Per la vita di Cospito, appello al ministro della Giustizia e all’amministrazione penitenziaria Il Manifesto, 8 gennaio 2023 Il caso. Cospito rischia seriamente di morire, il tempo sta per scadere: è necessario revocare il regime del 41 bis, per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria. Alfredo Cospito è a un passo dalla morte nel carcere di Bancali a Sassari all’esito di uno sciopero della fame che dura, ormai, da 80 giorni. Detenuto in forza di una condanna a 20 anni di reclusione per avere promosso e diretto la FAI-Federazione Anarchica Informale (considerata associazione con finalità di terrorismo) e per alcuni attentati uno dei quali qualificato come strage pur in assenza di morti o feriti, Cospito è in carcere da oltre 10 anni, avendo in precedenza scontato, senza soluzione di continuità, una condanna per il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. Dal 2016 è stato inserito nel circuito penitenziario di Alta Sicurezza 2, mantenendo, peraltro, condizioni di socialità all’interno dell’istituto e rapporti con l’esterno. Ciò sino al 4 maggio 2022, quando è stato sottoposto al regime previsto dall’art. 41 bis ordinamento penitenziario, con esclusione di ogni possibilità di corrispondenza, diminuzione dell’aria a due ore trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri e riduzione della socialità a una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti. Per protestare contro l’applicazione di tale regime e contro l’ergastolo ostativo, il 20 ottobre scorso Cospito ha iniziato uno sciopero della fame che si protrae tuttora con perdita di 35 chilogrammi di peso e preoccupante calo di potassio, necessario per il corretto funzionamento dei muscoli involontari tra cui il cuore. La situazione si fa ogni giorno più grave, e Cospito non intende sospendere lo sciopero, come ha dichiarato nell’ultima udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma: “Sono condannato in un limbo senza fine, in attesa della fine dei miei giorni. Non ci sto e non mi arrendo. Continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro”. Lo sciopero della fame di detenuti potenzialmente fino alla morte è una scelta esistenziale drammatica che interpella le coscienze e le intelligenze di tutti. È un lento suicidio (che si aggiunge, nel caso di Cospito, agli 83 suicidi “istantanei” intervenuti nelle nostre prigioni nel 2022), un’agonia che si sviluppa giorno dopo giorno sotto i nostri occhi, un’autodistruzione consapevole e meditata, una pietra tombale sulla speranza. A fronte di ciò, la gravità dei fatti commessi non scompare né si attenua ma deve passare in secondo piano. Né vale sottolineare che tutto avviene per “scelta” del detenuto. Configurare come sfida o ricatto l’atteggiamento di chi fa del corpo l’estremo strumento di protesta e di affermazione della propria identità significa tradire la nostra Costituzione che pone in cima ai valori, alla cui tutela è preposto lo Stato, la vita umana e la dignità della persona: Per la sua stessa legittimazione e credibilità, non per concessione a chi lo avversa. Sta qui - come i fatti di questi giorni mostrano nel mondo - la differenza tra gli Stati democratici e i regimi autoritari. La protesta estrema di Cospito segnala molte anomalie, specifiche e generali: la frequente sproporzione tra i fatti commessi e le pene inflitte (sottolineata, nel caso, dalla stessa Corte di assise d’appello di Torino che ha, per questo, rimesso gli atti alla Corte costituzionale); il senso del regime del 41 bis, trasformatosi nei fatti da strumento limitato ed eccezionale per impedire i contatti di detenuti di particolare pericolosità con l’organizzazione mafiosa di appartenenza in aggravamento generalizzato delle condizioni di detenzione; la legittimità dell’ergastolo ostativo, su cui il dibattito resta aperto anche dopo l’intervento legislativo dei giorni scorsi e molto altro ancora. Non solo: la stessa vicenda di Cospito è ancora per alcuni aspetti sub iudice ché la Corte costituzionale deve pronunciarsi sulla possibilità che, nella determinazione della pena, gli effetti della recidiva siano elisi dalla concessione dell’attenuante della lievità del fatto e la Cassazione deve decidere sul ricorso contro il decreto applicativo del 41 bis. Su tutto questo ci si dovrà confrontare, anche con posizioni diverse tra di noi. Ma oggi l’urgenza è altra. Cospito rischia seriamente di morire:può essere questione di settimane o, addirittura, di giorni. E l’urgenza è quella di salvare una vita e di non rendersi corresponsabili, anche con il silenzio, di una morte evitabile. Il tempo sta per scadere. Per questo facciamo appello all’Amministrazione penitenziaria, al Ministro della Giustizia e al Governo perché escano dall’indifferenza in cui si sono attestati in questi mesi nei confronti della protesta di Cospito e facciano un gesto di umanità e di coraggio. Le possibilità di soluzione non mancano, a cominciare dalla revoca nei suoi confronti, per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria, del regime del 41 bis,applicando ogni altra necessaria cautela. È un passo necessario per salvare una vita e per avviare un cambiamento della drammatica situazione che attraversano il carcere e chi è in esso rinchiuso. 7 gennaio 2023 Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale, Università di Torino Silvia Belforte, già docente di architettura, Politecnico di Torino Ezio Bertok, presidente Controsservatorio Valsusa don Andrea Bigalli, parroco in Firenze, referente di Libera per la Toscana Maria Luisa Boccia, presidente del CRS (Centro per la Riforma dello Stato) Massimo Cacciari, filosofo Gian Domenico Caiazza, avvocato, presidente Unione Camere Penali Italiane don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera Gherardo Colombo, già magistrato, presidente della Garzanti Libri Amedeo Cottino, professore di sociologia del diritto nelle Università di Torino e Umeå (Svezia) Gastone Cottino, accademico ed ex partigiano, già preside Facoltà di Giurisprudenza, Università di Torino Beniamino Deidda, magistrato, già Procuratore generale di Firenze Donatella Di Cesare, docente di filosofia teoretica, Università di Roma La Sapienza Daniela Dioguardi, UDI (Unione Donne Italiane), Palermo Angela Dogliotti, vice presidente Centro Studi Sereno Regis Elvio Fassone, già magistrato e parlamentare Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto Giovanni Maria Flick, già presidente della Corte costituzionale e ministro della giustizia Chiara Gabrielli, docente di procedura penale, Università di Urbino Domenico Gallo, magistrato, già presidente di sezione della Corte di cassazione Elisabetta Grande, docente di Sistemi giuridici comparati nell’Università del Piemonte orientale Leopoldo Grosso, presidente onorario del Gruppo Abele Franco Ippolito, presidente Fondazione Basso Roberto Lamacchia, avvocato, presidente Associazione italiana Giuristi democratici Gian Giacomo Migone, docente di Storia dell’America del Nord nell’Università di Torino, già senatore Tomaso Montanari, docente di storia dell’arte, rettore dell’Università per stranieri di Siena Andrea Morniroli, cooperatore sociale, Napoli Moni Ovadia, attore, musicista e scrittore Giovanni Palombarini, magistrato, già procuratore generale aggiunto presso la Corte di cassazione Michele Passione, avvocato in Firenze Valentina Pazé, docente di filosofia politica, Università di Torino Livio Pepino, presidente di Volere la Luna e direttore editoriale delle Edizioni Gruppo Abele Alessandro Portelli, storico e docente di letteratura angloamericana all’Università di Roma La Sapienza Nello Rossi, magistrato, già avvocato generale presso la Corte di cassazione Armando Sorrentino, avvocato, Associazione italiana giuristi democratici, Palermo Gianni Tognoni, segretario generale del Tribunale permanente dei popoli Ugo Zamburru, psichiatra, fondatore del Caffè Basaglia di Torino Padre Alex Zanotelli, missionario comboniano Per aderire all’appello: https://forms.gle/jtekmZS4zsdLPUht6 Appello di giuristi e intellettuali contro il carcere duro per Cospito: “Sta morendo” rainews.it, 8 gennaio 2023 Il militante anarchico insurrezionalista è rinchiuso nel carcere di Sassari e ha smesso di mangiare il 19 ottobre scorso. 38 firme per l’appello, anche Cacciari e don Ciotti. “Un gesto di umanità e coraggio”, come la revoca del 41 bis, a Alfredo Cospito che “è a un passo dalla morte nel carcere di Bancali a Sassari all’esito di uno sciopero della fame che dura, ormai, da 80 giorni”. È quanto chiede al ministro della Giustizia e al governo, l’appello sottoscritto da una ventina tra giuristi e intellettuali, tra i quali l’ex presidente della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, l’attore musicista e scrittore, Moni Ovadia e padre Alex Zanotelli, missionario comboniano. Sono 38 per ora le firme in calce all’appello - ma la raccolta delle sottoscrizioni continua- per un gesto di umanità nei confronti di Alfredo Cospito. Tra le altre, ci sono quelle del filosofo Massimo Cacciari, di don Luigi Ciotti, dell’ex pm di Mani Pulite, Gherardo Colombo, attualmente presidente della Garzanti Libri, del filosofo del diritto Luigi Ferrajoli, del presidente dell’Unione delle Camere penali, Giandomenico Caiazza. Tanti i magistrati in pensione, come l’ex Pg di Firenze, Beniamino Deidda, Domenico Gallo, Nello Rossi, Livio Pepino, oggi presidente di Volere la Luna e direttore editoriale delle Edizioni Gruppo Abele e Franco Ippolito, attualmente presidente della Fondazione Basso. Alfredo Cospito, militante anarchico insurrezionalista, sta conducendo uno sciopero della fame nel carcere di Sassari ormai dal 19 ottobre scorso. Cospito protesta perché da aprile, dopo aver già trascorso sei anni di detenzione, è sottoposto al regime detentivo del 41-bis, il cosiddetto “carcere duro” che prevede importanti restrizioni, e perché la sua condanna a venti anni di reclusione potrebbe trasformarsi in ergastolo ostativo, cioè l’ergastolo che non prevede la possibilità di accedere ai benefici di legge. Cospito è stato ritenuto responsabile di un attentato risalente a 16 anni fa che non provocò né morti né feriti.  Cospito ha 55 anni, è nato a Pescara, ma viveva a Torino con la sua compagna, Anna Beniamino, anche lei in carcere, titolare di un negozio di tatuaggi nella zona di San Salvario. Entrambi si riconoscono nella Fai-Fri, Federazione anarchica informale - Fronte rivoluzionario internazionale, che invoca la lotta armata contro lo Stato, contro il capitale e contro il marxismo che viene considerato propugnatore di autoritarismo oppressivo.  Nel 2013 Cospito fu condannato a dieci anni e otto mesi di carcere per aver ferito a Genova, con colpi di pistola alle gambe, il dirigente dell’Ansaldo, Roberto Adinolfi. Quando era già in carcere venne accusato di aver posizionato, nella notte ??tra 2 e 3 giugno 2006, due pacchi bomba davanti alla scuola allievi dei carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo. L’esplosione non causò né morti né feriti. Entrambe le bombe, che esplosero a mezz’ora di distanza l’una dall’altra, erano state realizzate con una pentola a pressione e un tubo di metallo con dentro 800 grammi di polvere pirica. Cospito e Anna Beniamino vennero condannati a 20 e 16 anni di carcere.  Dopo la condanna Cospito venne inserito nel circuito penitenziario ad alta sicurezza in cui sono riuniti i detenuti per reati di tipo associativo che sono sottoposti a sorveglianza più stretta e che prevede limitazioni ma salvaguarda alcune garanzie e diritti. Dopo sei anni, nel 2022, il ministero della Giustizia ha però deciso di sottoporlo al regime di 41-bis. È il primo anarchico a cui viene applicata questa misura. Cospito è intenzionato ad andare avanti con lo sciopero della fame anche fino “alle conseguenze estreme”. Un detenuto su tre ha un lavoro: la spinta delle aziende di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2023 Attualmente oltre 18.600 carcerati su 55mila hanno un impiego. Di questi circa 2.400 lavorano all’esterno: l’obiettivo è il raddoppio. Un lavoro per una nuova vita. La seconda chance per chi sconta una pena in carcere passa anche da un nuovo impiego in azienda, spesso assicurato dalle imprese che entrano negli istituti di pena per garantire un’occupazione all’esterno. Il campo delle possibilità spazia dall’edilizia all’agricoltura, dalla falegnameria alla panetteria per arrivare sino al call center e alle telecomunicazioni. Lavoro che è non solo alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria ma pure in aziende vere e proprie. Fenomeno, quest’ultimo, che in Italia assicura lo stipendio a oltre duemila carcerati ma che in prospettiva potrebbe raddoppiare, almeno in termini di cifre. I dati, a tal proposito, sono eloquenti. Su un totale di 54.841 detenuti, i lavoranti sono complessivamente (il dato è al 30 giugno 2022) 18.654. Di questi 16.181 sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, mentre i lavoranti non alle dipendenze dell’amministrazione sono 2.471. Il quadro generale si ferma al 31 dicembre del 2021. E parla di un mondo “parallelo” che conta, distribuite in 26 categorie, 247 attività svolte (no delle quali a carico dell’amministrazione penitenziaria) in cui si spazia dall’assemblaggio e riparazione componenti elettronici alla calzoleria, continuando con data entry e dematerializzazione documenti, e poi la falegnameria per arrivare al lanificio tessitoria con 333 occupati. Secondo una stima del ministero della Giustizia i detenuti potenzialmente pronti per un nuovo lavoro anche all’esterno del carcere sono oltre 2.300. A delineare questo scenario in cui la pena si unisce all’attività lavorativa, i protocolli siglati negli ultimi mesi dall’amministrazione penitenziaria. A giugno, per esempio, c’è stata la svolta con il mondo delle telecomunicazioni che ha varcato le sbarre delle carceri a valle del Memorandum d’intesa del programma Lavoro carcerario siglato dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia e l’allora ministro dell’Innovazione tecnologica Vittorio Colao e in collaborazione con gli operatori delle tlc. Due le strade seguite in quest’ambito e nove le aziende impiegate. Nello specifico si tratta di Fastweb, Linkem, Tiscali, Sky, Telecom Italia, Vodafone e Windtre. Le aziende porteranno avanti attività di rigenerazione degli apparati terminali di rete tramite laboratori dedicati all’interno delle carceri. Dovrebbero venir coinvolte fino a zoo persone tra gli istituti di Lecce, Roma Rebibbia, Torino e Uta (Cagliari). C’è poi anche l’attività all’esterno, cui hanno aderito Open Fiber, Sielte e Sirti per la realizzazione delle reti di accesso. Questa iniziativa prevede che i detenuti possano lavorare anche all’esterno del