarsi. La situazione è questa: un calo di popolazione costante da anni - in dieci anni da 911. 823 a 858. 404 residenti - e una natalità che continua a calare. Nei primi tre mesi di quest’anno fra Torino e provincia sono nati 3. 058 bambini ma sono morte 6. 797 persone; nel 2022 l’intera provincia ha fatto registrare il record negativo di nascite (13. 500) il 36% in meno rispetto al 2008. La media italiana dice -31%. Sindaco Lo Russo, che cosa intende dire? “Che già oggi il 31% della popolazione, e parlo soltanto dei residenti, ha più di 60 anni, e ben l’8, 5% supera gli 80. Le do un altro dato per rendere ancora meglio l’idea: ci sono oltre 73 mila ultraottantenni a fronte di 119 mila minorenni”. E quindi? “Questo quadro, in continua e rapida evoluzione, sta cambiando in maniera sostanziale e rapida la struttura stessa della nostra città e di conseguenza le esigenze dei cittadini rispetto ai servizi loro erogati”. Un Paese senza speranza, si direbbe... “Io dico un Paese che deve seriamente occuparsi di questo fenomeno ormai evidentissimo, e non solo nelle grandi città. Tra qualche anno con questi trend temo si porrà addirittura il problema della tenuta del sistema pensionistico”. In alcune città, come Torino, è più marcato. Come mai? “Nel nostro caso credo dipenda principalmente da un fattore: assistiamo alla coda della grande crescita demografica vissuta fra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80. I protagonisti di quell’ondata migratoria sono tra gli over 60 di oggi”. Che cosa significa per chi amministra una città? “Bisogna ripensare continuamente l’erogazione e la pianificazione dei servizi”. Ad esempio? “Pensiamo alla scuola: da anni a Torino siamo costretti a un lavoro di razionalizzazione del sistema scuola fatto di accorpamenti di sezioni che segue la riduzione del numero degli studenti. Un invecchiamento di questa portata della popolazione, invece, rende i servizi verso la terza età sempre più complessi e prioritari”. Una città più vecchia è condannata alla decrescita? “No, ma non deve sottovalutare l’impatto preoccupante di questo fenomeno. Per avviare un nuovo ciclo di crescita e garantire la tenuta anche economica del sistema bisogna invertire il trend. E, nel frattempo, adottare una strategia che tenga insieme due elementi: offrire servizi di qualità a una popolazione sempre più anziana e costruire condizioni di dinamismo economico che consentano ai giovani di scegliere la nostra città per studiare e lavorare”. C’è chi sostiene che una città che si rimpicciolisce non sia poi così male: è più a misura d’uomo, l’ambiente se ne giova. È d’accordo? “È dimostrato a livello internazionale che il parametro decisivo per quantificare il dinamismo economico e la qualità della vita di una città non è il solo numero assoluto dei residenti”. E che cosa allora? “Conta molto la loro distribuzione per classi d’età. Inoltre la questione va vista su scala metropolitana: soprattutto negli anni passati a fronte di un calo dei residenti a Torino si è visto un aumento nella prima cintura. È per questo che i dati di distribuzione dell’età della popolazione preoccupano più dei valori assoluti sui residenti”. Però, per una città che invecchia e si rimpicciolisce ce n’è una che cresce: gli universitari sono sempre di più anche se poi molti, presa la laurea, se ne vanno. “I 120 mila studenti iscritti agli atenei torinesi sono una grande scommessa sul futuro così come le migliaia di giovani e meno giovani che pur non essendo residenti vivono qui per lavoro. Noi dobbiamo trattenerli qui. Torino investe per ospitarli, farli studiare, formarli: è un patrimonio che non può essere disperso”. Come si tengono insieme la città che invecchia e quella che deve attrarre i giovani? “Le cose non sono necessariamente conflittuali. Le città devono essere attrattive per i giovani e questo non può e non deve essere in contraddizione con l’attenzione alle fasce deboli e agli anziani. Questa è la nostra sfida: aiutare i più fragili e al tempo stesso creare le condizioni economiche e i servizi perché i ragazzi che qui studiano e si formano scelgano di vivere a Torino. Ma c’è un’altra questione che riguarda i nostri ragazzi già oggi”. A che cosa si riferisce? “In città ci sono 27 mila minorenni stranieri residenti. Ed è chiaro che questo tema pone una questione centrale non solo a Torino ma all’intero Paese: consentire a questi ragazzi di poter acquisire la cittadinanza attraverso l’assolvimento dell’obbligo scolastico”. Chiede lo ius scholae, insomma? “Certamente offrirebbe un percorso di integrazione decisamente più robusto a questi ragazzi e favorirebbe una maggiore integrazione, sia per loro che per le loro famiglie”. La destra al governo è contraria. Discorso chiuso? “Ma questi sono argomenti da affrontare non da un punto di vista ideologico. Serve pragmatismo e soprattutto bisogna avere chiara qual è la traiettoria cui l’Italia andrà incontro qualora non si inverta il trend generale che riguarda tutto il Paese. Ripeto se non si inverte il trend il sistema della spesa per servizi pubblici, a partire da quelli pensionistici, temo non terrà a lungo”. Al governo c’è chi la definisce sostituzione etnica. “Mi pare un concetto irricevibile. Oggi la politica deve guardare in faccia la realtà. I numeri parlano da sé. Questi ragazzi hanno un senso di appartenenza al nostro Paese; dare loro la cittadinanza attraverso il percorso scolastico li farebbe sentire a pieno parte della nostra comunità anziché percepirsene esclusi come in molti casi accade oggi”. Sicuro che questi argomenti possano fare breccia? “Questi ragazzi studiano Dante, Garibaldi, la storia e la letteratura italiana esattamente come tutti i loro compagni. E molti di loro si sentono già italiani. È ora che il Parlamento affronti la questione per quella che è senza usare il tema dell’immigrazione non regolare per eludere un tema su cui, a mio modo di vedere, si