La messa alla prova si allarga: possibile estinguere oltre 40 reati di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2023 Dalla truffa aggravata all’omessa dichiarazione: le novità del Dlgs 150/2022. Chance estesa ai processi in corso ma la domanda va fatta entro il 13 febbraio. Irrompe anche nei processi in corso la “nuova” messa alla prova che dal 30 dicembre scorso può essere chiesta per più di 40 reati per i quali era prima preclusa e condurre, se va a buon fine, a estinguerli: dalla truffa aggravata alla frode in assicurazione, dal contrabbando di tabacchi lavorati esteri ai reati tributari di omessa dichiarazione, dall’induzione di minorenni all’uso di stupefacenti all’indebito utilizzo, falsificazione, detenzione o cessione di carte credito e agli illeciti di falsità personale che non riguardino atti pubblici; e varie altre fattispecie punite con pena edittale massima entro i sei anni, scelte dal legislatore tra quelle che ha ritenuto si prestino meglio ai percorsi riparativi e risocializzanti. È questo uno degli effetti dell’entrata in vigore della riforma del processo penale, voluta dall’ex ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per rispettare l’obiettivo, fissato dal Pnrr, di ridurre i tempi della giustizia penale del 25% entro il 2026. A dettagliare le novità per la disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova, introdotto originariamente dalla legge 67 del 2014, è il decreto legislativo 150/2022, che ha attuato la legge delega 134/2021 e che sarebbe dovuto entrare in vigore già lo scorso 1° novembre. Ma il decreto legge 162 del 31 ottobre 2022 ha disposto lo slittamento dell’entrata in vigore, appunto, al 3o dicembre 2022. Durante il percorso in Parlamento per la conversione in legge di questo decreto, sono stati approvati alcuni emendamenti che hanno modulato diversamente i tempi di entrata in vigore di varie norme. Ma non sono state toccate quelle che rendono possibile ottenere la messa alla prova anche per reati per i quali finora era preclusa. I tempi per la domanda - Gli imputati potranno quindi chiedere la sospensione del processo con messa alla prova alla prima udienza utile successiva al 30 dicembre 2022, anche se il processo è in grado di appello. La scelta del legislatore è coerente con l’esigenza di rendere immediatamente applicabili le disposizioni più favorevoli all’imputato, visto che la messa alla prova gli consente di estinguere il reato, dopo essersi sottoposto con esito positivo a un programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale, con l’assunzione di impegni specifici al fine di elidere o attenuare le conseguenze dell’illecito e l’assolvimento di prescrizioni attinenti lavori di pubblica utilità. In via ordinaria la richiesta di messa alla prova può essere avanzata, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni in sede di udienza preliminare o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio, oppure, nel procedimento di citazione diretta a giudizio, fino alla conclusione dell’udienza predibattimentale, prevista dal nuovo articolo 554-bis del Codice di procedura penale (che tuttavia si applica solo ai procedimenti nei quali il decreto di citazione è stato emesso dopo l’entrata in vigore della riforma). E quando la volontà dell’imputato è espressa per iscritto o a mezzo di procuratore speciale, la sua sottoscrizione deve essere autenticata da un notaio, da un’altra persona autorizzata o dal difensore. Se questi termini risultano già superati alla data del 30 dicembre 2022, l’imputato per i reati ai quali è stata ora estesala messa alla prova beneficia di un nuovo termine di decadenza per chiedere di esservi sottoposto: dovrà avanzarla personalmente o a mezzo di procuratore alla prima udienza fissata dopo il 30 dicembre 2022; ma se nei 45 giorni successivi a quella data non è fissata udienza, dovrà depositarla in cancelleria entro quel termine. Insomma, entro il 13 febbraio 2023 o con richiesta avanzata in udienza o con istanza depositata in cancelleria l’imputato dovrà attivarsi per ottenere questa opzione processuale, che prima della riforma gli era preclusa. Altrimenti matura irreversibilmente la decadenza. Durante le indagini preliminari Nei procedimenti ancora in fase di indagini preliminari potrà invece trovare applicazione l’altra innovazione contenuta nella riforma Cartabia, cioè la possibilità del pubblico ministero di proporre la sospensione del procedimento con messa alla prova già con l’avviso di conclusione delle indagini previsto dall’articolo 415-bis del Codice di procedura penale, indicando la durata e i contenuti essenziali del programma trattamentale, definiti, ove lo ritenga opportuno, con la previa consultazione dell’ufficio di esecuzione penale esterna. In tal caso l’indagato ha un termine di 20 giorni per aderire con dichiarazione, personale o a mezzo di procuratore speciale, che depositerà presso la segreteria del pubblico ministero. Se aderisce, il pubblico ministero formula le imputazioni, avvisa la persona offesa e trasmette gli atti al giudice per le indagini preliminari che deciderà sulla richiesta in udienza. Il pubblico ministero può formulare la proposta anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio in udienza nelle fasi preliminari e in tal caso l’imputato può chiedere al giudice un termine non superiore a 20 giorni per avanzare una propria richiesta. FdI sui delitti impuniti: “La Cartabia va cambiata, è un colpo alla legalità” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2023 Il sottosegretario: “Rivedremo la riforma”. Alcuni reati tra cui il sequestro di persona sono procedibili solo se c’è la querela. “Ma la vittima va tutelata pure se non denuncia”. “Siamo di fronte a un mortale colpo di spugna”. Parola del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, che abbiamo interpellato a proposito della norma Cartabia che ha cancellato la procedibilità d’ufficio per diversi reati come il sequestro semplice, tutte le specie di furto, anche con danneggiamento, la minaccia, le lesioni stradali, senza aggravanti, la truffa, la frode informatica, la violazione di domicilio. Da fine dicembre, in pratica, se non c’è la querela della vittima l’impunità è garantita. Neppure l’arresto in flagranza di reato cambia le cose. La probabilità che migliaia di delinquenti finiscano per cavarsela diventa così altissima, anche perché la nuova norma è applicabile ai procedimenti in corso, per i quali le parti offese hanno un determinato periodo di tempo per querelare. In caso contrario, la strada è tracciata: processi al macero e imputati “graziati”. Delmastro, esponente di punta di Fratelli d’Italia, spiega di non aver mai voluto questa norma: “Mi faccia dire che noi di Fdi la riforma Cartabia non l’abbiamo votata - premette appena risponde al telefono - anche perché fin dall’inizio ci vedevamo un mortale colpo di spugna rispetto alla lotta alla criminalità. Il sequestro di persona nell’elenco dei reati non più a procedibilità d’ufficio ne è un chiaro segnale. È evidente che anche se la vittima non sporge querela lo Stato deve tutelarla e deve tutelare tutte le altre ipotetiche vittime del sequestratore. Non si può non perseguire un reato gravissimo come il sequestro di persona”. Sulla norma, quindi, il giudizio del sottosegretario è netto. Gli domandiamo allora se il governo si metterà all’opera per correre ai ripari, magari già nei prossimi giorni. La risposta è interlocutoria e chiama in causa gli accordi in Europa per i fondi del Pnrr: “Noi abbiamo intenzione di rivedere una riforma che sicuramente ottiene il vantaggio della velocizzazione della giustizia penale attraverso l’improcedibilità in Appello e la procedibilità per molti reati solo a querela - spiega Delmastro -, ma lo fa a scapito della sicurezza dei cittadini. Un fatto che non è nelle corde di Fratelli d’Italia. Dobbiamo, però, tenere conto degli impegni presi in Europa in vista del Pnrr”. Forse, osserviamo, più che l’Europa, voi di Fdi dovrete convincere i vostri alleati di governo, in particolare Forza Italia, che non va bene neppure l’improcedibilità in Appello. E qui Delmastro sfodera ottimismo: “Siamo sicuri che convinceremo tutto il centrodestra dell’esigenza di garantire speditezza nel processo penale senza far venire meno la ben più importante esigenza di sicurezza dei cittadini”. Lo sconcerto di addetti ai lavori, ma anche di molti semplici cittadini, è palpabile: si percepisce diffusa la consapevolezza che la norma sia un ossimoro rispetto al concetto di giustizia. Prova ne sono diversi casi già accaduti nei primi giorni dell’anno e raccontati dal Fatto. Ultimo caso, quello del ladro di auto che l’ha fatta franca a Vicenza perché mancava la querela dei proprietari delle macchine rubate. L’uomo, un 21enne romeno, è stato fermato giovedì scorso dopo aver rubato 3 auto ma è stato subito dopo liberato perché le denunce-querele erano state presentate una dal padre di una delle vittime del furto e l’altra da un’impiegata della ditta a cui era intestata la vettura. Di qualche giorno prima è invece il caso dei due ladri colti in flagrante mentre rubavano in un hotel a Jesolo: poiché il proprietario dell’albergo era in ferie e non ha presentato querela, i due l’hanno fatta franca. Prima della riforma Cartabia non sarebbe mai accaduto per la procedibilità d’ufficio. E a proposito della procedibilità solo a querela di parte anche per il sequestro semplice, c’è da ricordare il caso di Savona dove due imputati per aver rapito, legato e imbavagliato un 22enne, potranno tornare a fare i loro traffici perché la vittima ha ritirato la querela: non si può più procedere proprio a causa della riforma Cartabia. Se non ci fosse stata, quasi certamente i due sarebbero stati condannati. Non solo i magistrati sono critici verso la procedibilità a querela: “Per prendere i soldi del Pnrr si dà una dura mazzata al processo, sacrificando i diritti dei cittadini, all’insegna di un’ipotetica velocità ed efficienza, e umiliando il ruolo della difesa”, ha dichiarato pochi giorni fa il presidente della Camera penale di Venezia, Renzo Fogliata. Non si nasconde dietro giri di parole neppure il prefetto di Venezia, Vittorio Zappalorto, che alla Nuova Venezia ha detto: “La riforma Cartabia? Spero sia smantellata. Nei fatti finisce per fare solo gli interessi dei delinquenti”. Il sottosegretario Delmastro ammette che le modifiche non sono dietro l’angolo ma ribadisce che la riforma va modificata: “Dobbiamo rapportarci con l’Europa per via del Pnrr ma in ogni caso apporteremo le modifiche nel corso del mandato perché la nostra idea di giustizia è basata sulla necessità di tenere insieme le garanzie dell’imputato con l’esigenza di sicurezza del cittadino”. I tempi biblici dei processi, la grande ingiustizia della nostra giustizia di Salvatore Rossi Gazzetta del Mezzogiorno, 9 gennaio 2023 La legge è uguale per tutti, sta scritto nei luoghi in cui si esercita la presunta giustizia, ma la legge diviene fortemente diseguale se per la sua applicazione occorre un tempo irragionevole. La lunghezza spropositata dei procedimenti nelle aule giudiziarie italiane è una piaga che ci tormenta da decenni. Un giudizio penale o una causa civile che durano anni e anni sono la prima ragione d’ingiustizia in quello che dovrebbe essere il sistema di giustizia a cui i cittadini si rivolgono. La legge è uguale per tutti, sta scritto nei luoghi in cui si esercita la presunta giustizia, ma la legge diviene fortemente diseguale se per la sua applicazione occorre un tempo irragionevole, perché da ciò alcuni beneficiano: chi deve risarcire un danno, o chi spera nella prescrizione di un reato che ha commesso; altri ci perdono: chi aspetta un risarcimento, o chi