carcere, per realizzare la posa e giunzione delle reti in fibra ottica. Su questo fronte sono stati individuati complessivamente 2.326 detenuti con i requisiti potenziali personali e di legge in grado di lavorare anche all’esterno. La prima fase del progetto avrà carattere di sperimentazione su tre istituti che saranno in grado di formare circa 100 detenuti in sei settimane. Proprio in questo ambito, recentemente, il gruppo Sirti e Open Fiber hanno definito il programma di Lavoro Carcerario nella struttura penitenziaria di Rebibbia e che il 14 dicembre ha visto l’ufficializzazione dell’assunzione di 7 detenuti. Si tratta di persone che dopo il completamento del percorso formativo, “entreranno nelle squadre di Sirti e del consorzio Open Fiber Network Solutions (Ofns) come addetti per le attività di giunzione di fibra ottica per le infrastrutture di rete in Italia” nell’ambito del progetto “Programma Lavoro Carcerario”. Una partecipazione che, come sottolinea Ivan Rebernik, direttore Personale, Organizzazione e Servizi di Open Fiber “offre ai detenuti una nuova opportunità potenziando la funzione rieducativa della pena”. In viaggio anche il protocollo del 19 ottobre, siglato tra Commissario straordinario per il sisma, la Cei, l’Ance e l’Anci con cui si prevede che i detenuti di dieci province delle regioni Abruzzo, Lazio, Molise, Marche e Umbria possano avere l’occasione di lavorare nei cantieri di oltre 5.000 opere di ricostruzione pubblica e in quelli di 2.500 chiese danneggiate dal terremoto 2016. Un’occasione, come sottolineato dal vicepresidente dell’Ance Piero Petrucco, anche per le imprese “di formare nuova manodopera in opere importanti per la rinascita di un territorio ferito dal terremoto”. A guardare positivamente l’introduzione del lavoro in carcere i rappresentanti del volontariato che si occupa di detenuti e strutture penitenziarie. “Si tratta senza dubbio di attività di alto valore e molto importanti - commenta Andrea Scandurra, responsabile Osservatorio carceri dell’associazione Antigone - con un lavoro vero e proprio che va oltre quello che si può compiere dentro che, molto spesso viene svolto a rotazione ed è una sorta di welfare interno”. A favorire l’attività imprenditoriale in carcere i benefici della legge Smuraglia. Complessivamente sono 349 le aziende che, per un ammontare complessivo di 9.399.892,94 euro sono state ammesse alle agevolazioni per il 2022. “Uno dei vantaggi per le aziende che decidono di intervenire riguarda i costi - aggiunge ancora Scandurra - che, nella maggior parte dei casi non sono a carico delle imprese”. E poi gli sgravi fiscali. Le aziende che assumono detenuti o internati all’interno degli istituti penitenziari o lavoranti all’esterno, possono giovarsi di un credito d’imposta per ogni lavoratore assunto, nei limiti del costo per esso sostenuto, di 520 euro mensili. Una cifra che scende a 300 euro mensili se gli assunti sono semi liberi. Occasioni irrinunciabili, come sottolinea Andrea Scandurra, che rimarca l’importanza di un lavoro “vero e proprio che va oltre quello che si può compiere dentro”. Un’occasione per riscattarsi e costruire un nuovo percorso anche per quando si lascia il carcere. Stretta ai permessi. “Protocollo Melillo” per evitare l’uscita di 5mila mafiosi di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2023 Venuta meno la norma del carcere ostativo, molti boss possono accedere ai permessi. L’allerta corre da settimane. Tra Procura nazionale antimafia, direzioni distrettuali, Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), vertici operativi di Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri e Guardia di Finanza. Venuta meno la norma del carcere ostativo, si rischia una fuoriuscita indebita dalla galera di molti mafiosi. Pronti a sfruttare la possibilità sopraggiunta di accedere ai benefici previsti per legge, permessi innanzitutto. Senza dover più pentirsi o dissociarsi né collaborare con lo Stato. In teoria, ha detto il procuratore nazionale Giovanni Melillo, gli interessati sono 5mila, la stragrande maggioranza condannati per reati di criminalità organizzata. Oltre una settantina le istanze già presentate ai Tribunali di sorveglianza. Su queste domande deve dare un parere la Procura nazionale e le Dda-Direzioni distrettuali antimafia. Al Viminale più volte si sono confrontati tutti gli attori coinvolti. L’ultima riunione giovedì scorso presso l’ufficio coordinamento delle forze di polizia del Dipartimento di Pubblica sicurezza guidato da Lamberto Giannini. È nato così ed è stato sottoscritto un protocollo operativo tra uffici giudiziari territoriali e la Pna. Un testo presentato dal procuratore Melillo: va messa in atto ogni possibile azione per scongiurare permessi forieri di nuove attività illegali. Tra novembre e dicembre scorso Melillo ha già disposto la creazione presso il sistema informativo digitale (Sidna) di cartelle nominative - mafiosi e terroristi - ad hoc per la questione, in un’area di condivisione informativa riservata ai soggetti abilitati all’accesso. La previsione è di un afflusso di istanze come minimo rilevante. I pareri per i Tribunali di sorveglianza dovranno avere la massima attualità e completezza informativa: è l’obiettivo dichiarato del procuratore nazionale e del sistema istituzionale coinvolto. Così la Pna chiederà al Dap tutti i dati sui soggetti richiedenti i benefici. Lo Scico (servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata) Gdf fornirà gli accertamenti patrimoniali aggiornati. Compresi i familiari del mafioso e i soggetti collegati, inclusi quelli segnalati dai Gico (gruppi di investigazione sulla criminalità organizzata) Gdf alle procure distrettuali. La Dia (direzione investigativa antimafia) invierà alla Procura nazionale tutte le notizie e le informazioni disponibili nelle banche dati, comprese quelle sulle cosiddette “fonti aperte”; potrà chiedere apporti ulteriori agli altri uffici del Dipartimento Ps: nel caso di terroristi, per esempio, alla direzione centrale Polizia di prevenzione. Si aggiungono le verifiche sul territorio con le Dda. Le procure antimafia comunicheranno i componenti aggiornati dei nuclei familiari e i soggetti collegati: in quest’ultimo caso, dice il protocollo, soltanto “se ostensibili” vista l’eventualità di indagini in corso. Le Dda chiederanno alle articolazioni territoriali di polizia giudiziaria di Carabinieri, Gdf e Polizia di Stato di fare accertamenti patrimoniali sulle famiglie dei richiedenti. Come gli arricchimenti sospetti o l’evasione fiscale. Ma anche segnali di contesto ambientale e personale indici di un potenziale ripristino dei collegamenti con il circuito mafioso. Il protocollo è stipulato tra la Pna e le procure distrettuali. È stato inviato al capo della Polizia, i comandanti generali della Guardia di Finanza e dei Carabinieri, il capo del Dap e il direttore della Dia, il procuratore generale della Cassazione, quelli presso le corti d’Appello e i presidenti dei Tribunali di sorveglianza. Uno sforzo a tutto campo, quello voluto da Melillo. La fuga di un mafioso, approfittando di un permesso, diventerebbe un caso politico sul tavolo dei ministri della Giustizia, Carlo Nordio, e dell’Interno, Matteo Piantedosi. Educazione e lavoro per un vero riscatto. Così si prevengono altri “casi Beccaria” di Antonio Baldissarri e Massimo Garbagnoli* Avvenire, 8 gennaio 2023 Ha fatto scalpore, il giorno di Natale, l’evasione dal carcere minorile Beccaria di Milano di sette detenuti (tutti successivamente catturati oppure consegnatisi alle forze dell’ordine). Avevano approfittato del fatto di essere in cortile, assieme ad altri compagni di detenzione, alla presenza di una sola guardia. Così come delle impalcature di un eterno cantiere (sul posto da 16 anni), a portata di mano, che ha di molto facilitato lo scavalco. I politici che hanno visitato la struttura dopo la clamorosa fuga - l’ultima delegazione in ordine di tempo è stata di alcuni parlamentari e consiglieri comunali milanesi del Pd - hanno lamentato una situazione pressoché immutata rispetto ad ispezioni compiute nell’estate scorsa. Il sovraffollamento che investe anche l’istituto penale milanese, condiziona il normale svolgimento delle funzioni tanto da parte della Polizia penitenziaria (che, al contrario, in tutta Italia sconta una pesante e ormai annosa mancanza di personale) quanto degli operatori sociali, che fanno quello che possono. In questa pagina i contributi di due esperti al tema del disagio nelle carceri italiane. Caro direttore, è una questione di prospettiva! Come dice don Gino Rigoldi: “È dura far capire a questi ragazzi che con un lavoro ci si può riabilitare”. Quando però riescono a comprenderlo si ribalta la prospettiva: è un dato di fatto a cui assistiamo puntualmente. Alcuni ragazzi accettano addirittura di prolungare anche di qualche mese la loro permanenza in carcere. Ma come avviene questo? In questi giorni di dibattito a seguito dell’evasione di alcuni giovani detenuti dal “Beccaria’,’ vorremmo portare la nostra esperienza. Alcuni ragazzi vengono invitati a partecipare alle attività di laboratori interni, grazie al lavoro capace degli educatori interni all’istituto e a quello, altrettanto abile e fine, della polizia penitenziaria che non si occupa solo di contenimento, ma anche di indicare e sostenere i percorsi riabilitativi. Nei laboratori, specializzati in formazione di identità lavorative, il fare operoso determina il cambiamento della persona. Non si tratta solo di insegnare un lavoro “vero”, ma di lavorare con il ragazzo per aiutarlo a formarsi in una nuova prospettiva di vita in cui il lavoro offre un ruolo e dei valori significativi e credibili. In pratica, chi accede ai laboratori di questo tipo, inizia con i normali orari delle attività formative interne, 9-12 circa, per poi arrivare a frequentare il laboratorio per tutta la mattinata, dalle 8.30 alle 12.30, grazie all’indispensabile strumento dell’articolo 21 interno, fino a estendere la sua permanenza alle 16.30. Chi ne comprende la portata, coglie la possibilità di uscire da un percorso di delinquenza per realizzarne un altro, costituito da ritmi e valori totalmente differenti. Inizia a vedere il mondo con prospettive diverse: la stessa nostra realtà appare differente se guardata con gli occhi di ragazzi che sino a quel punto l’avevano vista nella prospettiva delle bande o delle sottoculture devianti, fortemente condizionati dal disagio, quasi mai da necessità vitali. Nei laboratori la visione deviante del mondo viene lentamente sostituita con quella della vita lavorativa. Quando i ragazzi arrivano vicino al fine pena, possono proseguire fuori dal carcere. Non sempre però i tempi della legge coincidono con quelli dei posti esterni disponibili. Succede così che qualche ragazzo chieda di non essere scarcerato finché non si liberi un posto presso il laboratorio esterno e completare così il percorso di formazione. Lavorare dentro al carcere per creare prospettive per il futuro viene compreso dai diretti interessati. Spendere in maniera utile il tempo di reclusione per creare competenze diventa fondamentale per la detenzione di questi ragazzi e per la loro vita. Tutto ciò ha poi una ricaduta importante in vari ambiti della realtà sociale e personale: un giovane a fine percorso, pienamente inserito nel mondo del lavo - ro, diventa risorsa per tutti e per sé stesso. Ne giova la sua famiglia di origine e quella che lui stesso creerà; ne beneficia il contesto sociale del territorio che avrà una percezione della sicurezza meno preoccupante. Non c’è dubbio: potenziare tali percorsi virtuosi è la cosa migliore da fare per riportare alla legalità ragazzi che altrimenti sarebbero destinati, nella maggioranza dei casi, a tornare a commettere reati. *Cooperativa Cidiesse Una favola per i bambini detenuti con le madri di Paolo Siani* L’Espresso, 8 gennaio 2023 Ho provato in tutti i modi a tirare fuori dal carcere i bambini innocenti che sono rinchiusi negli Icam (istituti a custodia attenuata per detenute madri) con le loro mamme. C’ero quasi riuscito con l’approvazione alla Camera, il 30 maggio 2022, della legge che istituiva le case famiglie protette come l’unica possibilità di far scontare la pena a una donna con figli fino a 6 anni. Poi la caduta del governo ha interrotto l’iter legislativo che adesso è tutto da rifare. Allora abbiamo pensato di rendere quella ingiusta detenzione di quei bambini un po’ meno triste. Per questo abbiamo realizzato il progetto favolette. Un progetto che nasce da un’idea dalla Fondazione Giancarlo Siani Onlus, che ha deciso di coinvolgere grandi scrittrici e scrittori nella creazione di audiolibri destinati a bambine e bambini per far arrivare le storie anche in contesti dove solitamente non approda la lettura, per esempio gli Icam. È nata così una raccolta di favole “sonore”, nella quale autori e autrici si sono messi a disposizione dei giovani lettori con storie fantasiose e piene di avventura. Da quell’esperienza nasce il libro e il progetto sociale “Favolette”. Tutto nasce in realtà dall’ultimo articolo di Giancarlo, pubblicato sul Mattino il 22 settembre 1985, in cui scriveva dei “muschilli”, i bambini usati come corrieri della droga, e si chiedeva per loro quale futuro ci sarebbe stato. Con la nostra Fondazione Giancarlo Siani Onlus, abbiamo deciso di non far cadere nel vuoto quella domanda e così, con uno strumento gentile e potente, come quello della lettura condivisa ad alta voce, ci siamo dedicati proprio ai bambini, per garantire a ogni bambina e a ogni bambino la migliore possibilità di crescere a prescindere dalla città o dal quartiere in cui vive. Perché sappiamo ormai con certezza che ascoltare storie dalla voce della mamma e del papà fa bene a ogni bambina e a ogni bambino. Più presto si comincia e migliori saranno i risultati. Ma “Favolette” è un libro magico. Ha il potere di moltiplicare le storie. Infatti, grazie all’aiuto di tutti, per ogni copia del libro acquistata una sarà regalata ai bambini e alle bambine presenti negli Icam o nelle sezioni nido delle carceri e ai bambini ricoverati negli ospedali pediatrici. Perché leggere una favola è parte della cura, fa bene al cuore, al cervello e anche all’umore. E pochi giorni fa abbiamo già donato 15 libri ai bambini dell’Icam di Lauro attraverso il garante dei diritti dei detenuti. Questo è il nostro piccolo ma significativo contributo per provare a garantire una partenza e una crescita felice a ogni bambino, in attesa che la politica rimetta in cima ai suoi pensieri i diritti negati ai bambini innocenti costretti a vivere in un carcere con la loro mamma. *Pediatra, già vicepresidente Commissione parlamentare Infanzia e Adolescenza Giustizia, riforma stop and go di