possono trovare larghe convergenze. Peraltro il Paese reale è molto più avanti delle leggi dello Stato, soprattutto tra i giovani e nelle scuole. Tra l’altro lo Ius scholae sarebbe anche uno straordinario strumento per fronteggiare l’abbandono scolastico”. Perché non lo Ius soli, cioè dare la cittadinanza a chi nasce in Italia prima ancora che vada a scuola? “Mi concentrerei sullo Ius scholae. Che credo sia un punto di sintesi possibile”. Sulla pelle dei migranti di Francesca Mannocchi La Stampa, 11 giugno 2023 La missione in Tunisia di Meloni con Von der Leyen e Rutte per fermare le partenze verso l’Italia. Il Paese africano ha disperato bisogno di soldi ma qui i profughi continuano a morire e subire violenze. Per la seconda volta in una settimana la premier Giorgia Meloni oggi torna a Tunisi, stavolta nella missione multilaterale sarà accompagnata dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il primo ministro olandese Mark Rutte. Al centro della visita Ue la gestione del flusso migratorio e il prestito del Fondo Monetario Internazionale sospeso da mesi e di cui la Tunisia ha disperato bisogno per risollevare un’economia ormai in ginocchio. La visita è ben più importante della precedente perché dimostra al Presidente Kais Saied che non è solo l’Italia a preoccuparsi della crisi tunisina ma l’Europa che è reduce da un accordo sul nuovo patto per le migrazioni. La missione però parte zoppa, e la soluzione dei problemi finanziari di Tunisi resa ancora più difficile dalle notizie funeste arrivate due giorni fa, il declassamento della Tunisia da parte dell’agenzia di rating Fitch da CCC+ a CCC- per i ritardi nelle trattative sul prestito dal Fondo Monetario Internazionale. La Tunisia - scrive Fitch - non ha capacità di mobilitare finanziamenti sufficienti per soddisfare il suo fabbisogno finanziario per il rifiuto nell’attuazione delle azioni preliminari allo sblocco dei fondi. Perciò senza un piano di riforme la spesa per i salari, per gli interessi sul debito e i sussidi finirà per pesare per il 90% delle entrate pubbliche e se si aggiungono gli effetti della crisi climatica che investe la regione, l’economia rischia un rapido crollo. Secondo Fitch “il fabbisogno di finanziamento del governo sarà elevato a circa il 16% del Pil nel 2023 (circa 7,7 miliardi di dollari) e al 14% del Pil nel 2024 (7,4 miliardi di dollari), ben al di sopra della media del 9% del 2015-2019 del 9%”. Troppi i debiti, troppi i disavanzi di bilancio, troppi i finanziamenti interni su cui il governo ha fatto affidamento in mancanza di quelli esterni, troppe le resistenze del presidente Kais Saied che resta indisponibile ad accettare quelli che definisce i “diktat del Fmi”. Sull’incontro di oggi pesa anche l’esito dell’accordo sui migranti raggiungo dal Consiglio degli affari interni Ue, tanto celebrato dal governo e che non solo resta un sostanziale nulla di fatto per l’Italia ma contiene dei profili di grave preoccupazione da parte dei giuristi sui rimpatri nei Paesi di transito considerati sicuri. Dall’accordo, i cui dettagli non sono ancora noti, l’Italia porta a casa poco: continua a non essere prevista l’obbligatorietà dei ricollocamenti, non viene di fatto messo in discussione il trattato di Dublino ma si apre alla facilitazione dei rimpatri attraverso l’esame abbreviato delle richieste di protezione. Si vorrebbero velocizzare cioè le procedure di valutazione delle richieste d’asilo alla frontiera e i casi considerati non ammissibili verrebbero rimandati in Paesi terzi considerati sicuri. I Paesi di arrivo saranno obbligati a mostrare un “collegamento” con il Paese in cui viene trasferito qualsiasi migrante, ma i criteri potrebbero essere definiti dallo Stato membro. Potrebbe considerarsi “collegamento” la presenza di familiari in quel Paese, o potrebbe bastare riuscire a dimostrare che un richiedente asilo ha solo soggiornato in quel Paese, il che consentirebbe il trasferimento anche nei Paesi di transito come la Tunisia. Ma, e qui si complica l’entusiasmo per l’accordo, nessun Paese di transito ha, finora, accettato di rimpatriare persone che non fossero connazionali. Significherebbe dunque per l’Italia non poter rimpatriare i subsahariani in arrivo dalle coste tunisine. Potrebbe essere questo uno dei nodi da sciogliere nel secondo incontro con Saied, per Meloni: fare pressione sul presidente tunisino per facilitare i rimpatri in cambio del sostegno economico necessario al Paese. Intanto in Tunisia si continua a morire, la guardia costiera ha recuperato altri 9 corpi da un naufragio del 31 maggio al largo della città di Monastir e continuano le proteste dei subsahariani di fronte alle sedi delle agenzie delle Nazioni Unite. Sono ancora 150 le persone, tra cui 15 bambini e donne incinte che vivono nelle tende senza cibo e con scarse risorse d’acqua, chiedendo da settimane il sostegno di Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) e Unhcr affermano di essere bloccati senza accesso all’istruzione, ai farmaci e alla protezione umanitaria, e continuano senza successo a chiedere una urgente evacuazione dalla Tunisia. L’8 giugno Alarm Phone ha riferito dell’intensificazione della violenza al confine a Sfax, affermando di aver ricevuto segnalazioni secondo cui forze tunisine mascherate stessero picchiando violentemente i migranti dopo averli intercettati in mare. Le partenze dalla Libia - Kais Saied non è il solo interlocutore del governo in Nordafrica. Il 7 giugno la premier ha accolto a Roma una delegazione libica che comprendeva il governo di unità nazionale libico di Abdul Hamid Dbeibeh, incontro che fa seguito alla precedente missione di gennaio a Tripoli per discutere di accordi su migrazione, commercio ed energia. Sugli accordi firmati, oggi come in passato, i dettagli sono ancora sconosciuti. Meloni “ha espresso apprezzamento per gli sforzi compiuti dalle autorità libiche nelle operazioni di salvataggio