vede frustrato il suo desiderio che i crimini vengano puniti. Tuttavia non vi sono conseguenze negative solo per l’etica pubblica e la convivenza civile: ve ne sono di nefaste anche per l’economia, dunque per il benessere materiale dei cittadini. Negli scorsi trent’anni molti studi empirici in tutto il mondo hanno dimostrato in modo inoppugnabile come l’efficienza della macchina per la produzione di giustizia in un paese ne possa favorire lo sviluppo economico, meglio garantendovi ad esempio i diritti di proprietà e la tutela dei contratti. Allora è più agevole il finanziamento delle imprese, queste sono più inclini a fare investimenti, il paese ha una più alta capacità di competere con altri sistemi nazionali, è più spiccata l’attrattività per investitori esteri. Come si misura l’efficienza della giustizia? Non è per niente facile. Ragionando da economisti, occorre innanzitutto distinguere l’offerta dalla domanda. Concentriamo la nostra analisi sulla giustizia civile, di immediata rilevanza ai fini dello sviluppo economico. L’indicatore quantitativo principe dell’offerta di giustizia, cioè della funzionalità dei tribunali, è appunto la durata dei processi. La domanda di giustizia, ovvero la litigiosità della cittadinanza, può essere misurata dal numero di nuovi processi iniziati nell’arco di tempo prescelto, di solito un anno. Una ricerca recente di economisti della Banca d’Italia (Cugno, Giacomelli, Malgieri, Mocetti, Palumbo) mette in fila questi e molti altri dati, ormai disponibili, ma li corregge per tenere conto della complessità della materia trattata: un processo su una intricatissima vicenda che coinvolge due grandi società multinazionali è diverso da una lite di condominio ed è naturale che implichi ad esempio durate diverse. Emerge la conferma di un fatto drammatico, notorio ma che si tende a dimenticare: se l’Italia nel suo complesso è agli ultimi posti al mondo quanto a efficienza della giustizia, il Sud d’Italia sprofonda letteralmente. Nel periodo 2015-2019 la durata media dei processi civili ordinari, corretta per tener conto della loro diversa complessità, è stata di 700 giorni nel Centro-Nord, di 1.100 nel Sud. Non sono dati da paese avanzato. La litigiosità al Sud è pure maggiore che al Centro-Nord: in quegli anni sono stati iscritti nei tribunali del Sud quasi 40 nuovi procedimenti l’anno per 1.000 abitanti, contro i 29 del Centro-Nord (dati pure corretti). Sempre nella ricerca citata vengono stimati il numero di giudici e il numero di impiegati amministrativi dei tribunali, ponendoli in rapporto al numero corretto di nuovi procedimenti. Sorpresa delle sorprese: al Sud i rapporti sono entrambi maggiori che al Centro-Nord (con la sola eccezione, pensate un po’?, della Puglia, che risulta essere sguarnita di magistrati rispetto al resto d’Italia). Se ne deduce, pur riconoscendo qualche recente progresso, che l’organizzazione della “fabbrica” della giustizia in Italia, e ancor più al Sud, è ancora intrinsecamente inefficiente, nel senso che - a parità di costi - i servizi prodotti sono da noi di quantità e qualità inferiore ad altri paesi. Quali le cause? La irrazionalità della rete degli uffici (troppo frammentata e squilibrata geograficamente), la disorganizzazione interna di questi, il tuttora scarso uso delle tecnologie digitali, la bassa produttività media dei giudici. L’alta litigiosità italiana, e quella altissima del Sud, può avere cause antropologico-culturali, attinenti alla dotazione di “capitale sociale”. Ma vi possono essere altre spiegazioni, empiricamente verificate in numerosi studi. Ad esempio, il calcolo opportunistico: anziché pagare un creditore mi faccio chiamare in giudizio, l’inefficienza del sistema farà sì che alla fine il creditore, stremato dall’attesa, accetterà una transazione e mi farà uno sconto. Oppure, l’alto numero di avvocati e gli incentivi perversi insiti nella struttura dei loro compensi, legati al tempo più che al risultato. Oppure ancora, l’inquinamento normativo: norme mal scritte e continuamente cambiate. Infine, le erratiche oscillazioni della giurisprudenza, soprattutto di quella della Corte di cassazione. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza impegna il nostro paese a ridurre del 40 per cento la durata dei processi civili entro il 2026. È il minimo che si possa desiderare. Occorre attuare il Piano pienamente e col puntuale rispetto dei tempi, puntando anche a un riequilibrio territoriale. Csm, la parola alle Camere. Il centrodestra prepara un altro “spoils system” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 gennaio 2023 Camere chiamate al voto sui membri laici 17 gennaio. Dopo due rinvii, martedì 17 gennaio il Parlamento in seduta comune è chiamato ad eleggere i componenti laici del nuovo Consiglio superiore della magistratura. Per la maggioranza è l’occasione di praticare un po’ di spoils system anche nel governo autonomo delle toghe, integrando con qualche nome di propria fiducia il plenum - di cui giudici e pubblici ministeri hanno già scelto i loro rappresentanti - che sostituirà quello “scaduto” a settembre ma ancora in carica. Per rinnovare il Csm più terremotato della storia (sei consiglieri dimissionari più un membro di diritto dimessosi in anticipo dall’ordine giudiziario a seguito dello “scandalo Palamara”) la politica ha già mancato due appuntamenti: a settembre, a causa delle elezioni anticipate, e a dicembre; ufficialmente per via della legge di Bilancio, in realtà perché mancava l’accordo tra i partiti sui dieci avvocati o professori di Diritto da spedire a palazzo dei Marescialli con la maggioranza dei tre quinti prevista dalla legge. Accordo che ancora non c’è, ma un terzo rinvio sarebbe ingiustificabile: resta poco più di una settimana per trovare l’intesa e far convergere i voti di centrodestra e opposizione (almeno una parte) sui prescelti. Tra i quali il Csm finalmente al completo eleggerà il vice-presidente, che dovrà guidarlo in sintonia con il capo dello Stato; carica ricoperta, da due consiliature, da laici indicati dal centrosinistra. Una chance che la maggioranza di governo, magari allargata al Terzo polo targato Renzi e Calenda, non vuole farsi sfuggire. I nodi da sciogliere, però, sono ancora molti. La novità introdotta dalla legge Cartabia prevede che, in nome della trasparenza, le candidature vengano pubblicate sul portale della Camera, avanzate dagli stessi interessati o da almeno dieci parlamentari di due gruppi diversi. C’è tempo fino alla mattina di sabato 14 gennaio. Se però non si arriverà almeno al 40 per cento di aspiranti donne, quota fissata per “assicurare il rispetto della parità di genere”, per loro ci sarà tempo fino alla mattina del 17. Le votazioni cominceranno nel pomeriggio. L’elenco aggiornato alle 15 del 5 gennaio è giunto a 145 nomi, e quelli femminili sono solo il 24 per cento. Tra i candidati in lizza ci sono avvocati “di grido” come gli ex-parlamentari di Forza Italia Raffaele della Valle, Gaetano Pecorella e Luigi Vitali (già sottosegretario alla Giustizia), o come Nino Lo Presti, vicino a Fratelli d’Italia. Altre nomination sono attese, e tra queste i due probabili laici di area leghista: i penalisti Francesco Urraro (ex senatore eletto nel 2018 con i Cinque stelle ma transitato nel Carroccio nel 2019) e Fabio Pinelli. Tra i possibili candidati ancora “coperti” anche Giuseppe Valentino, altro ex parlamentare della destra sponsorizzato da FdI, e Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia e già componente del Csm tra il 2014 e il 2018. La distribuzione dei posti prevede, nelle intenzioni del centrodestra, che sette spettino alla maggioranza (tre a FdI e due ciascuno a Lega e Forza Italia) e tre all’opposizione (uno ciascuno a Partito democratico, Cinque stelle e Terzo polo). Il Pd però reclama l’indicazione di due nomi, modificando le proporzioni in sei a quattro, per consistenza dei gruppi e perché in materia di giustizia quello di Renzi e Calenda è parte pressoché organica della maggioranza, quindi andrebbe conteggiato da quella parte; basti pensare alle posizioni su separazione delle carriere tra giudici e pm, intercettazioni e leggi anti-corruzione e altre riforme in cantiere.  L’ipotetica alleanza fra centrodestra e Terzo polo potrebbe perfino cedere alla tentazione di fare “cappotto” e nominare da sé tutti i dieci laici, potendo raggiungere in autonomia la maggioranza dei tre quinti. Ma lasciare fuori una fetta importante dell’opposizione (la più rilevante e numerosa) sarebbe una forzatura e un segnale di rottura, sia sul piano degli equilibri che su quello politico-istituzionale. Difficile da ipotizzare una simile “dichiarazione di guerra” sul terreno già minato dei rapporti tra politica e magistratura. E dell’orientamento della magistratura bisognerà tener conto nella scelta che spetta ai partiti, perché la nomina del vicepresidente dipende comunque dai venti componenti togati. Sbarcati a palazzo dei Marescialli con un nuovo sistema elettorale ma tutti espressione (tranne un paio) delle correnti tradizionali. Il voto di almeno parte di essi sarà decisivo, e non è scontato che i sette neo-consiglieri di Magistratura indipendente (il gruppo più “conservatore” e perciò considerato più vicino alla maggioranza di governo) decidano di votare un candidato selezionato dal centrodestra. Dipenderà dal profilo individuato, e in quest’ottica i nomi indicati dall’opposizione (in particolare dal Pd) potrebbero risultare decisivi per un finale a sorpresa. La partita, insomma, è tutta da giocare. La “doppia” prescrizione inguaia il pm e salva Amara di Felice Manti Il Giornale, 9 gennaio 2023 Un magistrato contro la Procura di Messina che ha risparmiato l’ex legale Eni: “Ha leso i miei diritti”. A questa disastrata giustizia mancava solo la prescrizione a la carte. Gli strascichi del caso Amara arrivano sulle sponde dello Stretto e finiscono sulla scrivania del gip Giovanna Sergi, a Reggio Calabria. Sede competente per stabilire come è stato possibile che due imputati per uno stesso reato “in concorso” a Messina abbiano avuto due trattamenti diversi: uno stralciato e prescritto, l’altro rinviato a giudizio e infine prosciolto. A finire nel tritacarne Amara è l’ex procuratore aggiunto di Catania Giuseppe Toscano. Tra il 23 e il 24 aprile del 2018 l’ex legale Eni racconta ai pm di Messina che nel giugno 2012 il magistrato avrebbe convinto l’allora procuratore di Siracusa Ugo Rossi (che ha sempre negato qualsiasi pressione) a coassegnare al pm Giancarlo Longo un procedimento per alcuni reati finanziari commessi da Amara su cui già indagava il pm siracusano Marco Bisogni, oggi eletto al Csm nelle fila di Unicost. Il metodo di Longo, in realtà, era quello dei fascicoli “a specchio” che il magistrato si auto-assegnava per monitorare le indagini dei colleghi, legittimando così la richiesta di copia di atti altrui, come denunciarono otto pm di Siracusa nel 2016. Ma per i pm messinesi guidati allora da Maurizio De Lucia (oggi a Palermo), che da tempo ingaggiava con Siracusa una velenosa battaglia di carte bollate, Amara e Toscano avrebbero agito in concorso per condizionare un’indagine. Prove del condizionamento di Rossi non ce ne sarebbero, ma Bisogni si costituisce parte civile e reclama 100mila euro di danni a Toscano, prendendo per buone le rivelazioni di Amara. Il pm Longo, nel frattempo, viene arrestato, ammette di aver ricevuto soldi per manipolare alcuni processi, patteggia cinque anni già tutti scontati e lascia la toga. Dopo la richiesta di rinvio a giudizio di aprile, a ottobre ecco la repentina strambata: in pochi giorni i magistrati messinesi chiedono il rinvio a giudizio di Toscano e per Amara l’archiviazione per avvenuta prescrizione, una manna