Michele Damiani Italia Oggi, 8 gennaio 2023 La legge di bilancio da poco pubblicata in Gazzetta ufficiale, ha predisposto un nuovo spostamento della data di entrata in vigore della riforma Cartabia, Si tratta di uno dei tanti ostacoli sulla strada della riforma, che rappresenta uno dei cardini del Pnrr. Riforma della giustizia stop and go. La legge di bilancio da poco pubblicata in Gazzetta ufficiale, infatti, ha predisposto un nuovo spostamento della data di entrata in vigore della riforma Cartabia, in particolare del decreto legislativo attuativo della legge delega di riforma del processo civile (dlgs 149/2022, attuativo della legge 206/2021). Si tratta di uno dei tanti ostacoli sulla strada della riforma avviata nella scorsa legislatura, che rappresenta uno dei cardini del Pnrr e che non è stato accolto con favore dagli operatori della giustizia. Il percorso. Sono due le leggi delega di riforma della giustizia approvate nel 2021. La prima è la legge 134/2021, in Gazzetta ufficiale il 4 ottobre 2021, recante una delega al governo per l’efficienza del processo penale. La seconda è invece la legge 206/2021 recante una delega al governo per l’efficienza del processo civile. Le due deleghe, ovviamente, dovevano essere attuate con successivi decreti legislativi, che hanno rischiato di non vedere la luce nei tempi stabiliti (entro il 31 dicembre 2022). La caduta del governo Draghi, infatti, ha interrotto il percorso avviato all’inizio dell’anno scorso, che si è concluso proprio con il nuovo esecutivo Meloni. Il decreto di attuazione della riforma del processo civile è stato pubblicato in Gazzetta il 17 ottobre 2022, venti giorni dopo le elezioni (dlgs 149/2022). Stessa data per il dlgs 150/2022, attuativo della riforma del processo penale. Proroghe ed entrata in vigore. Dopo un percorso travagliato, quindi, i due decreti sono stati pubblicati in G.u. a metà ottobre. I provvedimenti avevano differenti tempi di entrata in vigore; il dlgs 150/2022 sul processo penale sarebbe partito dal 1° novembre 2022, mentre il dlgs 149/2022 sul processo civile avrebbe visto il traguardo finale il 30 giugno 2023. Ma entrambe le scadenze, come accennato, sono state cambiate negli ultimi mesi. Il decreto Rave (dl 162/2022) ha infatti spostato in avanti il processo penale, che è partito ufficialmente il 30 dicembre, mentre l’ultima legge di bilancio ha anticipato il processo civile, che partirà il 28 febbraio. Ladri liberi, aggressori scarcerati: sulla riforma è già scontro. L’Anm: “Rischio di messaggi contradditori” di Stefano Bensa Corriere Veneto, 8 gennaio 2023 Reati con pene fino a 2 anni procedibili solo se c’è querela, tre casi di cronaca in pochi giorni accendono il dibattito. I dubbi dei pm e l’ottimismo degli avvocati: “Stop solo a tanti processi inutili, sistema più leggero”. L’ultimo caso è avvenuto giovedì a Vicenza, dove un ladro d’auto è stato bloccato e immediatamente liberato perché la denuncia non è stata presentata dalla vittima bensì da parenti e da un’impiegata. Il giorno prima, a Jesolo, due malviventi colti in flagrante dopo aver svaligiato un hotel chiuso sono stati semplicemente denunciati a piede libero. Il motivo? Il titolare era in vacanza e non gli è stato possibile procedere subito con la querela di parte. A fine 2022, invece, erano tornati in libertà il trapper Simba La Rue e altri quattro giovani, accusati a Milano del sequestro di persona del cantante padovano, e rivale, Baby Touché. Effetto della cosiddetta “riforma Cartabia” entrata in vigore il 30 dicembre scorso, che prevede come una serie di reati punibili fino a due anni non siano più perseguibili d’ufficio, quindi su iniziativa del magistrato, ma solo se la vittima sporge denuncia. Sulla carta sarebbe un effetto “semplificazione” della giustizia, per sgravare i tribunali da migliaia di procedimenti minori. All’atto pratico, c’è chi teme un effetto impunità nei confronti di chi si rende responsabile di delitti - dal furto (tranne quello in appartamento) al sequestro di persona a scopo non estorsivo, dalle frodi informatiche alle lesioni personali o stradali, per citarne alcuni - le cui vittime, peraltro, potrebbero essere sottoposte a pressioni come minacce o ritorsioni da parte dei responsabili. Il punto è che, dopo campagne elettorali trascorse a condannare la piccola criminalità come una “piaga” da stroncare ad ogni costo, proprio i piccoli criminali potrebbero iniziare a farla franca. Perplessità dei magistrati - È così? “La riforma rischia di non ottenere i risultati sperati, cioè quelli di snellire la giustizia. Requisito fondamentale per incassare i fondi del Pnrr” spiega Francesca Zancan, della giunta veneta dell’Associazione Nazionale Magistrati. La questione è anche squisitamente tecnica: la riforma, infatti, ha introdotto una udienza pre-dibattimentale che prevede l’invio degli atti ad un altro magistrato, che sarà poi chiamato a fissare il dibattimento vero e proprio. Un elemento aggiuntivo che provocherebbe, secondo parti della magistratura, un dispendio di forze, risorse e tempi che potrebbero mettere in difficoltà le già scarse risorse, in termini di giudici e personale, delle procure venete. “I procedimenti saranno moltissimi. Nel mio caso, martedì a Venezia, dovrò esaminare, in qualità di giudice monocratico, una serie reati procedibili solo a querela. In assenza della quale farò un rinvio a 30 giorni”. A giudizio del magistrato il rischio è di dare “messaggi contraddittori”, anche nei confronti dell’opinione pubblica. “Mi riferisco soprattutto alle violenze private o ai sequestri di persona a scopo non estorsivo: spesso - afferma - è la paura che induce la vittima a non denunciare”. Secondo Zancan, fra le riforme più opportune ci sarebbe stata l’abolizione dell’avviso 415 bis del Codice di procedura penale (che contiene, fra l’altro, la descrizione del fatto, le norme di legge che si reputano violate e le indicazioni sull’accesso alla documentazione) accorpandolo con il decreto di citazione a giudizio, facendo risparmiare all’incirca un anno e mezzo. “Certo, siamo solo nelle prime fasi del nuovo regime. Mi auguro che ci sarà il modo di eliminare le criticità che emergeranno”, conclude. Il favore degli avvocati - Chi ritiene, tuttavia, che la strada imboccata dalla riforma Cartabia sia potenzialmente efficace sono gli avvocati. Secondo i quali la magistratura, finalmente, potrà concentrarsi sui reati più gravi, rivalutando la “giustizia riparativa” - dalla messa alla prova al risarcimento dei danni, una sorta di “conciliazione” - rispetto al carcere. “Anche perché spesso il carcere non rappresenta un riscatto. Anzi, molti detenuti tornano a delinquere una volta fuori”. Quanto alla querela, l’avvocato Arnau, presidente dell’Ordine di Padova, non la ritiene una questione sostanziale: “Ma se ci sono vittime palesemente non interessate ad andare a giudizio - spiega - siamo proprio sicuri che il processo serva davvero? Esistono sistemi alternativi che non congestionano i tribunali”. Tribunali, sostiene Arnau, che potranno portare avanti questioni più complesse, come i procedimenti relativi ai reati contro la Pubblica Amministrazione, i reati tributari o quelli, gravissimi, che coinvolgono la criminalità organizzata “come la mafia in Veneto, di cui nostro malgrado abbiamo appreso l’esistenza”. Anche l’avvocato Alessandro Moscatelli, presidente dell’Ordine degli avvocati di Vicenza, giudica complessivamente bene la riforma. “Si è voluta percorrere la strada della procedibilità a querela al fine di rendere più efficiente il processo penale. Meglio certo sarebbe stato depenalizzare senza timori” afferma, definendo “mirabili” gli obiettivi dell’ex ministro Cartabia. “Sull’udienza pre-dibattimentale, i numeri aiutano a comprendere la scelta del legislatore: visto l’alto numero di assoluzioni che il nostro sistema produce in primo grado (nel 2021 oltre il 50%) l’istituto - insiste Moscatelli - ha un senso deflattivo ed anticipatorio. Ad ogni modo se l’obiettivo della Riforma Cartabia verrà raggiunto lo si vedrà”. In questo senso, non ci sarà uno scontro: “Gli avvocati - chiude - sono sempre collaborativi con i magistrati ma non spetta loro organizzare i processi ed i tribunali”. La controriforma dei tribunalini di Francesco Grignetti La Stampa, 8 gennaio 2023 Il governo vuole riaprire centinaia di piccole sedi soppresse da Monti nel 2012 “Fu una scelta fallimentare serve giustizia di prossimità” D’accordo Lega e Forza Italia. C’è una riforma di dieci anni fa che a questo governo proprio non piace e che intende riscrivere di sana pianta: quella detta della “geografia giudiziaria”. Erano i tempi del governo Monti e della Guardasigilli Paola Severino. Per ragioni finanziarie e di economia delle forze, furono tagliati di brutto i tribunali minori. Nel giro di qualche anno ben 215 sedi distaccate furono cancellate nonostante le proteste veementi dei territori colpiti. E furono dimezzati i giudici di pace. Unica Regione che sul momento venne risparmiata fu l’Abruzzo, ma soltanto però era stato appena travolto dal terremoto. Si salvarono anche le tre sedi insulari di Lipari, Portoferraio e Ischia. Con il nuovo anno, si ripropone il problema abruzzese perché scade l’ennesima proroga. E da quelle parti si sta in ansia perché speravano che ci sarebbe stata una parola nel decreto Milleproroghe che invece non c’è. Le sedi di Sulmona, Avezzano, Lanciano e Vasto sono però “al sicuro”, garantiva nei giorni scorsi il governatore Marco Marsilio, FdI. E sarebbe stato ben strano il contrario, considerando il filo diretto con Giorgia Meloni. Fratelli d’Italia intende andare oltre. “Dobbiamo prendere atto - spiega il responsabile Giustizia, il sottosegretario Andrea Delmastro - che quella riforma è stata un fallimento. Mancano i risultati attesi. Non ha garantito la celerità dei giudizi che prometteva. E ha spento in troppi luoghi la luce della legalità rappresentata da una sede giudiziaria”. Fin qui la premessa politica di una controriforma che vuole riaprire centinaia di piccoli tribunali perché “la giustizia di prossimità - dice ancora Delmastro - è un valore in sé”. Il congelamento della situazione abruzzese, in questo senso, è emblematica. Se i quattro piccoli tribunali si chiudessero come voleva la riforma Severino del 2012, praticamente metà Abruzzo resterebbe senza un tribunale o un ufficio di procura. E sono a rischio proprio le aree meridionali, quelle a maggior rischio di infiltrazione da parte della criminalità pugliese. In verità, gli addetti ai lavori sanno che Giorgia Meloni vorrebbe ridisegnare la geografia giudiziaria fin da quando, un paio di anni fa, chiese e ottenne un appuntamento con la ex ministra Marta Cartabia. In quell’occasione parlarono di molte cose: di prescrizione, carceri, organici, nuovo Csm. E dei piccoli tribunali da riaprire. Non a caso il ridisegno delle sedi è una delle promesse nel programma elettorale del centrodestra. E anche gli alleati leghisti e forzisti sono convinti che sia ora di rimettere mano alle aperture degli uffici giudiziari. “Cartabia - rivela oggi Delmastro, che preparò la visita al ministero del 2021- era fermamente convinta che per arrivare ai risultati concordati con l’Europa, e cioè la velocizzazione dei processi civili e penali, sarebbe stata sufficiente una massiccia digitalizzazione. Noi esprimevamo una posizione molto diversa. La digitalizzazione può essere di aiuto per il processo civile, ma non basta senza un massiccio investimento nel personale. Per il processo penale, poi, la smaterializzazione degli atti è addirittura un serio rischio. E nulla potrà mai contraddire il principio di fondo del contraddittorio. Il ritorno a una giustizia di prossimità aiuterà la celerità, non il contrario”. Corruzione, la “sanatoria” Nordio che non piace a Lega e altri alleati di Liana Milella La Repubblica, 8 gennaio 2023 Dopo intercettazioni e prescrizione nel mirino adesso c’è l’abuso d’ufficio. L’abuso d’ufficio? Va eliminato del tutto, continua a ripetere Carlo Nordio. E il Terzo polo è con lui. Tant’è che Enrico Costa ha depositato pure la legge ad hoc. Il traffico d’influenze? Se ne potrebbe fare a meno, sostiene sempre il Guardasigilli. Le intercettazioni? Quelle sono proprio una “porcheria” insiste il ministro della Giustizia. E quindi “vanno tenute solo per mafia e terrorismo”. Ovviamente stesse regole per la microspia Trojan, una “porcheria” anche quella. Per giunta “selezionate da un maresciallo di polizia che sceglie ciò che vuole”. Proprio così.  Con che strumenti si faranno allora le indagini sulla corruzione? Senza intercettazioni e con la prescrizione che per Nordio deve tornare a essere quella che piaceva a Berlusconi che ne accorciò i tempi con la legge ex Cirielli, di queste indagini resterà davvero ben poco. E le riforme costituzionali? Per quelle i tempi saranno lunghi perché “sono divisive”.  Ci siamo addentrati nel mese solitamente più caldo per la giustizia. Che si conclude, al “palazzaccio”, con il bilancio del primo presidente e del procuratore generale della Cassazione. E quest’anno c’è pure un appuntamento da manuale Cencelli come l’elezione dei dieci componenti laici del Csm. Si vota, a Camere riunite, dal 17 gennaio, e sui nomi le carte dei partiti sono tuttora coperte. Di sicuro il centrodestra è deciso a fare la parte del leone, vice presidente compreso. Ma fino a che punto, proprio il centrodestra, fa quadrato intorno al suo ministro? Forza Italia si ritrova appieno nella campagna anti intercettazioni e anti prescrizione degli ex Bonafede e Cartabia, ma sull’abuso d’ufficio già si smarca perché gli basterebbe cambiare un paio di avverbi - reato commesso “consapevolmente” e arrecando “direttamente” ad altri un danno ingiusto - senza addossarsi la responsabilità di cancellarlo del tutto dal codice penale. La proposta Pella è pronta per essere approvata. A Fratelli d’Italia il garantismo di Nordio non piace granché e il sottosegretario Andrea Del Mastro Delle Vedove, che avrebbe voluto fare il ministro, non manca occasione per manifestarlo. Ma è dalla Lega che arriva il malessere più forte.  Viene giudicato del tutto insopportabile l’attacco ai “poveri marescialli” che falsificano le intercettazioni. Perché con parole così dure si delegittima il loro lavoro, oltre a muovere un’accusa del tutto fondata. La Lega non nasconde di essere basita per quelli che giudica “attacchi generalizzati a poliziotti e magistrati” che produrrebbero l’unica conseguenza di delegittimare il lavoro delle forze dell’ordine, che invece fanno il loro dovere. “È mai possibile che né gli avvocati, né i gip si siano mai accorti di queste clamorose falsificazioni? E perché lo stesso Nordio, da magistrato, non le ha mai denunciate?” si chiedono le fonti leghiste. La strategia complessiva del ministro sta creando un problema nella maggioranza. La Lega scalpita, vuole le riforme costituzionali. Giudica una “riformicchia” quella dell’abuso d’ufficio, su cui peraltro non è neppure d’accordo. “Perché abolirlo del tutto? Non è necessario” dice il Carroccio. E motiva così la sua posizione: “La Lega ha sempre detto che le condotte devono essere solo specificate meglio”.  