Nel decreto di via Arenula un processo piegato al Pnrr di Errico Novi Il Dubbio, 10 giugno 2023 Limite di 2 pagine alle note d’udienza: cosa stabilisce il provvedimento sul quale il guardasigilli ha chiesto il parere del Cnf e del Csm. Prima di tutto, si tratta di uno “schema di decreto”. Vale a dire, il provvedimento sulla “corretta redazione” degli atti giudiziari non è ancora formalmente emanato. Ha la firma in calce del guardasigilli Carlo Nordio ma è stato trasmesso per i dovuti pareri (non vincolanti) al Consiglio nazionale forense e al Csm. Si tratta di un provvedimento che attua, in termini di normazione secondaria, la riforma Cartabia del processo civile. E, come previsto dal decreto legislativo con cui, nello scorso ottobre, si è data definitiva attuazione al disegno della ex ministra, mira con stringati e stentorei vincoli a definire in quale forma d’ora in poi le parti, dunque gli avvocati, dovranno produrre qualunque atto del processo (con solo un vago accennai alle “regole” per i giudici). Una previsione che sembra o pretende di fissare un ordine ineledubile nella compilazione di qualunque documento. In base al “titolo” del decreto, più propriamente del “regolamento”, vi si disciplinano i “criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo”. Come si vede, e prima ancora di segnalare i dettagli in gran parte anticipati, sul Dubbio di ieri, dal presidente del Cnf Francesco Greco nell’intervista pubblicata su queste pagine, l’impostazione risente molto dell’idea di dover rimodulare lo stile stesso del “dire giustizia”, da parte dell’avvocato, alle esigenze della telematica. Adattamento dietro il quale sembra realizzarsi un esasperato irrigidimento nella forma che si pretende di imporre al difensore, compressa e quasi anchilosata da quei “limiti” quantitativi accennati, come detto, nello stesso “nome” del provvedimento. Nel chiedere al Cnf e al Csm i loro pareri, Nordio ricorda che il provvedimento andrà emanato entro il 30 giugno, e così introduce un vincolo non solo per i singoli avvocati ma per la loro stessa istituzione. Non è un caso che - almeno su questo punto della scadenza ravvicinatissima - il parere formalmente (e anche sostanzialmente) positivo già espresso dal Csm due giorni fa reclami un termine di entrata in vigore meno ravvicinato, in modo da non creare troppe difficoltà ai “professionisti”, che sono sempre gli avvocati. Ora, il punto è che il Csm è sì l’organo di autogoverno della magistratura, ma è pur sempre composto anche da laici, cioè da professori e da avvocati appunto. Ad aver scritto materialmente il provvedimento è invece un Ufficio legislativo del ministero della Giustizia composto da magistrati in via quasi esclusiva. E al di là della suggestione robotica, non può sfuggire l’obiettivo di assicurare al giudice della causa civile una lettura la più agevole e veloce possibile - anche a costo di costringere l’avvocato a fare economia di argomenti. Sempre nell’ottica di dover realizzare l’efficienza prevista dagli accordi tra il governo italiano e l’Ue per la concessione dei fondi destinati al Pnrr, concessione subordinata, com’è noto, alla riduzione dei tempi processuali che, nel caso del civile, dovrà raggiungere la quota del 40 per cento entro il 2026. Basta probabilmente la cornice, prima di illustrare il quadro, per comprendere come siamo in una logica essenzialmente compulsiva. In cui si inserisce appunto l’interesse della magistratura a una riduzione della quantità di pagine che ciascun giudice deve leggere. Da qui si spiega il sostegno, l’approvazione che proviene dall’ordine giudiziario rispetto al provvedimento. In una contrapposizione di interessi fra magistratura e avvocatura che mai, negli ultimi anni, era apparsa così stridente. Riguardo a limiti, l’articolo 3 del regolamento li fissa in 50mila caratteri, “corrispondenti approssimativamente a 25 pagine” del formato acquisito come standard, per l’atto di citazione, la comparsa di risposta, gli atti di intervento e chiamata di terzi. Si scende a 25mila caratteri/13 pagine per memorie, repliche e per tutti gli altri atti del giudizio. E ancora, ed è uno degli aspetti più clamorosi, segnalato in modo molto critico da Greco nell’intervista di ieri, si fissa in 4.000 battute, corrispondenti a “due pagine”, la lunghezza massima delle note scritte in sostituzione dell’udienza. Come ha rilevato il presidente del Cnf, considerato che anche in questi atti, come sancisce il decreto, vanno riepilogate tutte le “coordinate formali” dell’atto, lo spazio per i contenuti di merito si riduce a qualcosa di impalpabile. È vero che all’articolo 5 sono previste deroghe nei casi in cui “la controversia presenta questioni di particolare complessità”. Ma è chiaro come la diversa ottica con cui giudici e avvocati guardano a queste norme rischia di mettere i secondi in cattiva luce rispetto ai primi ogni volta in cui riterranno di reclamare l’eccezione. È chiaro che agli Stati generali dell’avvocatura convocati per mercoledì prossimo a Roma, il decreto ministeriale sarà uno dei principali temi di discussione. Anche per le diverse letture che se ne possono dare. Ieri, tra l’altro, l’Ordine degli avvocati di Milano ha approvato una delibera in cui sostiene che non si possano “imporre eccessivi o irragionevoli contenimenti redazionali”, e che vada mantenuta la “previsione di ampie e specifiche deroghe su indicazione del difensore, senza alcuna sanzione di inammissibilità e/o invalidità degli atti”. E ieri, alla cerimonia tenuta a Teramo per il conferimento delle “Toghe d’oro”, è intervenuto anche Franco Coppi, che ha definito la riforma Cartabia “perentoria nei confronti degli avvocati: in sostanza, osserva Coppi, “dice che in Corte d’appello e in Corte di Cassazione dell’avvocato se ne può anche fare a meno. Come avvocato sento insieme a voi”, ha detto alla platea di colleghi e studenti di Giurisprudenza, “la drammaticità di questo momento. Dobbiamo difendere la toga e la parola che è lo strumento principe dell’avvocato”. Alla cerimonia organizzata dal Coa di Teramo, nel corso della quale è stato insignito dell’onorificenza anche l’ex consigliere Cnf Lucio Del Paggio, è intervenuto lo stesso presidente dell’istituzione forense Francesco Greco, che ha così ribadito l’intransigenza nel giudizio sulle nuove regole: “Il limite numerico delle pagine degli atti giudiziari è inaccettabile: noi abbiamo il dovere di tutelare i nostri assistiti con tutte le nostre competenze, e quello che serve ai fini della difesa non si può togliere dagli atti giudiziari”. Lo Stato guardi negli occhi gli agenti che hanno irriso mio fratello Stefano di Ilaria Cucchi* La Stampa, 10 giugno 2023 Voglio che il presidente del Senato Ignazio La Russa incontri gli agenti di polizia che hanno torturato quei poveri indifesi nel nome di mio fratello. Voglio che ci vada in delegazione con il ministro Salvini e la premier Meloni per guardare loro negli occhi mentre auspica che vengano dichiarati innocenti. Mentre li rassicura che ciò accadrà perché verrà abolito il reato di tortura. L’unico che garantirebbe la punibilità di quei comportamenti criminali. Hanno pronunciato il nome di Stefano Cucchi irridendolo mentre si accanivano umiliando i corpi inermi e senza sensi. Stefano Cucchi è stato ammazzato “perché era un tossico di merda” e la sua vita non valeva nulla. Meno di niente. Come quelle vittime. È diventato, suo malgrado, un simbolo di riscatto per lo Stato capace di processare se stesso facendo giustizia e restituendo dignità a quel corpo senza vita con i segni evidenti delle violenze subite. Non c’è più alcun limite al cinismo di una propaganda che dimostra di poter contare sul fatto che i terribili comportamenti di Verona vengano in un qualche modo accettati o addirittura condivisi dai loro elettori. Che addirittura possa trovare consenso la loro difesa e giustificazione. Poco conta il dolore di una famiglia distrutta perché Stefano era solo un ultimo senza diritti. Un tossico di merda. Me lo ripeto continuamente perché non riesco proprio ad accettare tutto questo. Conta solo distruggere quel simbolo di riscatto dello Stato perché costituisca un monito per tutti coloro che si ribellano alla negazione dei propri diritti fondamentali. Questo è il messaggio che si vuole lanciare oggi. Lo Stato non è dalla parte dei diritti dei più deboli ma di quella di coloro che li calpestano usando come bandiera l’uccisione di Stefano Cucchi. Esprime la frustrazione e il rancore intimo per le nostre faticosissime vittorie nelle aule giudiziarie. Inconcepibili perché mai Davide può vincere contro Golia per rivendicare i diritti del più debole. Mi sarei aspettata la solidarietà di quelle cariche istituzionali ma era soltanto un utopia. D’altronde, mi dicevo, lo era pure l’aspettativa di ottenere verità e giustizia per la morte di Stefano. I fatti di Verona assomigliano in modo inquietante a quelli verificatesi nella Caserma dei carabinieri di Piacenza qualche anno fa. Nessuno si interroga su come tutto ciò sia potuto accadere. Non vedo alcuna seria analisi critica sulla genesi di questi fatti. Mi sento sola. Comprendo che sono tempi difficilissimi per la tutela dei diritti umani di coloro che amo definire, come mio fratello, ultimi. Penso a Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, che non è stata