di cui l’ex avvocato dirà di non sapere nulla ma che ne ha salvaguardato la credibilità. Perché dopo aver frequentato la terra di mezzo tra Procure, studi legali e presunte logge massoniche, nel frattempo Amara aveva deciso di vuotare il sacco in altre quattro Procure diverse. Raccontando insieme balle, verità e mezze verità. Lo ammette lui stesso, autodefinendosi un “Pinocchio” davanti ai magistrati di Potenza. Qualcuno l’aveva capito prima, qualcun altro gli ha creduto fin troppo. Vedi la Procura di Milano, che aveva puntato su Amara come testimone chiave nel maxi processo milanese Eni-Nigeria. Con l’assoluzione di tutti gli imputati Milano si è definitivamente giocata la sua reputazione, il neo procuratore Marcello Viola ha tutta l’intenzione di riguadagnarsela ma ci vorrà del tempo. E Toscano? A lui non resta che chiedere lumi sulle troppe stranezze di cui è stato vittima, nonostante il proscioglimento. “Come fa Amara a disconoscere la prescrizione di cui ha beneficiato?”, chiede al gip il magistrato a riposo. Come è stato possibile che, a parità di reato commesso nella stessa data, la prescrizione maturi in due date diverse - ottobre 2018 per Amara, giugno 2020 per Toscano - al netto di eventuali periodi sospensivi o interruttivi che agli atti non risulterebbero? Secondo Toscano (che ha già fatto ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo) il mancato deposito degli atti sulla arbitraria prescrizione di Amara ha privato la sua difesa di una prova decisiva relativa alla sua protestata estraneità ai fatti, proprio perché l’accusatore era stato premiato con un provvedimento che non gli spettava. Al gip di Reggio l’ardua sentenza, al Guardasigilli Carlo Nordio le necessarie verifiche. Achille Serra: “Il giorno dell’orrore in piazza Fontana, Vallanzasca, i sequestri, la droga: ma oggi Milano si sente più insicura di allora” di Sandro De Riccardis La Repubblica, 9 gennaio 2023 Arrivò da Roma in pieno ‘68, giovane vicecommissario che chiese subito di stare per strada. Il prefetto per tanti anni questore della città la racconta attraverso la sua cronaca nera. Arrivò a Milano in uno dei periodi più movimentati della storia della città e dell’intero Paese, quel 1968 in cui venne assegnato da giovane vicecommissario alla questura di via Fatebenefratelli. Dalla strage di piazza Fontana all’omicidio Calabresi, dalla stagione dei sequestri di persona all’invasione della droga, dall’esplosione della protesta studentesca allo sgombero del Leoncavallo, Achille Serra è stato testimone di oltre cinquant’anni di dolori, ferite, rivolte metropolitane ma anche di successi e soddisfazioni investigative. Prefetto Serra, qual è la prima fotografia che le è rimasta impressa della città? “La nebbia. E poi il freddo e la neve. Ricordo ancora che con il mio collega, appena entrati in polizia, fummo destinati a dormire al commissariato Musocco, ma sbagliammo strada in macchina e ci ritrovammo vicino a Brescia perché la nebbia non ci consentiva di vedere dieci metri in avanti. La nebbia è una delle cose che sono totalmente cambiate rispetto a oggi, così come la neve che già a ottobre investiva Milano”. Come furono i primi anni in polizia? “Ho fatto tutti i gradini che può fare un funzionario. Ho avuto la fortuna di avere questori favolosi che sapevano formare. Mia madre voleva facessi l’avvocato, ma rimasi in polizia grazie a un grande questore, Giuseppe Parlato, che fu anche capo della polizia. Gli dissi che volevo fare attività in strada, in prima linea, altrimenti sarei tornato a casa. Mi rispose che dovevo farmi un po’ le ossa, ma poi mi trasferì come funzionario alle volanti. Fu la svolta nella mia vita, perché altrimenti avrei fatto l’esame di avvocato a Roma, la mia città. Invece scattò l’innamoramento. Allora dissi a mia madre che sarei restato, che quel lavoro mi appassionava”. La sua fu la prima volante ad arrivare alla Banca nazionale dell’agricoltura, il giorno della strage di Piazza Fontana... “Ci fu una chiamata per l’esplosione di un tubo del gas con uno o due feriti. Chi si manda? Il più giovane. Arrivai a sirene spiegate con l’ardore del giovane che va a trovare due feriti, e invece mi accorsi subito che era successo qualcosa di grave. Entrai in banca e ne uscii sconvolto. Vidi un uomo nella grande sala metà corpo e metà sangue, altri corpi dilaniati contro il muro. Mi attaccai alla radio. “Mandate cento ambulanze”, urlai. Mi presero come un giovane sprovveduto, purtroppo non mi ero sbagliato. In pochi minuti la piazza era colma di polizia, non era mai successo in Italia un fatto del genere”. Meno di tre anni dopo, l’omicidio del suo collega, il commissario Luigi Calabresi... “Io ero amico di Calabresi. Tutti e due romani, ci separavamo pochi anni e avevamo fatto amicizia. Dopo la morte di Pinelli in questura, ogni giorno sui muri, nelle piazze, nei comunicati degli intellettuali veniva chiamato “assassino”. Io gli dicevo di andare via, di farsi trasferire. “Al mio posto tu andresti via? - ribatteva - Che ho fatto per dover andare via?”. E aveva ragione. Ancora oggi provo ribrezzo per il governo di allora, perché bisognava trasferirlo d’ufficio, ad Agrigento... a Caltanissetta... Quanto meno bisognava assegnargli una scorta consistente, invece usciva di casa da solo, e così fu ucciso”. In pochi anni ha ricoperto tutti i ruoli in questura. È stato alla squadra mobile, alla guida della Digos, poi alla Criminalpol... “Ero alla mobile con il prefetto Umberto Improta, che era napoletano. “Uagliò, tu vuoi fare il questore facendo solo la squadra mobile - mi disse -. da domani mattina vai a dirigere la Digos”. Allora si chiamava Ufficio politico. Avevo quarant’anni”. La violenza politica esplodeva in mille forme, dalle rivolte nelle università al terrorismo... “Tutti i sabati c’erano manifestazioni e il responsabile dell’ordine pubblico mi voleva al suo fianco. Si incendiavano le auto, si lanciavano molotov, le università erano il centro della rivolta. Ricordo un assedio alla Statale, nel 1970: dal primo piano piovevano molotov e sassi. Uno colpì il vicequestore vicario Luigi Vittoria, che si rifiutò di andare in ospedale, anche quando una bastonata gli fratturò il braccio. Finché non riuscimmo a entrare, e nel cortile trovammo trecento studenti, tra cui il leader del movimento studentesco Mario Capanna, e anche un magistrato di cui non ho mai fatto il nome. Erano tutti pronti con le braccia accostate per fasi mettere le manette, ma noi non avevamo trecento manette. Ogni sabato era la stessa situazione. Poi arrivò il terrorismo. Anni difficilissimi. Uscivamo di casa e non sapevamo se saremmo tornati. Anche se un giovane funzionario che non contava nulla poteva essere ucciso. Si sparava a Montanelli così come a un semplice poliziotto”. Il suo nome è legato anche a Renato Vallanzasca... “Prima ci imbattemmo in Joe Adonis, collegamento tra la mafia americana e quella siciliana, dominus di bische e locali notturni. Viveva in un appartamento in via Albricci, vicino al Duomo. Il fenomeno Vallanzasca invece nasce così: c’erano rapine ai supermercati alle quattro del pomeriggio, ogni giorno. Arrivavano con i mitra e sparavano in aria, terrorizzando tutti e rischiando di fare male a donne e bambini. Io dirigevo la sezione Rapine, con me c’era il più grande maresciallo della squadra mobile, Ferdinando Oscuri. Non riuscivamo a capire chi fossero questi malviventi. Finché lui mi disse che si trattava di due fratelli incensurati, i Vallanzasca. Facemmo dei controlli ma non trovammo nulla. Così io mi portai Renato in ufficio, ero giovane io ed era giovane lui, ci siamo sfidati tutta la vita. Si tolse il Rolex e mi disse: “Se riesci a incastrarmi, è tuo”. Ci riuscimmo perché Oscuri recuperò nel secchio dell’immondizia, a casa di Vallanzasca, le buste paga strappate del supermercato di viale Monterosa, dove c’era stata l’ultima rapina. Gli lasciai l’orologio sul tavolo dell’interrogatorio. “Ti ho fregato e ora vai in carcere”, gli dissi”. Fu la prima volta che lo arrestò... “È stata la costante di un pezzo della mia carriera. Ho anche aiutato la madre novantenne. Quando era in carcere fuori regione, mi adoperai per farlo trasferire in Lombardia. Lui mi ringraziò e mi regalò un calendario. “L’ho dipinto con le mie mani - mi disse - grazie per quello che ha fatto per mia madre”. Una criminalità romantica, prima della stagione dei sequestri di persona... “In dieci anni furono almeno un centinaio. Il primo fu quello di Daniele Alemagna, rapito nel 1974 a sette anni. Allora non sapevamo nemmeno cos’era un sequestro. Il padre mi diede l’ultima lettera che ricevette. E mi disse in lacrime: “Metto la vita mio figlio nelle sue mani”. Ricordo quello di Marcella Boroli, figlia del presidente dell’Istituto geografico De Agostini, rapita nel 1974 nonostante fosse incinta. E poi quello dell’ingegner Carlo Lavezzari, nel 1978. Fu l’indagine più bella della mia carriera: riuscimmo a prendere uno dei banditi mentre parlava da una cabina con la moglie. Ci fece impazzire tutta la notte a caccia della prigione. Ci disse che era in via Renato Serra, ma lì c’era un chilometro di palazzi. Da poco era stato ucciso Aldo Moro, dopo che la polizia era stata vicina al covo senza entrarvi, non potevamo correre lo stesso rischio. Perquisimmo decine di appartamenti senza trovare nulla. Poi ci diede l’indirizzo esatto. Circondammo lo stabile, prendemmo quelli dentro. Lavezzari era legato con le catene, ridotto a uno scheletro, raccontò che veniva frustato dal telefonista. “Lei è il mio secondo padre” disse”. Lasciò Milano dopo la nomina a questore... “Nel 1991. Fui mandato a Sondrio, mi aspettavo una città importante dal punto di vista criminale e invece i cittadini lasciavano le chiavi in auto. Passavo il tempo alla finestra del mio ufficio a contare le persone che passavano in piazza. Dopo sono stato a Cremona, anche qui tanta pace. A ottobre di quell’anno arrivo allo Sco e dopo un anno e mezzo il capo della polizia Vincenzo Parisi mi riportò a Milano da questore”. Era il ‘93. La Lega conquistò Palazzo Marino, con il sindaco Formentini... “La città era attraversata da mille tensioni sociali. La Lega cresceva e chiedeva spazio, il Leoncavallo era sempre agitato perché doveva abbandonare l’immobile. Riuscimmo a sgomberarlo senza nessun tipo di contrasto, una delle cose che ricordo con più soddisfazione. Milano era cambiata, la malavita era frammentata in tanti gruppi, era esploso il problema della droga. Al posto dei Vallanzasca e dei Turatello, c’erano bande di piccoli pusher perché la droga era consumata da tutti. Venne da me un architetto, mi parlò della figlia di sedici anni che si era innamorata di un balordo ed era finita schiava dell’eroina. Mi chiese aiuto. Vidi una ragazza di una bellezza eccezionale, ci parlai tante volte, alla fine pensai di essere riuscito a tirarla fuori. Ma dopo sei mesi, una volante mi chiamò per una donna morta su una panchina. Era lei. La droga era la cosa che più mi preoccupava da questore”. Furono anche gli anni della discesa in campo di Silvio Berlusconi... “Lo incontrai un anno dopo allo stadio, c’era Milan-Roma. Io sono romanista, purtroppo la Roma perse. Lui ci disse che dopo la partita ci saremmo visti a cena. “Se divento presidente del consiglio la farò capo della polizia”, mi disse. Pensai a una delle tante promesse dei politici, e invece quando divenne premier mi arrivò una telefonata. Era Berlusconi: “Non sono riuscito a farla capo, ma vicecapo e prefetto - m’informò -. Spero che sia contento”. Mi confidò che fu l’allora presidente Scalfaro a non volermi. Preferì Masone”. Oggi gli indici dei reati in città sono in calo. Eppure resta alto il senso di insicurezza dei cittadini... “Credo che molti reati