Ma la lamentela più insistente riguarda le riforme costituzionali. Perché Nordio non parte subito? Perché quelle - la separazione delle carriere, la discrezionalità dell’azione penale, i due Csm - rappresentano “l’architrave della nuova giustizia, senza il quale nulla può tenere”. Quelle riforme sono “divisive” avrebbe risposto Nordio a chi, nella Lega, sollecitava di depositare subito i progetti di legge, perché le legge che cambiano la Carta hanno tempi lunghi “e se non si comincia subito, a inizio legislatura, poi non si fanno più”. Di qui il profondo fastidio per quella che viene definita “la strategia della distrazione”, che passa per gli affondi contro le intercettazioni e una riforma “pulce” come l’abuso d’ufficio.  Ma il vero sospetto è che in realtà Nordio, nell’incontro con Berlusconi face to face che ha portato al via libera del Cavaliere per lui, abbia promesso gli interventi demolitori contro la corruzione, partendo dall’abuso d’ufficio, per passare all’azzeramento di fatto delle intercettazioni e alla prescrizione. Del resto, proprio grazie alla prescrizione “corta” Berlusconi ha evitato varie condanne. Santalucia (Anm): “Resti l’abuso d’ufficio e non si limitino le intercettazioni. Sono cruciali, altro che porcherie” di Liana Milella La Repubblica, 8 gennaio 2023 Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati: “Gli strumenti devono essere potenziati contro i rischi di infiltrazioni sul Pnrr. Stop al “flipper” delle riforme”. Meno parole, e più fatti. E basta con le offese contro magistrati e forze di polizia. Il sempre pacato presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia stavolta usa toni forti. L’abuso d’ufficio, una riforma necessaria? “Direi proprio di no, sarebbe un errore eliminare un reato che è già stato riscritto nel 2020 in modo da eliminare applicazioni generalizzate”. Eliminarlo proprio come vuole Nordio? “Significherebbe rinunciare a colpire casi di abusi che meritano comunque una punizione perché si sono verificati comportamenti che violano specifiche norme di legge”. Le intercettazioni sono una “porcheria”? “Ma quando mai... Sono uno strumento importante di contrasto di fronte a reati gravi quando non vi sono testimoni o comunque soggetti disposti a collaborare”. Si possono lasciare, come dice il Guardasigilli, solo per mafia e terrorismo? “Sarebbe un errore perché sguarnirebbe l’azione di contrasto verso altri delitti comunque gravi”. Pure la microspia Trojan va ridimensionata? “È uno strumento da usare con particolare cautela e con elevati tassi di professionalità. Detto questo, resta indispensabile per accertare alcuni reati maturati in contesti di sostanziale omertà”. È vero che i marescialli quando selezionano le intercettazioni scelgono solo quelle che vogliono? “Questa è proprio un’espressione infelice che fa correre il rischio di gettare discredito sugli investigatori. Se poi ci sono dei casi di abuso, che si puniscano le persone che li commettono, ma non si generalizzi nelle accuse”. È ipotizzabile che le indagini sulla corruzione possano fare a meno non solo del Trojan ma pure delle intercettazioni? “Ovviamente no, perché significherebbe diminuire la capacità investigativa delle procure quando il problema è di migliorarne l’efficienza. Non capisco come si possa pensare di indebolire l’attività della polizia giudiziaria e dei pm proprio quando all’opposto gli strumenti di contrasto andrebbero potenziati. E penso al pericolo di infiltrazioni nella gestione dei finanziamenti del Pnrr”. Questo governo, stando alle affermazioni fatte e alle decisioni già prese, vuole fare davvero la lotta alla corruzione? “Spero proprio che voglia intensificarla e attendo che il Guardasigilli arricchisca di contenuti le sue proposte perché fin quando si resta sul vago è difficile capire quale sia il senso della sua politica criminale”. Sulla prescrizione bisogna tornare alla formula classica di un tempo dato per ogni reato, scaduto il quale il processo muore? “Le riforme penali non possono seguire le traiettorie impazzite di un flipper. Meno di un anno fa è stata introdotta l’improcedibilità dell’azione penale come risposta alla riforma Bonafede sulla prescrizione, che aveva a sua volta modificato la prescrizione già cambiata dalla legge Orlando nel 2017, senza attenderne gli esiti. Gli uffici giudiziari non possono essere chiamati di continuo ad applicare riforme di riforme perché questo ha un costo organizzativo elevatissimo”. Quando avete visto Nordio l’ultima volta vi ha anticipato quello che poi dice ai giornali? “Noi l’abbiamo visto una sola volta il 24 novembre e in quell’occasione abbiamo apprezzato la sua intenzione di dare priorità all’efficienza del processo e degli uffici. L’Anm vorrebbe che non cambiasse idea”. E non vi siete lamentati per i toni che usa? “Porcheria” è una brutta parola... i cittadini penseranno che usate dei trucchi per incastrare la gente... “Mi auguro fortemente che ci sia più accortezza nell’uso delle parole quando in gioco c’è la credibilità delle istituzioni”. Femminicidi, quando il delitto è commesso con la pistola di servizio di Giorgio Beretta* Il Manifesto, 8 gennaio 2023 Il tasso di omicidi in “ambito affettivo” da parte del partner è più alto tra chi detiene un’arma legalmente. Il caso delle guardie giurate. Il primo femminicidio del nuovo anno rivela alcune criticità nel sistema dei controlli sui legali detentori di armi che - seppur note da tempo - si protraggono nella generale disattenzione dell’opinione pubblica ed in particolare delle rappresentanze politiche. I fatti, innanzitutto. Mercoledì scorso a Genova, una guardia giurata di 32 anni, Andrea Incorvaia, ha ucciso con un colpo di pistola la fidanzata 23enne, Giulia Donato e poi si è tolto la vita sparandosi. L’omicidio è avvenuto nell’appartamento della giovane, i due non convivevano: Incorvaia avrebbe sparato alla fidanzata mentre dormiva utilizzando l’arma di servizio, una pistola semiautomatica. Secondo le prime indagini, i due giovani si frequentavano da circa un anno, ma di recente le liti erano continue e la giovane avrebbe manifestato alle amiche l’intenzione di lasciare il fidanzato a causa del controllo morboso, quasi maniacale, nei propri confronti. Non vi sarebbe stata però nessuna denuncia da parte della giovane donna. Sono elementi, purtroppo, ricorrenti in molti femminicidi. Ma questo caso rivela anche altre criticità: Incorvaia aveva intrapreso un percorso terapeutico per uno stato depressivo e gli inquirenti stanno indagando se l’azienda per cui lavorava, la Cooperativa Guardiani Giurati Lubrani, ne fosse a conoscenza. Al di là del caso specifico, è importante concentrare l’attenzione su tre elementi che manifestano tre problematiche rilevanti: l’autore del femminicidio è un legale detentore di armi, una guardia giurata; l’arma utilizzata è la pistola di servizio in suo possesso per lavoro; il detentore dell’arma era in cura per uno stato depressivo, ma i datori di lavoro probabilmente ne erano all’oscuro. Il numero di femminicidi e omicidi familiari o relazionali commessi da guardie giurate è, nel complesso, relativamente basso: si tratta di uno o due casi all’anno. Un valore che però diventa consistente se si tiene conto che i detentori di licenza per armi tra le guardie giurate non superano le 40mila unità: l’ultima tabella della Polizia di Stato riporta per l’anno 2022, un numero di 34.862 guardie giurate con porto d’armi in corso di validità. Ciò significa che, mediamente, il tasso di omicidi delle guardie giurate (tra il 2,50 e il 5,00 su 100mila detentori di armi con questa licenza) è quattro volte maggiore rispetto al tasso di omicidi della popolazione italiana (0,52 su 100mila abitanti). È una tendenza che riguarda, seppur in misura minore, anche gli altri detentori di licenza per armi. Dalla comparazione tra i dati diffusi dalla Polizia criminale e quelli presenti nel database dell’Osservatorio OPAL relativi a gli omicidi con armi legalmente detenute per l’anno 2022 si evince, infatti, che il tasso di omicidi con armi legalmente detenute è dello 0,75 su 100mila legali detentori, anche questo molto superiore alla media nazionale degli omicidi volontari che, come detto, si attesta a 0,52 su 100mila abitanti. Questi dati dovrebbero portare ad una riflessione su una questione centrale. Nelle situazioni di conflitti di coppia il possesso, ancorché legale, di un’arma costituisce una tentazione ad usarla. Il divorzio e la separazione è, infatti, una fase particolarmente critica che - come notano gli esperti - spesso genera crisi di identità, soprattutto negli uomini, che possono facilmente sfociare in episodi di violenza nei confronti della donna. In mancanza di una segnalazione o di una denuncia, le forze di pubblica sicurezza raramente procedono ad un ritiro cautelativo delle armi. Ma - ed è qui il punto - in questi casi, il possesso di un’arma non è fattore secondario o marginale: un’arma nelle mani di un uomo in crisi d’identità, frustrato o depresso rappresenta un elemento psicologico di particolare rilevanza nell’ideazione e nella progettazione di un’azione delittuosa nei confronti della moglie, della partner o della fidanzata. Ciò dovrebbe indurre a maggiori controlli, per lo meno annuali, sullo stato psicologico di chi detiene delle armi: per le guardie giurate il rinnovo del certificato anamnestico è invece previsto ogni due anni mentre le altre licenze, tranne il porto d’armi per difesa personale, è obbligatorio solo ogni cinque anni. E non sono richiesti, di norma, controlli specialistici né sullo stato di salute mentale e nemmeno controlli clinici riguardo all’uso di sostanze stupefacenti, psicotrope o di medicinali per la cura di stati depressivi. Come ho scritto ripetutamente su questo giornale, il femminicidio è un problema che va contrastato con l’educazione, sradicando la cultura patriarcale del dominio dell’uomo sulla donna. Ma richiede anche provvedimenti urgenti per limitare il possesso delle armi, norme più rigorose sul rilascio delle licenze e controlli più frequenti e accurati sui legali detentori di armi. Non è più accettabile che l’arma detenuta per lavoro, per “uso sportivo”, per la caccia o col pretesto della legittima difesa divenga lo strumento privilegiato per l’illegittima offesa: l’omicidio di una donna. *Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) Busto Arsizio. Letti a tre piani e pioggia in cella. Nessuno Tocchi Caino: “Bisogna intervenire” di Sarah Crespi La Prealpina, 8 gennaio 2023 Sopralluogo nel carcere di via per Cassano: Nessuno Tocchi Caino rilancia l’allarme. L’ultima frontiera (o forse spiaggia) della sanità penitenziaria? La diagnosi di patologie psichiatriche in videochiamata. Rita Bernardini, presidente dell’organizzazione non governativa Nessuno Tocchi Caino, ieri pomeriggio è uscita dal carcere di Busto Arsizio sbigottita. “Gli psichiatri sono pochi in Italia e quei pochi non vogliono lavorare nelle strutture detentive, è un dato di fatto. Ma la situazione sta peggiorando a vista d’occhio”. Bernardini e il suo team hanno trascorso l’Epifania in via per Cassano insieme al direttore Orazio Sorrentini, al cappellano don David Maria Riboldi, all’onorevole Maria Chiara Gadda e al presidente della camera penale di Busto Samuele Genoni, accompagnato da altri due avvocati. Era una delle tappe del Viaggio della speranza nei luoghi di pena, partito a San Silvestro da Regina Coeli. Giovedì l’ong ha visitato i Miogni a Varese, oggi sarà a Parma. L’associazione è stata accolta da 374 reclusi (la capienza è di 240 posti), ognuno con le proprie esigenze, con le richieste più disparate, con cento interrogativi sulle conseguenze della riforma Cartabia. “Chiediamo per l’ennesima volta al Governo di diminuire la popolazione carceraria, oggi ho visto celle con letti a castello a tre piani, prima di Natale c’erano 400 persone, solo 74 detenuti lavorano, per gli altri mancano le attività e anche la proposta scolastica è insufficiente per tutti”, osserva l’ex deputata radicale Bernardini. “Gli stranieri sono 250 eppure non c’è un mediatore culturale, figura importantissima in una realtà così variegata”. Rita Bernardini ha trovato un po’ di tutto in quasi sei ore di tour nella casa circondariale. Acqua che gronda dal soffitto dei piani alti - colpa di chi progettò un tetto piatto -, macchie di muffa nei presidi della polizia penitenziaria, bidet rotti nelle celle di transito dove tra l’altro non funzionano le docce. Si chiamano celle di transito perché dovrebbero ospitare i nuovi giunti per poche ore, il tempo di sbrigare la burocrazia nell’ufficio matricola e di assegnarli a una sezione. Ma nella pratica quotidiana vengono utilizzate per l’isolamento di detenuti indisciplinati e per la collocazione di quelli trasferiti da altri penitenziari. C’è pure un caso di sospetta scabbia e mancano alcuni beni di prima necessità, come la carta igienica o i banali stracci per pulire i pavimenti. Ma l’ong e la camera penale hanno potuto apprezzare anche qualche passo avanti. L’area Thomas Hobbes, distrutta dall’incendio appiccato a marzo da sette maghrebini, è stata rimessa a nuovo e a giorni tornerà in funzione. La pianta organica dei medici è al completo, anche se mancano gli specialisti e gli infermieri, gli educatori sono quattro su cinque, il personale della polizia penitenziaria è aumentato e nella sezione di trattamento avanzato il clima è sereno: “Lì lavorano tutti, l’impegno in un’attività allenta la frustrazione e scandisce il trascorrere del tempo. Bisogna investire sugli aspetti rieducativi, ricreativi e riabilitativi se si vuole dare un senso alla pena”, osserva il presidente degli avvocati penalisti Genoni. E poi ci sono i casi che stringono il cuore. Come quello del quarantenne che dopo anni di reclusione era riuscito a ottenere una misura alternativa, che è di fatto la libertà anche se sottoposta a rigide prescrizioni e a regole inderogabili. Era ospite da un cugino. Ma la famiglia è povera, il piatto restava spesso vuoto, opportunità di impiego nessuna. “Pesavo troppo sui miei parenti e non volevo mettermi ancora nei guai. Ho chiamato i carabinieri e mi sono fatto riportare dentro, sconterò la pena qua perché non ho alternative”. Rossano Calabro. Il senatore Rapani: “Carcere sovraffollato e solo 66 poliziotti in turnazione” lacnews24.it, 8 gennaio 