in mare e nel contenimento delle partenze irregolari” e ha esortato il governo libico a una contropartita per “intensificare gli sforzi nella lotta alla tratta di esseri umani”. Che la Libia non sia un porto sicuro non è più un dubbio per nessuno. Lo provano fotografie, immagini, testimonianze, i numeri che continuano a essere la prova dell’inefficacia delle politiche di esternalizzazione dei confini e dell’impianto securitario degli ultimi anni. A distanza di sei anni gli effetti del Memorandum italo-libico sul sostegno alla Guardia Costiera e la gestione dei centri di detenzione hanno dimostrato di non funzionare, la tratta del Mediterraneo centrale resta la più pericolosa al mondo e il paradigma costruito dall’Italia con l’allora governo di Fayez al Sarraj - soldi in cambio del controllo delle coste, fondi e mezzi in cambio della diminuzione degli sbarchi - ha reso il nostro Paese ancora più vulnerabile al ricatto delle milizie. I gruppi armati che controllano il traffico di uomini sanno che incentivare le partenze può portare denaro e mezzi. I leader di questi gruppi armati sanno che porre al centro degli incontri bilaterali la capacità di arginare questi flussi li renderà di nuovo interlocutori credibili, perché necessari. Sta accadendo di nuovo con il generale Khalifa Haftar, ricevuto un mese fa a Roma dalla premier Meloni. Al centro gli investimenti, il processo elettorale sempre in stallo in Libia, e naturalmente il tema migratorio. Nei primi cinque mesi del 2023 la rotta libica è seconda a quella tunisina. Sono 22.500 gli arrivi al primo di giugno, più del doppio dello scorso anno. Di questi 22 mila la metà provengono proprio dalla Cirenaica. Haftar sa che in Europa il sostegno si ottiene sulla pelle dei migranti e non è un caso quindi ciò che sta accadendo nelle ultime settimane nell’Est della Libia... La settimana scorsa le organizzazioni umanitarie che monitorano la situazione in Libia hanno denunciato la deportazione di migliaia di cittadini egiziani. Secondo i report nei primi giorni di giugno le deportazioni di massa sono avvenute dopo una serie di arresti nelle città di Tobruk, Emsaed e Musaid, le forze di Haftar hanno fatto irruzione negli hangar usati dai trafficanti di uomini per smistare e trasportare i migranti in attesa di partire, stipati a centinaia in capannoni e magazzini invivibili. Ancora impossibile stabilire con certezza il numero di morti e feriti. Secondo Migrants Rescue Watch, i migranti sarebbero stati caricati sui camion per essere trasferiti a Bengasi e poi forzatamente in Egitto e in base alle ricostruzioni delle forze di sicurezza del Cairo una volta arrivati al confine i migranti - tra i quattro e i seimila - avrebbero marciato per chilometri ai limiti della sopravvivenza. Tra le persone detenute e rimpatriate anche bambini e adolescenti. Le Nazioni Unite denunciano da anni che i migranti in Libia siano “regolarmente a rischio di espulsione arbitraria o collettiva” e hanno registrato un aumento delle deportazioni, con almeno 7.500 migranti espulsi dalle frontiere terrestri tra il 2019 e il 2022. I migranti sono espulsi senza giusto processo, senza contestare la legittimità della deportazione nemmeno quando avviene verso Paesi in cui rischiano persecuzioni, torture e maltrattamenti, pratica che costituisce un respingimento ed è quindi illegale secondo il diritto internazionale. Già nel 2021 le Nazioni Unite avevano denunciato le condizioni disumane che i cittadini egiziani erano costretti a sopportare per attraversare il confine, e le interviste condotte da Amnesty International avevano fatto emergere un quadro allarmante di spartizione del potere in Cirenaica che evidenziava i legami tra i trafficanti e i gruppi di milizie guidati da Haftar. Eppure, una volta ancora, nonostante le evidenze, le prove, le testimonianze e i documenti, le politiche europee continuano a restare cieche di fronte agli abusi, e gli interlocutori degli accordi si fanno forti dell’assenza di sanzioni. Il governo Meloni, come nel caso tunisino, ha urgenza di arginare un flusso che non riesce a gestire, Haftar ha bisogno di misurare il peso delle sue alleanze in Europa e sa bene che la leva più efficace da usare verso Stati spaventati dai flussi migratori, sia la gestione delle partenze. Per questo, sulla pelle delle persone migranti, si è dimostrato zelante con arresti e deportazioni. Due giorni fa in conferenza stampa a Catania il ministro dell’Interno Piantedosi ha detto che “al momento i contatti con Haftar sono finalizzati soprattutto al sostegno ad alcuni progetti di sviluppo economico che il generale Haftar ha chiesto”. L’Italia chiederà al generale Khalifa Haftar una “più proficua collaborazione nel fermare le partenze ma è prematuro - ha aggiunto - parlare di un accordo”. Non è in agenda ora, forse, ma rischia di diventarlo velocemente. È il prezzo da pagare quando si legittima un interlocutore controverso che mette sul tavolo richieste politiche in cambio del controllo delle coste. Migranti. Il ministro Piantesosi e i “Progetti concreti sulla dimensione esterna” di Angela Nocioni L’Unità, 11 giugno 2023 “Progetti concreti sulla dimensione esterna”. Così parla Matteo Piantedosi. Vuol dire: lager in franchising. Ma da lui non lo saprete mai. Perché non lo dice. E perché nessuno gli chiede cosa diavolo voglia dire quando parla. Ecco come il ministro degli interni ha spiegato all’Adnkronos l’accordo europeo sull’immigrazione: l’Italia ha ottenuto che i fondi confluiscano in un “fondo per realizzare quello che l’Italia ha voluto: progetti concreti sulla dimensione esterna, accordi con Paesi terzi, infrastrutture”. Il ministro dice “progetti concreti sulla dimensione esterna” e si riferisce alle gabbie che l’Europa intende far costruire fuori dai suoi confini per rinchiuderci i migranti, respinti dai singoli stati europei, indipendentemente dal loro luogo di origine. Occhio, non è