non vengano denunciati, anche se furti e violenze restano e fanno crescere l’insicurezza. Quando sono arrivato a Milano, il senso d’insicurezza era concreto, vero, ma la gente si aiutava, i vicini di casa si interessavano se c’era un rumore strano nella casa accanto. Ora noto maggiore chiusura, non per omertà, ma per la sensazione di perdere tempo, di essere coinvolti in lunghi iter burocratici. Si preferisce non occuparsi degli altri. Mi sembra che Milano sia peggiorata. Prima c’erano dei nemici ben definiti, oggi la criminalità è polverizzata, sfrutta l’immigrazione incontrollata per reclutare manovalanza. Per questo se tornassi a fare il poliziotto sarei più preoccupato oggi che nei miei anni in prima linea”. Mala del Brenta, parla il Doge: “Non seguite il mio esempio” di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 9 gennaio 2023 Giampaolo Manca: cosa potrei dire a una madre che ha perso il figlio a causa mia? Sono pentito, ma non potrò mai riparare al danno che ho fatto e i miei fantasmi continueranno a perseguitarmi fino alla morte. Dal furto del tender di Aristotele Onassis al colpo nel caveau dell’hotel Excelsior di Venezia, passando per droga, usura e omicidi. Giampaolo Manca, detto il Doge, è stato un esponente di spicco della Mala del Brenta capeggiata dal boss Felice Maniero. Il suo soprannome se l’è guadagnato a 17 anni con un furto sensazione nella basilica di San Pietro e Paolo che segnò l’inizio della sua ascesa criminale terminata con le rivelazioni fatte proprio da Maniero che portarono al suo arresto. Oggi il Doge ha 68 anni e, dopo averne passati quasi 37 in carcere, ha deciso di intraprendere un cammino di riscatto. Ha raccontato la sua vita in diversi libri e ha donato in beneficenza i proventi delle vendite, con la collaborazione dell’associazione Alphabeta, per finanziare la costruzione di una casa-famiglia per bambini autistici.  Da tempo incontra gli studenti nelle scuole per parlare della sua esperienza di “redenzione” e il 10 gennaio, assieme all’avvocato Caterina Biafora, al presidente e al consigliere della circoscrizione 2 Luca Rolandi e Davide Schirru, parteciperà a un dibattito nell’aula magna dell’Iis Primo Levi. Nei mesi scorsi a Mirafiori, a poca distanza da quell’istituto, ci sono state due sparatorie che hanno riacceso vecchi timori negli abitanti del quartiere. Cosa dirà agli studenti?  “Che per emergere nella vita la strada della criminalità è sicuramente la peggiore. Porta a danni irreparabili e quando ci si rende conto di aver oltrepassato il limite è ormai troppo tardi. Incontrare gli studenti è la mia ragione di vita, la linfa che mi spinge a cercare il riscatto. Le ferite che mi porto dentro per il male che ho fatto non si rimarginano, ma l’abbraccio di un ragazzo alla fine di una conferenza mi aiuta a sentire meno dolore. Voglio essere l’esempio che non devono seguire”.  In questi giorni sta collaborando alla realizzazione di un film sulla vita. Non c’è il rischio che le serie televisive sulle “gesta” dei grandi criminali ispirino una voglia di emulazione da parte dei più giovani?  “Sono certo che questo film, che avrà la sceneggiatura di Carmelo Pennisi e Max Durante, avrà un messaggio diverso. Nella mia prima vita ho accumulato soldi, appartamenti, decine di Rolex e Cartier, ma cosa mi hanno portato? Facevo milioni a palate e mi sono rimasti solo rimorsi. Anche io sono cresciuto vedendo Scarface e immagino che in tanti guardando le fiction sul tema si illudano che sia tutto facile e indolore. Ma non è così”.  Le è piaciuto il personaggio del Doge nella miniserie “Faccia d’Angelo” con Elio Germano?  “Diego Pagotto, il bravissimo attore che ha interpretato il mio personaggio, è un amico, ma la sceneggiatura non andava molto in profondità. Io ho passato metà della mia vita in cella e oggi prendo 503 euro di pensione e vivo in una casa popolare. Non ho nostalgia del lusso, il mio rimpianto è aver trascorso troppo tempo lontano dalla mia compagna e da mio figlio. E, pur provenendo da una famiglia più che benestante, di non aver studiato. E su questo che voglio che i giovani riflettano”.  A Torino ci sono state aggressioni alla polizia penitenziaria e rivolte nella casa circondariale e nel carcere minorile. Come può essere ripensato il sistema carcerario? “Dietro le sbarre ho conosciuto personaggi “famosi” e visto brutture di ogni tipo e già si parlava di questo tema. Se continuiamo a farlo anche nel 2023 forse manca la reale intenzione di cambiare qualcosa. La prigione deve offrire un percorso di rieducazione. In alcuni istituti questo succede, ma in molti altri ci si limita ad aprire e chiudere la cella due volte al giorno”. In questi giorni si parla molto del caso di Alfredo Cospito. Cosa ne pensa?  “Il 41 bis l’ho vissuto sulla mia pelle per 12 anni. Dopo le “stragi” risultati ne ha dati, ma ormai non è più attuale. Il carcere duro non ti piega, ti imbruttisce e basta. Alla fine è una vendetta, mentre recuperare un delinquente è un vantaggio a livello sociale ed economico”.  Lei però in prigione ha iniziato la sua redenzione. Non è così?  “É vero, anche se redenzione è una parola troppo grossa, ma il carcere non c’entra nulla. Io ho ritrovato la fede quando ho saputo che mio padre stava morendo a causa di un tumore. Ho scoperto Dio ed è iniziata la mia terza vita. Sono stato fortunato, ho accanto una compagna fantastica, un figlio e un nipotino. È ho sempre paura di scoprire che è stato solo un sogno”.  Tornare in Piemonte che effetto le fa?  “Sono stato molti anni in carcere a Biella, mentre alle Nuove solo di passaggio. Ma Torino mi fa pensare anche alla terribile rapina al treno Venezia-Milano che costò la vita a una studentessa di 22 anni. Io avevo dato un’indicazione diversa, un convoglio che sarebbe dovuto passare da Torino. Fu una tragedia enorme”.  Ha incontrato i familiari delle persone morte per colpa sua?  “No, ma cosa potrei dire a una madre che ha perso il figlio a causa mia? Sono pentito, ma non potrò mai riparare al danno che ho fatto e i miei fantasmi continueranno a perseguitarmi fino alla morte. Poi subirò l’ultimo processo e, magari, riuscirò a guadagnarmi un posto in purgatorio”. Santa Maria Capua Vetere. Il processo per il pestaggio di Stato rischia di fermarsi prima di iniziare di Nello Trocchia Il Domani, 9 gennaio 2023 Non c’è pace per il processo che vede alla sbarra i protagonisti del pestaggio di stato, avvenuto il 6 aprile 2020, all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, Francesco Uccella. Il dibattimento non è ancora iniziato, visto che alla terza udienza, sono ancora in corso le valutazioni sulle richieste di costituzione di parte civile e le eccezioni sollevate dagli avvocati di difesa. E per una di queste eccezioni, il processo rischia di saltare con il rinvio degli atti alla Corte costituzionale. Eccezioni e prime udienze che raccontano anche quale potrebbe essere la strategia difensiva degli imputati eccellenti: differenziare la loro posizione da quella di chi ha materialmente eseguito il pestaggio puntando sul contesto, sulle proteste (pacifiche) del giorno precedente, il 5 aprile, per salvarsi dalle accuse più gravi come la tortura pluriaggravata. Il 6 aprile 2020, nel carcere Francesco Uccella, quasi 300 poliziotti penitenziari, provenienti anche da altri istituti, sono entrati in carcere e per oltre quattro ore hanno massacrato di botte e colpi di manganello i detenuti, una mattanza documentata dai video che Domani ha pubblicato nel giugno del 2021. I reclusi protestavano e chiedevano, dopo il primo caso di contagio in carcere, mascherine e dispositivi di sicurezza, ma hanno ricevuto botte, sputi, gomitate, bastonate e violenze. Sono 77 gli agenti che sono stati sospesi dal servizio, altri hanno continuato a lavorare con tanto di avanzamento di carriera. Nell’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere davanti alla corte d’Assise, a novembre scorso, si è aperto il processo a carico di 105 persone, uomini e donne dello stato, coinvolte a vario titolo nel pestaggio. Sono accusati di tortura pluriaggravata, lesioni, falso, calunnia, depistaggio e altri reati. A processo c’è l’intera catena di comando dell’istituto di pena Francesco Uccella: c’è l’ex provveditore regionale, Antonio Fullone, il commissario coordinatore della polizia penitenziaria del carcere, Gaetano Manganelli, il comandante del nucleo traduzioni, Pasquale Colucci, le comandanti dei nuclei operativi e parte del gruppo di supporto e interventi, Tiziana Perillo e Nunzia Di Donato, queste ultime mai sospese dal servizio. Il processo, esaurita la disamina delle richieste di costituzione di parte civile, si è avvitato attorno alle eccezioni sollevate dagli avvocati. In pratica i legali lamentano la violazione del diritto di difesa per la presunta assenza di alcuni atti nel fascicolo, circostanza che viene smentita da una memoria del pubblico ministero. I legali sollevano la questione di legittimità costituzionale chiedendo di invalidare il decreto che dispone il giudizio, l’atto che di fatto avvia il processo. La prossima udienza, prevista per il 9 gennaio, sarà decisiva visto che il 28 dicembre scorso il presidente della corte, Roberto Donatiello, ha annunciato la risoluzione della questione in modo da poter avviare finalmente il dibattimento o, in caso contrario, sospenderlo in attesa della Consulta. Sono tre gli elementi sulle quali si appoggiano le due questioni di legittimità costituzionale sollevate dagli avvocati. Il primo elemento è il mancato deposito dei brogliacci, anche se il codice di procedura penale non ne disciplina le modalità. Il secondo elemento posto è l’impossibilità di accedere ad alcune conversazioni presenti sui cellulari degli imputati; gli stessi legali, però, ammettono l’esistenza degli audio, ma l’ascolto è ”disagevole” per questioni tecniche. Un’altra questione, l’ultima, sembra quella sulla quale gli avvocati poggiano le maggiori aspettative. Riguarda l’assenza dei video del 5 aprile nei materiali depositati. Eppure nella memoria delle difese ci sono le indicazioni del minutaggio, elemento che farebbe supporre la disponibilità degli stessi da parte dei legali. All’interno della memoria, tra le questioni poste per sollevare l’incidente di costituzionalità, c’è un riferimento all’ex provveditore regionale, Antonio Fullone, colui che ha disposto la perquisizione e principale imputato del processo. All’imputato sarebbe stato negato l’accesso ad alcuni audio delle intercettazioni, ma la procura cosa risponde? In una memoria, la pubblica accusa ha già risposto che tutto è stato riversato negli atti negando quanto sostenuto dalle difese.  “La questione di costituzionalità è prematura, tanto tempo è stato impiegato per valutare la costituzione delle parti civili, il 9 la corte deciderà se far partire il processo ammettendo le prove oppure trasmettere gli atti della Corte costituzionale. A mio avviso la richiesta è infondata, quanto meno intempestiva e quindi ho chiesto alla corte di ritenere inammissibile la richiesta”, dice Michele Passione, avvocato che rappresenta il garante nazionale per i detenuti. I riferimenti, nelle memorie, ai filmati del 5 aprile tracciano e indicano una possibile linea difensiva da parte degli avvocati dei vertici imputati, quella di ricostruire il contesto di quanto accaduto e separare le colpe di chi ha ordinato la perquisizione-pestaggio da chi materialmente l’ha eseguita.  