2023 Il componente della commissione Giustizia evidenzia gli aspetti positivi della struttura che vanta ampia offerta didattica e diversi laboratori. Numerose, tuttavia, le criticità: “Pianta organica inadeguata, gli operatori dovrebbero essere almeno 153”. Il senatore Ernesto Rapani, componente della Commissione Giustizia, ha fatto visita al polo penitenziario di Corigliano Rossano. Diverse le criticità riscontrate, dal sovraffollamento alla carenza di operatori di polizia: “Nel corso di un cordiale incontro con il direttore della casa di reclusione di Corigliano Rossano, Maria Luisa Mendicino - spiega - ho potuto constatare la realtà carceraria ed ascoltare le grandi difficoltà che quotidianamente affrontano le donne e gli uomini del corpo di Polizia penitenziaria”. Le caratteristiche del carcere di Corigliano Rossano - “Ho accertato la grande dignità - ha aggiunto Rapani - con la quale sono trattati i detenuti e le attività che possono svolgere all’interno della casa di reclusione, che vanta importantissimi laboratori in cui vengono impiegati dei detenuti come quello di falegnameria, con strumentazioni all’avanguardia ma purtroppo sotto utilizzato, e quello di ceramica. Il carcere di Rossano presenta anche un importante offerta didattica, con la possibilità di frequentare le scuole di ogni grado fino all’Università, grazie ad un protocollo d’intesa con l’Unical. Non mancano, però, i problemi”. “Ad oggi la casa di reclusione costruita nel 2000 - sostiene il parlamentare di FdI - è sovraffollata. Ospita una popolazione di 305 detenuti a fronte di una capienza di 263. È composta da un reparto media sicurezza che custodisce 74 detenuti, un reparto alta sicurezza AS2 strutturato su due piani detentivi che ospita, al momento, 8 detenuti ristretti per reati attinenti al terrorismo di matrice islamica, ed un reparto alta sicurezza AS3, su tre piani, con 215 detenuti, tutti reclusi per pene definitive sopra i cinque anni, molti dei quali ergastolani e pluriergastolani ed in regime di 41 bis. Per tutti questi detenuti la pianta organica della Polizia penitenziarie è fortemente inadeguata. Prevedrebbe 153 unità ma sono solo 66 i poliziotti penitenziari disponibili alla turnazione, compresi il comandante e gli ispettori. Appare, dunque, evidente il vulnus che esiste sotto il profilo della sicurezza anche per via dei tanti detenuti affetti patologie psichiatriche ed il grave sovraccarico di lavoro su un personale che si caratterizza per la sua anzianità di servizio”. “Dei problemi della casa di reclusione di Corigliano Rossano me ne farò carico - sottolinea ancora Rapani - riferendone alla Commissione Giustizia, della quale faccio parte, al sottosegretario Andrea Delmastro e al Ministro Nordio”. Milano. Falegnameria, imballaggio, call center: a Bollate l’alternativa c’è di Selena Frasson Avvenire, 8 gennaio 2023 Ci sono due modi per vivere la detenzione: farsi risucchiare dal vuoto o cercare di trasformare questo tempo in un’opportunità di crescita, di cambiamento e di riscatto”. Andrea sta finendo di scontare la sua pena nel carcere milanese di Bollate, una delle poche strutture penitenziarie in cui il principio che nella nostra Costituzione parla di funzione rieducativa della pena non è destinato a rimanere lettera morta. Laboratori di falegnameria, servizi di imballaggio, ma anche attività di assistenza alla clientela gestite da imprese e cooperative sociali che, in virtù di quanto disposto dal regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario (Dpr 230/2000), si avvalgono di manodopera detenuta per gestire il lavoro nel carcere. “La differenza è fatta dalle lenti con cui guardiamo la realtà”, osserva Marco Girardello, uno dei soci responsabili di “Bee4 Altre menti”, la cooperativa che insieme a Eolo, azienda che opera nel settore della connettività, si occupa di coordinare il personale che lavora nel call center. “Il nostro compito è riuscire a offrire un’alternativa, perché anche chi ha sbagliato possa trovare una via d’uscita”. È un modo per guardare alla persona oltre al reato, e per promuovere il lavoro quale strumento per valorizzare il tempo della pena. “Quando siamo partiti lo scorso settembre - spiega Lorenza, team leader del progetto - i detenuti coinvolti erano solo otto, ma nel giro di pochi mesi sono aumentate le postazioni, le competenze e le adesioni di coloro che hanno partecipato al bando per seguire il corso di formazione diretto da Eolo”. Prima di ufficializzare il rapporto, e dunque di essere regolarmente assunti con un contratto che rispetta le regole della contrattazione collettiva, i detenuti sostengono una vera e propria selezione: prima un colloquio conoscitivo e poi la valutazione dell’attitudine a lavorare in gruppo. “Il nostro vuole essere un percorso di formazione permanente - continua Girardello - perché anche le buone opportunità possono tradursi in fallimenti se ad accompagnarle non c’è una visione strategica di lungo periodo”. Lungimiranza, quindi, come principio fondante di un modello alternativo capace di bilanciare l’aspetto punitivo con quello che guarda al reinserimento sociale del condannato. “Qui - spiega Andrea - ho imparato che non sono destinato a rimanere una voce di costo, perché nonostante gli errori che ho commesso posso diventare un valore per la società”. Non sono sempre successi, anche in una casa di reclusione come quella di Bollate si lavora sulle cadute: “Quando ti trovi a essere privato della libertà hai bisogno di trovare qualcosa a cui aggrapparti per non precipitare. Sono tanti i ragazzi che non ce la fanno e rinunciano, io grazie a questo lavoro, ho avuto l’opportunità di tornare a sentirmi utile. È nel momento in cui rispondo ad una chiamata e magari riesco a risolvere il problema del cliente che posso immaginare un futuro”. A testimoniare che il lavoro e il processo di responsabilizzazione che a esso si accompagna possono essere un investimento per la sicurezza al di fuori delle mura, ci sono i dati che riguardano la recidiva. Se in Italia il tasso di recidiva tra chi ha scontato una pena in carcere è del 70%, le probabilità che si tomi a delinquere si riducono fino al 20% se ai detenuti viene data la possibilità di accedere a corsi di istruzione e formazione e se si creano le condizioni affinché possano lavorare. È la via che consente di non rimanere intrappolati negli ingranaggi del proprio passato. Napoli. Un tuffo in mare: i detenuti dell’istituto minorile di Nisida studiano da sub di Paolo De Luca La Repubblica, 8 gennaio 2023 I giovani hanno partecipato al progetto “Bust Busters” dell’Archeoclub d’Italia e di Mare Nostrum. Sub per un giorno, per un tuffo invernale nelle acque cristalline di Ieranto. Un’esperienza da ricordare per i ragazzi del Centro di Giustizia Minorile di Napoli che, sabato mattina, si sono immersi nella splendida baia, zona B dell’area marina protetta di Punta Campanella. I giovani, accolti dal presidente del parco, Lucio Cacace, sono stati accompagnati anche dal direttore del Dipartimento di Giustizia Minorile della Campania, Giuseppe Centomani. I giovani hanno partecipato nei mesi scorsi al progetto “Bust Busters” dell’Archeoclub d’Italia (guidato da Rosario Santanastasio) e di Mare Nostrum, acquisendo le conoscenze e il brevetto per le immersioni. Obiettivi dell’iniziativa, la possibilità di conoscere il patrimonio archeologico sommerso, con azioni di volontariato e sostenibilità per la tutela del patrimonio ambientale. È stata un’avventura emozionante- sottolinea il Presidente dell’Amp Punta Campanella, Lucio Cacace - Dall’ultimo monitoraggio effettuato, abbiamo censito 260 diverse specie a Ieranto, tra flora e fauna marina: i ragazzi ne hanno incontrate diverse durante la loro immersione e hanno compreso l’importanza di tutelare il mare, i fondali e la biodiversità”. Volterra (Pi). Quando la legalità diventa materia di studio La Nazione, 8 gennaio 2023 Il progetto degli attivisti di Libera con gli studenti delle scuole superiori. Tanti i temi affrontati per parlare di giustizia e mafia. Gli attivisti del presidio Libera di Volterra hanno avuto, nelle ultime settimane del 2022, occasione di incontro con gli studenti delle scuole superiori. Alcuni professori avevano già affrontato, con le classi, il tema della legalità, assumendo come base la Costituzione. Altri insegnanti invece hanno proposto a ragazzi il graphic novel “Nostra madre Renata Fonte”, la cui figlia, Sabrina Matrangola, ha regalato un centinaio di copie alla città di Volterra. Con le classi IV del liceo delle scienze umane si è partiti proprio dalla storia di Renata, uccisa per essersi opposta alla cementificazione, progettata con modalità mafiose, di Porto Selvaggio (ora parco naturale del Salento); da qui sono scaturiti approfondimenti su alcuni temi di ecomafia. Con i ragazzi di alcune classi seconde dell’istituto Niccolini, è stato affrontato a ruota libera il tema della mafia, sviluppando le idee ed i temi emersi in un “brainstorming” inziale. I ragazzi, qui come al liceo, sono sembrati interessati ed hanno ascoltato in modo attivo. Alcuni hanno mostrato una buona competenza, acquisita attraverso letture e film. “Il progetto promosso dal presidio Libera di Volterra - dichiara Viola Luti, assessora all’istruzione - rappresenta un’occasione davvero importante di riflessione sulle tematiche di giustizia e di legalità e il coinvolgimento degli istituti scolastici costituisce un valore aggiunto”. “La scuola è il luogo in cui vengono forniti gli strumenti per sviluppare la capacità critica e in cui il senso civico e l’impegno civile assumono un ruolo centrale per la formazione. Ringrazio - conclude Luti - Ilaria Oberti, referente di Libera, Antonella Rossetti, volontaria di Libera e responsabile del progetto e tutti i volontari che contribuiscono quotidianamente alla sensibilizzazione e alla promozione di valori fondamentali per ogni società democratica”. “Per noi - dichiarano i volontari del Presidio Peppino Impastato - è stata davvero una buona esperienza, che continueremo anche nel resto dell’anno scolastico, ed anche con altre scuole e classi”. L’orgoglio per il lavoro che va ritrovato di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 8 gennaio 2023 Oggi manca quell’energia, quel gusto del lavoro ben fatto grazie a cui un Paese agricolo devastato alla guerra divenne una grande e ricca potenza industriale. Molti lettori sono rimasti colpiti dalla chiusura di “Vecchia Milano”, la storica pasticceria di via Reina, zona piazzale Susa. Il titolare, Orazio Parisi, 83 anni, arrivato da ragazzo a Milano dalla sua Messina, non ce la faceva più; e non ha trovato nessuno disposto a raccogliere la sua eredità. Nell’Italia del dopoguerra, alcune botteghe - ad esempio le macellerie - non chiudevano mai. Neppure il giorno di Natale. Si entrava garzoni a dodici anni, si andava in pensione, e poco dopo si moriva. Ovviamente non abbiamo nessuna nostalgia di quel mondo, di quel sistema. Lavoro durissimo, ciminiere in città, acciaierie in riva al mare, reparti verniciatura, nubi tossiche. Cose irripetibili e da non ripetere. Ciò che forse oggi manca è quell’energia, quell’orgoglio, quel gusto del lavoro ben fatto grazie a cui un Paese agricolo devastato alla guerra divenne una grande e ricca potenza industriale. Poi, alla fine degli anni 70, il quadro cominciò a cambiare, i grandi conglomerati industriali a essere smantellati. Il robot sostituiva l’operaio, il computer prendeva il posto del contabile. Alla fine del secolo scorso, parve che il lavoro fosse finito. Il grande problema era la disoccupazione. Nel 1997 i socialisti francesi vinsero le elezioni anche perché il loro candidato al ministero dell’Economia, Dominique Strauss-Kahn, disse al tg del primo canale: “Con noi al governo, davanti agli uffici pubblici ci saranno le scritte “si assume”, davanti ai negozi i cartelli “cercasi personale”. Sembrava un miraggio. Oggi l’Italia è piena di cartelli “cercasi personale”. Che non si trova. La prima reazione è istintiva: pagatelo meglio, il personale, e lo troverete. Però aumentando i costi il piccolo imprenditore dovrà aumentare anche i prezzi; e rischierà di perdere clienti e committenti, di finire fuori mercato. Intendiamoci: in Italia esiste una questione salariale. Gli stipendi aumentano (quando aumentano) molto meno dei prezzi. Intere categorie hanno perso potere d’acquisto, status, prestigio, prospettive. Il problema non è più tanto l’occupazione, quanto i “working poor”, i poveri che hanno un lavoro ma non un reddito dignitoso. Nello stesso tempo, il lavoro sembra diventare sempre meno importante. Continua a essere troppo tassato. Ma viene visto come un peso di cui si potrebbe anche fare a meno, di cui liberarsi prima possibile. Non coincide più con la vita, non è più considerato il mezzo per costruirsi una famiglia, darsi un futuro, esprimere la propria personalità, vivere la vita sociale; ma come un fardello di cui alleggerirsi, se non sbarazzarsi. Le cause sono molte. La tecnologia ha reso obsolete diverse mansioni tradizionali, selezionando un’élite ben preparata e ben formata, e condannando la base a lavori duri, ripetitivi, frustranti, che lasciamo volentieri agli immigrati, talora in condizioni di semi-schiavitù. Poi è arrivata la pandemia. I lock-down hanno indotto molti a un cambio di paradigma. Il boom del lavoro da casa e l’introduzione del reddito di cittadinanza hanno fatto il resto. Così siamo diventati la società delle dimissioni (incentivate dalla disparità fiscale crescente tra autonomi e dipendenti). O del “quiet quitting”: che non significa lasciare in silenzio, ma fare il meno possibile. I nuovi strumenti non sono necessariamente negativi; però non possono diventare nuovi dogmi ideologici. Quello che chiamiamo smart working apre spazi per occuparsi dei propri cari, migliora la qualità della vita, riduce i costi delle aziende e il traffico delle grandi città; però ci sono lavori che non possono essere parcellizzati, ridotti a pezzetti che ognuno può costruire per conto proprio, come ai tempi del cottimo, ma richiedono il confronto, lo scambio di idee, lo sforzo collettivo. Tenere una lezione, presentare un libro, condurre un convegno, organizzare una riunione, esaminare un candidato, tutto si può fare anche on line; ma non sarà mai la stessa cosa che farlo di persona, guardando gli interlocutori negli occhi. Quello che chiamiamo reddito di cittadinanza esiste in tutti i grandi Paesi europei; sostenere - non stipendiare - chi non può lavorare e anche chi non trova lavoro è giusto; ma è evidente che in Italia se ne è fatto un uso distorto. Non tanto per le truffe; quelle possono essere smascherate e punite. Ma se la mentalità è chiedere il reddito appena terminati gli studi, con la