ineffabile linguaggio post democristiano il suo. Non è la lingua impalpabile e ambigua di Arnaldo Forlani: impalpabile, ma politica. Non è nemmeno il grammelot della Commedia dell’arte del ‘500, assemblaggio di suoni, onomatopee e parole prive di significato usato per aggirare la censura. Quello di Piantedosi è un muro di parole affastellate per coprire con una cascata di vocaboli incerti decisioni che riguardano tutti. E’ un tappo che mette sulla verità. Magari si trattasse di buffo lessico da questurino. No. Il suo linguaggio è una menzogna che copre atti concreti d’esercizio del potere. Non è una macchietta, è un ministro dell’interno che non spiega quel che fa nemmeno quando è chiamato in Parlamento a farlo. Camera dei deputati, Commissione affari costituzionali, primo marzo scorso. Il ministro Piantedosi esordisce così perché vuol spiegare il suo ritardo: “Questo è stato determinato rispetto a una programmazione che era stata adottata ben prima, purtroppo l’evoluzione di vicende, l’agenda, mi ha imposto di chiedere la cortesia di aspettare”. E va bene, non importa, abbiamo comunque capito. Poi però deve rispondere ai deputati in Commissione che gli chiedono dei mancati soccorsi al caicco “Summer love” pieno di decine di bambini, non s’è mai saputo quanti - 94 morti, una ventina di dispersi - schiantatosi il 26 febbraio a poche decine di metri dalla riva di Cutro, in Calabria, senza che nessuno sia andato a soccorrerlo (nessuno ad attenderlo nemmeno a terra) nonostante fosse stato avvistato due giorni prima. Perché e da chi è stata decisa una operazione di contrasto all’immigrazione e non di soccorso? Così risponde Piantedosi: “Alcune cose ci tengo a dirle. La qualificazione dell’evento, ho dato la disponibilità, il governo deciderà nella sua collegialità, io ho premesso e volutamente ho cominciato a parlare nel rendere questa informativa che doveva essere sulle linee programmatiche ho messo doverosamente questo punto di informazione su questo tragico episodio premettendo che questo non lo ritengo esaustivo di una informativa che so essere stata richiesta e che sono disponibile a dare se questa dovesse essere calendarizzata”. È la trascrizione esatta delle sue dichiarazioni. Andatevelo a sentire (dal minuto 1.26.30 in poi) sul sito della Camera dei deputati. “È opportuno quando si parla di attribuzione di responsabilità per evento molto grave, perché è stato evento molto grave, non solo nella sua valenza umana ma anche in quello che possono essere attribuzioni e individuazioni di eventuali responsabilità lasciar fare la magistratura il che non vuol dire governo, rappresentanti del governo, ho cominciato a farlo oggi potere e dovere dare una prima rappresentazione dei fatti che gli risultano da atti perciò facevo e me ne scuso riferimento alle fonti perché è importante dire di cose colte così senza che ci sia una fonte io sono abituato così”. Sempre in quell’audizione cerca di dar conto delle parole da lui usate il 27 febbraio subito dopo la strage. Queste: “Beh, comunque credo che la disperazione non può mai giustificare viaggi che mettono in pericolo i propri figli”. “Io non partirei se fossi disperato perché sono stato educato alla responsabilità di non chiedermi cosa devo chiedere io al luogo in cui vivo, ma cosa posso fare io per il Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso”. “Il senso delle mie parole era fermatevi, verremo noi a prendervi”. “Il mio motto, ripeto, è fermatevi che arriviamo noi”. Parole terribili, che avevano scatenato un putiferio anche perché espresse in una lingua comprensibile. Proprio perché erano state comprese s’è trovato a doverle giustificare. E l’ha fatto: “Le espressioni che ne diamo. Ora io adesso poi sulle espressioni premesso che quando l’ho detta non c’era l’analisi specifica delle persone arrivate che peraltro si sapeva insomma per una serie di riferimenti le provenienze era un riferimento generalizzato a tutte le provenienze tutto quello che riguarda il fenomeno migratorio che basta vedere le nazionalità che riguardano in generale non in questo caso l’arrivo sul territorio nazionale e vede impegnate molte provenienze da paesi che per carità poi il sogno di una vita migliore altrove è un diritto della persona che va stabilito sempre quando da diritto naturale si deve trasformare in legittima aspirazione giuridica ma riguarda anche prevalentemente paesi che non hanno condizioni di guerra almeno non come sono codificate in maniera tale da giustificare poi la protezione internazionale. Quindi quando io ho fatto quell’espressione quando ho voluto ricordare peraltro era riferito a quella cosa era una questione di carattere generale non riguardo alle persone che erano, ahimé, impegnate in questo evento migratorio che si è rivelato tragico”. V’è venuto il mal di testa? Al Senato il giorno prima era stato pure peggio. Migranti. “Interessi sottobanco, perché accettare condizioni così gravose sennò?” di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2023 Eurodeputato per l’Alleanza progressista dei Socialisti e Democratici (S&D), relatore ombra del gruppo in Parlamento europeo della Proposta Migrazione e Asilo, a Pietro Bartolo ancora trema la voce quando parla delle vittime del mare. Nato a Lampedusa e responsabile del presidio sanitario dell’isola dal 1992 al 2019, di quei morti tiene i conti da più di 30 anni: “Sono almeno 50 mila quelli inghiottiti dal mio mare, una cosa incompatibile con l’Europa dei padri fondatori, nata sul rispetto del diritto alla vita”. Netto il suo giudizio sull’accordo per il Patto migranti e asilo, raggiunto dai governi dei 27 a Lussemburgo al Consiglio Affari interni dell’8 giugno: “Un brutto Patto: per salvare la fortezza Europa si rischia di far naufragare l’Europa come luogo di valori democratici e diritti umani”. Bartolo, la solidarietà dei partner europei rimane volontaria, eppure il ministro Piantedosi ha rivendicato che “non saremo il centro di raccolta migranti dell’Unione”... Io dico che con questo accordo la solidarietà tra Paesi Ue è naufragata. E si pensa di risolvere tutto con rimpatri, accordi con Paesi terzi e addirittura immaginando degli hub fuori dal territorio europeo dove deportare queste persone. La verità è questa. Addirittura il poco che c’è di solidale già viene respinto da paesi come Ungheria e Polonia, contrari a redistribuire una pur piccola parte di persone. La proposta del Consiglio sul Patto immigrazione e asilo già incoraggiava l’utilizzo del concetto di Paese terzo sicuro, ma l’Italia dice di aver ottenuto dell’altro. Che idea si è fatto? Non credo abbia ottenuto altro. Il voto dell’Italia è un voto favorevole alla possibilità di trovare Paesi detti sicuri, ma che sicuri non sono, dove portare persone considerate senza diritti. Voglio proprio vedere come farà l’Italia, nelle sole 12 settimane concesse dalle nuove procedure accelerate, a valutare le domande e a rimpatriare o espellerle queste persone. Soluzioni che già prevedo fallimentari e che si allontanano dal buon compromesso raggiunto dal Parlamento europeo, che in caso di boom di arrivi prevedeva addirittura un 80% di ricollocamenti obbligatori tra gli Stati membri, anche valutando l’idoneità del Paese Ue alla competenza all’esame delle domande in base a legami familiari del richiedente. E per il restante 20% erano previsti sostegni in termini di capacity building: contributi finanziari, personale o attrezzature. Tutto questo non è stato preso in considerazione in favore di una Fortezza Europa che non dà alcuna possibilità alla solidarietà né ai diritti. Ciò detto, è stato trovato un accordo ma l’ultima parola non è ancora scritta e in sede di confronto con Commissione e Consiglio daremo battaglia. Cosa si nasconde dietro al concetto di “connessione” con un Paese terzo sicuro o di transito, a cui il governo tiene tanto? Credo si voglia andare anche oltre l’idea di espellere gli irregolari, quelli che hanno vista respinta la domanda d’asilo, respingendo in via preliminare tutti coloro cui possiamo attribuire un qualche legame con Paesi terzi che il nostro interesse giudica sicuri. Peggio, con il concetto di connessione che hanno in mente si vuol dare un peso anche al semplice transito in un Paese attraversato nel corso di viaggi che possono durare anni. Ma è fuorviante, visto che quelle persone non si sono fermate in quel Paese, intendendo chiedere protezione in uno Stato più sicuro come sono quelli europei. Spiace dire che la sicurezza che vanno cercando oggi in Europa viene loro negata, e i diritti umani violati. Quando il nostro governo pretende di espellere le persone verso Paesi terzi, dove possiamo immaginare che riuscirà a stringere accordi utili all’obiettivo? E’ qualcosa che somiglia alle deportazioni, si vogliono creare zone di scarto: gli africani in Libia, Tunisia, Marocco, a prescindere dal loro luogo di appartenenza, la Bosnia per chi arriva via terra. Stiamo già predisponendo accordi con la Tunisia che non è Paese sicuro come non lo è la Libia e altri. Allo stesso tempo sono convinto che non funzioneranno così come non hanno funzionato in passato, basti l’esempio della Turchia. Ma l’intenzione c’è e visto che bastano intese bilaterali tra Stato Ue e Paese terzo, tra questi accordi potremmo addirittura immaginarne uno col Ruanda, noto alle recenti cronache perché la Gran Bretagna prevede di mandare lì i migranti entrati nei suoi confini. Una strategia verso la quale Meloni ha mostrato interesse proprio nei colloqui col premier britannico. Lo trovo assurdo: si tratta di persone, non di merce di scarto. Deportarli in quei Paesi significa far fallire le loro vite. Nella nota pubblicata dal Consiglio non c’è traccia di quanto l’Italia avrebbe ottenuto sulla cosiddetta “dimensione esterna”... Non solo non c’è traccia di questo, l’accordo è palesemente peggiorato nei confronti dei Paesi di primo ingresso come l’Italia, caricati di ulteriori incombenze legate alle procedure accelerate e ai rimpatri. Non capisco come l’Italia abbia potuto cedere a tutto questo, visto che il problema ce l’abbiamo noi, come la Grecia, Cipro o la Spagna. Quando invece insistendo sul ricollocamento obbligatorio votato dal Parlamento le persone sarebbero state redistribuite e così gli oneri. Evidentemente ci sono accordi sottobanco e quindi tutto si trasforma in un gioco che nasconde altri interessi. Ora si passa al confronto tra Consiglio, Commissione e Parlamento. Sul piano politico quali sono i margini per modificare la proposta? Spero di trovare una larga maggioranza in Parlamento come già ci fu nel voto alla nostra proposta parlamentare, approvata anche da Forza Italia e del Partito popolare europeo (Ppe). Un compromesso che salvò l’80% delle nostre proposte che invece la soluzione del Consiglio come lo stesso accordo dell’8 giugno non ha tenuto in alcuna considerazione, ripartendo da posizioni addirittura opposte. Purtroppo va detto che negli equilibri dell’Unione i governi e dunque il Consiglio hanno una grande forza: quando ci fu la riforma del regolamento di Dublino nella precedente legislatura, il Consiglio riuscì ad affossarla nonostante una maggioranza parlamentare ancora più ampia di quella ottenuta sul Patto immigrazione e asilo. Non ultimo, vista la generale tendenza a virare a destra, oggi i voti del Ppe potrebbero essere un problema. Vedremo, ma faremo tutto il possibile. Potesse cambiare una sola cosa dell’impianto approvato nel vertice degli Affari Interni, cosa cambierebbe e perché? La mia priorità è innanzitutto la cancellazione del principio del Paese di primo ingresso. E di conseguenza l’adozione di una redistribuzione obbligatoria facendo leva sui principi di solidarità e sulla vicinanza dei legami parentali delle persone da ricollocare. Non dimentichiamoci che le imprese europee hanno molto bisogno di manodopera e se non lo