Lo Stato decida cosa fare delle carceri di Emiliano Moccia vita.it, 7 gennaio 2022 Lo scorso anno 84 detenuti si sono tolti la vita negli istituti di pena. Con cinque suicidi, il carcere di Foggia è quello che ha registrato il maggior numero di episodi. Sovraffollamento e carenze di organico degli agenti creano non pochi disagi nella gestione. Le proposte al governo italiano di Domenico Mastrulli, del sindacato di polizia penitenziaria, per provare a migliorare la situazione. Era stato arrestato il 17 novembre per concorso in estorsione e rinchiuso nel reparto accoglienza del carcere di Foggia con il suo coimputato. Poi A., giovane nigeriano di quasi 40 anni, si è tolto la vita impiccandosi con le lenzuola che aveva appeso alle grate del bagno. La stessa mattina in cui si è suicidato doveva essere accompagnato in tribunale dove si sarebbe dovuta celebrare l’udienza di convalida dell’arresto, e forse avrebbe potuto ottenere anche la libertà. “E’ doloroso sapere che l’uomo non sarebbe dovuto nemmeno entrare nel carcere di Foggia, poiché secondo la legge Severino (porte girevoli) vecchia di anni ma mai rispettata, i nuovi arrestati in attesa di giudizio devono essere portati in carcere dopo l’udienza di convalida, e non prima, perché devono restare nelle camere di sicurezza di chi ha proceduto agli arresti” dice Domenico Mastrulli, segretario generale nazionale del Co.S.P, coordinamento sindacale di polizia penitenziaria. Quel che è certo è che nel 2022, oltre alla morte del giovane nigeriano, l’istituto penitenziario di Foggia con cinque suicidi ha registrato in Italia il più alto numero di detenuti che si sono tolti la vita. In totale, nell’anno orribile dei suicidi in carcere, 84 detenuti si sono tolti la vita nei penitenziati italiani. Uno ogni cinque giorni. Il precedente primato negativo era del 2009, quando in totale furono 72. Ma all’epoca i detenuti presenti erano oltre 61.000, 5.000 in più di oggi. Una situazione che nel 2013 ha portato l’Italia anche alla condanna della Corte Europea dei Diritti Umani per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea, per il trattamento inumano e degradante. “Lo Stato italiano deve decidere cosa fare delle carceri” evidenza Mastrulli. “82 sucidi dei detenuti in Italia in un anno sono davvero tanti, senza contare che negli ultimi 11 anni 167 agenti di polizia penitenziaria si sono tolti la vota, anche a causa delle condizioni di stress in cui svolgono il loro lavoro, a volte anche con turni di 8-12 ore continuative controllando da uno a 200 detenuti. Una condizione che denunciamo da tanti anni. Non a caso, vista l’inefficienza dell’amministrazione penitenziaria, abbiamo di recente proposto alla presidente del consiglio, al governo ed i vari ministri interessati, la richiesta di transito del corpo di polizia penitenziaria dal ministero della Giustizia presso il dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell’Interno”. Il tema del sovraffollamento delle carceri e la mancanza di agenti di polizia penitenziaria sono tra le cause principali che creano non pochi disagi negli istituti di pena, complicando o rendendo impossibile programmare attività trattamentali, iniziative di socializzazione, di volontariato, culturali. Per quanto riguarda la situazione del carcere di Foggia, nonostante gli sforzi della direttrice di avviare iniziate socio-culturali per rendere meno dura la permanenza dei detenuti, favorire percorsi di socializzazione e trasformare quel tempo sospeso in tempo utile, a fronte di 330 posti letto sono ristretti in carcere oltre quasi seicento detenuti. Una situazione esplosiva, come nel resto dei penitenziari italiani. Foggia, per intenderci, è il carcere che ha subìto l’evasione di 72 detenuti dal penitenziario avvenuta il 9 marzo 2020, pochi giorni prima che iniziasse il lockdown provocato dal covid-19. Una fuga di massa avvenuta mentre le proteste devastano decine di carceri in tutta Italia causando la morte di 13 reclusi. “Nel carcere di Foggia la situazione è davvero complicata, anche se la direttrice sta lavorando bene, cercando di fare quel che può con le risorse che ha e gli agenti penitenziari a disposizione” prosegue Mastrulli. “Quello di Foggia è tra gli istituti di pena più affollati d’Italia e della Puglia, ma è tutta la regione che su questo tema è in sofferenza. Serve una maggiore attenzione da parte delle istituzioni, che non si deve limitare solo al momento in cui si verifica la tragedia, ma deve essere costante e strutturata. Lo Stato deve capire cosa fare delle carceri, qui parliamo di esseri umani. La certezza della pena deve sempre essere garantita, ma dobbiamo creare dei corridoi alternativi alla detenzione. Nel carcere di Foggia mancano ad oggi 70 unità maschili, 10 unità delle funzioni centrali che comprendono area amministrativa contabile, pedagogica ed educativa, manca un comandante di reparto titolare del ruolo dei commissari, preferendo far arrivare commissari esterni e pagando 110 euro di missione. Manca anche un vicedirettore. Insomma, è un quadro allarmante”. Gli unici spiragli di benessere arrivano dai volontari, dal cappellano fra Edoardo e dalle attività promosse dal Centro di servizio al volontariato di Foggia che, con il sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, da diversi anni promuove un bando destinato alle organizzazioni di volontariato per promuovere e sostenere iniziative laboratoriali, di spettacolo e di solidarietà negli Istituti penitenziari della Capitanata. Iniziative che, sempre a causa del Covid, hanno subito dei rallentamenti ma che gli operatori hanno ripreso proponendo cineforum, musica, piccole iniziative. Come il Fondo di Solidarietà, destinato a soddisfare i bisogni primari che condizionano la qualità della vita dei detenuti in stato di grave indigenza. “Il carcere è una discarica, e i detenuti rifiuti indifferenziati” di Michele Brambilla huffingtonpost.it, 7 gennaio 2022 Colloquio con Nicola Boscoletto della cooperativa Giotto: “Noi facciamo la differenziata, e invece la prigione è un unico cassonetto in cui buttiamo tutto. Il lavoro salva chi ha sbagliato, ma è un privilegio riservato solo all’1.3 per cento. Le leggi sono buone, ma non sono mai applicate. Vi spiego, numero su numero, l’entità di un fallimento”. Le citazioni si sprecherebbero anche. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione” (Voltaire). “Il grado di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri” (Dostoevskij). “Si dice che non si conosce veramente una nazione finché non si sia stati nelle sue galere. Una nazione dovrebbe essere giudicata da come tratta non i cittadini più prestigiosi ma i cittadini più umili” (Mandela). Ma purtroppo delle carceri, o meglio dei carcerati, per dirla in francese, non frega niente a nessuno. Chi è fuori, pensa che chi è dentro se l’è cercata. Quando poi al dovere morale, oltre che costituzionale, di recuperare questa parte di umanità, che se la sbrighino i politici. a i carcerati non portano voti. E quindi. Ma quanti di noi sanno, davvero, chi c’è in carcere? E perché c’è? E come si vive lì dentro? Nicola Boscoletto, 60 anni, padovano, presidente della Cooperativa Giotto che porta il lavoro (quello vero, come vedremo) all’interno del carcere, ci regala una definizione cui non avevamo mai pensato: i carcerati sono rifiuti indifferenziati. Terribile, ma è così. “Il 2022”, ci dice subito Boscoletto, è stato annus horribilis per le carceri italiane. Per i postumi della pandemia? “Chiariamo subito una cosa importante: le carceri erano un fallimento già prima della pandemia. Il Covid non ha fatto altro che mettere in evidenza un sistema che ha perso di vista, ormai da anni, lo scopo per cui ha senso di esistere. È un sistema chiuso in sé stesso, disumano e non solo nei confronti delle persone detenute, è un sistema incapace di dialogare con chi è diverso dallo Stato, un sistema che si difende da chiunque proponga una soluzione reale dei problemi”. Perché annus horribilis? “Parto dai suicidi: 84 in un anno”. Detto così, si capisce poco... “Allora glielo dico meglio: rapportati alla popolazione carceraria, danno una percentuale che è venti volte superiore a quella dei suicidi nel cosiddetto mondo esterno”. E poi? “Le recenti evasioni dal carcere minorile Beccaria di Milano sono un altro campanello d’allarme. Sui minori abbiamo pure uno dei sistemi tra i più avanzati nel mondo, ma non basta. Occorrono risorse economiche, ma prima di tutto persone che amino il loro lavoro, e ancor prima che amino la vita al punto di affascinare i giovani e chiunque incontrano. Mi permetta di citare due frasi che abbiamo appeso in due aree lavorative della Giotto all’interno del carcere di Padova”. Permesso... “Una è di san Giovanni Bosco: “Se questi ragazzi avessero trovato qualche amico che si fosse preso amorevolmente cura di loro non sarebbero finiti in questi luoghi”. La seconda è di una persona detenuta in Brasile, un pluriassassino evaso per ben dodici volte dalle irraccontabili carceri brasiliane: Josè De Jesù. Al tredicesimo arresto, grazie a un magistrato di sorveglianza che ha rischiato tutto sulla sua libertà, è finito in un carcere ‘umano’, dal quale era anche facilissimo evadere. Dopo tre mesi il magistrato lo va a trovare e, incredulo di trovarlo ancor lì, gli chiede perché non era evaso. Josè, con le lacrime agli occhi, gli risponde: dall’amore non si fugge”. Una volta quelli della polizia penitenziaria si chiamavano “agenti di custodia”. Era una bella definizione, perché si custodisce solo ciò che ci è prezioso, ciò che si ama... “Esatto. Il carcere dovrebbe essere il luogo in cui vengono affidate le persone per essere custodite, vigilate, amate, aiutate a migliorare e quindi a cambiare. Persone che potrebbero essere i nostri figli, mariti, mogli, fratelli, amici. Invece oggi è come accompagnare un proprio caro in ospedale e riprenderlo morto”. Altra vecchia scritta che stava una volta nelle carceri italiane: “Vigilando redimere”... “Oggi nessuno si preoccupa di redimere. Chi esce dal carcere è incattivito, abbrutito, non conosce un mestiere ed è evitato da tutti come la peste. Così la recidiva ufficiale è del 72 per cento, ma quella reale, cioè quella che comprende anche i reati commessi da ex carcerati e non scoperti, supera il 90 per cento. È come se ogni dieci pazienti ricoverati, nove ne uscissero morti. Oppure che ogni dieci studenti nove venissero bocciati”. È vero che oltre ai suicidi ci sono molte morti sospette? “Certo. Alcune sicuramente per mala sanità, ma direi in generale perché in carcere è più facile ammalarsi. Pensate che a volte la preoccupazione maggiore è far salire in ambulanza la persona detenuta perché se muore durante il viaggio, o poco dopo in ospedale, non va a finire nelle statistiche dei morti in carcere”. Veniamo ai fatti di Santa Maria Capua Vetere... “Hanno un nome e si chiamano pestaggi di Stato, trattamenti disumani e degradanti. Sono molto più diffusi di quanto si pensi. Non è corretto parlare di mele marce, bisognerebbe concentrarsi di più sull’albero (il sistema) che produce sempre più mele marce, disaffezione al proprio lavoro. Anche le mele marce sono vittime di un sistema”. Il governo passato ha fatto qualcosa per cambiare questo sistema? “Le rispondo con una domanda: che fine hanno fatto le dichiarazioni del presidente del consiglio Draghi e della ministra Cartabia?” E questo nuovo governo? Che cosa si aspetta? “Prima di tutto lasciamolo lavorare. E poi diciamo la verità: eredita un fallimento. Poi se questo governo, in particolare la premier, oltre che essere ferma sulla certezza della pena diventasse ferma anche sulla certezza del recupero, sicuramente potremmo fare dei passi in avanti. E non solo perché in questo modo