prospettiva di arrotondare in nero, si crea un meccanismo che rende il cittadino dipendente dalla politica, e mai davvero autonomo e libero nelle proprie scelte. Resta da chiedersi perché. Perché vita e lavoro sembrano due lame di forbice destinate ad allontanarsi sempre di più. Ognuno ha la propria spiegazione, spesso vera: la prevalenza della Rete e della vita virtuale; la crisi dei lavori del ceto medio, dal posto in banca alla cattedra di insegnante; l’erosione dei salari e dei diritti. Di sicuro si è esagerato con la precarietà, con questa filosofia per cui il posto fisso è finito per sempre, ogni anno si cambia mestiere, i contratti devono essere flessibili, si fa un tratto di strada con un’impresa o con un gruppo di lavoro e poi si cambia; ma così, accanto a pochi percorsi remunerativi, si crea un’incertezza perenne, si affossa la previdenza, e soprattutto si spezzano i legami che univano il lavoratore a un’azienda e a una comunità. Forse però è ancora più grave che si sia infranta l’idea che a un merito corrisponda un beneficio. Che studiare, formarsi, impegnarsi consenta di migliorare la propria condizione. Che il lavoro non sia meno importante della rendita, e i soldi si facciano appunto con il lavoro, non solo con altri soldi. Che tra il neoassunto e il manager ci sia un’inevitabile e giusta differenza, ma non l’abisso che separa un paria da un bramino, chi ha un tfr da poche migliaia di euro da chi riceve bonus milionari, magari dopo aver fallito. Resta da capire se la voglia di lavorare è come il coraggio secondo don Abbondio, e chi non ce l’ha non se la può dare. O se invece la politica, le aziende, la società, le famiglie, le coscienze individuali sono ancora in grado di risvegliare dentro di noi una scintilla di quell’energia, di quell’orgoglio, di quel gusto del lavoro ben fatto senza cui il nostro Paese è destinato a ridursi a un parco giochi per stranieri, che magari amano l’Italia, ma non rispettano noi italiani. La memoria di Lorenzo Parelli contro il lavoro insicuro: perché è lui la persona dell’anno di Lirio Abbate L’Espresso, 8 gennaio 2023 Il suo nome rappresenta il fallimento di una società precaria che non è riuscita a proteggere un giovane. Di una scuola che è costretta a formare gli studenti in luoghi pericolosi. Di un mondo produttivo che continua a mietere vittime. La persona dell’anno è Lorenzo. Il nome che tutti dovremmo ricordare perché rappresenta il fallimento di una società precaria che non è riuscita a proteggere un giovane. Di una scuola che è costretta a formare gli studenti in luoghi non sempre sicuri. Del mondo del lavoro che continua a mietere vittime. Lorenzo Parelli è lo studente diciottenne che il 21 gennaio è rimasto schiacciato da una pesante trave d’acciaio, proprio l’ultimo giorno di stage nella ditta dove svolgeva il tirocinio previsto dal suo corso di studi. Frequentava il quarto anno del Centro di formazione professionale dell’Istituto salesiano Bearzi di Udine. Imparava il mestiere di manutentore di macchine a controllo numerico ed era entrato nel sistema duale, basato sull’alternarsi di un bimestre di pratica e uno di lezioni. La figura di questo ragazzo ci mostra i fattori sociali, formativi ed economici che hanno connotato il 2022. Un tempo caratterizzato dal prezzo pagato alla pandemia dagli adolescenti. Una fascia in età scolare che ha l’eredità più pesante, quella di crearsi un futuro e fare scelte lungimiranti per assicurarsi una solida prospettiva lavorativa. Lorenzo custodisce tutto ciò. Ed è guardando a questo ragazzo che vediamo la condizione degli studenti, quella della scuola, e lo stato della sicurezza sui luoghi di lavoro per apprendisti e operai. Come ha detto il presidente Sergio Mattarella, ricordando Lorenzo, “il valore del lavoro, per i giovani, e per chiunque, non può essere associato al rischio, alla dimensione della morte. La sicurezza sul lavoro si trova alle fondamenta della sicurezza sociale, cioè del valore fondante di una società contemporanea”. La scuola ha il compito di formare la comunità e costruire il futuro del Paese. Occorre qualificare le professionalità e far progredire la collettività. Ma è anche il caso di ricordare che purtroppo le morti sul lavoro sono sempre una costante drammatica e accanto a questo doloroso dato continuiamo a registrare pure il lavoro irregolare, che talvolta varca il limite dello sfruttamento. Dopo Lorenzo anche altri ragazzi sono stati vittime del lavoro nel 2022, studenti deceduti durante i percorsi di formazione: Giuseppe Lenoci, di 16 anni, che ha perso la vita quando il furgone della ditta di Fermo per cui stava svolgendo lo stage si è schiantato contro un albero, lungo una strada di campagna stretta e mal asfaltata della provincia di Ancona; Giuliano De Seta, 18 anni, che è stato schiacciato da un parallelepipedo di acciaio, all’interno di una piccola azienda della zona industriale di Noventa di Piave, vicino a Venezia. Storie che stringono il cuore, che non possono essere cancellate o dimenticate e lasciate solo al dolore delle loro famiglie. A noi spetta il compito di stimolare la memoria, di accendere i riflettori mediatici, illuminare i fatti e i volti che il tempo inesorabile conduce ad accantonare. Non possiamo permettere che cali l’oblio. Dalla tragedia di Lorenzo è trascorso quasi un anno. E non si può dimenticare. Il capo dello Stato lo ha ricordato a febbraio nel suo discorso di insediamento, quando ha voluto inviare una carezza a una famiglia e a una comunità distrutte dal dolore. Una carezza che è diventata monito, soprattutto per azzerare le morti sul lavoro. E poi quel nome, Lorenzo, scandendolo, migliaia di studenti sono scesi in piazza da Torino a Trieste, da Milano a Roma, e in ogni parte d’Italia hanno sfilato in cortei (pacifici), perché quel nome è diventato un riferimento per un forte impegno sulla sicurezza. Un simbolo per gli studenti. E in nome di Lorenzo il futuro deve puntare ad azzerare le morti bianche. A evitare queste tragedie. È per questo che L’Espresso ha deciso che Lorenzo - che rappresenta tutto ciò - è la persona dell’anno. E la politica, da destra a sinistra, deve attivarsi in tutte le sue forme, perché questi studenti non siano morti invano. Lavoro e giovani, tra “contrattini”, stage e tirocini i diritti dimezzati di chi ha meno di 30 anni di Enrico Marro Corriere della Sera, 8 gennaio 2023 I genitori di Giuliano De Seta, lo studente 18enne morto in un incidente in una fabbrica specializzata nella piegatura dei metalli mentre era in stage, non verranno risarciti dall’Inail perché le leggi non prevedono la copertura per casi come questo. Norme retaggio di un mercato del lavoro che non contemplava figure ibride, metà studenti e metà lavoratori. Ora il governo annuncia che vi porrà rimedio. Ma questa lacuna è solo una delle tante di una legislazione carente verso i giovani. Che, quando va male, lascia esposti alla legge del più forte soggetti per loro natura contrattualmente deboli e, quando va bene, prevede un regime di tutele attenuate, in nome di un malinteso concetto di flessibilità. Scuola-lavoro - Secondo il decreto legislativo 77 del 2005, l’alternanza scuola-lavoro è finalizzata ad assicurare ai giovani “competenze spendibili nel mercato del lavoro”. La successiva legge del 2015 su La Buona Scuola ha reso obbligatoria questa pratica per tutti gli studenti degli ultimi tre anni delle scuole superiori. A regolamentare l’alternanza scuola-lavoro è una Carta di diritti e doveri che, tra l’altro, stabilisce che gli studenti devono essere assistiti da tutor dell’azienda ospitante, con un rapporto di un tutor per ogni cinque studenti in caso di attività ad alto rischio. La stessa Carta prevede l’assicurazione Inail ma “in presenza dei requisiti oggettivi e soggettivi” dettati da un decreto del presidente della Repubblica del 1965 (il 1124), che ovviamente non comprende situazioni come quelle dell’alternanza scuola-lavoro. Stage e tirocini - Sono due forme ibride di avvicinamento al lavoro, che prevedono percorsi formativi in azienda. Il tirocinio è obbligatorio per conseguire determinati titoli di studio, come i tirocini curricolari legati all’Università o quelli per diventare avvocati. Né il tirocinio né lo stage prevedono un contratto tra le parti (ci sono invece convenzioni tra Università o enti promotori e l’azienda ospitante), né è prevista una retribuzione, ma solo un rimborso spese minimo di 300 euro. Il rapporto di stage o tirocinio può durare al massimo 12 mesi. È prevista l’assicurazione Inail ma senza il risarcimento in caso di infortuni fuori dal luogo di lavoro (per esempio, incidente stradale), tranne negli stage extracurricolari. Numeri precisi non ce ne sono, ma secondo alcune stime sarebbero mezzo milione di stagisti ogni anno e altrettanti i tirocinanti. Apprendistato - Qui compare l’obbligo di contratto tra lavoratore e datore di lavoro, con tutto ciò che ne consegue in termini di diritti e tutele. Contratto che può avere una durata massima di cinque anni nel caso dell’apprendistato professionalizzante. La retribuzione è più bassa del contratto applicato agli altri lavoratori. Per esempio, un apprendista metalmeccanico prende l’85% del salario nel primo anno. Gli apprendisti erano 561 mila nel 2019, 531 mila nel 2020, anno della pandemia. Job on call - La flessibilità del lavoro prende diverse forme: contratti a tempo determinato, lavoro in somministrazione, a chiamata, contratti stagionali. Nel 2021, l’83% dei rapporti di lavoro è stato attivato con queste forme di lavoro, che coinvolgono in tutto circa 4,2 milioni di persone, in maggioranza giovani. Più di 3 milioni i lavoratori a termine. Il decreto Dignità del 2018, voluto dai 5 Stelle, ha ridotto la durata massima complessiva dei contratti a termine da tre a due anni e reintrodotto le causali per i rinnovi. Ora il governo Meloni vuole togliere nuovamente le causali e tornare ai tre anni di durata. Ci sono poi quelli che l’Inps definisce lavoratori invisibili: non solo i classici rider, ma giovani impiegati nella gig economy, lavoratori delle piattaforme. Molte partite Iva e molti contratti occasionali con meno di 5 mila euro l’anno, che non comportano l’obbligo di versare i contributi per la pensione. Sarebbero quasi 600 mila, secondo l’istituto di previdenza. Dumping contrattuale - Anche chi ha un contratto a tempo indeterminato può trovarsi in condizioni contrattuali svantaggiate. È il caso di tutti i lavoratori di cooperative o società che svolgono attività in appalto e subappalto, spesso con contratti diversi e penalizzanti rispetto al contratto applicato ai dipendenti dell’azienda appaltatrice. E poi ci sono lavoratori cui vengono applicati contratti diversi anche se della stessa categoria. Per esempio, nel commercio, una ricerca della Fipe, federazione dei pubblici esercizi che fa parte di Confcommercio ha mostrato che per un cameriere il contratto sottoscritto con Cgil, Cisl e Uil significa circa 1.500 euro lordi al mese mentre quello sottoscritto da altre associazioni imprenditoriali con sindacati minori vale 200 euro in meno al mese di paga base e un taglio della maggiorazione sugli straordinari. Ammortizzatori - Si tratta di tutti gli strumenti per sostenere il reddito delle persone che rimangono senza lavoro, dalla cassa integrazione all’indennità di disoccupazione (Naspi). La riforma dello scorso anno ha esteso la cassa integrazione a tutti i dipendenti di aziende con almeno 15 dipendenti e per quelle sotto questa soglia ha previsto l’intervento dei Fondi integrativi. Il requisito per accedere è stato ridotto per tutti da 90 a 30 giorni di anzianità di servizio. La Naspi è stata potenziata, ma anche ai lavoratori a termine per ottenerla servono almeno tredici settimane di contribuzione negli ultimi 4 anni. In pensione più tardi - I giovani, che sono i più colpiti dalle forme di lavoro precario, sono anche soggetti al sistema di calcolo “contributivo” della pensione, valido per chi ha cominciato a lavorare dopo il 1995. La pensione si calcola sui contributi versati durante tutta la vita, un sistema meno generoso del “retributivo” applicato ai loro padri. Periodi di lavoro povero e di disoccupazione incidono fortemente sulla pensione. Che i giovani prenderanno più tardi. L’età per accedere alla pensione di vecchiaia è infatti destinata a salire in rapporto alla speranza di vita. Chi comincia a lavorare oggi rischia di andare in pensione a più di 70 anni e con un assegno ben lontano dalla retribuzione. Migranti. Cosa prevede il decreto Ong del governo Meloni. E perché non risolverà nulla di Simone Alliva L’Espresso, 8 gennaio 2023 Rende sempre più difficili i salvataggi in mare, rischia di violare il diritto internazionale, non avrà impatti rilevanti sul fenomeno migratorio. Gli esperti smontano pezzo a pezzo la legge voluta dalla Destra. “Dal principio degli ‘sbarchi selettivi’ si passa ai ‘soccorsi selettivi’ per decreto. Una svolta che viola il valore primario della salvaguardia della vita umana”. È il giurista Fulvio Vassallo Paleologo in un articolo sulla rivista Associazione Diritti e frontiere a indicare quello che non funziona nel cosiddetto decreto Ong. Salvare una persona in mare è un obbligo morale prima che giuridico, è la legge del mare che il decreto pubblicato in Gazzetta ufficiale ed entrato in vigore oggi, punta a ignorare. Cosa dice il decreto Ong? Punta a fare una sintesi tra l’esigenza di assicurare l’incolumità delle persone recuperate in mare e quella di tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica. E delinea inoltre un “codice di condotta”: stop al trasbordo dei naufraghi (cioè quando una nave più piccola compie un soccorso e poi trasferisce su una nave più grande i naufraghi per continuare a operare altri soccorsi) e ai soccorsi multipli (a meno che non siano richiesti dalle autorità della zona Sar). Obbligo di chiedere il porto di sbarco all’Italia immediatamente dopo aver effettuato il primo salvataggio, possibilità per i migranti di chiedere asilo direttamente a bordo delle navi straniere e non nel Paese di primo approdo. Le ong devono chiedere “nell’immediatezza dell’evento l’assegnazione del porto di sbarco” che, si legge nella norma, deve essere “raggiunto senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso”. Per chi viola le regole il decreto si affida a un sistema sanzionatorio di natura amministrativa, in sostituzione del vigente sistema di natura penale; sono previste multe da 10mila fino a 50mila euro (per il comandante e per l’armatore). E oltre alla sanzione pecuniaria è prevista la confisca della nave per due mesi (contro il quale è ammesso ricorso al prefetto) e, in caso di reiterazione della condotta vietata, la confisca della stessa, preceduta dal sequestro