lasciata in pace nemmeno dopo le sentenze definitive che avevano condannato coloro che avevano ucciso suo figlio. Penso a quegli applausi. Il messaggio che colgo per noi nel negazionismo di questi atti criminali e delle sentenze che li hanno certificati è che non ci sarà mai pace per noi perché noi non possiamo vincere. Non può vincere il diritto sul potere. Sono sola, sì. Ma tanta gente mi ha votato per quel che rappresento e per quel che ho fatto non solo per me. Non mi interessa il facile consenso, ma solo la gratitudine delle persone che rivedono in me la possibilità di far valere i propri diritti, fino a a quando ne avrò possibilità. Non mi arrendo. Nel nome di mio fratello e di quel che rimane della mia famiglia. *Senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Sardegna. L’impossibile estate delle carceri: un solo direttore per oltre mille detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 giugno 2023 Tre direttori per 10 istituti penitenziari. C’è un grosso problema riguardante la gestione delle carceri sarde, che si prospetta ancora più complessa durante l’estate. A lanciare l’allarme è Maria Grazia Caligaris, esponente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. Attualmente, ci sono 2.079 persone detenute, di cui 47 donne, distribuite in 10 carceri dell’isola. Eppure, come sottolinea Caligaris, soltanto tre direttori, Marco Porcu, Patrizia Incollu e Elisa Milanesi, si occupano della gestione di questi istituti. La situazione è particolarmente preoccupante a causa della carenza di personale dirigenziale. Ad aggravare la situazione, la direttrice Giulia Russo, che ha ottenuto l’incarico a Secondigliano, si trova a dover gestire anche le carceri di Alghero e Tempio. Questa carenza di direttori mette a rischio la serenità lavorativa degli stessi operatori penitenziari e il rispetto dei diritti delle persone private della libertà. Inoltre, il direttore che attualmente si occupa della Casa Circondariale di Cagliari- Uta, con 573 detenuti, ricopre anche lo stesso incarico al carcere di Sassari Bancali, con 442 detenuti. Complessivamente, si tratta di 1.015 persone ristrette che devono essere gestite da un solo direttore. Inoltre, il direttore dovrà affrontare la responsabilità di supervisionare oltre 600 operatori della Polizia penitenziaria, 56 amministrativi e 17 funzionari, tra Cagliari e Sassari. Questa mole di lavoro richiede notevoli capacità gestionali, specialmente in un momento così difficile per il sistema penitenziario isolano. Anche gli altri dirigenti delle carceri sarde hanno un carico di lavoro molto pesante. Patrizia Incollu, direttrice al Badu ‘ e Carros di Nuoro, deve occuparsi anche degli istituiti penitenziari di Mamone e Lanusei. Nonostante il numero inferiore di detenuti rispetto ai colleghi, Patrizia Incollu deve far fronte alla distanza tra Nuoro e Mamone, una Colonia penale quasi isolata con difficoltà di collegamenti, e a Lanusei, dove la viabilità presenta problematiche simili. Non solo. Secondo l’esponente di “Socialismo Diritti Riforme”, la direttrice Elisa Milanesi si trova con il compito di gestire 413 detenuti divisi tra Oristano Massama, le Colonie penali di Is Arenas e Isili. Anche per Giulia Russo, che si divide tra Secondigliano, Alghero e Tempio, la situazione non è migliore. Queste difficoltà nella gestione penitenziaria dell’isola mettono in evidenza la dedizione personale degli operatori penitenziari a tutti i livelli, ma ignorano le questioni cruciali che necessitano di soluzioni a lungo termine. L’anno scorso, durante le vacanze estive o per problemi familiari, si è verificata una situazione simile, con una sola persona che ha dovuto gestire il destino dei detenuti, del personale e dei loro familiari. Questo ha messo in evidenza una volta di più l’enorme peso e la responsabilità che ricade sulle spalle di un unico dirigente. Maria Grazia Caligaris sottolinea l’importanza del sistema penitenziario che non può affidarsi esclusivamente al senso di abnegazione personale degli operatori penitenziari. La gestione delle carceri richiede una pianificazione adeguata, una distribuzione equa del personale e risorse adeguate per garantire un ambiente sicuro e rispettoso dei diritti umani. La carenza di personale dirigenziale e le difficoltà nella gestione delle carceri in Sardegna non possono essere ignorate o sottovalutate. È fondamentale che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria competente prenda in considerazione queste problematiche e adotti misure concrete per affrontarle. Una soluzione a breve termine potrebbe essere l’assegnazione di personale aggiuntivo per affrontare l’emergenza durante l’estate e garantire una gestione adeguata delle carceri. Tuttavia, a lungo termine, è necessario investire nella formazione e nell’assunzione di personale dirigenziale qualificato e dedicato. Inoltre, bisogna considerare l’importanza di programmi di riabilitazione e reinserimento sociale per i detenuti. Un adeguato progetto di recupero sociale può contribuire a ridurre la recidiva e promuovere la reintegrazione dei detenuti nella società. Ma come si può realizzare quando anche questa estate sarà tragica dal punto di vista gestionale? Vero che è stato indotto un concorso per assumere nuovi direttori. Ma Caligaris sottolinea che “solo a settembre, quando si concluderà il periodo di formazione di coloro che hanno superato il concorso indetto dal ministero per l’incarico dirigenziale, si saprà chi sarà assegnato alla Sardegna”. Nel frattempo un direttore dovrà occuparsi di oltre un migliaio di reclusi, tra cui 47 donne Venezia. Suicidio in carcere, aperte due inchieste sulla morte di Bassem di Nicola Munaro Il Gazzettino, 10 giugno 2023 Da una parte la procura, che ieri pomeriggio ha conferito l’incarico per l’autopsia. Dall’altra il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che nei prossimi giorni manderà degli ispettori. Due inchieste indipendenti - al momento - che però convergono verso un unico obiettivo: fare luce sugli ultimi minuti di vita di Bassem Degachi, il trentottenne morto suicida in carcere martedì mattina dopo aver ricevuto la notifica di una nuova ordinanza di custodia cautelare. Sul caso la moglie Silvia Padoan ha presentato una denuncia in questura raccontando, in tre ore di deposizione, che prima di impiccarsi, Bassem le aveva telefonato annunciandole la sua decisione. E lei per tre volte aveva chiamato il carcere chiedendo di andare a verificare ma ricevendo rassicurazioni che tutto era tranquillo. Salvo poi essere richiamata dall’ufficio matricola ed essere informata della morte del marito. L’indagine interna verrà aperta dal provveditore del carcere di Santa Maria Maggiore con dei funzionari mandati nel penitenziario per capire cosa sia successo. Verranno sentiti tutti i protagonisti della vicenda: dagli agenti di custodia che hanno ricevuto le chiamate della moglie di Degachi, a chi - nel braccio in cui si trova la cella che ospitava il trentottenne - doveva controllare la sicurezza. L’indagine del Dap è una prassi ogni volta che in carcere accade qualcosa di poco chiaro, ma in questo caso, con un fatto che continua a fare clamore, l’attenzione è alta. Parallela corre il fascicolo d’indagine in mano alla sostituto procuratore di Venezia, Lucia D’Alessandro, che ha aperto un incartamento contro ignoti ma ipotizzando il reato di omicidio colposo. Mercoledì verrà effettuata l’autopsia sul corpo del trentottenne, un atto formale per lasciare una traccia ed escludere che ci possa essere stato un intervento da parte di terzi, anche se le chiamate del detenuto alla moglie e le sue parole dette martedì mattina alla bussola del carcere e poi ripetute giovedì in questura non lasciano dubbi sul suicidio. Autopsia a parte, un crocevia nelle indagini potrebbero portarlo gli accertamenti chiesti dall’avvocato Marco Borrella (legale della moglie di Degachi) che ha proposto l’acquisizione dei tabulati del cellulare di Silvia Padoan e del centralino del penitenziario per incrociare i dati. Il legale ha anche chiesto alla procura di sentire alcuni detenuti che avrebbero detto di averlo visto non più in sé dopo la notifica della nuova ordinanza. E un primo sopralluogo è già stato fatto. Bassem Degachi era in carcere a Venezia da cinque anni a scontare una pena per fatti di droga, da un anno aveva ottenuto la semilibertà per andare a lavorare nel cantiere di una remiera. Soprattutto cominciava a immaginare un futuro diverso. Così quando martedì, in cella, gli è stato consegnato quel plico di carte che disponeva la sua custodia cautelare in carcere per altri fatti di droga del 2018, gli è crollato il mondo addosso. Ha chiamato la moglie per dirle addio. Un’unica telefonata che ha gettato tutti i familiari nell’angoscia. Lei chiama più volte: l’ultima rassicurazione dal carcere le arriva alle 14.41. Alle 14.42 il medico certifica la morte dell’uomo. Modena. Rivolta dei detenuti al Sant’Anna: “Violenze frutto del sistema malato” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 10 giugno 2023 Il Comitato Verità e Giustizia ribadisce le proprie richieste dopo i tragici eventi al Sant’Anna di tre anni fa. “Il sovraffollamento e le condizioni degradanti dei detenuti sono alla base degli scontri avvenuti”. Hanno descritto ciò che era avvenuto all’interno del “casermone”, una struttura esterna al carcere, ma all’interno dell’area del penitenziario. Hanno parlato di “calci, pugni e violenze durate interminabili minuti, quando già erano stati resi inoffensivi, una volta portati fuori dalle mura carcerarie”. È stata la testimonianza di due detenuti marocchini, probabilmente, a portare all’iscrizione nel registro degli indagati di altri nove agenti della polizia penitenziaria di Modena. Parliamo del fascicolo aperto dalla procura per i reati di tortura e lesioni durante la rivolta in carcere dello scorso 8 marzo 2020. Una rivolta a seguito della quale morirono nove detenuti (il fascicolo relativo ai decessi è stato archiviato, ritenendo le morti legate a overdose di metadone) e che oggi vede settanta carcerati indagati per i danneggiamenti. I racconti di alcuni detenuti portarono la procura ad aprire il fascicolo relativo a presunti e gravissimi pestaggi ai danni dei reclusi. La chiusura delle indagini è alle porte e, nel corso della proroga richiesta, sono stati iscritti altri nove agenti oltre ai cinque indagati inizialmente. A chiedere risposte celeri e certe su quanto accaduto quel tragico otto marzo è da sempre il Comitato Verità e Giustizia di Modena che, ieri sera, a Castelfranco ha ripercorso le tappe dell’inchiesta. Un’inchiesta che sicuramente ha ‘tenuto conto’ delle dichiarazioni rese all’epoca da un agente della polizia penitenziaria, che ha confermato i pestaggi nel ‘casermone’. Violenze avvenute prima che i detenuti fossero trasferiti in altri penitenziari. “Da marzo 2020 seguiamo con preoccupazione le notizie relative alle presunte violenze e torture avvenute nel carcere Sant’Anna di Modena, da parte delle forze dell’ordine intervenute per sedare la rivolta - affermano i rappresentanti del comitato -. Come forza politica abbiamo portato questa vicenda nelle sedi istituzionali per tenere alta l’attenzione ed esprimere la nostra solidarietà alle vittime, alle loro famiglie, e a chi ha avuto il coraggio di denunciare gli abusi. Ricordiamo come le rivolte in seguito alle restrizioni Covid non siano state che l’ennesimo momento di sofferenza, di un sistema carcerario che da decenni non assolve più alle sue funzioni di recupero e reinserimento sociale, ma si occupa principalmente di contenere chi vive ai margini della nostra società. Il 2022 è stato l’anno con il numero più alto di suicidi: 85 persone si sono tolte la vita. Sono necessarie politiche strutturali per dare una risposta al sovraffollamento, alle condizioni degradanti e alla mancanza di pianificazione progettuale sul futuro delle detenute e dei detenuti”. Secondo il comitato “sarà fondamentale investire in una formazione di qualità e in un adeguato supporto psicologico per il personale in divisa, per superare una cultura tossica e omertosa che per decenni ha coperto abusi e comportamenti non degni di chi rappresenta lo stato”. Ieri sera l’avvocato Luca Sebastiani, presente a Castelfranco e difensore di due delle presunte vittime dei pestaggi ha sottolineato che “ci aspettiamo giustizia. A distanza di tutti questi mesi ci aspettiamo si arrivi il prima possibile ad una conclusione delle indagini anche per rispetto delle persone coinvolte”. “Confidiamo nell’operato della magistratura che con serenità saprà fare chiarezza sulla vicenda, dal punto di vista giudiziario - afferma invece Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto Sappe - Ciò che più in generale risulta essere avvilente, da parte di alcune associazioni e loro sostenitori è che non parlano mai dei milioni di euro di danni arrecati allo Stato da delinquenti di professione che neanche in carcere hanno rispettato e rispettano le regole. Quei milioni di euro, 15, 20 milioni, lì dovranno pagare i cittadini. Napoli. Teatro San Carlo, nuove opportunità per i detenuti del carcere di Poggioreale di Pasquale De Luca napolitoday.it, 10 giugno 2023 Al via in questi giorni la seconda edizione del corso formativo quale tecnico di palcoscenico a favore dei detenuti della Casa Circondariale Giuseppe Salvia. Il Teatro San Carlo di Napoli a favore dell’inclusione sociale. Malgrado il fermento di quest’ultimo periodo scoppiato in una spaccatura tra lavoratori e dirigenza, è riuscita a partire anche quest’anno la nuova edizione del programma formativo per i detenuti della Casa Circondariale Giuseppe Salvia di Napoli. Il progetto, nato grazie ad un protocollo d’intesa siglato tra la Fondazione Napoletana e la Casa Circondariale di Poggioreale firmato il 3 gennaio dello scorso anno avrà una durata di tre anni. Grazie ad esso, ogni anno, un gruppo di tredici detenuti selezionati tra quelli in possesso dei requisiti necessari, saranno assegnati in forze al Teatro di San Carlo per svolgere attività formazione tramite affiancamento nei reparti tecnici (attrezzisti ed elettricisti) ed amministrativi. I tre cicli formativi avranno ognuno la durata di sei mesi, durante i quali i detenuti, accompagnati dai mezzi della polizia penitenziaria, svolgeranno presso la Fondazione attività formative diurne durante la fascia oraria 9.00 - 14.00. I soggetti potranno svolgere le attività richieste esclusivamente all’interno della Fondazione in semi-autonomia senza particolari limitazioni. L’obiettivo è quello di dare ai partecipanti l’opportunità, una volta finita la detenzione, di potersi inserire più facilmente nel mondo del lavoro sfruttando le competenze maturate durante la formazione. I criteri di selezione dei partecipanti sono molto stringenti; nel rispetto dell’art. 21 dell’ordinamento penitenziario sono stati ammessi a presentare la richiesta di messa a disposizione volontaria per attività esterne, solo quei detenuti di fine pena, ovvero quelli tenuti a scontare meno di cinque anni di reclusione che hanno manifestato durante la detenzione una condotta eccellente. L’idea si sta mostrando assolutamente positiva; già alla prima edizione del 2022, del gruppo di discenti ben 4 hanno siglato con la Fondazione lirica un contratto di lavoro a tempo determinato per ricoprire incarichi sia tecnici che amministrativi; si spera che anche quest’edizione possa produrre risultati altrettanto positivi. Ferrara. Dal carcere al palcoscenico di Samuele Govoni La Nuova Ferrara, 10 giugno 2023 Lunedì all’Abbado c’è “Agnusdei”, così i detenuti diventano protagonisti. Czertok: “Quanto lavoro per il teatro in prigione, ho dato la vita per questo progetto”. Lunedì alle 21 sul palco del Teatro Comunale Abbado di Ferrara (corso Martiri della Libertà, 5) andrà in scena “Agnusdei”, spettacolo scritto e diretto da Marco Luciano con la collaborazione alla regia di Horacio Czertok; in scena i detenuti/attori del carcere di Ferrara. Per la prima volta la pièce verrà proposta all’esterno dell’istituto penitenziario e non in un luogo qualunque, bensì sul palcoscenico simbolo della città. Non è la prima volta che i detenuti calcano le tavole dell’Abbado e, anche se ormai è una felice consuetudine, quello che accade è comunque sempre un piccolo miracolo. La mission Il teatro è entrato nel carcere di Ferrara nel 2005 e in questi 18 anni è cresciuto, si è evoluto, si sono instaurati legami, sono stati fatti passi avanti e le conquiste ottenute hanno dettato la linea anche in altre case circondariali dell’Emilia-Romagna. “Il nostro obiettivo - spiega Czertok, attore, regista e anima del percorso - è sempre stato quello portare il teatro all’interno del carcere. Volevamo fare gruppo, creare dei legami, trasmettere conoscenze e abilità, non semplicemente fare il corso una volta a settimana”. Passo dopo passo quella che sembrava un’utopia è diventata realtà. “Oggi - afferma felice - trentacinque detenuti sono iscritti al laboratorio di teatro, un numero elevato. Se si considerano i numeri di Ferrara siamo attorno al 10%”. Czertok e i suoi collaboratori sono riusciti a mettere in scena spettacoli, a portare le persone all’interno del carcere per vederli e a portare i detenuti fuori per proporli anche all’esterno. “Abbiamo intrapreso anche un percorso con gli studenti dell’Ariosto, un’occasione per loro per toccare una realtà lontanissima da quella che è la vita di tutti i giorni”. Il percorso non si è fermato nemmeno durante la pandemia, quando i detenuti hanno vissuto all’ennesima potenza l’isolamento che anche il mondo fuori ha sofferto. “Abbiamo comunicato con le lettere, poi c’è stata la webserie e ora questo. All’Abbado non si vedranno tutti i detenuti coinvolti nel laboratorio, alcuni non possono uscire, ma sarà comunque un momento importante”. Come detto la regia è di Luciano, stretto collaboratore di Czertok e “successore”. “Non mi trovo bene con quella parola, lui porterà avanti il suo percorso che non deve essere necessariamente uguale al mio ma sono felice che il teatro in carcere possa proseguire con lui. Io - dice il regista - in questi mesi gli sono stato accanto, e sarà ancora così, però è giunto il momento di andare oltre. Ho dedicato la mia vita a questo percorso, è tempo di cambiare”. Sotto i riflettori “Agnusdei” è liberamente ispirato alle lettere dal carcere di Antonio Gramsci. Lo spettacolo non intende narrare in maniera biografica la vita del politico e filosofo italiano, quanto piuttosto indagare, attraverso quadri grotteschi e sarcastici, azioni poetiche e musica dal vivo, alcuni archetipi morali e sociali, alcuni