rispetteremmo la Costituzione senza ricevere richiami e multe dall’Europa: ma soprattutto perché conviene alla nostra società in termini di sicurezza sociale e di risparmio economico. I detenuti recuperati, quando escono, non delinquono più”. Dia un suggerimento a Giorgia Meloni... “Venga a vedere! Non basta fare gite programmate in carcere, e neanche ispezioni improvvise: è necessario seguire l’intero percorso di esecuzione penale dei detenuti per capire se il sistema funziona. Conoscere da vicino tutte quelle realtà che funzionano e valorizzarle, senza preferenza alcuna. Come pure valorizzare tutte quelle persone dell’amministrazione penitenziaria capaci e meritevoli. Non si possono ricoprire ruoli senza averne le capacità, solo perché si è vinto un concorso. E qui è meglio che mi fermi”. Questo governo, per quanto riguarda il carcere, ha detto che vuole puntare sul lavoro. Quante sono le persone detenute che lavorano all’interno delle carceri italiane oggi, dopo la pandemia? “Allora, per prima cosa togliamo dal conto tutti i lavori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, cioè i cosiddetti lavori domestici e i lavori di “pubblica in-utilità” dal carcere verso l’esterno: sono riconosciuti unanimemente come veri e propri sussidi diseducativi, che non abbattono la recidiva neanche di un punto percentuale; e spesso sono pure una forma di sfruttamento delle nuove povertà. Tolte quelle, le persone che in carcere hanno un lavoro vero - regolarmente retribuito e tassato - per cooperative e aziende esterne, su 56.500 detenuti in 189 istituti, sono circa 700”. Cioè meno dell’1,3 per cento. Senta Boscoletto, le faccio una domanda banale: ma chi sono i carcerati? Perché “noi fuori” pensiamo banalmente: sono tutti delinquenti... “Non è una domanda banale. È la cosa più importante da capire oggi. Allora: sono presenti persone che hanno pene o residui di pena brevissimi. Sono 1.344 quelli che hanno una pena inflitta minore di 1 anno; 2.575 con una pena tra 1 e 2 anni; 3.951 tra 2 e 3 anni. Se poi passiamo a quanto resta ancora da scontare, con una pena residua minore di 1 anno sono 7.067; tra 1 e 2 anni 7.212 e tra 2 e 3 anni 6.050. Se fate la somma arriviamo a 28.199 su 56.500”. Insomma la metà dei detenuti deve scontare solo pochi mesi. E oggi, con le nuove norme, sembra destinata a scontarli tutti “dentro”, senza percorsi alternativi... “Vale la pena di citare quanto detto dall’ex direttrice del carcere di Bollate ora direttrice del carcere Lorusso Cotugno di Torino: le persone che escono a fine pena costituiscono un fallimento”. Poi ci sono i detenuti in attesa di giudizio. Quelli innocenti fino a prova contraria... “Sono quasi 9.000 quelli in attesa di un primo giudizio e poco più di 7.000 i condannati non in via definitiva. Quindi le persone condannate in via definitiva, cioè colpevoli (salvo errori giudiziari, che esistono, basta vedere l’entità dei rimborsi) sono circa 40.000. Poi tenga conto che 28.000 hanno solo pochi mesi da scontare. Ecco chi c’è, nelle carceri italiane”. Questo da un punto di vista dei numeri. Ma dal punto di vista umano, chi troviamo oggi in carcere? “Il carcere oggi è diventato una discarica indifferenziata. Nelle nostre città facciamo più o meno tutti la raccolta separata dei rifiuti: umido, secco, carta e cartone, vetro e plastica, verde e ramaglie, eccetera. Ecco, per quanto riguarda l’essere umano siamo ancora a un unico cassonetto dove va finire tutto indistintamente”. Se non capisco male: delinquenti veri insieme con poveri disgraziati... “È così. In una parola, oggi il detenuto è, nella maggioranza dei casi, una persona pluri-svantaggiata. Se è in carcere vuol dire che qualche disagio di natura sociale lo ha sicuramente segnato. Si porta appresso poi problematiche di dipendenza (droghe, alcool, ludopatia); spesso è invalido, e se non lo è lo diventa; ha problemi psicologici destinati a diventare (se già non lo erano prima) patologie psichiatriche; diventa farmacodipendente, e così via, perché come vuole che li curino, in carcere.” Extracomunitari? “Su 56.500 detenuti, sono circa 18.000. E quasi tutti con problematiche serissime. Insomma, capite bene che per almeno i due terzi di chi sta dentro il carcere non è il luogo idoneo per aiutarli a reinserirsi nella società”. Ma dove ha fallito, il modello italiano? “Non ha fallito la nostra Costituzione. E neppure le leggi, gli ordinamenti e i regolamenti: al 90 per cento sono buonissimi. Hanno fallito le persone, che non hanno applicato quanto previsto. Prima di cambiare le leggi e di fare nuove riforme, la cosa più urgente è il cambiamento delle persone. Se non cambia la persona, in particolare il suo cuore, che vuol dire il suo approccio, possiamo fare anche riforme perfette ma non succederà niente. Bisogna avere sempre al centro lo scopo dell’azione che si persegue e occorre amare il proprio lavoro, tanto più se si tratta di seguire e curare persone che nella loro vita hanno sbagliato gravemente”. Torniamo ai dati sul lavoro “vero”. Sono allarmanti. Ma come stanno assieme con quanto abbiamo letto l’anno scorso su diversi protocolli? Si parlava di migliaia di posti di lavoro... “Eh appunto: un conto sono i protocolli, un altro la realtà. Oggi ottenere un lavoro in carcere è un percorso ad ostacoli, per non dire minato. Quando va bene una cosa (ad esempio la sintesi dell’educatore) spesso un’altra va male (ad esempio quella del magistrato di sorveglianza) e viceversa. Nel 2022 sono stati firmati dal Ministero e dal Dap protocolli per la creazione di circa 10.000 posti di lavoro qualificati. Ma solo a Padova, per fare un esempio, sono cinque anni che, come cooperative del carcere, abbiamo dato la disponibilità di 100 posti di lavoro vero. Risultato? nessuna risposta pervenuta”. Com’è possibile? “Gliel’ho detto, tutto è complicato dal sistema. La destra non sa quello che fa la