Il tutto si inserisce in un cambio di contesto, dentro e fuori dall’aula, dove il governo vuole modificare il reato di tortura e revocare le sospensioni agli agenti imputati. Più si allontanano gli effetti della visione di quelle immagini di violenza più c’è il rischio di normalizzare quanto accaduto quel 6 aprile nel carcere Francesco Uccella. Perugia. Nuovo padiglione al supercarcere di Capanne, costo 10,5 milioni di Alessandro Antonini Corriere dell’Umbria, 9 gennaio 2023 Lavori in arrivo al supercarcere di Capanne, scatta l’iter per l’allargamento della struttura: serve più spazio per i detenuti. Di questi tanti ne arrivano da fuori regione, in particolare dalla Toscana. Più della metà. Il ministero delle infrastrutture e dei trasporti ha indetto per il 18 gennaio alle 11 una riunione telematica con all’ordine del giorno a conferenza dei servizi “per l’accertamento della conformità urbanistica del progetto relativo alla costruzione di un nuovo padiglione del carcere di Capanne”.  Il progetto fa parte del piano del Mit finanziato con fondi Pnrr. I lavori quindi devono essere conclusi entro il 2026. In totale 58 interventi per un importo di 540 milioni di euro. A Perugia “è prevista la realizzazione di un nuovo padiglione presso il complesso penitenziario in località Capanne per un importo di 10,5 milioni di euro, nel quadro generale dell’obiettivo di miglioramento delle condizioni degli istituti penitenziari. Per questo intervento il provveditorato ha avviato le procedure per l’affidamento del progetto di fattibilità tecnico-economica”. L’obiettivo, come conferma il garante regionale per i detenuti, Giuseppe Caforio, è contenere il sovraffollamento. “Nulla da dire - spiega Caforio - ma come garante ritengo che vi siano altre priorità come le Rems per i detenuti malati mentali, che sono la vera emergenza carceraria attuale. Mentre i sindaci umbri si dicono tutti d’accordo per le Rems in Umbria nessuno li vuole nel proprio giardino. Credo che il tema di una autonomia dell’Umbria nella gestione delle carceri sganciandosi dalla Toscana è necessaria perché si possano fare scelte oculate frutto delle necessità di questo territorio a cominciare da quelle sanitarie del sistema carcerario”. Anche i numeri dicono che qualcosa va fatto. A Perugia la situazione a regime non non desta preoccupazione ma ci sono dei periodi, a causa dei trasferimenti dalla Toscana, che si va in sovranumero. Caforio ricorda che oltre il 65% dei detenuti attualmente nelle carceri umbre proviene da fuori regione e per reati commessi altrove. In Umbria il totale è di circa 1400 detenuti, a Perugia sono 350 di cui 46 donne.  La casa circondariale di Perugia è l’unica ad avere una sezione femminile in Umbria e, anche qui, i due terzi delle detenute sono di fuori Umbria. Proprio nella sezione femmininale, dove molte recluse sono mamme e si trovano lontano dai propri figli, si è soffermato Caforio nella sua visita effettuata nel carcere di Capanne il giorno di Natale, accompagnato dalla direttrice dell’istituto penitenziario, Bernardina Di Mario. Napoli. “Aiutiamo i giovani a non precipitare nell’inferno baby gang” di Sergio P., Giovanni C., Antonio D.* Il Mattino, 9 gennaio 2023 Sempre di più nella nostra società si sta allargando a macchia d’olio un fenomeno che fa parlare tutti i mezzi di comunicazione, la criminalità minorile. Il fenomeno di microcriminalità che si diffonde soprattutto nell’ambito di contesti urbani ha per protagonisti giovani ragazzi minorenni, dai 7 ai 14 anni, che si riuniscono in gruppi con il preciso scopo di commettere reati.  Si parte dal furto di smartphone e accessori griffati per arrivare agli atti vandalici, alle rapine, alle aggressioni e allo spaccio. Un aumento preoccupante del fenomeno, soprattutto dopo il Covid, infatti le statistiche affermano che negli ultimi due anni sono quasi raddoppiati. È facile pensare che questo fenomeno possa trovare terreno fertile nei contesti degradati, ma in realtà una percentuale abbastanza alta di fenomeni di criminalità minorile afferisce a quei contesti in cui l’istruzione sociale risulta essere media alta. Si tratta spesso di adolescenti incensurati, con alle spalle famiglie benestanti che vivono annoiati nel benessere.  Le baby gang sono un’evoluzione ancora più violenta del bullismo: le cause si possono racchiudere in un forte desiderio di anticonformismo, sulla base delle quali si tende ad andare contro le regole, oppure addirittura in un’assenza di orientamento socio-educativo da parte dei genitori.  L’approccio e l’esecuzione della babyg ang seguono uno schema ben preciso: si instaura un contatto con la vittima con la quale, quasi sempre per futili motivi, ne scaturisce una lite; dalla violenza verbale si passa velocemente a quella fisica che crea terrore e panico nella vittima. Per fermare l’avanzata del fenomeno bisogna intervenire prima che il minore aderisca ad una baby gang, rafforzando nei giovani i valori morali e la distinzione tra bene e male. Non si risolverà col ricorso alla punizione penale: leggi più severe, come l’abbassamento dell’età imputabile e l’incremento di detenzione presso le carceri minorili, non rappresentano secondo noi la soluzione per questo tipo di fenomeno. *Dal carcere di Poggioreale L’economista etiope che vuole sfamare il mondo con l’aiuto degli algoritmi di Claudia de Lillo La Repubblica, 9 gennaio 2023 Studi alla Lse, master alla Columbia e un’ossessione: l’insicurezza alimentare. Sara Menker raccoglie e organizza miliardi di dati per prevedere le tendenze e ottimizzare l’uso delle risorse, grazie all’intelligenza artificiale. “Se vogliamo cambiare il sistema, prima dobbiamo capirlo”, dice. Sara Menker è nata e cresciuta in Etiopia, ha 40 anni e una ossessione: l’insicurezza alimentare nel mondo. “Ho da sempre la consapevolezza che nella vita nulla sia scontato e che tutto quello che abbiamo possa sparire”. Forse anche per questo nel 2014 ha fondato a Nairobi, in Kenya, GRO Intelligence, società che utilizza l’intelligenza artificiale per prevedere le tendenze dell’agricoltura mondiale, per individuare le interconnessioni tra ecologia ed economia e per combattere la fame.  I “Gronies” (così si chiamano i suoi dipendenti) e i loro computer raccolgono miliardi di dati grezzi e disomogenei - previsioni di raccolto, immagini satellitari, precipitazioni, siccità, temperature, inondazioni qualità del suolo, topografia - li standardizzano, li organizzano e sviluppano indici e modelli capaci di tracciare il cambiamento climatico e di individuare nuove tecniche produttive. GRO, che oggi ha sedi anche a New York e Singapore, fornisce servizi a migliaia di società (tra cui Unilever, Bnp Paribas, Hsbc, Wells Fargo, la Camera di Commercio Usa) e lavora con i governi sui temi della sicurezza alimentare e nella pianificazione delle riserve di cibo. Durante l’invasione delle cavallette che ha devastato milioni di ettari di campi coltivati in Africa Orientale, GRO, utilizzando anche i dati satellitari per prevedere la direzione degli sciami, ha creato un modello per individuare dove utilizzare in modo efficiente la risorsa scarsa dei pesticidi, lavorando gratis per il governo etiope. Il padre nato in un carcere italiano - Tutto iniziò ad Addis Abeba. La madre di Sara Menker era una sarta di Ethiopian Airlines e aveva 24 fratelli e sorelle. Il padre, funzionario della Commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite, era nato in un carcere italiano in quanto figlio dell’autore del piano per uccidere il generale Rodolfo Graziani quando Mussolini cercò di colonizzare l’Etiopia. “Sono cresciuta in una famiglia solida, che ha lottato per sopravvivere. Sentivo il dovere nei loro confronti di far bene nella vita”, racconta Menker che, grazie ai sacrifici dei genitori, ha studiato in una delle migliori scuole della capitale. “Nel mio Paese tutto era razionato: benzina, cibo, zucchero, carta igienica”. Viveva già da vari anni negli Stati Uniti quando arrivò il Covid e, in quella frenesia collettiva di stoccaggio, i suoi amici fecero scorte di carta igienica, consigliandole di fare altrettanto. Lei si stupì perché a casa, già prima della pandemia, teneva oltre 80 rotoli. “Non è così che tutti vivono, nel costante timore che le scorte finiscano?”. In Morgan Stanley per occuparsi di materie prime - Grazie a una borsa di studio, Menker fu ammessa all’università femminile di Mount Holyoke in Massachusetts dove scelse Economia e Studi africani, per poi specializzarsi alla London School of Economics e prendere un master in Business & Administration alla Columbia University di New York. Quando Morgan Stanley le propose un lavoro a Wall Street, lei accettò purché potesse occuparsi di materie prime. “Era l’unico settore della finanza che sentivo legato al mondo reale e a ciò che mi interessava”. In quell’ambiente lei era una diversa e inizialmente tentò di somigliare agli altri, senza successo. “Smisi di provarci. I miei capelli erano diversi ma andavano bene così. Mi vestivo come mi pareva e portavo al lavoro la mia cultura”. A un certo punto tuttavia perse interesse nel mercato. “Il lavoro non mi somigliava più”. Era il 2008, c’era la crisi, i prezzi crollavano e i suoi colleghi, convinti che il mondo stesse per finire, comprarono oro e armi. “Io so come è fatta la fine del mondo”, commentò lei, memore dell’infanzia etiope. “E non è così”. Rinunciò all’iniziale proposito di comprarsi un pezzo di terra per guadagnarsi l’autonomia alimentare e investì il suo tempo nello studiare tutto sull’agricoltura, tanto da farne il suo chiodo fisso. Un deficit alimentare pari a 379 miliardi di Big Mac - “La prima volta che tornai in Etiopia dagli Stati Uniti, mio padre, prima ancora di salutarmi, mi domandò perché fossi ingrassata”. La quantità di cibo che assumeva in America era invariata ma le calorie evidentemente no. “Per questo bisogna occuparsi del valore nutritivo del cibo, non del suo peso”, spiegava nel 2017, durante un Ted Talk. Allora, prima della pandemia e della guerra in Ucraina, dichiarò che nel 2027 l’offerta di cibo nel mondo non sarebbe più stata in grado di soddisfare la domanda. “Nel 2027 avremo un deficit di 214 migliaia di miliardi di calorie, pari a 379 miliardi di Big Mac, più di quanti ne siano mai stati venduti”. La situazione sta precipitando. GRO ha calcolato che a giugno scorso c’erano 49 milioni di persone sull’orlo della carestia, a rischio di morte per fame, 1,1 miliardi in estrema povertà e 1,6 miliardi in una condizione di insicurezza alimentare. Che fare? Menker è convinta che la pur virtuosa strada del cambiamento dei consumi e della riduzione degli sprechi non sortisca gli effetti sperati e si affidi eccessivamente ai comportamenti etici dei Paesi in surplus. “Il cambiamento deve avvenire dai Paesi in deficit alimentare - India e Africa in primis - che hanno vaste zone ancora coltivabili (evitando la deforestazione) e margini per aumentare il rendimento della terra”. Dall’influenza suina in Africa agli skilift sulle Alpi - La rivoluzione della fondatrice e ad di GRO parte dai dati perché “se vogliamo cambiare il sistema, prima dobbiamo capirlo”. Raccogliendo informazioni e processandole, GRO valuta l’impatto dell’influenza suina in Africa sul mercato cinese e, a cascata, sui prezzi delle materie prime, gli effetti di uno sciopero dei camionisti in Brasile sui futures sullo zucchero a New York, le conseguenze del cambiamento climatico sugli impianti sciistici in Patagonia e sulle Alpi. Perché il mondo è interconnesso e coglierne le relazioni può contribuire a limitare gli squilibri. Tenace, appassionata, creativa, sogna un pianeta in grado di nutrire tutti, dove l’ecologia sia compatibile con la crescita economica. Oggi il suo incubo è diventata l’inflazione che spinge i Paesi al protezionismo e crea ulteriore insidie al sistema alimentare globale. Il gioco si fa sempre più duro ma lei, che sa come è fatta la fine del mondo, non si lascia intimidire.  