cliché, che la società continua ad alimentare quando si parla di carcere e detenzione. Il libro L’esperienza di Czertok nel carcere di Ferrara è stata da lui racchiusa in “Libertà vo’ cercando. Il lavoro del Teatro Nucleo nel Carcere di Ferrara” (ed. Seb27). Il volume racconta a più voci la storia di un percorso riuscito, che fino a oggi perdura con l’ottimismo della pratica, superando crisi, conflitti e persino una pandemia. L’opera sarà disponibile nel foyer. “Qui - conclude - al di là dei miei scritti, ci sono le parole e le riflessioni dei detenuti; un modo per non lasciare svanire esperienze che hanno cambiato regole e vite, in primis la mia”. Posti in esaurimento, ingresso 10 euro. Per info: 0532.202675. Scuola, prof e psicologi preoccupati: “C’è tanto da fare per evitare nuovi casi come Abbiategrasso” di Cristina Benenati La Stampa, 10 giugno 2023 “È stato un anno difficile, i ragazzi sono senza bussola, sempre più aggressivi e insofferenti. Gli studenti sono fragili e tendono a non aprirsi con lo psicologo scolastico. È un momento delicatissimo, bisogna ripristinare il dialogo a casa e tra le famiglie e noi insegnanti”. Tempo di feste di fine anno, di arrivederci e foto ricordo, ma è anche tempo di bilanci di un anno di scuola particolarmente difficile, nel quale è emerso con evidenza lo stato d’ansia dei ragazzi, sempre più aggressivi, intolleranti e irascibili. Atteggiamenti che preoccupano i professori, alle prese con adolescenti e ragazzi fragili e spaesati. L’anno era iniziato male, con il caso della docente di Rovigo colpita in aula da una pistola ad aria compressa e finito con il drammatico episodio dell’insegnante accoltellata da uno studente di 16 anni ad Abbiategrasso. Una violenza di cui si sono macchiati anche alcuni genitori, come accaduto nel Napoletano, dove un insegnate è stato picchiato per aver rimproverato la classe. Molti gli insegnanti spaventati, tra loro c’è chi cerca di analizzare questo fenomeno, per tentare di capire cosa fare per aiutare i ragazzi. Elvira Fisichella, insegnante di Diritto a Latina, ha affrontato questo delicato tema anche sul giornale online “La Voce della Scuola”, spiegando innanzitutto cosa è accaduto negli ultimi anni. “Ciò che è venuto a mancare è un rapporto di fiducia tra le famiglie e la scuola. Se nelle case dei ragazzi non c’è dialogo e si tende a svilire il ruolo degli insegnanti, è chiaro che a scuola avremo studenti e studentesse sempre più insofferenti e intolleranti al rimprovero. Ecco perché ad un minimo redarguimento può capitare che i ragazzi abbiano scatti d’ira: mancano dialogo e ascolto in famiglia e questo rende più difficile il nostro compito, soprattutto se i genitori non sono dalla nostra parte. Genitori e scuola devono tornare a fare fronte comune”. La pandemia ha di certo inficiato la serenità dei ragazzi, ma il problema è più profondo, secondo la docente. “La questione pandemia è un alibi, bisogna andare avanti, per me è servita solo ad abbassare l’asticella delle pretese degli alunni da se stessi, mentre per le famiglie ruota sempre tutto intorno al profitto. Le famiglie hanno a che fare con figli fragilissimi e pretendono sempre di più dagli insegnanti. Non credo sia utile essere troppo buoni o accondiscendenti con i ragazzi, bisogna piuttosto abituarli gradualmente al sapore della sconfitta dialogando molto, e anche al valore della cultura per se stessi, indipendentemente da famiglie più o meno disfunzionali, in triste aumento”. Su questo delicato tema della violenza a scuola, della violenza dei giovani in generale, si è espressa anche Cinzia Mammoliti, criminologa e ricercatrice, che ha approfondito in alcuni libri la questione del narcisismo e della manipolazione relazionale. “Il rapporto tra scuola e famiglia sta prendendo negli ultimi decenni una deriva preoccupante a causa dell’incongruenza educativa. La scuola in passato costituiva un validissimo supporto, adesso sembra un nemico. Questo accade in una società che sta portando avanti una cultura del non rispetto, del narcisismo e della superficialità. L’aggressività fa parte della natura umana, ma se tutto funziona si contiene e si circoscrive, si tengono gli argini che ora però stanno crollando. Gli insegnanti oggi si trovano di fronte a un compito molto difficile: rilevare subito indicatori di disagio in classe cercare di reprimere pesantemente episodi di bullismo o prevaricazione. Dispersione scolastica e scarso rendimento sono sicuramente altri indicatori di cui tenere conto. L’ascolto, l’inclusione, il coinvolgimento dei ragazzi e il rispristino del dialogo tra scuola e famiglia sono il passo decisivo, sono gli strumenti chiave per modificare questo stato di cose”. Roberta Granata, insegnante elementare a Milano: “C’è un processo circolare che parte dalla società e poi si riversa su famiglie e bambini. Nella nostra società si punta ad avere il massimo da ogni situazione ma non ci rendiamo conto che questo si infrange dove inizia la libertà dell’altro. Bisogna lavorare ancora tanto sul concetto di rispetto degli altri, anche e soprattutto a scuola: abbiamo tutti pari diritto di portare avanti i nostri bisogni pur rispettando quelli degli altri. Questo è uno dei messaggi che cerchiamo di mandare ai bambini. Con loro lavoriamo sulla sensibilizzazione, sull’accettazione di realtà diverse. Questo è importante così come è fondamentale il nostro ruolo. Noi siamo il loro modello. Se siamo noi i primi violenti nel parlare, tenderanno a riprodurre questa violenza. Sono preoccupata del linguaggio aggressivo tra adolescenti, il campanello d’allarme c’è. Dovremmo educarli a riflettere anche sulla diversità di opinioni, ad esempio. La violenza che negli ultimi anni è stata protagonista anche nel mondo della scuola è frutto di una società che crede di poter insultare tutti senza conseguenze, passa un messaggio che si possa dire e fare qualsiasi cosa senza prendersi la responsabilità. Tanto non verrò punito, pensano. Il disegno di legge passato contro il femminicidio, in questo senso, è un buon inizio ma non basta. Si deve lavorare sulla società tutta, sul senso di giustizia e presa in carico di responsabilità”. Migranti. Sì al patto Ue tra le tensioni: le nuove regole di Francesca Basso Corriere della Sera, 10 giugno 2023, 10 giugno 2023 Solidarietà obbligatoria e rimpatri nei Paesi “di transito”. Polonia e Ungheria votano contro. Piantedosi: “L’Italia ha avuto una posizione di grande responsabilità”. Sono passate le sei di sera quando arriva la “minaccia” della ministra per le Migrazioni svedese, Maria Malmer Stenergard: “Sono ancora dell’opinione che siamo molto vicini: ho tutta la notte”. Due ore e mezza dopo è arrivata l’intesa con voto a maggioranza qualificata: contrarie Polonia e Ungheria, astenute Malta, Lituania, Slovacchia e Bulgaria. Stoccolma ha la presidenza di turno dell’Ue e dunque era l’arbitro nel negoziato sui due principali regolamenti del nuovo Patto per la migrazione e l’asilo su cui ieri ha trovato l’accordo il Consiglio Affari interni a Lussemburgo. Una “decisione storica”, come l’ha definita la commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johansson. Sia chiaro, si tratta della posizione negoziale del Consiglio che poi dovrà trattare con il Parlamento Ue, ma sono sette anni che gli Stati membri discutono senza trovare un’intesa. I due regolamenti puntano a rafforzare la responsabilità a carico dei Paesi di primo ingresso (resta in vigore Dublino e la responsabilità dei migranti arrivati è dello Stato di primo arrivo per 24 mesi) ma anche a rendere obbligatoria la solidarietà da parte degli altri Paesi con tanto di numeri stabiliti: i ricollocamenti non saranno obbligatori, è previsto però un contributo finanziario. L’ultimo ostacolo da superare era la divergenza tra Germania e Italia sulla definizione di Paese terzo “sicuro” per i rimpatri dei migranti non ammessi all’asilo e i criteri di “connessione” con quel Paese. Il testo sul Patto per le migrazioni e l’asilo introduce infatti la novità della procedura accelerata alla frontiera per esaminare le domande dei migranti che hanno minori possibilità statistiche di ottenere lo status di rifugiato. La premier Giorgia Meloni ha spiegato che “quando noi non riusciamo a reggere i flussi migratori, in qualche modo il problema diventa di tutti” e si è detta “soddisfatta” della missione di domenica in Tunisia con la presidente della Commissione Ue von der Leyen e con il premier olandese Rutte. L’Italia chiedeva la possibilità di rimpatriare i migranti la cui richiesta di asilo è stata respinta anche in quei Paesi “sicuri” attraverso i quali sono transitati. La Germania invece rifiutava questa idea. L’Italia si era dunque espressa contro la proposta sul tavolo insieme a Lituania, Polonia, Ungheria, Slovacchia, Bulgaria, Malta, Austria, Danimarca e Grecia. La via di uscita è stata trovata lasciando agli Stati il margine per la definizione di Paese “sicuro”. La commissaria Johansson ha spiegato che per poter rimpatriare un migrante in un Paese di transito o diverso da quello di origine, lo Stato “deve rispondere a tutti i criteri di “Paese terzo sicuro” e ci deve essere una connessione tra la persona e questo Paese”. “In alternativa — ha aggiunto — serve il consenso della persona” però “saranno gli Stati membri a stabilire se esiste una