sinistra e soprattutto non vuole che si sappia. Il fare assieme, il confronto, non è amato. La posizione più frequente è la difesa, guai a mettersi in discussione. Sono merce rara i direttori che, quando arrivano in un nuovo istituto, partono dal valorizzare quello che di positivo è stato creato in anni di duro lavoro da parte di tutti, ripeto tutti, amministrazione penitenziaria e società civile. E spesso le prime persone a non essere valorizzate nell’amministrazione penitenziaria sono proprio quelle capaci e meritevoli e che non hanno secondi fini”. “Pessimista”, dice Tex Willer a Kit Carson... “Non sono pessimista. Il mio giudizio è relativo a un sistema che è sotto gli occhi di tutti e che ha fallito. Ma conservo la speranza”. E dove sta? “Non nella politica e nelle riforme, anche se bravi politici e buone riforme sono necessarie. La mia speranza la ripongo nel cuore dell’uomo. Il dipinto dell’Icaro di Matisse spiega bene quello che intendo. L’uomo - tutti: non solo le persone detenute, anch’io, anche i magistrati, tutti - può diventare brutto, cattivo e nero al 99 per cento, ma gli rimane un puntino rosso, il cuore, da cui può sempre ripartire e cambiare il mondo perché ha cambiato, prima di tutto, se stesso. L’uomo di Matisse è immerso in un bellissimo cielo di colore azzurro con tante stelle gialle. L’uomo si salva e salva il mondo quando percepisce, o ri-percepisce, il suo rapporto con l’infinito, con la grande domanda di significato, di senso del vivere che rende l’uomo diverso da ogni altro essere, che rende l’uomo veramente uomo. Se non fosse così per chi finisce in carcere, ma non solo, non ci sarebbe alcuna speranza”. Ministro Nordio, quale svolta garantista avremo se un anarchico muore di fame al 41-bis? di Nicola Mirenzi huffingtonpost.it, 7 gennaio 2022 Cosa c’entra Alfredo Cospito - colpevole di un attentato dimostrativo che non voleva fare e non ha fatto vittime - con ‘ndranghetisti, camorristi e affiliati a Cosa nostra? Lui è in sciopero della fame dal 19 ottobre, non vuole suicidarsi, ma è determinato ad andare fino in fondo. Ma il ministro della Giustizia può ancora fare qualcosa. L’avvocato di Alfredo Cospito, il primo e unico anarchico della storia a essere detenuto al 41 bis, ha detto che il suo assistito, in sciopero della fame dal 19 ottobre, “ha avuto un preoccupante calo di potassio, necessario per il corretto funzionamento dei muscoli involontari, tra cui il cuore”. Dopo settantatré giorni senza mangiare null’altro che un cucchiaino di miele, Cospito ha perso 35 chili. Pesava 118 quando è entrato in galera (è alto un metro e novantaquattro), oggi pesa 83. Da cinque giorni ha smesso di assumere anche gli integratori. Da qui il calo di potassio. “I medici”, dice ad HuffPost il suo avvocato, Flavio Rossi Albertini, “gli hanno somministrato degli integratori specifici per ripristinare il livello di potassio”. Cospito li ha assunti perché non vuole suicidarsi. Ma è “determinato ad andare fino in fondo”, dice il suo avvocato. E se le cose rimarranno così, l’Italia si troverà di fronte a un anarchico, affiliato a un’associazione internazionale priva di gerarchia, la Fai-Fri, che muore in un regime carcerario - il 41 bis - pensato per combattere le organizzazioni criminali fortemente gerarchiche, come quelle mafiose, nelle quali poche persone danno gli ordini, anche dal carcere, e alcuni altri affiliati lì fuori obbediscono. Mentre, in questo caso, lì fuori non c’è nessuno che prenda ordini. Cinquantacinque anni, Alfredo Cospito è stato condannato nel 2014 a 9 anni 5 mesi e 20 giorni di carcere per il ferimento di Roberto Adinolfi, dirigente dell’Ansaldo, a Genova. Pena già finita di scontare. Rimane in carcere perché, nel frattempo, è stato condannato per un secondo reato, commesso a metà degli anni duemila: quello di aver posizionato, nella notte ??tra il 2 e il 3 giugno del 2006, due pacchi bomba davanti alla scuola allievi dei carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo, senza fare né morti né feriti. In primo e secondo grado gli hanno dato vent’anni, ma in Cassazione hanno riqualificato il reato come strage contro la sicurezza dello Stato, benché non ci siano state vittime: un reato che prevede l’ergastolo, anche ostativo, e che non è stato contestato neanche agli autori delle stragi di Capaci e via D’Amelio, nelle quali furono uccisi Falcone, Borsellino e gli uomini delle rispettive scorte. La Corte d’appello di Torino, chiamata a rivedere la pena, ha accolto alcuni rilievi della difesa sulle attenuanti, e ha mandato gli atti alla Corte costituzionale. Al momento, perciò, non è chiaro quale sia precisamente la pena a cui è condannato Cospito. Ma, in ogni caso, la sconta al 41 bis. Regime nel quale si trova dal 4 maggio di quest’anno (prima stava in alta sorveglianza), per decisione del ministro della Giustizia del governo Draghi, Marta Cartabia. La quale ha giustificato l’applicazione del 41-bis con i “numerosi messaggi che, durante lo stato di detenzione, ha inviato a destinatari all’esterno del sistema carcerario”. Si tratta di interventi sulle riviste anarchiche, nei quali Cospito invita i propri compagni anarchici “a continuare la lotta contro il dominio, particolarmente con mezzi violenti, ritenuti più efficaci”. Ma, per impedirgli di mandare questi messaggi, tutti pubblici, sarebbe bastato proibirgli di scrivere sui giornali. Perché il 41 bis? Un regime di estrema privazione, che l’associazione Nessuno tocchi Caino considera una tortura. Nel quale il detenuto vive nella cella solo, senza poter vedere neanche i familiari e a cui è vietata qualsiasi attività, anche la lettura. Il 3 novembre, quando già il neo governo Meloni aveva scelto un altro ministro della Giustizia, il senatore di Sinistra italiana Domenico De Cristofaro scrisse a Carlo Nordio per chiedergli se non ritenesse “doveroso riesaminare le motivazioni