Migranti. La strategia di Piantedosi è tenere le Ong lontane dal Mediterraneo di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 9 gennaio 2023 Altro fine settimana di tensione tra il governo e la società civile sui migranti. Nella giornata di ieri il Viminale ha rifiutato le richieste di approdo in un porto più vicino inviate dalla Geo Barents e della Ocean Viking - le due navi delle Ong Medici senza frontiere e Sos Mediterranée che hanno soccorso in mare rispettivamente 73 e 37 migranti - e alle quali le autorità italiane hanno assegnato nel tardo pomeriggio di sabato il porto di Ancona come sbarco. Una scelta che appare inspiegabile, visti i tanti porti disponibili nel sud del paese molto più vicini alle posizioni delle due navi. Ieri la Ocean Viking ha detto che ci vorranno quattro giorni di navigazione per arrivare ad Ancona, distante 1.575 km dalla loro posizione. Per la Geo Barents, la situazione è simile. Senza contare che stando alle previsioni meteo ci saranno forti venti e mare mosso tra domenica sera e la giornata di lunedì.  “Quest’ordine va contro l’interesse dei naufraghi e contro il diritto internazionale, inoltre svuota il Mediterraneo di navi di soccorso”, si legge sull’account Twitter della Sos Mediterranée. Ma il Viminale non solo ha respinto le richieste di un nuovo porto più vicino per entrambe le navi, ha anche rifiutato il trasbordo dei migranti.  “Il centro di coordinamento italiano ha rifiutato alla Geo Barents e alla Ocean Viking la possibilità di poter trasferire tutti i naufraghi a bordo di una sola nave, in modo da potere avere così un’altra nave ancora disponibile per poter soccorrere imbarcazioni in difficoltà se ve ne fosse bisogno”, ha detto Fulvia Conte, responsabile dei soccorsi della Geo Barents. Cosa significa per le navi - Secondo le Ong il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha in mente una strategia chiara: tenere le navi di ricerca e soccorso in mare il più lontano possibile dal Mediterraneo centrale e ostacolare le loro missioni. Basterebbe affidare un porto in Sicilia, come accaduto in passato, per diminuire i tempi di navigazione e far sbarcare l’equipaggio. Ora invece le navi si ritrovano ad attraversare l’Adriatico per arrivare ad Ancona, dove attiveranno tutte le procedure di sbarco, riforniranno la nave e l’equipaggio prima di salpare nuovamente e raggiungere dopo giorni il Mediterraneo centrale. L’assegnazione del Viminale comporta una perdita di almeno dieci giorni, un tempo prezioso in cui le navi potrebbero tornare in mare a salvare i migranti. I dati degli ultimi giorni dimostrano che nonostante la stagione invernale, centinaia di persone continuano a partire da paesi come Libia, Tunisia ed Egitto a bordo di piccoli gommoni e imbarcazioni fatiscenti, aumentando i rischi di naufragi. Nelle ultime ore cinque persone sono morte a largo delle coste tunisine, mentre altre dieci sono ancora disperse, dopo il naufragio di un piccolo barchino partita dalla regione di Sfax. Cosa significa per i migranti - Rimanere a bordo delle navi Ong per diversi giorni dopo il soccorso da un naufragio ha anche un impatto psicologico non indifferente per i migranti. Stare lontani dalla terra ferma rievoca la tragica esperienza vissuta in mare e tutti i suoi traumi. La situazione è ancora più difficile se le condizioni meteorologiche sono avverse. “Le cattive condizioni atmosferiche che incontreranno durante il lungo viaggio potrebbero essere un notevole rischio per la loro salute”, dicono dalla Sos Mediterranée. Senza contare che chi ha subìto ferite o ha bisogno di cure mediche - benché fuori pericolo di vita - dovrà attendere giorni prima di ricevere lo stesso trattamento di quello di una struttura sanitaria sulla terra ferma. Tra i 37 migranti salvati dalla Ocean Viking a largo delle coste libiche alcuni hanno riportato ustioni da carburante e sintomi di intossicazione e hanno bisogno di cure stabili. La scelta di Ancona - Secondo quanto riporta il quotidiano la Repubblica, il ministro dell’Interno Piantedosi sta invece assegnando i porti di approdo nelle città governate da amministrazioni di centro sinistra. Livorno, Ravenna, Taranto, Salerno, Bari, Gioia Tauro e per ultima Ancona sono solo le ultime città di approdo affidate alle navi delle Ong, tutte guidate da sindaci di sinistra. “Se fosse vero che governo e Ministro dell’Interno hanno scelto i porti sulla base del colore delle amministrazioni, sarebbe di una slealtà istituzionale enorme, oltre che inumano. Perché è inumano far viaggiare queste persone per altri 4 giorni, peraltro in condizioni di mare che non si preannunciano buone. Il ministro Piantedosi dovrebbe chiarire al più presto”, ha detto il segretario di +Europa, Benedetto Della Vedova. L’incontro del ministro ad Agrigento - Nella giornata di domani il ministro dell’Interno Piantedosi si recherà ad Agrigento per presenziare al Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, convocato dal prefetto di Agrigento. Insieme a lui ci saranno anche il capo della polizia, Lamberto Giannini, e il sindaco di Lampedusa Filippo Mannino. Il tema migranti è al centro dell’incontro e il primo cittadino della piccola Isola ha già le idee chiare su cosa chiedere al ministro. “Spero che la visita del ministro Piantedosi possa aiutarci. Abbiamo bisogno di essere messi in condizioni di poter continuare ad accoglierli, perché l’arrivo dei migranti è strettamente connesso ai servizi che il Comune offre con la sua macchina dell’accoglienza. Servizi che prevedono spese economiche ingenti e personale di cui noi siamo carenti”, ha detto a Lapresse Mannino. Il sindaco di Lampedusa vuole fondi e interventi strutturali per far fronte alle spese connesse all’accoglienza: dalla gestione dei rifiuti, ai soldi per le bare dei migranti giunti morti a Lampedusa. Negli ultimi cinque giorni sono arrivate nell’hotspot circa 2.600 persone, molte delle quali sono state trasferite. All’interno ci sono attualmente circa 996 persone, una cifra che rimane alta per la capienza massima consentita che prevede 398 posti disponibili. Migranti. Sbarco ad Ancona, Msf dice No: “Basta porti lontanissimi”. di Giansandro Merli Il Manifesto, 9 gennaio 2023 Mediterraneo. La meta è lontana 1.500 chilometri e 4 giorni. Stessa situazione per Ocean Viking, che protesta ma poi si mette in navigazione. Stavolta il Viminale ha scelto Ancona nella lotteria dei porti, sempre più lontani e tutti in città guidate dal centro-sinistra, dove spedire le navi delle Ong con il loro carico di umanità che qualcuno considera “residuale”. Ma ha ricevuto il primo No. A pronunciarlo Medici senza frontiere. La sua Geo Barents ha soccorso a mezzogiorno di ieri un gommone nero in difficoltà con a bordo 73 persone. Le ha trovate una quarantina di chilometri a nord-ovest della città libica di Al Khoms. Tra loro 16 minori. Come ormai di routine il centro di coordinamento nazionale per il soccorso marittimo (Imrcc) di Roma ha assegnato immediatamente il luogo dove sbarcare: una celerità che non serve a concludere il salvataggio il prima possibile ma a prevenirne altri. Infatti mentre si applicano alla lettera alcune parti delle convenzioni internazionali, altre sono interpretate in maniera creativa. Così il porto arriva subito ma è lontanissimo. Il risultato finale è il tradimento dello spirito delle norme di diritto internazionale pensate per salvare quante più vite possibile in un ambiente ostile come il mare aperto. “la decisione del governo è contraria alla legge internazionale secondo cui bisogna sbarcare nel minor tempo possibile. Navigare per 1.500 chilometri, durante quattro giorni, è contrario ai bisogni dei sopravvissuti”, fa sapere Msf. Che attacca: “Basta assegnare i porti così lontano. Serve solo ad allontanare le navi della società civile. Senza che siano sostituite da altri assetti”. Per questo l’Ong ha rifiutato l’indicazione dello scalo marchigiano e chiesto pubblicamente alle autorità italiane di assegnare una meta più vicina. Mentre scriviamo la nave sta risalendo verso nord ma non ha ricevuto ulteriori risposte. Oltre alla Geo Barents, Ancona è stato assegnato anche alla Ocean Viking, di Sos Mediterranée. La Ong che nel primo braccio di ferro con il nuovo governo, quello degli “sbarchi selettivi”, è finita a Tolone, in Francia, ieri ha salvato 37 naufraghi 35 miglia a nord delle coste libiche di Sabratha. Dal ponte hanno protestato per l’enorme distanza, ma alla fine si sono messi in navigazione. “La strategia dei porti lontani è illogica e discriminatoria - afferma il portavoce di Sos Mediterranée Francesco Creazzo - Prima di tutto costringe a viaggi lunghissimi persone che hanno bisogno di assistenza immediata. Poi crea un problema che è secondario ma non si può nascondere: moltiplica i costi delle missioni. Rischiano di diventare insostenibili per realtà, come la nostra, sostenute da piccoli donatori”. Intanto ieri sono arrivati maggiori dettagli sui due naufragi di venerdì. Per quello avvenuto a una trentina di miglia a sud-ovest dall’isola di Lampedusa si conoscono ora maggiori informazioni sulle tre vittime. La bambina, che aveva un anno e due mesi, si chiamava Sara, era originaria della Costa d’Avorio e viaggiava con la madre. Che ovviamente ora è sotto shock, nell’hotspot di Contrada Imbriacola. La donna e l’uomo, invece, avevano entrambi 38 anni. Lei, Melen, originaria del Camerun. Lui, Jonny, ivoriano. Il procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella ha aperto l’inchiesta di routine per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte come conseguenza di altro reato. Il rischio in questi casi è che tutta la responsabilità ricada su chi guidava, il cosiddetto “scafista”. Figura ben diversa dal trafficante che incassa i soldi. La barca era partita da Sfax con 35 persone, tutte subsahariane. Il primo soccorso è stato fornito da due pescherecci tunisini e poi dalle motovedette italiane. Sull’altra imbarcazione che si è ribaltata a nord-est delle Kerkennah oltre ai cinque morti annunciati venerdì, ci sono anche cinque dispersi. Impossibile sperare di trovarli in vita. Sul mezzo viaggiavano una trentina di persone. Anche in questo caso provenienti dall’Africa subsahariana. Intanto il presidente tunisino Kais Saied ha rimosso dall’incarico, insieme alla ministra del Commercio, il governatore di Sfax Fakher Fakhfakh. Non è chiaro se ci sia una relazione con la gestione dei flussi migratori. Di recente nella seconda città del paese c’è stata una vera e propria rivolta contro le autorità accusate di non fare abbastanza per soccorrere le persone in mare. Sulla sponda italiana, invece, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi incontrerà il sindaco di Lampedusa Filippo Mannino, come richiesto da quest’ultimo venerdì dopo l’ennesima tragedia. La riunione non sarà sulla maggiore delle Pelagie, come sperava il primo cittadino, ma nella prefettura di Agrigento dove il titolare del Viminale prenderà parte a un comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. Ci sarà anche il capo della polizia Lamberto Giannini, da poco rientrato da una missione a Tripoli a tema migratorio. Migranti. Raddoppia lo scudo greco al confine turco sul fiume Evros di Francesco De Palo Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2023 Grecia e Turchia, che il prossimo anno andranno ad elezioni, continuano ad essere protagoniste di una stagione di fortissime tensioni: l’immigrazione è solo la punta di un iceberg, che continua alla voce energia e geopolitica. Mentre la Turchia annuncia di aver rimpatriato nel 2022 in totale 55.502 cittadini afgani, Atene decide di raddoppiare lo scudo greco al confine turco sul fiume Evros: così il governo ellenico punta a “isolare” il corridoio balcanico per i migranti e ad impedire arrivi dalla Turchia (che continua a battare cassa a Bruxelles). Il governo Mitsotakis ha dato il via libera ad una recinzione di 140 chilometri sull’Evros, così come ha dichiarato oggi il ministro dell’interno Theodorikakos. Si parte con 100 milioni stanziati per i primi 35 chilometri che si sommeranno al filo spinato già esistente. La frontiera di Evros è nevralgica, non solo per la Grecia, ma perché è il rubinetto che Erdogan ha più volte minacciato di aprire per far passare i 5 milioni di profughi siriani detenuti su suolo turco, come da accordo Turco-Ue siglato nel 2016. La reazione di Erdogan non si è fatta attendere e, per bocca del ministero della Difesa, ha rivelato che un drone della marina turca avrebbe registrato filmati di forze greche che respingono illegalmente un’imbarcazione che trasportava migranti irregolari nelle acque territoriali turche. Così Ankara si vanta di aver ripetutamente condannato la pratica illegale della Grecia di respingere i richiedenti asilo, affermando che viola i valori umanitari e il diritto internazionale. Il tutto mentre Erdogan, nel solco della contrapposizione legata alle delimitazioni marittime, aumenta la tensione con i vicini. “Scateniamo il tifone. Quale il raggio d’azione del tifone? 