vogliamo farlo per ragioni di umanità, facciamolo almeno per egoismo. I governi se ne renderanno presto conto, ma il paradigma va cambiato. La mia Europa è l’Europa che apre le porte come ha fatto in pochi mesi con 5 milioni di profughi ucraini, senza considerarli numeri ma esseri umani. E se proprio si deve parlare di numeri allora non mi stanco di ripeterlo: l’invasione non c’è, nell’Unione dove abitano 500 milioni di cittadini parliamo di poche migliaia di persone da redistribuire. Avessimo gestito i flussi e l’accoglienza con intelligenza e lungimiranza non ci sarebbero stati tutti questi morti, né la necessità di rotte così pericolose. E l’Italia oggi non dovrebbe cercare accordi con Paesi dove lo Stato di diritto non è certo quello della tradizione europea. L’implosione tunisina, una catastrofe di Nathalie Tocci La Stampa, 11 giugno 2023 Capita raramente che un presidente del Consiglio si rechi due volte in una settimana nello stesso Paese. È successo a Giorgia Meloni, in viaggio a Tunisi sia in visita bilaterale martedì scorso, sia oggi, insieme alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e al premier olandese Mark Rutte. Due missioni in sei giorni danno il senso plastico dell’importanza della Tunisia per il governo italiano. Ci sono ottimi motivi per lavorare pancia a terra sulla Tunisia. Il Paese è sull’orlo di un’implosione economica e politica. Un tempo, la Tunisia era l’apripista delle primavere arabe. Qui, nel dicembre 2010, il venditore ambulante Mohamed Bouazizi si diede fuoco in nome della dignità e dei diritti rubati, innescando rivoluzioni che scalzarono dittatori al potere da decenni in tutta la regione. Sempre la Tunisia è rimasta, per anni, l’unica luce democratica in un Medio Oriente ripiombato nel buio dell’autoritarismo. Ora, però, il Paese nordafricano si è adeguato ai suoi vicini, spesso superandoli in quanto a repressione. Il presidente Kaïs Saïed, eletto nel 2019, dopo aver rimosso il governo e sospeso il Parlamento nel 2021, ha sciolto definitivamente la legislatura e il Consiglio della magistratura, assegnandosi poteri illimitati in una Costituzione votata da un misero 30% degli elettori, e imprigionando massicciamente oppositori politici, giornalisti ed esponenti della società civile. Ma a differenza di altri dittatori, Saïed sta anche portando il Paese al collasso economico. Concentrato sull’accentramento dei poteri nelle proprie mani, il leader tunisino ha ignorato le promesse economiche che lo avevano reso popolare nel 2019. Saïed aveva vinto le elezioni presentandosi, messianicamente, come il salvatore dell’economia tunisina, afflitta da una crisi strutturale sin dai tempi della rivoluzione, acuita poi dalla pandemia dieci anni dopo. Oggi la situazione è ancora più drammatica, e non a caso la popolarità del presidente è precipitata. A questo si aggiunge il sovranismo populista del dittatore tunisino, che rifiuta ostinatamente le condizioni del prestito di 1,9 miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale, unica ancora di salvezza per scongiurare la bancarotta. Un’implosione della Tunisia, che destabilizzerebbe ulteriormente i suoi vicini, sarebbe catastrofica. È dunque giusta, anzi sacrosanta, l’attenzione del governo italiano per la crisi tunisina, ed è ottimo che Meloni abbia contribuito ad aprire gli occhi all’Europa, come risulta evidente dalla missione delle due presidenti a Tunisi, insieme a Rutte, “in quota” Nord Europa. Peccato, però, che l’approccio italiano vada ribaltato. Il governo è preoccupato, anzi terrorizzato, da una cosa quando pensa alla Tunisia: la migrazione. A differenza dell’esecutivo giallo-verde di qualche anno fa per cui lo spauracchio dell’immigrazione faceva in qualche modo gioco, Meloni sa che un aumento dei flussi irregolari non è nei suoi interessi. Non a caso la virata di 180 gradi sulla politica migratoria europea, che il governo ha accettato controvoglia qualche giorno fa, sbloccando uno stallo che durava da sette anni. Arrivata al governo, Giorgia Meloni ha preso atto che la geografia non si cambia e che l’Italia ha bisogno dell’Europa se vuole gestire la migrazione, nonostante le leve limitate di cui dispone Roma. Quindi, meglio un Patto europeo sulla migrazione subottimale per l’Italia, che niente. Ma mentre la preoccupazione italiana per la migrazione ha portato Roma ad abbassare (anche troppo) la cresta in Europa, il governo sta traducendo il panico da immigrazione in un approccio servile nei confronti di Saïed. L’allarme Tunisia è scattato, a Roma, quando gli sbarchi sono aumentati nei primi mesi dell’anno. Tra gennaio e aprile sono stati oltre 40 mila gli arrivi dalla Tunisia, quadruplicando i numeri dei due anni passati nello stesso periodo. Ed ecco che Roma si è resa portavoce di Tunisi con Washington e Bruxelles, sostenendo la causa di Saïed per il rilascio pressoché incondizionato degli aiuti dell’Fmi. Il problema non è il rilascio dei fondi, di cui la Tunisia ha un disperato bisogno, ma il fatto che Roma si presti a chiederli, a nome di Tunisi, in cambio di nulla. A questo qualcuno replicherà che non è vero. Basterebbe guardare i flussi migratori di maggio, magicamente in forte calo, come sottolineato da Meloni stessa. Ma non è proprio questa la pistola fumante che dovrebbe destare sospetti? È evidente che Saïed ha compreso la vulnerabilità del governo italiano sul tema migratorio, manipolando i flussi per assicurarsi i servizi di Roma per riacquistare voce internazionale. C’è chi dirà che bisogna agire nel nome del pragmatismo: Saïed sarà pure un brutto ceffo, ma con lui tocca fare i conti. È vero che il presidente tunisino è l’unico cavallo in corsa (d’altronde, in una dittatura non ce ne sono altri), ma questo non gli impedisce di essere un cavallo perdente. È nel nome del pragmatismo, ma quello sano e non impanicato, che Roma dovrebbe spendersi per un ingaggio dell’Ue non puntando su Saïed per