poste a fondamento del decreto adottato dal suo predecessore”. Nordio non si pronunciò. “Mi ha risposto solo una settimana fa” dice il Senatore De Cristofaro ad HuffPost. Ma il 2 dicembre il ministro della Giustizia ha parlato in Senato, rispondendo al question time della senatrice Ilaria Cucchi. Ha definito la vicenda Cospito “dolorosa”. Ma ha detto di non avere purtroppo alcun potere d’intervento, dal momento che il Tribunale di sorveglianza si era già riunito per esaminare il reclamo di Cospito. Il dettaglio è che il Tribunale di sorveglianza si era riunito solo poche ore prima che Nordio parlasse. Fino a quel momento, il ministro avrebbe potuto agire in autotutela e revocare il regime del 41 bis. Non lo fece. “Una decisione che potrebbe rivelarsi pilatesca”, dice l’avvocato Flavio Rossi Albertini. E oggi, che si può fare? Il 17 dicembre il Tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato il reclamo di Cospito e confermato il regime del 41 bis per 4 anni. Ma ora è la Cassazione che dovrà decidere, definitivamente, se il regime pensato per i mafiosi stragisti sia applicabile a un anarchico, se sia ancora operativa l’associazione di cui Cospito è stato riconosciuto promotore, se non sia stato dilatato il perimetro applicativo della norma e se non sia sproporzionato l’utilizzo del 41 bis per impedirgli di esprimersi all’esterno. In questo momento, al 41 bis, sono detenuti ‘ndranghetisti, camorristi, affiliati a Cosa nostra, alla Sacra Corona Unita e tre terroristi delle Brigate Rosse. Un “anarchico individualista”, come si definisce Cospito, che c’entra? Il ministro della Giustizia, che non ha più potere d’intervento diretto, potrebbe chiedere che la Cassazione decida in tempi congrui alla sopravvivenza di Cospito. D’altronde anche la sua riforma garantista della giustizia partirebbe male se al 41 bis morisse un anarchico. Mentre la gran parte dell’opinione pubblica, incredibilmente indifferente - fatta eccezione per Zerocalcare, una maratona organizzata da Umberto Baccolo dal titolo “Prima che sia notte” (“senza condividere neanche una delle idee di Cospito”, spiega ad HuffPost), Luigi Manconi, i radicali - potrebbe chiedersi se sia accettabile che un uomo, di fede politica anarchica, vada al 41 bis solo per aver scritto le sue farneticazioni su riviste altrettanto farneticanti. E se uno Stato che tratta così violentemente chi ha in custodia, non finisca sciaguratamente per assomigliare allo Stato-Mostro che dipingono gli anarchici che intendono distruggerlo, anziché allo stato di diritto che immagina la Costituzione. Leggere la storia di Donatella per capire cosa spinge oggi una donna a suicidarsi in carcere di Adalgisa Marrocco huffingtonpost.it, 7 gennaio 2022 Donatella si è tolta la vita 27 anni, voleva riscattarsi e per questo ha scritto una lettera a Maria De Filippi. Marco Costantini, referente di “Sbarre di Zucchero”, un gruppo nato dopo la sua morte, dice: “Bisogna pensare al carcere come a una risorsa, non come a una discarica sociale”. Si chiamava Donatella, aveva ventisette anni e il suo desiderio era riscattarsi, uscire dal tunnel della droga, lasciare il carcere di Verona dove era finita per qualche piccolo furto e riabbracciare il figlio, che le era stato tolto. Ma le sue speranze, insieme alla sua vita, si sono spente troppo presto: all’inizio di agosto, esattamente cinque mesi fa, la giovane detenuta si è uccisa inalando gas dal fornelletto che teneva in cella. All’indomani della tragedia, il giudice di sorveglianza, il dottor Vincenzo Semeraro, ha chiesto scusa: “Se in carcere muore una ragazza di ventisette anni significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente”. Prima di uccidersi, Donatella aveva scritto una lettera al fidanzato in cui era lei a domandare scusa. “Perdonami, caro Leo - diceva -, sei la cosa più bella che mi poteva accadere e per la prima volta in vita mia penso e so cosa vuol dire amare qualcuno, ma ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei. Perdonami amore mio, sii forte, ti amo e scusami...”. Un’altra missiva, ritrovata soltanto adesso dal padre della ragazza, era stata indirizzata a Maria De Filippi. “Maria - scriveva Donatella nell’ottobre 2020 - ti prego, ti chiedo di aiutarmi, voglio uscire fuori da tutta questa situazione, voglio smettere con la droga, voglio finire con il carcere, ma ho bisogno di qualcuno che mi dia una possibilità... Ho 26 anni, ho ancora una vita davanti, voglio sistemarmi, avere un futuro, riprendere i rapporti con la mia meravigliosa famiglia... Oggi ho la voglia, il coraggio di voler cambiare,voglio ricominciare e lasciarmi tutto alle spalle, ho bisogno di un aiuto, di trovare un lavoro... voglio vedere gli occhi di mia madre piangere nel vedermi realizzata e non perché sta soffrendo per colpa mia...”. Ma questa lettera, pubblicata dal Corriere della Sera, non è mai arrivata nelle mani della conduttrice: forse per uno sbaglio di indirizzo è tornata indietro, a casa della sua mittente, che non era lì ad attenderla. Oggi, a distanza di mesi dalla sua scomparsa, la voce di Donatella continua a farsi sentire. Lo fa attraverso l’attività di Sbarre di Zucchero: all’inizio si trattava di un gruppo Facebook creato a Verona dalle amiche della 27enne, ma in soli quattro mesi è diventato molto di più. Riportando al centro del dibattito il tema del carcere, soprattutto in riferimento alle condizioni delle donne, Sbarre di Zucchero si è spostato “off-line” riuscendo a creare una rete nazionale: ex reclusi, familiari di detenuti, avvocati, attivisti, volontari, giornalisti di tutta Italia si sono uniti per dare supporto a chi, ancora troppo spesso, soffre per le difficili condizioni dei penitenziari e arriva a togliersi la vita. “La maggior parte dei suicidi avviene per impiccamento ma, altresì, per dissanguamento ed asfissia con gas. Una persona ogni quattro giorni