561 chilometri”, ha detto in riferimento alla gittata del suo nuovo missile testato nel Mar Nero. In teoria sarebbe in grado di colpire Atene. Secondo il ministro dell’interno Theodorikakos le difficoltà di Erdogan “determinano le sue mosse politiche e la costante retorica provocatoria con cui credono di poter influenzare le nostre relazioni”, aggiungendo che la Grecia non può essere minacciata da nessuno. “Atene rifiuta le sfide con compostezza e determinazione assoluta. La leadership turca sa che negli ultimi 3,5 anni con il primo ministro Kyriakos Mitsotakis, la nostra patria è stata rafforzata strategicamente, militarmente, è rispettabile e nessuno, ma proprio nessuno, può minacciare nemmeno un millimetro di terra, aria o mare greci”. Grecia e Turchia, che il prossimo anno andranno ad elezioni, continuano ad essere protagoniste di una stagione di fortissime frizioni: l’immigrazione è solo la punta di un iceberg, che continua alla voce energia e geopolitica. I timori di un episodio “caldo” nell’Egeo si fanno sempre più intensi. La parte turca sta cercando di spingere la tensione all’estremo con provocazioni sia in aria con gli sconfinamenti da parte degli F-16 che in mare. Due giorni fa una baleniera turca ha molestato una nave della Guardia costiera greca con l’intento di speronarla. L’incidente è avvenuto nella zona a sud-est di Farmakonisi, all’interno delle acque territoriali greche, dove la nave greca si era spinta per identificare tre pescherecci turchi che pescavano nella zona, ma con il sospetto che fossero navi-spia, mandate in quel fazzoletto di acque dove sono in atto le ricerche di nuovi giacimenti di gas. Il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis, ha inviato un messaggio di sostegno alle isole coinvolte mentre si trovava a Gavdos per le celebrazioni dell’Epifania: “La Grecia non accetta suggerimenti su come far valere i propri diritti sovrani. Sono iniziate le indagini a ovest di Gavdos per l’esistenza di giacimenti di gas naturale. Invito gli Stati vicini ad avviare fruttuosi negoziati con la Grecia. Come abbiamo fatto con l’Egitto, possiamo farlo anche con la Libia”, ha sottolineato il premier rispondendo alle minacce di Erdogan, che 24 ore prima aveva annunciato ritorsioni se Atene avesse avallato le ricerche di idrocarburi. Sul punto si registra la presa di posizione del presidente della commissione per le relazioni estere del Senato degli Stati Uniti, Bob Menendez, secondo cui le continue minacce di Erdogan contro la Grecia “sono un comportamento assolutamente inaccettabile per il leader di un Paese Nato, queste insensate intimidazioni devono finire”. Brasile. Democrazia sotto attacco: golpe tentato come a Capitol Hill, il modello Trump fa proseliti di Gianni Riotta La Repubblica, 9 gennaio 2023 L’assalto di ieri al parlamento segue lo stesso copione di quello del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill. Nel giro di pochi giorni, accorato, Papa Francesco ha messo in guardia contro “l’idolo delle false notizie” e “il chiacchiericcio, arma letale che uccide la fratellanza”. Più di altri leader contemporanei, prima degli analisti incapaci di vedere l’energia negativa dei social media, il gesuita argentino coglie l’emergenza del tempo: e ieri, con le immagini dell’assalto di migliaia di sostenitori dell’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro e il saccheggio delle sedi istituzionali nella capitale Brasilia, le parole del Papa tornavano in mente, presaghe e sagge. Due anni fa, il 6 gennaio del 2021, miliziani trumpiani, organizzati online da estremisti militanti, QAnon, Oath Keepers, Proud Boys, tentarono un colpo di stato contro l’insediamento del nuovo presidente, il democratico Joe Biden, eletto nel novembre 2020, lasciando sul campo cinque vittime. Le responsabilità di Donald Trump e dei suoi collaboratori sono state messe in evidenza dalla Commissione parlamentare e la giustizia ha già condannato un migliaio di golpisti: eppure, fino alla tormentata elezione dello Speaker della Camera, il repubblicano McCarthy, tenuto in ostaggio dai nazionalisti come non capitava da un secolo, l’ombra del blitz pesava ancora sulla democrazia Usa. I bolsonaristi sono affluiti a Brasilia con dozzine di pullman, duplicando le gesta dei trumpiani, riprodotte chissà quante volte via YouTube. Con la maglia gialla, da ultras della Seleçao, hanno ferito almeno tre cronisti, distrutto telecamere, vandalizzando gli edifici del Congresso e della Corte Suprema. Il Palazzo Planalto, residenza del presidente, ha subito un analogo saccheggio, mentre la polizia, agli ordini dell’ex ministro di Bolsonaro Anderson Torres, stava a guardare o solidarizzava con i rivoltosi, scattando selfie sorridenti sulle barricate. Alla fine il governatore del distretto di Brasilia, Ibaneis Rocha, ha licenziato Torres via twitter, chiamando alla repressione contro “la rivolta antidemocratica”. Il Parlamento non è, per fortuna, in sessione, il neopresidente Lula è lontano da Brasilia. Ma il parallelo con l’Epifania americana 2021 è terrificante: contestare i rivali abbattendo i simboli della democrazia, sporcare i luoghi del dialogo parlamentare, imporre il proprio candidato sconfitto con muscoli e violenza. Un tragico dejà vu in un paese come il Brasile che dal 1 aprile del 1964 al 15 marzo del 1985 patì sotto la giunta militare, imposta da Washington contro il presidente di sinistra João Goulart. E la complicità, o almeno l’inerzia, delle forze dell’ordine, su cui la Commissione Usa ha tanto discusso dopo i fatti di Washington, lascia intendere che, malgrado le diplomatiche prese di distanza di Bolsonaro, la macchina della destra brasiliana si mobilitava da settimane per scatenare i disordini. Pensate all’assalto neofascista contro la sede della Cgil a Roma, il 9 ottobre 2021, per cui una mezza dozzina di caporioni son già stati condannati. La tecnica copia-incolla dal raid dei trumpiani, i dimostranti preceduti da commandos violenti, ha colto di sorpresa tutti, agenti e cronisti, mascherata da marcia no vax-no green pass, con troppi sponsor ipocriti alle spalle, finendo in rappresaglia ai danni di chi viene considerato nemico politico. Meditando su Brasilia, su Capitol Hill e sui nostri estremisti, nessuno pensi dunque di esser immune dal bacillo dell’odio, che dal web si ramifica in manganelli e assedi. Ogni voce politica che si voglia razionale, ogni commentatore che non sia un gaglioffo, deve sapere che alzare oltre modo i toni a caccia di like, violentare gli avversari a parole, umiliarne le ragioni con “notizie false”, “chiacchiericcio”, calunnie, raduna online i picchiatori, li chiama alle armi, prepara sangue nelle nostre strade. Messico. I bambini armati per il figlio del Chapo di Roberto Saviano Corriere della Sera, 9 gennaio 2023 Il Messico è il centro del mondo. È il centro del mondo osservandolo dalla prospettiva del narcotraffico, ossia l’unica economia comparabile a quella del petrolio. Nel 2021 i 13 membri dell’Opec hanno ricevuto entrate (ufficiali) per 561 miliardi di dollari; ebbene, il narcotraffico mondiale, secondo le stime del think tank Global Financial Integrity, gestisce proventi tra i 400 e i 600 miliardi di dollari annui. Queste cifre sono indicative, non tengono conto per il petrolio degli introiti non rendicontati e nel narcotraffico ci servono per mostrare una verità: le più grandi economie del mondo sono le più compromesse e le più disumane. Le più irraggiungibili e le meno monitorabili. L’economia del mondo cammina su queste gambe. Da un lato il petrolio, energia per i motori; dall’altra la droga, energia per i corpi. Produrre, produrre, produrre, e avvelenare, avvelenarsi, distruggere e distruggersi per profitto. Soltanto i cartelli del Messico, secondo le stime analizzate recentemente dal Washington Post, gestirebbero un profitto di quasi 6-10 miliardi di dollari, ma considerando anche il volume di affari dei mercati sudamericani assoggettati ai narcos messicani, arriverebbe a oltre 30 miliardi. Eppure, la supremazia mondiale nel narcotraffico da parte del Messico è cosa relativamente recente: a partire dagli anni 90 il Messico ha progressivamente assunto questa centralità, spodestando la Colombia (che rimane, con Perù e Bolivia, il maggior paese produttore di coca). Come è stato possibile? Difficile sintetizzarlo in poche righe, ma proverò a descrivere la dinamica che ha portato i narcos messicani ad essere gli imperatori del narcotraffico. È chiamata “dinamica Amazon”. In breve, i cartelli e i Paesi che vincevano nel mercato mondiale delle droghe erano quelli che producevano e, quindi, distribuivano la merce. Inizialmente i cartelli colombiani producevano cocaina e la distribuivano personalmente o attraverso gruppi direttamente dipendenti da loro. Ma negli anni 80, le autorità americane intensificarono i controlli nei Caraibi nell’ambito della “war on drugs” e cominciarono a sequestrare i carichi provenienti dalla Colombia. Sempre di più, uno dopo l’altro, sempre più difficile arrivare inosservati via mare sulle coste della Florida. Per far arrivare la coca negli Stati Uniti i narcos colombiani dovevano, quindi, trovare rotte alternative. E si rivolsero ai narcos messicani, che da anni trasportavano negli Stati Uniti la marijuana e l’eroina prodotta in Messico. Per loro si trattava solo di trasportare un nuovo prodotto, utilizzando le stesse rotte. All’inizio i narcos messicani si facevano pagare in contanti per il servizio, ma poi ebbero un’idea: farsi pagare in merce, in cocaina, che poi avrebbero messo loro stessi sul mercato. È così che i messicani da semplici corrieri diventarono distributori di cocaina. Non avevano la materia prima, ma rispetto ai colombiani avevano un vantaggio enorme: 3.145 chilometri di confine con il Paese che è il maggior consumatore di cocaina al mondo, gli Stati Uniti. Il distributore diventa più importante del produttore, chi distribuisce si compra chi produce. Metodo Amazon, ossia vale molto di più la qualità e accessibilità di chi distribuisce il prodotto rispetto a chi lo produce. Ecco come i messicani in pochi anni sono diventati i padroni mondiali del traffico di coca. Responsabile di questo allargamento esponenziale è El Chapo Guzmán, storico leader del cartello di Sinaloa, che oggi sta scontando l’ergastolo in un carcere degli Stati Uniti, in Colorado, dopo essere stato condannato da una corte di Brooklyn nel 2019. El Chapo è lì, negli Stati Uniti, con la possibilità di potersi