connessione”. Per sbloccare la situazione la presidenza svedese ha riunito Germania, Italia, Francia e Spagna. Berlino e Parigi erano in sintonia sul problema dei Paesi terzi mentre Roma e Madrid si trovano ad affrontare la stessa problematica. L’Olanda ha mostrato un approccio pragmatico, con un atteggiamento più vicino alle posizioni dell’Italia. Nel corso della giornata le perplessità espresse dal ministro italiano Matteo Piantedosi nel suo intervento del mattino sono state superate. Piantedosi aveva detto che sulla base delle ultime proposte negoziali “ci sono ancora molte cose da fare”. Parole che avevano fatto reagire la ministra dell’Interno tedesca Nancy Faeser: “Non mettiamo nuove richieste al tavolo, troviamo un compromesso” e aveva aggiunto che “se non si arriverà a un risultato metteremo in pericolo lo spazio Schengen”. C’è poi stato un faccia a faccia nel primo pomeriggio tra i due ministri di una ventina di minuti. La “vittoria italiana” sui migranti? Più slogan che risultati concreti di Paolo Delgado Il Dubbio, 10 giugno 2023 La soddisfazione ostentata da Meloni e Piantedosi per gli obiettivi centrati al Consiglio europeo non corrisponde ai fatti. Con tutti i grattacapi che le sta dando il Pnrr può sembrare strano che l’attivismo, anzi l’iperattivismo, della premier si concentri sul fronte immigrazione. Ma strano non è e non è neppure il vizio antico di trasformare in emergenza ciò che emergenza non è a puro uso della propaganda. C’è anche questo, ovvio, ma stavolta la presidente è preoccupata davvero e ne ha tutte le ragioni. La propaganda facile sull’immigrazione è un’arma a doppio taglio. Se dopo aver strillato e minacciato ci si trova alle prese con un esodo biblico la ricaduta molto negativa in termini di credibilità e consensi è inevitabile. Anche se gli sbarchi sono drasticamente aumentati negli ultimi mesi quell’esodo biblico ancora non c’è. Però è dietro l’angolo e Giorgia Meloni lo sa perfettamente. La frenesia diplomatica di questi giorni è giustificata e comprensibile. Sul fronte europeo le cose procedono, come sempre nella Ue, a rilento e con parecchie ambiguità tutt’altro che innocenti. Il governo ha cantato vittoria dopo la conclusione positiva del vertice di ministri degli Interni in Lussemburgo, in extremis e al prezzo di una spaccatura con i Paesi dell’Est. La realtà è meno sorridente, per la premier e per il ministro Piantedosi. Sul ricollocamento le richieste italiane sono state semplicemente respinte. Non ci sarà nessun obbligo di accettare i ricollocamenti anche se i Paesi che rifiutano di accogliere i ricollocandi dovranno pagare una cospicua multa. Sempre che non riescano a impugnare la regola della maggioranza qualificata che ha permesso di aggirare l’ostacolo altrimenti invalicabile della necessaria unanimità. La “vittoria” italiana, frutto della mediazione dell’ultimo minuto dopo un braccio di ferro proseguito per tutta la giornata, sta nella possibilità di rimpatriare gli irregolari non solo nei Paesi d’origine ma anche in quelli di transito. Qui però le ambiguità proliferano. La Germania ha fatto qualche passo indietro rispetto alle richieste iniziali, la dimostrazione stringente di “connessioni effettive” meglio se famigliari in quei Paesi. Ma la definizione di quelle connessioni resta vaga e soprattutto resta in campo il nodo cruciale del rispetto dei diritti umani: un capitoletto che escluderebbe dal novero dei Paesi di transito Libia, Tunisia ed Egitto. Il testo dice che sta ai singoli Stati decidere quali Paesi si considerano sicuri e quali no, ed è questo il punto segnato da Piantedosi, ma i risultati di ieri dovranno essere approvati dal Parlamento europeo e non è affatto facile che Strasburgo accolga il testo così com’è. In definitiva qualche passetto da formica l’Italia lo ha fatto, soprattutto con il riconoscimento per ora solo a parole, che il problema dei confini marittimi riguarda l’Unione e non solo i singoli Paesi, ma per ora sono appunto solo parole. La girandola degli incontri della scorsa settimana, dichiarazioni altisonanti a parte, ha condotto a un solo risultato: sia Macron che Scholz concordano con Giorgia Meloni sulla necessità urgentissima di risolvere la crisi tunisina prima che il default spinga verso le coste europee centinaia di migliaia di persone in fuga dalla fame. Il problema riguarda prima di tutto l’Italia, Paese di prima accoglienza, e la Francia, mèta privilegiata di tunisini francofoni. Ma un’impennata nei movimenti secondari coinvolgerebbe anche la Germania perché il crollo del governo di Tunisi implicherebbe la fine di ogni controllo sui porti e la rotta verrebbe battuta non solo dai tunisini ma anche dai migranti provenienti dagli altri Paesi africani. Tutto ciò incide però limitatamente, anzi per ora sembra non incidere affatto, sul braccio di ferro in corso tra l’Fmi, che non intende salvare la Tunisia senza che Saied accetti riforme draconiane, e lo stesso Saied, che non intende piegarsi. Da questo punto di vista, la missione di Giorgia a Tunisi è stata un fallimento tondo. L’appuntamento fondamentale però è quello di domani, quando la premier italiana sarà di nuovo in Tunisia, stavolta con la presidente della Commissione euroepa von der Leyen. L’obiettivo degli incontri al massimo livello italo- francese e italo- tedesco dei giorni scorsi era probabilmente proprio permettere a von der Leyen di trattare a Tunisia con alle spalle i principali Paesi dell’Unione per una volta concordi. È una carta pesante che verrà certamente giocata domani, ma non è affatto detto che basti a uscire fuori dal vicolo cieco della crisi tunisina. Migranti. Una farsa che diventa tragedia sulla pelle delle persone di Filippo Miraglia Il Manifesto, 10 giugno 2023 L’accordo nel Consiglio europeo. Nel gioco delle parti al quale abbiamo assistito per l’ennesima volta in un summit europeo sull’immigrazione, gli unici due Paesi che hanno votato contro, presentandosi come i cattivi, hanno portato a casa il risultato che volevano: un impegno unitario per cancellare il principio cardine del diritto d’asilo, il principio di non respingimento, e un investimento prioritario sull’esternalizzazione delle frontiere, ossia sull’impedire alle persone di arrivare in Europa, costi quel che costi. Ma Polonia e Ungheria non hanno votato l’accordo così da continuare a dire al loro elettorato che sono gli unici a difendere i sacri confini. Allo stesso modo gli altri governi possono affermare di aver votato un buon accordo proprio perché Ungheria e Polonia hanno votato contro. Una farsa che diventa tragedia sulla pelle delle persone che più di prima saranno obbligate a rivolgersi ai trafficanti, non potendo chiedere ai governi di attraversare le frontiere legalmente e in sicurezza. Una tragedia che rischia di trascinare l’Europa in un baratro, poiché apre una campagna elettorale europea che la destra vuole vincere nel 2024 usando il razzismo come principale strumento di consenso. Gli elementi principali dell’accordo non sono delle vere novità. Tuttavia alcune delle misure previste si presentano come delle vere schifezze, che puntano a stravolgere il diritto d’asilo. Un primo segnale che va verso la negazione del diritto d’asilo è il tentativo di cancellare il principio di non respingimento, che è il principio cardine della Convenzione di Ginevra. Se possiamo respingere chiunque arrivi alle nostre frontiere verso Paesi definiti “sicuri” autonomamente da ciascun governo europeo, abbiamo di fatto cancellato con un colpo di spugna ogni possibilità di chiedere asilo in Europa. Un’Europa che, è bene ricordarlo, negli ultimi dieci anni, se si esclude l’eccezione degli sfollati ucraini, accoglie una parte irrilevante di persone in cerca di protezione. Se consideriamo infatti che nel mondo abbiamo superato già nel 2022 i 100 milioni di persone obbligate a lasciare le loro case (dati Unhcr), l’UE con i suoi 450 milioni di abitanti dovrebbe accoglierne quasi il 7%. Ma siamo ben lontani da questi numeri. Eppure, nonostante i dati e nonostante la realtà, i governi UE scaricano su Paesi che hanno meno risorse e che, spesso, non garantiscono il rispetto dei diritti umani, quel poco di responsabilità che sono obbligati ad assumere in virtù delle convenzioni internazionali. Il principio è quello già sperimentato con la Turchia: paghiamo qualsiasi dittatore per fare il lavoro sporco che noi non possiamo fare perché in Europa vigono leggi che tutelano le persone e ci sono giudici che le fanno applicare. Ma c’è adesso un ulteriore peggioramento nelle politiche di esternalizzazione. Finora ci siamo infatti “limitati” a pagare Erdogan per impedire alle persone che fuggono da guerre e persecuzioni di arrivare in Europa. Se passa il principio contenuto in questo terribile accordo, potremo anche rimandare in Turchia gli afghani e i siriani che hanno attraversato la Turchia semplicemente respingendoli. In effetti la Turchia è già considerata un posto sicuro. Eppure Erdogan ha respinto in questi anni centinaia di migliaia di afghani e siriani che certamente avrebbero ottenuto asilo in Europa e che, rimandati indietro, rischiano di subire violenze e anche la morte. Allo stesso modo abbiamo siglato un accordo con la Libia, dove solo nel mese di maggio sono state rimandate indietro più di 500 persone, ricorrendo alla cosiddetta guardia costiera che opera dei respingimenti per conto nostro. Ma il razzismo dell’UE, non sazio, punta adesso a applicare direttamente, senza la mediazione di Turchia o Libia, il respingimento di richiedenti asilo alle nostre frontiere. In sostanza oltre alle destre xenofobe, che hanno molti elementi per cantare vittoria, sono i trafficanti, a festeggiare, poiché i governi continuano a perseguire l’obiettivo di impedire alle persone di partire, di arrivare e di accedere alla procedura di asilo e non hanno alcuna intenzione di introdurre vie d’accesso sicure e legali. Per contrastare questo accordo spregevole sarà necessario mettere in campo nei prossimi mesi, proprio in vista della campagna elettorale europea, una mobilitazione della società civile che dia voce all’Europa dei diritti e della solidarietà contro la cultura dei muri e del razzismo. Migranti. “Nonostante tutto il diritto d’asilo regge. Dovrebbero cambiare troppe norme europee” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 10 giugno 2023 Per il giurista Fulvio Vassallo Paleologo il trattato di Dublino non è neanche sfiorato. “Il criterio cardine di Dublino che finora ha penalizzato l’Italia non viene toccato: la responsabilità piena e totale del Paese di primo ingresso dei migranti”. Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato e giurista esperto di diritto d’asilo, prova ad analizzare l’accordo sui migranti, raggiunto l’ 8 giugno dal Consiglio degli affari interni Ue, senza le lenti della propaganda. E ciò che resta, sotto un consistente strato di dichiarazioni roboanti e qualche ritocco furbino, sono le criticità che già esponevano il nostro Paese alla solitudine davanti al fenomeno migratorio. Gli egoismi europei, provenienti soprattutto dagli alleati “orientali” di Giorgia Meloni, non sono stati accantonati. Primo obiettivo mancato dal governo italiano: i ricollocamenti. Non ci sarà alcun meccanismo obbligatorio ma potranno avvenire solo su base volontaria. Certo, spiega Vassallo Paleologo, “sono previsti meccanismi economici di solidarietà a cui però non corrispondono meccanismi di trasferimento fisico delle persone”. L’unica vera novità è rappresentata da un tentativo di facilitare i rimpatri attraverso un esame abbreviato delle richieste di protezione. Si interviene, in altre parole, sulle procedure di frontiera per valutare rapidamente l’ammissibilità delle domando d’asilo e si indicano le caratteristiche dei paesi terzi sicuri per potere, con un contributo economico della Commissione, rispedire indietro coloro che non soddisfano i requisiti per l’accesso. “Ma in realtà è un bluff”, spiega senza mezzi termini il giurista, che poi entra nel merito della questione. “Prima di tutto è un bluff perché finora nessun Paese terzo con accordi bilaterali con l’Italia ha mai accettato la riammissione di cittadini che non fossero connazionali” . Ed è proprio questo il motivo per cui domenica Meloni volerà per la seconda volta in una settimana a Tunisi, insieme alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen e al primo ministro olandese Mark Rutte. Obiettivo: ottenere la cooperazione del presidente Kais Saied in tema di rimpatri. “Vedremo se riusciranno a strappare qualche concessione da Saied, ma mi pare abbastanza improbabile che in questo momento il presidente tunisino, che sta espellendo subsahariani a tutto spiano, ne accetti un certo quantitativo dall’Italia”, dice ancora Vassallo Paleologo. Ma il bluff europeo, accolto con discreto entusiasmo a Roma, secondo il giurista non sarebbe limitato a questo aspetto. Perché la propaganda è un conto e il diritto un altro. E provenire da un Paese terzo sicuro non equivale a un’automatica espulsione, perché fortunatamente le norme internazionali e italiane per il diritto d’asilo offrono comunque la possibilità a chiunque di far valere la propria istanza di protezione anche se si arriva da un paese terzo sicuro. “È soltanto un onere della prova in più che incombe su un richiedente asilo”, secondo Vassallo Paleologo, “sempre che questi abbia occasione di difendersi e non venga preso di peso come un oggetto e riportato in Tunisia o in Libia su una motovedetta o su un aereo”. E poi c’è il tema delle “connessioni” da aggiungere alla voce “fallimenti” delle proposte italiane. Si tratta della possibilità di rimpatriare un migrante non nel Paese d’appartenenza ma in quello di transito (con cui dovrebbe avere stabilito delle connessioni) qualora la sua domanda d’asilo venisse rigettata. Per il governo italiano, il transito in sé sarebbe bastato a dimostrare l’esistenza di connessioni, di legami, tra il richiedente asilo e lo Stato verso cui rimpatriare la persona. “Ma la versione dell’accordo pubblicata dal Consiglio cancella di netto il concetto di “transito” e ripristina criteri molto stringenti per poter riconoscere una “connessione” con un Paese terzo: legami familiari, scuola, lavoro e via dicendo. Non basta il transito in sé”, commenta il giurista. Che infine mette in luce l’ultimo aspetto non scalfito dall’accordo europeo (che ancora dovrà essere modificato e ratificato dal Parlamento): i rimpatri. “Il regolamento dei rimpatri non viene toccato, anche perché sarebbe complicato farlo in tempi brevi, perché ci sarebbe da rimetter mano a tanti strumenti normativi già esistenti e in vigore, come Shengen, che prevede per i respingimenti forme precise e di garanzia per coloro che subiscono respingimenti”. Il sistema, per fortuna, è garantista. Tanto rumore per nulla. Migranti. Così Meloni spinge l’Europa a finanziare campi di concentramento in Tunisia di Luca Casarini L’Unità, 10 giugno 2023 Soldi in cambio della cattura di migranti e della costruzione in Tunisia di campi di concentramento per i deportati espulsi da Italia e da altri Stati europei. Domani la premier Giorgia Meloni sarà di nuovo in Tunisia, questa volta accompagnata da Ursula Von Der Leyen. La pressione sul presidente dittatore Saied perché accetti soldi in cambio di detenzioni e catture di migranti che tentano di raggiungere le coste europee è continua. Con un punto in più, dopo il varo dell’accordo europeo sulla migrazione e l’asilo: la costruzione in Tunisia di campi di concentramento per i deportati che verranno espulsi dall’Italia e da altri stati europei. Non si tratta solo, per la parte tunisina, di farsi pagare il “controllo” poliziesco della frontiera sud dell’Europa. È chiaro che una volta deportate le persone, pur non avendo commesso alcun reato se non quello di essere al mondo, verranno internate in “zone di concentrazione”, che fonti ben informate dicono già individuate al sud del paese. Vicino al deserto, che è come il mare: può inghiottire facilmente e senza che restino tracce. È quella che il ministro degli Interni italiano Piantedosi chiama “dimensione esterna”. I soldi con cui Meloni e Von Der Leyen proveranno a comprare i servigi di Saied proverranno dal fondo apposito alimentato dalle sanzioni per quegli Stati europei che non accetteranno le ricollocazioni: ventimila euro ogni migrante rifiutato, che serviranno a deportarne ed internarne molti altri. Di fronte a questo salto di qualità in senso criminale della guerra contro esseri umani, la grande stampa e i media non sembrano battere ciglio. “Meloni non vota con Orban”, recitano alcuni titoli. Ma l’orbanizzazione dell’intera Europa, socialdemocratici tedeschi inclusi, è taciuta. È il vento di destra che soffia sui diritti umani. Come si può vedere dal tenore stesso della discussione europea - è incredibile persino pensare che argomenti come le deportazioni di innocenti possano essere discussi - è l’intera politica europea ad essersi spostata verso Orban, per soffiargli i voti senza cambiare la visione e le scelte. Come già dimostrato dall’esperienza italiana, a furia di copiare l’avversario nel tentativo di sottrargli consenso senza fatica, si diventa solo la sua brutta copia. Meloni, che in questo appare certo più scaltra di altri suoi predecessori, lo ha capito fin troppo bene. L’incapacità di alternativa, prodotta da un’ansia da prestazione elettorale, ha fatto scivolare l’Europa dentro il baratro dell’assenza di scrupoli ma soprattutto di anima. La difesa dei confini dai poveri, dai richiedenti asilo, dai bambini che poi ci scandalizzano, sempre meno, quando li vediamo morti distesi su una spiaggia, è il grande risultato. Disumano, o meglio post umano. Il paese più anziano al mondo dopo il Giappone lavora incessantemente per impedire che giovani vite possano crescere. Tutto questo accade non a fronte di un esodo biblico dall’Africa o dai Balcani, ma davanti a spostamenti di esseri umani che rapportate al numero degli abitanti del pianeta, otto miliardi, e alle condizioni spaventose in cui versano in centinaia di milioni, sono persino incredibilmente basse. Secondo le Nazioni Unite, nel mondo, i migranti forzati sono circa cento milioni. Se pensiamo alle quaranta guerre che insanguinano il pianeta, alla desertificazione a causa del cambiamento climatico, alla depredazione di risorse con cui i paesi ricchi possono essere ricchi, alla fame, alla sete, beh, ma davvero è un miracolo che quasi tutti vogliano stare a casa loro. Il diritto di restare, altro grande tema insieme al diritto a migrare che questa politica codarda e senza visione si ostina a non voler affrontare, dovrebbe