ha inserito la testa attorno ad un cappio o ha inalato il gas da un fornellino in cella. Nel mese di agosto 2022, un essere umano si è suicidato ogni due giorni”, denuncia il gruppo. “Dopo la tragedia di Donatella Hodo, che rappresenta una sconfitta per lo Stato, abbiamo deciso di mettere insieme le forze per raccontare la realtà che si nasconde dietro la detenzione, soprattutto quella femminile. La vita delle detenute, infatti, può essere ancora più difficile di quella degli uomini, per via della limitatezza delle strutture (le carceri esclusivamente femminili in Italia sono soltanto quattro, ndr) e delle attività. Spesso, inoltre, la donna in carcere non è solo detenuta, ma anche mamma. Per non parlare dell’igiene e della salute: in cella perfino usufruire del bidet non è un fatto scontato, ed è difficile potersi sottoporre a controlli ginecologici”, racconta all’Huffpost Marco Costantini, referente di Sbarre di Zucchero. Il gruppo, quindi, si impegna per “la totale rimozione dello stigma, nei confronti del detenuto, soprattutto se donna, che, molto spesso, rimane marchiato a vita, quando, invece, c’è solo voglia e bisogno di riscatto”. Per consentire il reinserimento nel tessuto sociale, evidenzia Costantini, è essenziale il lavoro: “Con un impiego dignitoso e adeguatamente retribuito, una persona che è stata detenuta può tornare a fare una vita normale. I dati rivelano che, tra chi lavora, le recidive sono bassissime. Se la propria pena è stata scontata, non è accettabile doverne scontare una seconda fuori dalla cella. Bisogna pensare al carcere come a una risorsa, non come a una discarica sociale”. Nel frattempo, Sbarre di Zucchero prosegue la sua attività. “Al di là degli aiuti concreti, come la raccolta di abiti e generi di prima necessità per l’igiene personale, il nostro obiettivo è quello di creare consapevolezza sulle condizioni dei penitenziari italiani. Al momento siamo presenti con distaccamenti a Verona, Milano, Roma, Napoli e - annuncia Costantini - in questo 2023 arriveremo anche a Bologna”. Riflessione sulla sensibilità di chi si accosta alla drammatica esperienza del giudizio di Alessio Lo Giudice huffingtonpost.it, 7 gennaio 2022 Come scriveva Leonardo Sciascia nel 1986, la scelta della professione di giudicare dovrebbe “consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”. Nell’assumere il potere che è associato al giudizio “come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza”. Il rinnovo del CSM, che dovrebbe completarsi nelle prossime settimane, avviene sullo sfondo degli scandali che, negli ultimi anni, hanno minato la credibilità del potere giudiziario. La contromisura nei confronti di tali scandali, al fine di garantire in maniera sana e corretta la funzione di autogoverno della magistratura, non si può affidare semplicemente a riforme istituzionali più o meno condivisibili. La questione è più profonda, è culturale, e impone una riflessione sulla sensibilità di chi si accosta alla drammatica esperienza del giudizio. Il nostro è un tempo vissuto in balia di opposte rappresentazioni del diritto. Ad un estremo il diritto è rappresentato come fenomeno attratto e orientato dall’ideale dell’oggettività. Rappresentazione, questa, che si nutre sempre più delle aspettative riposte nelle potenzialità dell’intelligenza artificiale, nelle efficienti prestazioni, ad esempio, che la giustizia predittiva dovrebbe garantire. All’altro estremo, c’è il creazionismo giudiziario, che rappresenta il diritto come esperienza riducibile a pura discrezionalità, all’arbitrarietà dei soggetti in campo. Si tratta, in entrambi i casi, di derive, distorsioni del diritto, figlie della tendenza imperante a semplificare fenomeni complessi, proprio come nel caso di quello giuridico. Tra i due modelli citati v’è però spazio per una concezione del diritto che si distingua nettamente tanto dall’ideale dell’oggettività quanto dalla presunta inevitabilità del soggettivismo esasperato. Ed è possibile esplorare tale spazio spostando la riflessione sul giudizio. A cosa serve il giudizio giuridico? In definitiva esso è destinato a valutare condotte e a formulare prescrizioni con la pretesa di fare giustizia. Tale pretesa, da una parte, definisce il margine di autonomia interpretativa che chi giudica deve avere per poter cogliere la giustizia nella legalità. Dall’altra parte, la pretesa di fare giustizia rappresenta un argine contro l’arbitrio soggettivo, contro la pura discrezionalità che può annidarsi anche nell’apparenza di un giudizio logicamente coerente. La pretesa di giustizia, infatti, negli ordinamenti che sono affini alla nostra cultura giuridica, è saldamente ancorata ai testi costituzionali. La Costituzione è l’espressione normativa di una aspirazione dinamica e condivisa alla giustizia nell’ambito di una comunità e di una cultura etico-sociale specifica. Nella Costituzione non si può trovare una concezione universale e indiscutibile di giustizia. Semplicemente non esiste un tale concetto universale. La Costituzione, però, fissa le traiettorie di significato, le aspirazioni valoriali, e quindi gli strumenti ermeneutici, che consentono al giudice di orientare la propria decisione verso la giustizia. Tutto questo dovrebbe ricordare, innanzitutto a chi farà parte del nuovo CSM, quanto sia impegnativa, dal punto di vista esistenziale prima ancora che sociale e politico, la pratica del giudizio. Potrebbe contribuire a rafforzare in chi giudica la consapevolezza della responsabilità che si assume, la consapevolezza di quanto nel giudizio sia in gioco la propria e l’altrui libertà, di come sia gravoso il fardello di cui il giudice si fa carico. Come scriveva Leonardo Sciascia nel 1986, la scelta della professione di giudicare dovrebbe “consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”. Nell’assumere il potere che è associato al giudizio “come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza”. Seimila fascicoli a rischio con la riforma Cartabia: “Così le vittime sono più esposte” di Dario del Porto La Repubblica, 7 gennaio 2022 Ora serve la querela per furti, lesioni e altri reati. La procuratrice reggente Volpe firma la direttiva con le disposizioni per tutelare le persone offese. Cervo (Anm): “Si rischiano sacche di impunità”. “Abbiamo trascorso gli ultimi giorni a controllare i nostri fascicoli per verificare se avevamo misure cautelari in atto”, dice Paola Cervo, giudice in Corte di Appello a Napoli e componente del “parlamentino” nazionale dell’Associazione magistrati. Negli uffici giudiziari il 2023 è iniziato con lo sprint per evitare che una delle disposizioni della riforma Cartabia della giustizia penale, che rende perseguibili non più d’ufficio bensì solo a querela di parte alcuni reati come la stragrande maggioranza dei furti, si trasformi nella sostanziale impunità per migliaia di procedimenti e nella scarcerazione di un centinaio di detenuti: la sola Procura di Napoli ha calcolato 2800 fascicoli interessati dalla riforma, numero che va almeno raddoppiato calcolando i casi già a giudizio in primo o in secondo grado. La procuratrice reggente Rosa Volpe ha firmato un’articolata direttiva che detta le strategie dell’ufficio inquirente su tutti i profili della riforma. Il primo paragrafo è dedicato proprio alla “previsione della procedibilità a querela per talune ipotesi di reato”: oltre ai furti (ad eccezione degli scippi e di quelli in abitazione e di altre fattispecie meno diffuse) nell’elenco figurano violenza privata, violazione di domicilio, lesioni personali stradali e non, truffa, frode informatica, sequestro di persona, violazione di domicilio. La disposizione è retroattiva: senza querela, l’inchiesta o il processo non potranno andare avanti. Per i fascicoli con detenuti tocca all’autorità giudiziaria avvisare entro il 18 gennaio la vittima del reato per consentirle di querelare formalmente. Dove non ci sono misure cautelari in corso, invece, non è previsto alcun obbligo di comunicazione e tocca alla persona offesa, entro il 30 marzo, prendere l’iniziativa ed eventualmente sporgere querela, altrimenti scatta l’archiviazione per “improcedibilità”. Afferma la giudice Cervo: “Il legislatore ha la piena autonomia nella scelta dei reati da perseguire d’ufficio e noi, come magistrati, siamo tenuti a prendere atto delle sue determinazioni e ad applicarle. Però possiamo fare alcune riflessioni: la retroattività di questa modifica comporta una sorta di disparità di trattamento delle vittime a seconda che nel fascicolo sia con misure cautelari in atto oppure con indagati ignoti o a piede libero. Il reato è lo stesso, il fatto che si intende sanzionare pure, ma nel primo caso si chiede all’autorità giudiziaria di sollecitare la querela, mentre nel secondo l’onere è interamente sulle spalle della persona offesa”. Un dato, quest’ultimo preso in considerazione anche dalla procuratrice Volpe che ha deciso di prevedere, nella direttiva pubblicata anche on line sul sito dell’ufficio, un’ulteriore tutela per le vittime dei reati ora non più perseguibili d’ufficio: “ Anche in assenza di misure cautelari in atto - scrive la reggente della Procura - se la persona offesa non ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato” dovrà essere informata dalla polizia giudiziaria della possibilità “ di esercitare il diritto di querela” e così anche in tutti i casi in cui “il pm non abbia ancora assunto la direzione delle indagini”. La giudice Cervo invita a riflettere anche su un altro aspetto: “Il rischio è che le nuove norme possano creare sacche di insicurezza: la procedibilità a querela espone la vittima del reato. È vero, parliamo di fattispecie che possono apparire di scarsa rilevanza che però spesso hanno un impatto significativo sulla vita quotidiana. Siamo proprio sicuri, tanto per fare un esempio, che un’anziana minacciata dal vicino di casa avrà poi la determinazione, per non dire il coraggio, di mettere nero su bianco la querela? Inoltre - aggiunge la magistrata - ci sono casi nei quali è difficile raggiungere la persona offesa: pensiamo al furto commesso ai danni di un turista al quale viene sfilato il portafogli su un bus o in metro: se non si riesce a identificare subito, magari perché è ripartito poco dopo, quel reato è destinato, nove volte su dieci, a restare impunito”. Non è così che si accelera la durata dei processi di Francesco Puleio* La Sicilia, 7 gennaio 2022 Alle viste alcune riforme che mettono in discussione principi di portata costituzionale. Sono in discussione principi di portata costituzionale (obbligatorietà dell’azione penale; unicità delle carriere di giudici e pubblici ministeri) e norme di legge ordinaria (prescrizione; intercettazioni; abuso d’ufficio; legge Severino sul divieto di accesso a cariche pubbliche per i condannati). A colpi di slogan, si promette che dallo stravolgimento di questi istituti passa il miglioramento del servizio giustizia e la riduzione - ce lo chiede l’Europa - del numero di processi pendenti in Italia, quasi che quelle riforme possano incidere sull’arretrato dei tribunali e sulla lentezza dei giudizi. La persuasione collettiva viene offuscata, e accecata quasi, da un miraggio che da decenni ampi settori della politica e dell’informazione agitano davanti agli occhi dell’opinione pubblica: quello che esista un rapporto di causa ed effetto tra quei principi e quelle norme e la durata dei processi. In realtà, l’azione penale è già condizionata da criteri di priorità che le Procure devono attuare, privilegiando la persecuzione di alcuni reati anziché di altri; i percorsi professionali di giudici e pm sono già separati nei fatti e per legge (praticamente nullo è il numero percentuale di magistrati distillati, come liquidi nell’alambicco, da giudici a pm e viceversa); la prescrizione sostanziale, che si vorrebbe reintrodurre, è un premio per chi ha saputo ad arte prolungare oltre misura il processo; il delitto di abuso d’ufficio è già quasi svuotato di contenuto; alla diffusione delle conversazioni intercettate la legge Orlando, da settembre 2020, ha già posto limiti significativi. Già, già: ma di questo si tace.  