pentire e svelare l’incredibile intreccio di alleanze politiche e finanziarie internazionali che governano il narcotraffico. Per ora tace, purché il suo silenzio sia garanzia del potere del cartello. Che non è affatto in crisi, come si sarebbe portati a pensare. L’arresto, avvenuto qualche giorno fa, di Ovidio Guzmán López “el Ratón”, il topo, uno dei dieci figli riconosciuti del Chapo Guzmán, in realtà è solo un inutile trofeo: quello che il governo messicano sta offrendo agli Stati Uniti (e al mondo) per mostrare il suo impegno nella guerra contro il narcotraffico. Non a caso, l’arresto è avvenuto a pochi giorni dalla visita ufficiale in Messico del presidente degli Usa, Joe Biden, e del premier canadese, Justin Trudeau, per il vertice delle Americhe. Sulla testa del “Ratón” gli Stati Uniti avevano messo una taglia da 5 milioni di dollari. Ma nonostante fosse uno dei maggiori ricercati del Messico, Ovidio non è mai stato considerato il vero erede del Chapo nel narcotraffico. Nulla, come sostengono importanti osservatori messicani, cambierà nell’assetto del cartello con l’arresto di Ovidio “el Ratón”. Insieme ai suoi fratelli Ivan Archivaldo, Jesús Alfredo e Joaquín “el Güero” fa parte dei “Chapitos”, ossia il gruppo di figli del boss che governa un’ala del cartello di Sinaloa, all’interno del quale dopo il suo arresto sono emerse diverse fazioni, mentre una parte rimane salda sotto la guida del Mayo Zambada. Ovidio è considerato il più debole dei Chapitos, eppure il suo arresto è stato sbandierato come un colpo durissimo inferto al cartello. Il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador ha un precedente ambiguo nei confronti del potere dei cartelli, nella primavera del 2020 sul web si diffuse un video di un evento organizzato a Badiraguato, città natale della famiglia Guzmán: nel video si vedeva il presidente messicano salutare rispettosamente l’anziana madre del Chapo, Maria Consuela Loera Perez, per poi dirle: “Ho ricevuto la tua lettera”. Il presidente veniva poi avvicinato dall’avvocato del narcotrafficante. López Obrador ha portato avanti una politica di non-conflitto aperto con l’economia del narcotraffico in una dinamica diffusa in molti Stati, si reprime il segmento militare e si lascia prosperare il segmento economico delle organizzazioni. “El Ratón” era già stato arrestato nel 2019, ma il giorno successivo era stato rilasciato dopo che un gruppo di sicari del cartello di Sinaloa aveva assaltato e preso in ostaggio membri delle forze dell’ordine. Ora nel Sinaloa assistiamo alla stessa reazione violenta da parte di membri del cartello e proteste anche da parte di semplici simpatizzanti, che sanno che toccare il narcotraffico significa toccare l’economia, i salari, la sicurezza. In un video diffuso su Twitter si vedono bambini di 8-10 anni armati di mitra messi e pronti a combattere a fianco del cartello di Sinaloa a Culiacán. I narconiños sono una delle forze dei cartelli, i più spietati, i più fedeli, i meno esposti al tradimento. Uccidono e tornano a dormire nella stanzetta accanto al letto dei genitori. Toccare un chapito può significare anche aprire fronti di guerra interni all’organizzazione criminale, che si ripercuotono inevitabilmente sulle strade. Ma per ora il cartello può stare tranquillo: un giudice federale ha già congelato l’estradizione di Ovidio, accogliendo un ricorso dei suoi avvocati; resterà in carcerazione preventiva (ma con la possibilità di sentire i familiari) per 60 giorni, durante i quali gli Stati Uniti dovranno formalizzare la richiesta di estradizione presentando la documentazione necessaria. E la rivolta di Sinaloa aveva questo fine: rendere impossibile la vita quotidiana delle città dominate dai cartelli fino a un segnale di rassicurazione. Ad oggi ci sono stati 29 morti per gli scontri dopo l’arresto del figlio del boss. Ovidio attualmente è nel carcere El Altiplano, lo stesso da cui El Chapo era evaso nel 2015 fuggendo in sella ad una moto montata su binari, attraverso un tunnel sotterraneo scavato sotto la sua cella. Come tutti i sovrani - e lui è un narcosovrano - El Chapo ha cercato di costruire una dinastia più estesa possibile. Dalla prima moglie, Alejandrina María Salazar Hernández, con cui si sposò nel 1977 ebbe quattro figli: - Alejandrina Gisselle, che da imprenditrice nel settore dell’abbigliamento ha lanciato una linea di vestiti chiamata “El Chapo 701”. Nel 2020, durante la pandemia da Covid-19, fece notizia perché si mise a distribuire generi di prima necessità alle persone in difficoltà. Alejandrina è moglie di Edgar Cazares, sposato il 25 gennaio 2020 nella cattedrale di Culiacán, blindata e chiusa al pubblico per l’occasione, con una cerimonia lussuosa e cantanti famosi di musica norteña, per mostrare al mondo che la famiglia Guzman era ancora parte dell’élite messicana. Edgar Cazares è figura importante nello scacchiere dei narcos: nipote di Blanca Margarita Cazares Salazar “La Emperatriz”, nota al Dipartimento del Tesoro americano per essere una sofisticata riciclatrice di denaro sporco per i cartelli messicani. - César, il figlio che non ha voluto metter mano al narcotraffico per poi gestire con la sorella Alejandrina la linea di moda “El Chapo 701”. - Iván Archivaldo “El Chapito”, classe 1983, il vero erede di suo padre. È il figlio che conta. Ricercato dalla Dea dal 2018, sulla sua testa pende una taglia da 5 milioni di dollari. La sua parola è la parola del padre. - Jesús Alfredo è l’altro figlio che conta. Insieme a Ivan, Joaquin e Ovidio è parte del gruppo Chapitos. Anche lui ricercato dalla Dea dal 2018, sulla sua testa pende una taglia da 5 milioni di dollari. Nel 1980 El Chapo sposò Griselda López Pérez, con cui ebbe altri 4 figli: - Joaquín “El Güero” o “Güero Moreno”, di cui si sa pochissimo. È certo che appartiene ai Chapitos, è ricercato e sulla sua testa pende una taglia da 5 milioni di dollari. - Édgar, ucciso nel 2008, l’unico figlio ammazzato del Chapo. - Ovidio “el Ratón”, arrestato il 5 gennaio. Era già arrestato nel 2019, il giorno successivo era stato rilasciato dopo che un gruppo di sicari del cartello di Sinaloa aveva assaltato e preso in ostaggio membri delle forze dell’ordine; anche dopo quest’ultimo arresto, uomini armati hanno messo a ferro e fuoco tutto il Sinaloa come risposta alla cattura del figlio del Chapo. - Griselda Guadalupe Dall’ultimo matrimonio, quello con Emma Coronel Aispuro (condannata nel 2021 a 3 anni di reclusione per narcotraffico in Usa, dopo essersi dichiarata colpevole di aver aiutato il Chapo a far entrare droga negli Stati Uniti), ha avuto nel 2011 due gemelle, entrambe - per ironia della sorte - cittadine americane: - María Joaquína - Emali Guadalupe Fino a qui, i 10 figli riconosciuti del Chapo. Alcune fonti, tuttavia, sostengono che prima di Emma Coronel, alla fine degli anni 80, il boss si sposò con Estela Peña, un’impiegata di banca che incontrò quando aveva 30 anni. Guzmán provò a conquistarla in tutti i modi, ma lei rifiutò a lungo le sue avances. Amareggiato, la rapì e la violentò in un hotel di lusso di Puerto Vallarta. Tre mesi dopo si sarebbero sposati e dalla loro relazione sarebbero nati: - Desiré - Diego Alla fine del 2015 la rivista messicana Proceso rivelò che, secondo le carte raccolte, Joaquin “El Chapo” Guzmán avrebbe avuto 18 figli da 7 donne diverse. La dinastia del Chapo non si estinguerà mai si trasformerà in una infinita e mimetica confluenza con il potere politico e finanziario: la cocaina, la marijuana, l’eroina, la metanfetamina sono i beni che l’azienda dei cartelli pompa nel mercato americano ed europeo, sono la benzina dei corpi e fin quando i governi non si accorderanno in una nuova strategia di contrasto fondata sulla legalizzazione rendendosi conto che in 50 anni la guerra alla droga ha solo diffuso il potere del narcotraffico, nulla cambierà anzi cambierà solo la testa sulla quale sarà posta di volta in volta la corona al nuovo boss. Iran. Giornalista si suicida dopo il rilascio dal carcere. I media: “Droghe somministrate durante la detenzione” La Stampa, 9 gennaio 2023 Mohsen Jafarirad, 36 anni, reporter, critico cinematografico e documentarista, si è suicidato dopo essere stato rilasciato dal carcere in Iran. La notizia, riferita da Bbc persian, è stata rilanciata da un collega del giornalista, Hoshang Golmakani, sui social: ”Suicidio dopo la libertà. Il nostro collega si è suicidato domenica prendendo delle pillole. Qualche settimana fa, durante i disordini a Karaj, Moshen è stato arrestato mentre tornava a casa. Poi è stato rilasciato”, ha raccontato.  La Bbc ricorda che non è il primo caso di suicidio dopo il rilascio dalle carceri iraniane, tanto che molti parlano di morti sospette. Secondo il canale tv Iran International, esiste il sospetto che ai detenuti “vengano somministrate droghe potenti che potrebbero causare tendenze suicide una volta che smettono di usarle”. Burkina Faso, l’Onu chiede indagini sull’uccisione di 28 persone di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 9 gennaio 2023 L’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite ha chiamato sabato le autorità di transizione nel Burkina Faso chiedendo che si indaghi in modo rapido e trasparente sull’uccisione di 28 persone i cui corpi sono stati rinvenuti lo scorso 30 dicembre. Volker Turk ha chiesto un’indagine “tempestiva, completa, imparziale e trasparente e a individuare responsabili indipendentemente dalla posizione o dal grado”, ha affermato. “Ho inviato una lettera al Ministro degli Affari Esteri sottolineando proprio questo messaggio - ha dichiarato l’Alto Commissario -. È il minimo dovuto alle vittime e ai loro cari”. L’ufficio per i diritti delle Nazioni Unite ha affermato che sue fonti locali hanno attribuito le uccisioni a una milizia di volontari, Volontaires pour la Defense de la Patrie (Vdp), creata per sostenere la battaglia dell’esercito contro i jihadisti. Secondo queste fonti membri del Vdp sono arrivati in città uccidendo i 28 uomini “in un’apparente rappresaglia per un precedente attacco alla base militare del gruppo la notte precedente” da parte di sospetti membri della Jama’at Nasr, gruppo legato ad Al Qaeda. In un comunicato, il governo ha ha condannato la “violenza inaccettabile” e ha invitato la popolazione alla calma in attesa dell’esito delle indagini. “Questo dramma si verifica in un momento in cui il Burkina Faso ha avviato un’operazione di mobilitazione di tutto il popolo per l’unità di azione nella lotta al terrorismo”, si legge nella dichiarazione. Il “Collettivo contro l’impunità e la stigmatizzazione delle comunità” (Cisc) ha denunciato “esazioni” dei Volontari per la difesa della Patria (Vdp, ausiliari dell’Esercito). “Si tratta di civili armati che si dichiarano Volontari per la Difesa della Patria (Vdp), i quali si danno liberamente a saccheggi organizzati e ad abusi mirati contro le popolazioni civili” basandosi sulla “profilazione razziale”: lo ha scritto su Facebook l’ong “Collettivo contro l’impunità e la stigmatizzazione delle comunità” indicando i presunti responsabili della strage con 28 vittime perpetrata il 30 dicembre in Burkina Faso a Nouna, il capoluogo della provincia di Kossi. “A seguito di un attentato terroristico” jihadista contro il quartier generale dei volontari di Nouna “nella notte tra il 29 e il 30 dicembre” uomini armati identificati dalle vittime come Vdp hanno compiuto “rappresaglie” e “azioni omicide” in “quartieri abitati prevalentemente dalla comunità Fulani”, aggiunge il testo. Il riferimento è all’etnia storicamente nomade e islamica diffusa nell’Africa occidentale, dalla Mauritania al Camerun, e spesso in conflitto con altre comunità più stanziali e cristiane come gli Igbo in Nigeria.