cautelare. Analoghe sanzioni si prevedono qualora il comandante e l’armatore della nave non forniscano le informazioni richieste dall’autorità nazionale per la ricerca e il soccorso in mare o non si uniformino alle indicazioni impartite da quest’ultima. Le critiche - “Riduce drasticamente le possibilità di salvare vite in mare, limitando l’operatività delle navi umanitarie e moltiplicando i costi dei soccorsi per tutte le Ong in mare”. È la critica mossa da Emergency sulle misure. “I provvedimenti, inoltre, determineranno una potenziale violazione dell’obbligo di intervenire in caso di segnalazioni di altre imbarcazioni in pericolo in mare, prescritto dal diritto internazionale e tutte le navi, anche quelle umanitarie, sono tenute a rispettarlo. Infine, lo staff della nave dovrebbe raccogliere l’eventuale interesse dei superstiti di chiedere asilo, affinché sia il Paese bandiera della nave a farsi carico delle richieste di protezione internazionale. Le linee guida dell’Organizzazione Internazionale Marittima (IMO) sono chiare: qualsiasi attività al di fuori della ricerca e salvataggio deve essere gestita sulla terra ferma dalle autorità competenti e non dallo staff delle navi umanitarie. Ostacolare il lavoro umanitario, che ha come unico obiettivo la messa in salvo di persone, è inspiegabile se non in termini di consenso politico. Noi continueremo a salvare vite umane, nel rispetto del diritto internazionale e nazionale”. Anche il mondo cattolico condanna il dl: “Questo decreto cadrà presto, nel senso che è costruito sul nulla”, tuona monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Commissione Cei per le Migrazioni, sottolineando: “È paradossale che uno strumento che in questi anni è stato di sicurezza per almeno il 10 per cento delle persone che sono sbarcate nel nostro Paese e in Europa (cioè le navi delle Ong ndr) sia considerato uno strumento di insicurezza”. Mentre l’Ong Sea-Eye annuncia battaglia, spiegando che: “Non seguirà alcun codice di condotta illegale o qualsiasi altra direttiva ufficiale che violi il diritto internazionale o le leggi - spiega la Ong - del nostro Stato di bandiera, nel nostro caso la Germania. Rifiutiamo questo cosiddetto codice e temiamo che ciò possa portare a conflitti con le autorità italiane. Ci aspettiamo che il governo tedesco ci protegga”. Più tecnico il giurista Vassallo, già docente di Diritto di asilo all’Università di Palermo, che nel segnalare il passaggio ai “soccorsi selettivi per decreto” sottolinea la violazione del “valore primario della salvaguardia della vita umana, affermato dalle Convenzioni internazionali, dai Regolamenti europei, ed anche dal Protocollo addizionale contro il traffico di esseri umani, approvato nel 2000 a Palermo con la Convenzione Onu contro il crimine transnazionale”. Un valore per il professor Vassallo “troppo spesso citato a sproposito, per legittimare accordi con paesi che non rispettano i diritti umani e misure illegali di contrasto dei soccorsi umanitari in acque internazionali. Secondo l’articolo 16 del Protocollo Onu, ogni Stato Parte prende, compatibilmente con i suoi obblighi derivanti dal diritto internazionale, misure adeguate, comprese quelle di carattere legislativo se necessario, per preservare e tutelare i diritti delle persone vittime di traffico di esseri umani, garantendo in particolare il diritto alla vita e il diritto a non essere sottoposto a tortura o altri trattamenti o pene inumani o degradanti. Se si insiste tanto sulle cifre pagate ai trafficanti o sul ruolo di complicità che si vorrebbe attribuire alle Ong, se si legittimano accordi con paesi terzi per contrastare “l’immigrazione clandestina” e “difendere i confini nazionali”, non si vede come si possano violare norme internazionali come quelle contenute nel Protocollo Onu contro il traffico di esseri umani, per imporre alle Ong una sottomissione ad “autorità’ competenti” che non sono in grado di garantire salvataggi tempestivi in mare e porti sicuri di sbarco”. Eppure il decreto anti-Ong non inciderà sul numero degli sbarchi - In Italia soccorsi e sbarchi non si fermano. Quasi 500 i migranti approdati in 24 ore a Lampedusa dove l’hotspot torna a numeri d’emergenza; 700 quelli soccorsi da Guardia costiera e Guardia di finanza, distribuiti tra Sicilia e Calabria. Ma le misure del governo Meloni per le ong non incideranno sugli sbarchi come dichiara a L’Espresso Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI): “Le Ong non hanno alcun effetto significativo sulle partenze. Abbiamo fatto ricerche con Eugenio Cusumano (ricercatore in Relazioni internazionali dell’Università di Leiden, nei Paesi Bassi) sull’attività delle Ong nel Mediterraneo centrale che mostra l’inconsistenza della teoria che accusa il soccorso umanitario di attrarre la migrazione (pull factor, ndr). Ho dati che vanno da inizio 2018 fino a dicembre 2021, più di 1200 giorni. Le Ong non influenzano le partenze. Sono sicuramente le condizioni meteo-marine. Le persone a soccorso delle Ong prima di sbarcare qui sono state meno del 15 per cento in totale. E durante il governo Meloni meno del 10. Il 90 per cento arriva in maniera autonoma”. Un decreto superfluo ad arginare un fenomeno che non si può fermare. “Non può certo colpire le condizioni marine. Se sono aumentati gli sbarchi il punto, banalmente, è che è migliorato il tempo. Ci sono state settimane di alta pressione e onde basse, cosa improbabile negli anni scorsi. Il flusso migratorio non è un fenomeno che si può arginare, si può comprendere. A questo si aggiunge l’instabilità politica del paese di partenza. Quest’anno per la prima volta dal 2014 sono più egiziani che tunisini coloro che vengono in Italia. E quasi il 40 per cento delle persone arrivano dl nord-Africa”. Migranti. Juan Matías Gil (Msf): “Non accettiamo decisioni che ostacolano i soccorsi” di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 gennaio 2023 Mediterraneo. Il capomissione della Geo Barents di Medici Senza Frontiere: “Vogliono allontanare le navi umanitarie dalla zona di ricerca e soccorso senza pensare a nessun altro meccanismo sostitutivo”. “Siamo pronti a difenderci e non abbiamo paura di verificare se questo decreto rispetta le convenzioni internazionali e la costituzione italiana”, dice Juan Matías Gil con voce sicura. Risponde pochi minuti dopo che il Viminale ha assegnato alla Geo Barents il lontanissimo porto di Ancona. Ha 42 anni ed è cresciuto nel nord di Buenos Aires. Da novembre 2021 è capomissione di Medici Senza Frontiere. Da terra o in mare. Di salvataggi nel Mediterraneo si era occupato anche in precedenza, dal 2015: sulla Dignity 1, l’Alan Kurdi e poi la ResQ. Prima ha lavorato per Msf in contesti ancora più difficili, tra la fame o in mezzo alle bombe: Siria, Iraq, Yemen, Congo, Repubblica Centrafricana, Colombia, Sud Sudan. Forse anche per questo le minacce del governo non hanno tanta presa. Il Viminale vi dà il porto e voi lo rifiutate? Lo rifiutiamo perché non è in linea con le convenzioni internazionali secondo cui deve essere assegnato “con la minima deviazione possibile” e “in un tempo ragionevole”. Un porto a 1.500 km con le pessime condizioni meteo previste nelle prossime ore non è la soluzione migliore per i sopravvissuti che abbiamo a bordo. Il ministero dell’Interno sostiene che con voi il criterio della “minima deviazione possibile” non vale perché le navi delle Ong non hanno una rotta predefinita... La Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo (Sar) di Amburgo fa riferimento al tempo, dice “ragionevolmente praticabile”. Questo viene interpretato come “il minore tempo possibile”. Ovviamente se una barca viene dal sud del Paese e si manda a nord-est, a quattro giorni di distanza quando potrebbe sbarcare in uno solo o al massimo in uno e mezzo, si sta producendo un effetto contrario alla legge. Il porto è lontano, ma arriva subito. Con la precedente ministra dell’Interno Luciana Lamorgese le Ong sono sbarcate anche a Salerno o Taranto e hanno ricevuto l’indicazione del luogo di sbarco dopo sette, otto, nove giorni di attesa in mare. Non era peggio? Non era una situazione di rispetto delle regole neanche quella. Ma è inutile fare confronti o giustificare eccezioni con ciò che accadeva prima, lo si consideri meglio o peggio. Qui dobbiamo decidere: rispettiamo le leggi del mare oppure no? Ci interessiamo a dignità e salute delle persone oppure no? Tra l’attesa davanti alle coste siciliane e una navigazione così lunga ci sono differenze? Andare lontano ha in primis un impatto sui sopravvissuti. Ovviamente ha anche un grande costo economico e di tempo. Significa soprattutto svuotare la zona di ricerca e soccorso. Perché ciò che vuole fare questo decreto è allontanare le navi umanitarie senza pensare a nessun altro meccanismo sostitutivo. Se servono cinque giorni ad andare e cinque a tornare vuol dire che in quel periodo di tempo non ci sarà nessuno in grado di soccorrere le persone in pericolo. Che succede se il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi non vi indica un porto più vicino? Ci auguriamo lo faccia, pensando ai bisogni dei sopravvissuti ed evitando di fare politica sulla pelle di persone costrette a tentare la traversata perché non avevano canali sicuri e legali per arrivare in Europa. Potrebbe non farlo... Non possiamo assecondare sempre decisioni senza senso che mettono in pericolo le vite delle persone. Il governo dovrà rendere conto delle sue scelte. Non temete che con il nuovo decreto vi possano sanzionare, economicamente e con il fermo della nave? È possibile. Ma come sempre ci difenderemo facendo valere il diritto del mare. Non abbiamo paura di verificare se questo decreto e queste misure sono in linea con le convenzioni internazionali e la costituzione italiana. L’Iran impicca la rivolta: uccisi due giovani di Francesca Luci Il Manifesto, 8 gennaio 2023 La rivolta iraniana. Giustiziati ieri Mohammad Karami e Mohammad Hussein per “corruzione sulla terra”. E si muore anche in carcere: almeno 16 vittime, per torture o mancate cure. Quindici detenute entrano in sciopero della fame. E oggi sono previste proteste in tutto il paese per il volo PS752. Due giovani, il 22enne Mohammad Karami e il 20enne Mohammad Hosseini, arrestati durante le recenti manifestazioni, dopo un breve e ambiguo processo sono stati impiccati in Iran con l’accusa di “corruzione sulla terra”. L’esecuzione delle sentenze è avvenuta malgrado la forte avversità dell’opinione pubblica iraniana e le critiche di vari giuristi e studiosi riguardo l’impossibilità per i condannati di scegliersi un avvocato e avere accesso a un giusto processo. Dopo sei giorni e appena tre udienze la magistratura ha confermato le accuse di “corruzione sulla terra”, azioni contro la sicurezza nazionale e aggressione agli agenti di sicurezza che aveva portato alla morte di un agente Basij, forza paramilitare iraniana. Secondo familiari e attivisti, a Karami - curdo, campione di karate tanto da arrivare alla nazionale giovanile e in sciopero della fame in carcere da mercoledì - sarebbe stato impedito anche di parlare per l’ultima volta con i genitori. Hussein invece ha subito crudeli torture per strappargli una confessione. Prima di loro, l’8 dicembre 2022, il 23enne Mohsen Shekari era stato impiccato dopo un processo iniquo con l’ambigua accusa di “inimicizia contro Dio”. E il 12 dicembre, le autorità avevano messo a morte Majidreza Rahanvard, 23 anni, per lo stesso reato senza possibilità di ricorso. Il reato di corruzione sulla terra e/o inimicizia contro Dio è stato contestato ad altri 78 manifestanti detenuti. Sono state emesse altre 17 condanne a morte. Tra loro due 18enni, Mehdi Mohammadi Fard e Arshia Takdastan. Secondo le indagini del Detainee Follow-up Committee, dall’inizio della rivolta, settembre 2022, almeno 16 persone sono state uccise in detenzione a causa delle torture per estorcere confessioni o per mancate cure mediche efficaci dopo essere state ferite da proiettili. Il numero esatto degli arrestati non è noto, ma si stima siano almeno 20mila. Il comitato ha ricevuto numerose denunce di torture fisiche e mentali di detenuti nelle carceri di tutto il paese. Tra gli arrestati si contano 140 artisti e studenti d’arte. Anche per questo molti noti artisti e l’Iran’s Independent Filmmakers Center hanno dichiarato che quest’anno boicotteranno il Fajr Festival iraniano, il più importante evento cinematografico che si svolge a Teheran ogni febbraio, in occasione dell’anniversario della rivoluzione iraniana. Ma la repressione non si ferma: in questa prima settimana dell’anno sono stati arrestati Mehdi Beyk, Shargh Milad Alavi e Mehdi Ghadimi: vanno a infoltire il gruppo di almeno 80 giornalisti detenuti dallo scoppio delle proteste. A Zahadean, dove ogni venerdì si registrano manifestazioni contro il regime, i servizi di sicurezza hanno arrestato 113 persone nell’ultima settimana, tra cui 18 minori. Una repressione durissima che porta a reazioni: 15 detenute nel carcere di Karaj, ovest di Teheran, da lunedì sono in sciopero della fame per protestare contro la o detenzione a tempo indeterminato senza formulazione di accuse e il mancato accesso a legali. Una prassi che fa piovere le critiche di giuristi ed esperti di giurisprudenza islamica all’interno del paese. Mohsen Borhani, avvocato e docente universitario, esperto in diritto penale e criminologia continua a sottolineare le irregolarità del sistema giudiziario e il trattamento riservato agli arrestati. Borhani è stato minacciato di essere espulso dall’università. Intanto sono riprese le proteste notturne in varie città e sono apparsi banner che invitano la popolazione alla piazza in occasione della ricorrenza dell’abbattimento del volo ucraino PS752 da parte di due missili iraniani. L’8 gennaio 2020, l’aereo civile si schiantò pochi minuti dopo il decollo dall’aeroporto internazionale di Teheran. L’incidente si verificò a causa della crescente tensione tra Stati uniti e Iran, innescata dall’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani all’aeroporto di Baghdad, pochi giorni prima. Il 10 gennaio, di fronte a prove inconfutabili, dopo tre giorni di ferme smentite Teheran aveva ammesso pubblicamente che i suoi militari avevano abbattuto l’aereo: “errore umano”. Tra le 176 vittime, 82 iraniani, 63 canadesi, 11 ucraini, dieci svedesi, quattro afghani e tre britannici. Dalla strage è nata l’Associazione delle famiglie delle vittime del volo PS752, con l’obiettivo di chiedere giustizia, guidata da Hamed Esmaeilion, scrittore e dentista iraniano-canadese che ha perso la moglie e la figlia nel disastro. Oggi Esmaeilion è tra i più noti oppositori della Repubblica Islamica all’estero. La sua rilevanza è dovuta al favore della popolazione