voler dire ad esempio che la nostra strategia sul Mediterraneo non possa essere fatta da una attività di “piazzisti di lager” in tutti i paesi dell’altra sponda. Di promozione del “campo profughi” in franchising. Ma ci vuole una visione. Come ce l’avevano Dossetti e La Pira ad esempio. Ci vuole anche un senso di fraternità, che è il contrario di quel disprezzo ormai manifesto per le condizioni degli altri. Per sopire l’inquietudine che potrebbe anche disturbare le nostre tranquille discettazioni sulla democrazia e la civiltà, di cui ci cingiamo la testa mentre pianifichiamo le sofferenze degli innocenti, basta dire che è tutta colpa dei cattivoni di Visegrad. Di Orban. Addio cara Europa. Assange, respinto l’appello. La vendetta Usa è più vicina di Leonardo Clausi Il Manifesto, 10 giugno 2023 Ok della Corte suprema britannica all’estradizione che costerebbe al fondatore di Wikileaks il carcere a vita. Martedì nuova udienza. La vendetta americana su Julian Assange - reo, com’è ormai arcinoto, di aver divulgato via WikiLeaks i crimini di guerra statunitensi in Iraq e Afghanistan - si avvicina pericolosamente al suo compimento. La Corte suprema britannica, nella persona del giudice Jonathan Swift, ha respinto l’appello dei legali del giornalista australiano contro l’estradizione negli Stati Uniti che gli costerebbe quasi certamente la galera a vita per essersi macchiato di “spionaggio”. Rischia 175 anni di carcere. In una sentenza separata, il giudice ha anche negato ad Assange il permesso di ricorrere in appello contro il respingimento di altre parti del suo tentativo di evitare l’estradizione, che una sentenza del giudice distrettuale Vanessa Baraitser, nel gennaio 2021, aveva accolto in quanto lesiva dei suoi diritti umani e soprattutto della sua salute mentale. A quel rifiuto era seguito un ordine formale di estradizione per deportare l’australiano negli Usa nell’aprile dello scorso anno, cui era succeduta l’approvazione formale di detta estradizione, firmata nel giugno 2022 dall’allora ministro dell’interno Priti Patel. Dopo aver esaminato le otto motivazioni di appello proposti dai legali di Assange, Swift ha sentenziato di non ritenere che questi sollevassero “alcun caso adeguatamente discutibile”. Di diverso avviso il campo pro Assange, che continua ad allargarsi (anche al premier australiano Anthony Albanese). Giovedì Stella Assange ha scritto su Twitter che Julian avrà un’altra udienza presso la Corte suprema il prossimo 13 giugno per rinnovare la sua richiesta di appello. “La questione procederà quindi a un’udienza pubblica davanti a due nuovi giudici della Corte suprema; restiamo ottimisti sul fatto che avremo la meglio e che Julian non sarà estradato negli Stati Uniti dove dovrà affrontare accuse che potrebbero portarlo a trascorrere il resto della sua vita in una prigione di massima sicurezza per aver pubblicato informazioni vere che hanno rivelato crimini di guerra commessi dal governo degli Stati Uniti”, ha aggiunto la signora Assange, madre di due figli nati quattro e cinque anni fa e che non hanno mai visto libero il padre. Su Assange, 51 anni - gli ultimi quattro dei quali trascorsi nel carcere duro di Belmarsh e i precedenti sette autorecluso nell’ambasciata dell’Ecuador nel quartiere londinese di Knightsbridge - pendono 18 capi d’accusa da che WikiLeaks, l’organizzazione da lui fondata, aveva pubblicato migliaia di documenti secretati e dispacci diplomatici nel 2010 e nel 2011 che illustravano i crimini di guerra americani in quella che è a tutt’oggi la più vasta pubblicazione di documenti secretati del XXI secolo. Sulle sue condizioni psicofisiche la famiglia tace, anche perché è evidente che non sono affatto buone. Le fanfare dei media liberal internazionali restano debitamente silenti sul fatto - acclarato da El Pais - dello spionaggio da parte della Cia degli incontri di Assange non solo con i suoi avvocati in quel buco di ambasciata - più che sufficiente per smantellare ogni accusa - ma soprattutto sulla loro organizzazione di un tentato suo assassinio, ordito durante l’amministrazione Trump e brillantemente ignorato da quella di Biden. E che tra l’altro, in una perversa e beffarda ironia, legittima perfettamente la detenzione su motivi (altrettanto inventati?) del giornalista del Wall Street Journal Evan Gershkovich da parte dei russi. Quello che i paesi della Magna Carta e del Big Mac stanno creando è un precedente per la criminalizzazione del mestiere del giornalismo, un sopruso da niente che il Primo Emendamento, probabilmente, sconsiglierebbe. Crudeltà britannica. La vendetta del potere segreto di Vincenzo Vita Il Manifesto, 10 giugno 2023 Julian Assange. Dopo un’interminabile attesa, il giudice monocratico dell’Alta Corte del Regno Unito ha respinto gli otto motivi di appello del collegio di difesa di Julian Assange, contro l’ordine di estradizione negli Stati Uniti siglato dall’allora ministra degli Interni Priti Patel. Ora verrà presentato un ulteriore appello. Finita simile procedura alquanto barocca, non rimarrà che il ricorso alla Corte europea dei diritti umani, la cui legittimità la Gran Bretagna potrebbe persino non riconoscere dopo la Brexit. Insomma, in questi giorni pare consumarsi un delitto perfetto, contro WikiLeaks e il suo fondatore; e contro l’autonomia e l’indipendenza dell’informazione. Di questo, infatti, si tratta. Chi suppone che sia in questione la sorte, pur di enorme importanza, di una singola persona o non ha capito o finge con malcelata complicità. Assange non è in libertà da tredici anni e da quattro è rinchiuso nel carcere speciale di Belmarsh, la Guantanamo d’oltre Manica. Tuttavia, non vi è stato finora alcun procedimento di merito sulle presunte accuse di violazione dell’Espionage Act del 1917, la legge varata nel corso della Prima Guerra mondiale e utilizzata cinicamente per impedire il ricorso al primo emendamento della Costituzione statunitense che considera sacrale il diritto di cronaca. Le lungaggini di appelli e contrappelli inducono a pensare malissimo: si spera che il quadro psicofisico del giornalista peggiori definitivamente. Del resto, il recente volume redatto dall’ex relatore speciale delle Nazioni unite sulla tortura Nils Melzer (2023) spiega la parabola della tragedia in modo chiaro e documentato, ivi compreso il riferimento della docente dell’università di Boston - chiamata a svolgere la perizia in carcere- al dolore e alle sofferenze inflitte ad un imputato a rischio suicidario. Quindi, i mesi trascorsi per dipanare la competenza territoriale del futuro dibattimento reale sembrano una condanna preliminare, che le menti spietate ispiratrici vorrebbero anticipasse la conclusione di una faccenda meno marginale e dimenticata di qualche tempo fa. Appelli, cittadinanze onorarie, prese di posizione di ex ambasciatori, oltre ai riconoscimenti professionali decisi dall’Ordine dei giornalisti e da numerose organizzazioni sindacali della stampa europee hanno un po’ rivoltato la frittata. Si è capito, dove si tirano le fila della macchinazione (l’asse tra Stati uniti, Gran Bretagna, Svezia ed Ecuador), che la coscienza democratica diffusa potrebbe risvegliarsi dal sonno irragionevole di diversi lustri. In fondo, a guardare a situazioni in parte omologhe, il Premio Nobel per la pace Pérez Esquivel si salvò dalla morte nell’oceano (il metodo che segnò la macelleria della dittatura argentina) proprio per la mobilitazione dell’opinione pubblica. Vi sono state iniziative significative del presidente del Brasile Lula e dello stesso premier laburista australiano Albanese. L’associazione Articolo21 ha recentemente promosso un’importante assemblea con la presenza del Sacro Convento ad Assisi in occasione della Marcia Perugia-Assisi. In quella sede aveva preso la parola il direttore di WikiLeaks Kristinn Hrafnsson, descrivendo il panorama inquietante della vicenda, confortato dalla moglie avvocata Stella Moris, in collegamento. Mentre la storia politica e giudiziaria veniva delineata da colei che in Italia più di tutti ha scritto libri e articoli, Stefania Maurizi. Siamo arrivati, probabilmente, al dunque. Poco prima, forse, dei titoli di coda. Se mai vi fossero stati dubbi, sarebbe il caso di scioglierli e di costruire un’azione civile di resistenza. È possibile che non si levino voci critiche e non asservite all’amico americano nel parlamento italiano e in quello europeo? Non è una storia particolare, bensì la prova generale di una spirale autoritaria. El Salvador. Disastro nelle carceri, ondata di omicidi e rastrellamenti di massa La Repubblica, 10 giugno 2023 L’analisi sul campo di Crisis Group, una ONG che svolge attività di ricerca sui conflitti violenti e promuove la prevenzione della criminalità, la riabilitazione e le politiche di riforma socio-economica. El Salvador è considerato uno dei Paesi più violenti del mondo, soprattutto per l’attività delle numerose gang criminali come MS-13 e Barrio-18, che secondo le autorità salvadoregne contano oltre 70mila affiliati e sono responsabili di reati gravissimi quali omicidi, traffico internazionale di sostanze stupefacenti ed estorsioni. Il controllo asfissiante delle bande criminali. Oggi, due decenni dopo la fine della sua guerra civile, El Salvador ha cercato di limitare l’influenza e il costo sociale rappresentato dalle