racimolare le briciole (reversibili) sulla migrazione, bensì sulle riforme economiche e democratiche. Quelle senza le quali la Tunisia, Saïed o meno, sprofonderà nel baratro. “In Turchia la democrazia non è una priorità” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 giugno 2023 Intervista alla scrittrice Tugba Dogan: “In questo carnevale della post-verità, la classe povera non vede nell’opposizione laica un’alternativa. Non sorprendono le politiche di Erdogan contro le donne, ma la resistenza sarà potente: il movimento femminista porta avanti una dissidenza coraggiosa e anticonformista”. Ad Ankara il presidente rieletto Recep Tayyip Erdogan nomina ministri e imbastisce le politiche del futuro, probabilmente fotocopie del passato. Intanto nella capitale Firat Can Arslan, giornalista della curda Mezopotamya Agency viene arrestato in casa sua con l’accusa di “propaganda terroristica”. Non è il solo: nel 2023 sono già una decina i giornalisti detenuti, 195 quelli a processo. Nello stesso periodo, da gennaio a maggio, la piattaforma We Will Stop Femicide ha registrato 126 femminicidi, a cui si aggiungono 101 casi sospetti. Solo a maggio uomini hanno ucciso 40 donne, in un paese uscito dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere perché considerata strumento contro la famiglia naturale. Di cosa possa accadere dopo il voto ai diritti delle donne, delle persone Lgbtq+ e a ogni voce critica, abbiamo parlato con Tugba Dogan, scrittrice turca, tradotta in italiano da Carbonio editore (Il bistrò delle delizie, pp. 168, euro 15). Erdogan ha vinto ma il paese è spaccato in due. Cos’è la Turchia di oggi? In Turchia viviamo da anni in una sorta di carnevale della post-verità. Il gigantesco controllo dell’Akp sui media e l’enorme numero di troll social pagati produce e diffonde costantemente contenuti falsi e disinformazione. Oppositori politici, giornalisti, accademici e artisti sono in prigione senza giustificazione legale e ogni voce dissidente nella società subisce brutali campagne di criminalizzazione. Non è una partita imparziale per nessun tipo di opposizione. Penso che l’opposizione però - un insieme di tanti partiti politici che rappresenta il 48% - dovrebbe prendersi del tempo e pensare al proprio ruolo nel potere finora invincibile dell’Akp (il partito del presidente Erdogan, ndr), specialmente tra le classi basse. Perché un’opposizione laica e di sinistra da milioni di persone della classe povera non è considerata un’alternativa? Il 48% della società condivide questo sentimento: “Hai vinto tu ma io avevo ragione”. Una sorta di pessimismo temporaneo e di risentimento. E forse di fatalismo, un fatalismo laico. Ma finché non renderemo conscio l’inconscio, a dettare le nostre vite sarà quello che chiamiamo destino come Carl Gustav Jung ci avvertiva. Questo 48% che condivide l’idea che qualcosa debba cambiare in senso democratico dovrebbe prendersi il rischio e la responsabilità dell’auto-critica. È anche possibile che per la maggioranza della società la democrazia non sia una priorità. Significa che è necessario sviluppare una nozione di democrazia e una sua consapevolezza. Ci vuole tempo ed è cruciale affrontare gli errori del passato e i crimini commessi dallo Stato nella sua storia. Questa opposizione riuscirà a restare unita o si dividerà? Un’altra domanda potrebbe essere: dovrebbe proseguire su questa linea o dividersi per costruire posizioni politiche reali per il futuro? Il 48% è un numero importante ma non possiamo aspettarci che la gente faccia il lavoro dei politici. In questa campagna elettorale molti elettori sono dovuti restare in silenzio su molti errori per il bene del blocco di opposizione, ma sono stati fatti troppi compromessi. Ai curdi veniva chiesto quali fossero le loro “vere intenzioni” e la loro “agenda nascosta”, ai socialisti di sedersi accanto a estremisti di destra. E nonostante ciò la voce unica non ha funzionato. Chi dice “democrazia” si sente rispondere “sì, ma non oggi”. Il problema della democrazia in Turchia è più grande di qualsiasi elezione e va discusso. Se vuoi che le cose cambino, devi convincere le masse. Non lo fai dicendo quanto sei simile al tuo rivale, ma trovando un linguaggio che dica che sei diverso e che legittimi quella differenza. Uno degli elementi più preoccupanti è l’idea nazionalista che esista una sola identità, la turca sunnita. Scompaiono fedi, etnie, posizioni politiche e generi diversi. Cosa si aspetta in termini di censura delle voci dissidenti? Prima delle elezioni, nell’arco di vent’anni la libertà di pensiero ed espressione era già la più presa di mira. È un’assurdità che centinaia di oppositori e intellettuali - come Selahattin Demirtas e Osman Kavala - siano in prigione. Visti i risultati elettorali, è ovvio che ci resteranno. Ed è anche probabile che limitazione e oppressione delle libertà crescano. Il governo probabilmente prenderà misure ancora più dure contro il dissenso. Non è paranoia, è realismo. Cosa si può fare? Penso sia una domanda a cui rispondere. Ad esempio, la detenzione di Demirtas non gli ha impedito di vivere lo spazio politico e di produrre reazioni. Gli ideali non si imprigionano. Con un parlamento ancora più a destra e la minaccia ai diritti civili, sociali e di genere, cosa accadrà ai diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+ e alla battaglia per laicità ed eguaglianza? Il movimento femminista è uno dei più forti perché sa immaginare una società più equa per tutti e sa resistere alla narrativa neoliberista islamista del governo... Persone Lgbtqi+ e donne sono stati i principali target della campagna elettorale di Erdogan. Nei suoi discorsi si è riferito alla comunità Lgbtqi+ come a un’organizzazione terroristica che minaccia “la struttura autentica della famiglia turca”. I riferimenti all’islam sono stati usati per criminalizzarla. Un paio di mesi prima del voto, conservatori e fondamentalisti