all’interno del paese soprattutto per le sue ripetute affermazioni di non voler dare ricette su come proseguire la lotta interna. Alla vigilia del terzo anniversario dell’abbattimento dell’areo PS752 l’Associazione ha scritto su Twitter: “La giustizia prevarrà, unisciti ai raduni in tutto il mondo l’8 gennaio”. Decine di gruppi avevano già chiesto la partecipazione dei cittadini alle manifestazioni. A capo della polizia il responsabile della repressione del 2009 - L’ayatollah Khamenei ha destituito il capo della polizia e nominato Ahmadreza Radan, già vice comandante della polizia iraniana tra il 2009 e il 2015. Durante il suo comando fu realizzato il “Progetto di miglioramento della sicurezza sociale”: comprendeva trattamenti violenti verso ragazze e donne che portavano “un cattivo hijab” e giovani con comportamenti non idonei, “teppisti e delinquenti”. Radan è stato sanzionato dagli Stati uniti e dall’Unione europea per il suo coinvolgimento nei crimini e violazioni dei diritti umani compiuti nel centro di detenzione di Kahrizak dopo le proteste seguite alle elezioni presidenziali del 2009. Iran. Altri due ragazzi impiccati. Gli attivisti chiedono aiuto: “Il mondo reagisca” di Greta Privitera Corriere della Sera, 8 gennaio 2023 Giustiziati un campione di karate e un allenatore di bambini. L’Ue: sconvolti. Nominato nuovo capo della polizia famoso per la repressione del 2009. In un video su Twitter, si vede una lapide nera davanti a un tappeto che ricopre una bara. Il tappeto è sommerso da quelle che da qui sembrerebbero margherite bianche. Si sentono delle donne piangere. Una di loro ripete ossessivamente una frase che un utente del social traduce: “Che cosa hai fatto per meritarti questo, bambino mio”. È la madre di Mohammad Mehdi Karami, disperata. Il ragazzo aveva 22 anni e ieri il regime dell’ayatollah Khamenei lo ha impiccato in carcere accanto al compagno di proteste Seyed Mohammad Hosseini, 39 anni. Karami, campione di karatè, e Hosseini, maestro-volontario di arti marziali in una squadra di bambini, sono stati arrestati il 3 novembre, a Karaj, vicino a Teheran, durante la cerimonia in ricordo della ventenne Hadis Najafi, uno dei simboli delle proteste che dal 16 settembre, dall’uccisione di Mahsa Amini, infiammano il Paese. La magistratura li ha condannati per la morte di un miliziano Basiji, Ruhollah Ajamian, citato come ”martire” dall’ayatollah Khamenei in uno dei suoi ultimi discorsi. Prima di loro, a dicembre, sono stati impiccati Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard. I due uomini che gli attivisti chiamano “pacifisti” sono stati accusati di “efsad-fil-arz (corruzione sulla terra), di crimini contro la sicurezza nazionale, di attacco alle forze basiji e per la pubblicazione online di post contro il governo”. A entrambi è stata negata la difesa dei loro avvocati e un processo giusto: “Se la comunità internazionale non interviene, sarà una strage”, commenta la ong Iran Human Rights, che dà un numero spaventoso: almeno 100 altri manifestanti sarebbero in attesa di condanna a morte. Il 18 dicembre, l’avvocato di Hosseini è riuscito a vedere il suo assistito nel carcere di Karaj. Ha scritto: “Mi ha parlato di torture, percosse con gli occhi bendati. Venivano ammanettati e incatenati. Mi ha raccontato di calci fino allo svenimento, di colpi sulla pianta dei piedi con sbarre di ferro, di scosse elettriche su tutto il corpo”. Dopo le impiccagioni, anche l’avvocato di Karami ha raccontato che il ragazzo era in sciopero della fame e della sete perché voleva una difesa giusta. Sempre a dicembre, i genitori di Karami hanno registrato un video diventato molto virale, in cui supplicavano le autorità di ritirare la sentenza. Si dice che Karami avesse chiesto al padre di non dire nulla alla madre, per risparmiarle il dolore. Dall’Iran ci raccontano che ieri la donna è stata l’ultima a sapere dell’impiccagione di suo figlio. I genitori di Mohammad Hosseini, invece, sono morti quando aveva 15 anni. L’avvocato spiega che l’uomo è stato arrestato davanti alla loro tomba. L’Unione europea si dice “sconvolta” e “invita le autorità iraniane a porre immediatamente fine alle condanne a morte contro i manifestanti”. Agli attivisti con cui parliamo non piace il verbo “invitare”, vogliono: il congelamento dei beni della repubblica islamica, l’espulsione dei diplomatici e i pasdaran nella lista dei terroristi. Intanto, mentre in piazza di grida sempre più forte “morte al dittatore”, Khamenei non indietreggia, anzi. Ieri ha nominato un nuovo capo della polizia, Ahmad-Reza Radan, famoso per la violenta repressione che mise in atto durante le proteste del 2009. In Africa la pace è un cantiere aperto e non impossibile da raggiungere di Mario Giro Il Domani, 8 gennaio 2023 L’Africa è afflitta da numerose guerre ma nell’ultimo trimestre del 2022 sono stati fatti vari tentativi di negoziato. Il 2 novembre 2022 è iniziata la tregua tra le forze federali etiopiche di Addis Abeba e il Fronte popolare di liberazione del Tigray, che ha portato all’accordo di pace del 12 dicembre. Anche nella Repubblica democratica del Congo, seppur senza accordi, l’azione militare dei ribelli dell’M23 sta iniziando a recedere dopo ripetute avvertimenti della comunità internazionale. Un simile atteggiamento inizia a farsi strada in Africa occidentale. Il 22 novembre scorso ad Accra (capitale del Ghana), i leader della regione hanno iniziato a definire una risposta comune alla crescente instabilità del Sahel. L’Africa è afflitta da numerose guerre ma nell’ultimo trimestre del 2022 sono stati fatti vari tentativi di negoziato o contenimento delle violenze. Il 2 novembre 2022 è iniziata la tregua tra le forze federali etiopiche di Addis Abeba e il Tplf (Fronte popolare di liberazione del Tigray), che ha portato all’accordo di pace firmato il 12 dicembre. I mediatori incaricati dall’Unione africana hanno svolto un ruolo di garanti ma sono state le parti a decidere, dopo due anni di un sanguinoso conflitto che ha provocato mezzo milione di vittime, di incontrarsi direttamente. La tregua sta reggendo e gli aiuti umanitari stanno iniziando ad affluire anche se resta l’ambiguità dell’assenza dell’Eritrea dall’accordo, presente con le sue truppe, così come l’atteggiamento incerto delle milizie Amhara. Il caso del Congo - Anche nella Repubblica democratica del Congo, seppur senza accordi, l’azione militare dei ribelli dell’M23 - a detta di molti sostenuto dal Ruanda - sta iniziando a recedere dopo ripetute avvertimenti della comunità internazionale, Stati Uniti inclusi come si è visto al vertice Usa-Africa di Washington. L’M23 era pronto a marciare su Goma, capitale del Kivu nord, ma ciò è stato ritenuto inaccettabile per le gravi conseguenze di instabilità che avrebbe provocato. La soluzione dell’ennesimo capitolo della lunghissima guerra del Kivu e dell’Ituri (l’inizio si può far risalire al 1996) non sembra all’orizzonte, anche a causa della proliferazione dei gruppi armati presenti nell’area (tra i cento e i 200 a seconda delle fonti). Tuttavia gli stati confinanti hanno deciso di gestire la crisi per tenerla al più basso livello di intensità possibile. È la dimostrazione che anche i conflitti considerati più intrattabili possono essere contenuti. Il contagio del Sahel - Un simile atteggiamento inizia a farsi strada in Africa occidentale. Il 22 novembre scorso ad Accra (capitale del Ghana), i leader della regione hanno iniziato a definire una risposta comune alla crescente instabilità del Sahel, la cui crisi sta contagiando la Costa d’Avorio, il Togo e il Benin. In questo caso la vera difficoltà è l’assenza di dialogo con le giunte militari del Mali e del Burkina Faso, che hanno rotto la solidarietà regionale e si sono rifugiate in una scivolosa alleanza con i contractor russi della Wagner. Tuttavia il vertice di Accra ha riconosciuto la gravità della minaccia insurrezionale nella regione, sia jihadista che di altra origine, sottolineando la necessità di una nuova forma di cooperazione dopo il fallimento del G5 Sahel. È un primo passo per un percorso non solo militare. Alcuni conflitti africani durano da numerosi anni, di fronte ai quali la risposta della comunità internazionale è spesso carente o rassegnata. Tuttavia è sempre possibile fare qualcosa, diminuendo le sofferenze delle popolazioni civili. La pace è un cantiere aperto, non un fatto magico: per ottenerla occorre un impegno continuo che non si fiacchi mai. Myanmar. La strage dimenticata sullo sfondo delle elezioni di regime di Antonio Fiori Il Domani, 8 gennaio 2023 Il 4 gennaio, il generale Min Aung Hlaing ha annunciato l’indizione di una nuova tornata elettorale, prevista per il prossimo agosto e già c’è la certezza che non saranno democratiche- In Myanmar sono trascorsi ormai quasi due anni da quando, all’alba del primo febbraio, i militari, guidati dal generale Min Aung Hlaing, si sono impossessati del potere attraverso un colpo di stato, formalmente giustificato dal fatto che le elezioni del novembre 2020 - da cui era emersa una schiacciante vittoria dalle Lega Nazionale per la Democrazia - fossero state viziate da brogli, peraltro mai rilevati dagli osservatori elettorali indipendenti. In realtà, l’obiettivo era quello di negare ad Aung San Suu Kyi e al suo partito di governare il paese ponendo i militari ai margini della vita istituzionale. Oltraggiati dalla sovversione del risultato scaturito dalle urne - dopo un decennio dall’inizio di un flebile processo di transizione alla democrazia - e indignati dalle violenze perpetrate dai militari ai danni della popolazione inerme dopo il colpo di stato, i cittadini birmani hanno provato ad appropriarsi del proprio destino. Molti hanno incrociato le braccia invocando un lungo sciopero, paralizzando il paese e rifugiandosi, al contempo, sotto l’ombrello protettivo approntato dal neonato Governo di Unità Nazionale - istituito in opposizione ai militari da attivisti, leader delle varie etnie e da quei politici che, pur risultando eletti, non hanno potuto sedere in parlamento a causa del golpe - che ha preso a offrire servizi scolastici e sanitari alternativi a quelli statali. Altri hanno invece preferito imbracciare le armi contro i soldati, malgrado l’assenza di qualunque preparazione militare, unendosi ai numerosi gruppi etnici armati o alle Forze Popolari di Difesa, una nuova milizia civile. La repressione - La reazione di Min Aung Hlaing, ossessionato dalla necessità di dare consolidamento al nuovo assetto politico, è stata spietata. I militari hanno ripreso le esecuzioni politiche e hanno dato alle fiamme interi villaggi, oltre a bombardare scuole e ospedali: insomma, un eccidio vero e proprio se si pensa che - stando alle stime della locale Assistance Association for Political Prisoners - negli ultimi due anni quasi 3.000 persone sono state uccise e circa 13.000 si trovano ancora in carcere, presumibilmente in condizioni di assoluta precarietà. A peggiorare le cose, il regime ha deciso di ripristinare la pena capitale, dopo decenni di sospensione, come strumento atto a scoraggiare l’opposizione civile: quattro giovani attivisti sono stati impiccati nel luglio 2022, mentre altri dieci - tra cui sette studenti membri dell’Unione studentesca dell’Università di Dagon, accusati del presunto coinvolgimento nell’omicidio di un funzionario militare - sono in attesa di essere giustiziati. Fermare Aung San Suu Kyi - Poco prima che il 2022 si chiudesse, Aung San Suu Kyi, già deposta a seguito del golpe e posta in arresto per reati che vanno dall’istigazione, violazione delle restrizioni Covid-19, possesso illegale di apparecchiature radio, violazione della legge sui segreti di stato, accuse multiple di corruzione e manovre illecite atte a influenzare vari funzionari elettorali, è stata condannata per altri cinque capi di imputazione, che vanno dal suo contratto di locazione all’uso di un elicottero mentre era la leader de facto del paese, e incarcerata per ulteriori sette anni. In tutto, quindi, la Lady dovrà trascorrere i prossimi 33 anni in galera. Ciò pone fine a una maratona di processi a carico della principale esponente dell’opposizione etichettati dall’opinione pubblica internazionale come farsa. Le condanne inflitte ad Aung San Suu Kyi sono da considerarsi come un espediente usato dai militari per eliminare definitivamente dal quadro politico nazionale il principale avversario in vista di nuove elezioni. Le nuove elezioni - Il 4 gennaio scorso, durante una cerimonia tenutasi nella capitale Naypyidaw in occasione del 75° anniversario dell’indipendenza del Myanmar dalla Gran Bretagna, Min Aung Hlaing ha annunciato l’indizione di una nuova tornata elettorale, prevista per il prossimo agosto, esortando il popolo birmano e il resto del mondo a sostenere questo importante passaggio, descritto come un passo importante verso quello che l’establishment militare definisce “il sistema democratico multipartitico genuino e disciplinato”. In realtà, il riferimento di Min Aung Hlaing mira a situare le controverse elezioni nel contesto della Roadmap pubblicata dalla giunta militare nel 2003, in base alla quale è stata redatta la Costituzione del 2008 e che ha guidato la limitata apertura politica ed economica del decennio precedente al colpo di stato del 2021. Il regime sta cercando di convincere parte dell’opinione pubblica internazionale dell’esistenza di un progetto preciso, che passa attraverso nuove consultazioni elettorali, volto a restituire al paese una condizione di stabilità e normalità. Tutto ciò è altamente improbabile, visto che, negli ultimi due anni, il paese ha visto emergere un’ampia coalizione di gruppi di resistenza - tra cui il Governo di Unità Nazionale - e dozzine di organizzazioni schieratesi a difesa della popolazione che non accetterebbero in alcun caso la legittimazione del potere dei militari attraverso il ricorso alle urne. Il golpe del 2021, in aggiunta, ha esacerbato i conflitti tra il governo centrale - che controlla un mero 17 per cento del paese, riassumibile principalmente alle grandi città - e il largo fronte di organizzazioni etniche armate sparpagliate nel resto del territorio birmano. Ciò, naturalmente, rischia di rendere una nuova consultazione elettorale, già di per sé delegittimata agli occhi della gran parte della popolazione, un esercizio territorialmente circoscritto. Sarebbe auspicabile che la comunità internazionale - a parte naturalmente Cina e Russia, che, oltre alla fornitura di armi costituiscono anche un valido scudo diplomatico per il regime birmano presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite - si opponesse con forza a questa ennesima macchinazione del regime, che potrebbe facilmente trasformarsi in un bagno di sangue.