bande, che controllano vaste porzioni geografiche e importanti comparti economici del Paese. Un tempo afflitto dal tasso di omicidi più alto del mondo, El Salvador ora vede meno omicidi, ma le bande hanno stretto la presa sul territorio dove gestiscono racket di estorsioni ed esercitano altre forme di controllo sociale. Ogni anno, i pericoli della vita quotidiana spingono decine di migliaia di salvadoregni ad azzardare il viaggio a Nord verso il confine con gli Stati Uniti. Attraverso il suo lavoro sul campo e la sua difesa, Crisis Group - una ONG fondata nel 1995, che svolge attività di ricerca sul campo in materia di conflitti violenti e avanza politiche per prevenire, mitigare o risolvere conflitti - preme per la prevenzione della criminalità, la riabilitazione e le politiche di riforma socio-economica che possono rendere El Salvador un posto più sicuro in cui vivere. La voglia di repressione tra la gente. C’è stato un improvviso aumento della violenza a marzo, causato dall’interruzione dei colloqui tra il governo e le bande criminali. Questo ha scatenato una spietata campagna di applicazione della legge durata sei mesi in El Salvador, ancorata ad arresti di massa senza precedenti e limitazioni dei diritti legali. Stanchi della violenza delle bande, la maggior parte dei salvadoregni ha applaudito alla repressione. Ma ha anche attirato critiche da parte delle Organizzazioni per i diritti umani, perché l’aumento delle risposte violente contro i criminali si sostiene che potrebbe diventare un boomerang, dal momento che la popolazione carceraria è ormai più che raddoppiata. Verso una crisi umanitaria nelle carceri. Il Paese si avvia verso una crisi umanitaria nelle sue carceri, mentre le bande, sebbene ora allo sbando, potrebbero contrattaccare. “Piuttosto che impegnarsi in tattiche violente a lungo termine - sostengono le Organizzazioni per la difesa dei diritti umani - il governo dovrebbe fornire una rampa di lancio per le migliaia di membri di bande desiderose di costruirsi una nuova vita in una società rispettosa della legge. Non solo - si sostiene ancora - ma i principali partner stranieri del Paese dovrebbero sostenere questi sforzi e rilanciare la loro cooperazione con San Salvador”. Anche i dodicenni sono soggetti ad azione penale. Nel frattempo, sospinto da un coro di sostegno popolare, il presidente di El Salvador, Nayib Bukele, ha imposto una grande “rete a strascico” di sospetti membri di una banda che non si era mai vista prima in America centrale. In base allo “stato di eccezione” dichiarato a marzo, il governo ha allungato il periodo di detenzione senza accusa e abbassato l’età dell’azione penale a dodici anni. La polizia e le truppe hanno organizzato posti di blocco e raid nei quartieri poveri invasi dalle bande. Circa 53.000 presunti criminali sono stati incarcerati sulla base di prove spesso dubbie, molti in condizioni di sovraffollamento, antigieniche e pericolose. La popolazione carceraria più numerosa al mondo. La popolazione carceraria ora è proporzionalmente la più alta del mondo, spingendo le autorità a aprire il terreno per una nuova imponente struttura. Ma sebbene i tassi di omicidi stiano toccando nuovi minimi, con molti membri di bande imprigionati o in fuga, la politica draconiana solleva altre preoccupazioni che richiedono attenzione. Le bande potrebbero riorganizzarsi per vendicarsi mentre una crisi umanitaria e dei diritti umani si aggrava nelle carceri del paese. La gravità della repressione è tanto più sorprendente alla luce delle aperture segnalate da Bukele alle bande criminali che hanno tormentato El Salvador per oltre due decenni. I tentativi di dialogo con le bande. Eletto nel 2019 come outsider a capo del suo partito, Nuevas ideas, e intento a soppiantare uno screditato sistema bipartitico, il giovane ed estroverso presidente Bukele ha potenziato i servizi pubblici là dove c’è povertà e violenza e dove le bande trovano molte delle loro reclute. Secondo i resoconti dei media e le testimonianze di prima mano, raccolte da Crisis Group, il suo governo ha anche avviato discreti colloqui con i leader di bande incarcerati e liberi, stimolando una forte riduzione dei tassi di omicidi. In cambio, secondo quanto riferito, le autorità hanno concesso a questi leader una serie di concessioni, incluso il rilascio accelerato per alcuni di loro. Durante questo periodo, la polizia e l’esercito hanno riferito di un minor numero di scontri con bande e arresti dei loro membri. Poi il brusco cambio di rotta del governo. Una scioccante follia omicida alla fine di marzo, compreso l’omicidio di 62 persone in un giorno - le 24 ore più sanguinose della recente storia salvadoregna - ha fatto da sfondo al brusco cambio di rotta di Bukele. Eppure, anche prima di questa esplosione, c’erano motivi per dubitare dell’impegno del governo per una smobilitazione negoziata delle bande. Il presidente ha sempre negato che fossero in corso colloqui con le bande, suggerendo che era improbabile che il negoziato fosse un percorso verso un accordo permanente. Le accuse delle bande al governo. Non appena il suo partito ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi nella legislatura nelle elezioni del 2021, ha lavorato con i deputati per seppellire ogni prova di colloqui sostituendo il procuratore generale e accantonando l’indagine del suo predecessore sui negoziati segnalati. La banda MS-13 ha suggerito di aver compiuto gli omicidi di marzo perché si sentiva tradita dal disconoscimento del precedente impegno da parte del governo, suggerendo che l’interesse del presidente anche per i colloqui segreti era ormai svanito. “In passato il governo di Bukele si è rivolto a tattiche pesanti per rispondere alle ondate di violenza delle bande, ma nessuna è paragonabile all’attuale repressione”. Il governo di Bukele si è rivolto a tattiche pesanti per rispondere alle ondate di violenza delle bande in passato, ma nessuna è paragonabile all’attuale repressione né per intensità né per durata. Con il sostegno pubblico allo stato di eccezione alle stelle, Bukele sembra convinto di suonare la campana a morto per le tre principali bande del paese. Rifiuta ferocemente le critiche ai suoi metodi. Ma ci sono motivi per chiedersi se Bukele avrà successo. Sebbene il tasso di omicidi abbia raggiunto i minimi storici, gli scontri tra bande e personale di sicurezza sono in aumento. Le bande hanno fatto trapelare dichiarazioni minacciando di rispondere più duramente se il governo non torna al dialogo. La campagna per arrestare chiunque abbia, abbia avuto o possa aver avuto legami con le bande potrebbe costringere gli ex membri a tornare a delinquere se non vedono altra speranza. Gli arresti di massa di ex membri di bande che si sono convertiti al cristianesimo per abbandonare la vita di gruppo sono preoccupanti. Il terribile sovraffollamento, combinato con il rifiuto del governo di assumersi la responsabilità di ciò che è andato storto - dalle morti detentive agli arresti illeciti - potrebbe alimentare tensioni nelle carceri, portando ad ammutinamenti e fughe. L’esperienza di El Salvador nel 2015, dopo la fine della tregua tra bande, quando il tasso di omicidi è salito al più alto del mondo, suggerisce i rischi che potrebbero attendersi. Condizioni finanziarie sfavorevoli, la minaccia di default del debito e legami tesi con l’Occidente rendono ancora più vitale che Bukele passi a una politica di sicurezza che sia resiliente, duratura e rispettabile a livello internazionale. El Salvador ha bisogno di un approccio più umano e sostenibile per risolvere il problema delle bande. Un punto cruciale di tale politica sarebbe la creazione di un chiaro percorso fuori dalla vita di gruppo per i membri incarcerati e liberi. Anche se cercano di trarre profitto politicamente dalla lotta al crimine, Bukele e i suoi alti funzionari dovrebbero essere consapevoli dei pericoli innati di un’enorme popolazione carceraria, che deve essere nutrita e ospitata, e iniziare a cercare modi per rilasciare sospetti e detenuti incarcerati soggetti al loro monitoraggio della partecipazione ai programmi riabilitativi. Negli ultimi anni sono stati presentati all’Assemblea legislativa del paese vari progetti di legge per creare un programma di riabilitazione nazionale, ma nessuno ha avuto successo; questi dovrebbero essere rianimati. Un’iniziativa di riabilitazione e reintegrazione dovrebbe includere misure che promuovano l’occupazione per gli ex membri di bande, con il sostegno delle chiese e della società civile. Per aiutare le comunità ad accettare i membri delle bande che possono venire a vivere in mezzo a loro, San Salvador dovrebbe anche promuovere la giustizia riparativa per le vittime di violenza. Il sostegno dei grandi donatori, compresi gli Stati Uniti e l’Unione Europea, sarà probabilmente la chiave per trasformare questa iniziativa in realtà. Bukele ha finora mostrato scarso interesse nel rallentare la sua ricerca della resa incondizionata delle bande. Ma i costi umanitari e reputazionali, così come i rischi di un ritorno agli estremi della violenza letale, rendono imperativo che il governo prepari una via d’uscita alternativa per la popolazione incarcerata. La forza può mettere in fuga le bande per un periodo di tempo, ma ci vorrà molto di più per iniziare a smantellarle definitivamente.