islamici hanno organizzato una grande marcia contro le persone Lgbtqi+. Era stata autorizzata, cosa che non avviene con il Pride. E poi c’è il movimento femminista, una delle voci politiche più potenti, come lo è quella del movimento curdo. Le donne hanno una lunga storia di attivismo. Non sorprende che le politiche di Erdogan rendano la loro vita più difficile, ma la resistenza sarà egualmente potente. Perché contro ogni ostacolo le donne hanno portato avanti una dissidenza coraggiosa senza cadere nel conformismo. Nel suo libro, “Il bistrò delle delizie”, Salih decide di lasciare la Turchia. State perdendo la vostra miglior gioventù? Sfortunatamente sì. Ne Il bistrò delle delizie, il protagonista Salih è un giornalista che decide di andarsene per sempre, dopo essere stato licenziato. Pianifica di trasferirsi in Brasile. Pensa sia la decisione giusta visto il clima politico in Turchia, ma scavando nella sua vita passata si vede che questa è solo una parte della motivazione. Oggi in Turchia moltissimi giovani non vedono alcun futuro. Essere costretti a restare sconnessi dal resto del mondo, un mondo in cui i valori comuni e universali di umanità possano ancora essere nutriti, li obbliga a considerare l’emigrazione e a crearsi una vita altrove. Sul “rinascimento” saudita scorrono fiumi di sangue di Sergio D’Elia* L’Unità, 11 giugno 2023 Il 2022 passerà alla storia della dinastia saudita come l’anno della spada. Nella terra delle due sacre moschee, la giustizia ha squilibrato la stessa bilancia del delitto e del castigo, superato anche l’arcaico, tremendo principio dell’occhio per occhio che pur fissa un limite, comunque impone una misura nella aberrante pratica della pena di morte. La dea bendata dei Saud ha sferrato colpi alla cieca con il suo braccio armato. La legge è stata letteralmente quella del taglione: ha tagliato vite in nome di Dio, ha decapitato esseri umani a un ritmo umanamente insostenibile anche per il più allenato e inumano tagliatore di teste. In tutto il corso dell’anno, almeno 196 persone sono state passate per le armi. In un solo giorno, il 12 di marzo, ne sono state decollate 81. È impossibile solo immaginare come sia potuto accadere, come abbia potuto un boia “normale” compiere l’opera “straordinaria” di “lavorare” senza respiro e senza pietà dall’alba al tramonto. Il rinascimento saudita del principe ereditario, Mohammad bin Salman, è svanito in un giorno nel mare di sangue versato sulla sabbia dorata davanti alla moschea più vicina al luogo del delitto dove i condannati sono stati messi in ginocchio con le mani legate dietro la schiena e la testa posata sul ceppo, il boia ha sguainato la spada e inferto il taglio mortale, la folla ha urlato “Allahu Akbar!” (Dio è grande). Nel 2022, il macabro rito della decapitazione è stato rappresentato almeno 196 volte. In alcuni casi, sarebbero stati uccisi “uomini, donne e bambini innocenti”; in altri, non era stata versata una goccia di sangue; in altri ancora i decapitati erano accusati di avere “credenze devianti”, una formula omnicomprensiva che accomuna fedi religiose opposte, dal fanatismo islamico violento dei sunniti appartenenti ad Al-Qaeda alla versione sciita dell’Islam propria degli Houti. Nel 2023, il regime saudita non ha cambiato verso. Nei primi mesi di quest’anno il braccio violento della legge ha “giustiziato” altre 47 persone. Le ultime tre sono state decapitate domenica scorsa nella regione orientale popolata da sciiti, la minoranza religiosa del regno vittima di abusi, persecuzioni e discriminazioni di ogni genere. L’annuncio è stato dato dal ministero dell’Interno che ha comunicato i nomi dei condannati: Hussein bin Ali bin Muhammad al-Mohishi, Fazel bin Zaki bin Hossein Ansif e Zakaria bin Hassan bin Muhammad al-Mohishi. Secondo il ministero dell’Interno i tre erano colpevoli di “adesione a una cellula terroristica, possesso di armi e aggressione armata a centri e uomini della sicurezza”. Due di loro sono stati accusati anche di stupro e adulterio, uno schema in Arabia Saudita quello di mescolare reati comuni e reati politici, “una deliberata confusione per far accettare alle persone l’esecuzione e ridurre al minimo la simpatia” nei confronti dei rivoltosi della provincia orientale del regno, ha detto Ali Adubisi, il direttore dell’Organizzazione europea saudita per i diritti umani (Esohr). Il mese scorso, altri tre giovani della regione di Qatif, popolata da sciiti, erano stati giustiziati per simili accuse di “sicurezza”. La provincia orientale dell’Arabia Saudita, ricca di petrolio e prevalentemente sciita, è stata teatro di manifestazioni pacifiche dal febbraio 2011. I manifestanti hanno chiesto riforme, libertà di espressione, il rilascio dei prigionieri politici e la fine della discriminazione economica e religiosa contro la regione. Il regime ha risposto aumentando le misure di sicurezza e il numero delle decapitazioni. Studiosi musulmani sciti sono stati giustiziati e attivisti per i diritti delle donne sono stati messi dietro le sbarre e torturati mentre la libertà di espressione, associazione e credo continua a essere negata. Era apparso al mondo come una stella cometa che annuncia e guida verso una rinascita, una nuova era di vita, luce, libertà nella terra dei Saud. Da quando Mohammed bin Salman è diventato il leader de facto dell’Arabia Saudita nel 2017, invece, il regno è precipitato nelle tenebre. Le teste illuminate del paese - di attivisti, blogger, intellettuali e altri percepiti come oppositori politici - sono state tagliate. L’illuminismo arabo di bin Salman si è spento subito, l’età dei lumi non è durata neanche un lustro. La visione religiosa di un Islam progressista, tollerante e misericordioso è stata profanata da un potere oscurantista votato solo a conservare sé stesso, un ordine odioso costituito sul terrore e una legge spietata come quella del taglione. *Segretario di Nessuno Tocchi Caino