Non pare proprio, dunque, che su tali materie sia necessario e urgente una riforma, a meno che lo scopo dichiarato dell’efficienza della giustizia non celi l’ennesimo assalto alla diligenza della legalità. A quale cittadino onesto gioverebbe avere pm che indagano solo per provare la colpevolezza dell’imputato, anziché ricercare la verità, o vedere depotenziato l’unico strumento investigativo, l’intercettazione, praticabile nei reati di corruzione, mafia e inquinamento, in questo nostro grande Paese occidentale e democratico nel quale corruzione, mafia e inquinamento allignano e prosperano senza alcun controllo che non sia quello, tardivo e residuale, del processo penale?  Intervenendo senza criterio su materie che riguardano sostanzialmente la tenuta del nostro assetto costituzionale e l’efficacia della legge, non si renderebbero i giudizi più celeri, semplicemente li si strozzerebbe sul nascere o, peggio, dopo un tempo prestabilito, denso di inutili spese e di vane fatiche processuali.  In ogni caso, l’obbligatorietà dell’azione penale è un principio troppo importante per essere abbandonato a cuor leggero, perché custodisce l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; la separazione delle carriere dei magistrati o la limitazione delle intercettazioni, poi, non c’entrano nulla con la lentezza del sistema. I magistrati stranieri in visita nei nostri uffici giudiziari restano allibiti da ben altro: i carichi e le sciagurate condizioni di lavoro dei giudici italiani. E non parliamo solo di altezzosi francesi, danarosi tedeschi o di ben pasciuti scandinavi, ma anche di frugali portoghesi, o di polacchi o baltici adusi a misurare le risorse col bilancino.  La ragione della patologia è (questa sì) ormai assodata: per fare funzionare un processo, occorrono leggi razionali e risorse: umane, materiali e tecnologiche, commisurate e pensate per gli effettivi bisogni del servizio. Per contro, la realtà è amarissima: sulla razionalità delle leggi incidono gli interessi di bottega, contrabbandati per efficientamento, e la mancanza di cognizioni pratiche di chi scrive le norme senza pensare alla loro praticabilità effettiva. Sulle risorse, spetterebbe al Governo, per Costituzione, dotare l’Ordine giudiziario dei mezzi per funzionare, compito questo al quale non sempre e non di buon grado si adatta: senza andare troppo lontano, ne abbiamo un esempio nel Palazzo di Giustizia di Catania, dove per accedere occorre superare la gincana delle transenne e i soffitti crollano per le infiltrazioni di umidità, sinora (per buona sorte, ma fino a quando?) non sulle teste degli operatori giudiziari, ma sugli arredi scompagnati e sgangherati con i quali si celebra il rito della Giustizia. Purtroppo, se alla congenita scarsezza dei mezzi si sommano le criticità strategiche e organizzative, i risultati possono essere disastrosi.  *Procuratore aggiunto della Repubblica di Catania Presunzione di innocenza? Un principio che troppo spesso non viene rispettato di Laura Camilloni agenparl.eu, 7 gennaio 2022 L’Agenparl ha intervistato l’avvocato Paolo Nesta, Presidente degli Avvocati di Roma, in merito al Pnnr e sulla Giustizia. L’UE sta mettendo a disposizione ingenti somme di denaro per gli Stati membri condizionata dalla realizzazione di obiettivi contenuti dal PNRR. E il Ministero della Giustizia intende affrontare i problemi più urgenti, con l’obiettivo di rispondere alle sempre più pressanti domande di tempestività delle decisioni giudiziarie, in particolare in materia civile, che provengono da cittadini, imprese, investitori e osservatori internazionali. Per raggiungere questi obiettivi in tempi definiti si ritiene indispensabile un’opera riformatrice che non si fondi unicamente su interventi di carattere processuale, ma aggredisca anche i nodi organizzativi irrisolti, per abbattere l’enorme mole di arretrato che pesa sugli uffici giudiziari. Uno degli obiettivi del PNNR è implementare l’efficienza dei processi civili e penali, al fine di ridurre la durata dei processi, così da attuare il principio, sancito dall’art. 111 della Costituzione, della ragionevole durata del processo. Ciò potrà avvenire non solo con la riforma Cartabia e con ulteriori disposizioni di legge che dovranno essere adottate, ma soprattutto mediante adeguati interventi finalizzati ad una migliore organizzazione degli Uffici Giudiziari. Intendo far riferimento all’adeguamento dell’organico dei magistrati e del personale amministrativo, oltreché ad una maggiore utilizzazione della tecnologia informatica, che dovrà, però, essere posta nelle condizioni di funzionare effettivamente. Si punta quindi all’introduzione di misure in grado di abbattere drasticamente i tempi biblici dei processi. Secondo Lei ci sarà un rafforzamento del percorso di europeizzazione del sistema legale iniziato decenni fa e culminato nell’affermazione del primato del diritto UE? Se effettivamente ci sarà la volontà politica di incidere efficacemente sul sistema Giustizia, effettuando gli interventi obiettivamente necessari per ovviare alle attuali situazioni di criticità, ci orienteremo verso un percorso virtuoso, certamente in linea con i principi dell’Unione Europea in tema di Giustizia. Come si risolverà il disallineamento dovuto al perdurare di una situazione giurisprudenziale fatta di ‘resistenze’ all’ingresso delle regole europee nel sistema penale italiano che de facto testimonia il perdurare di tale situazione tra le sentenze della Corte di Giustizia europea e quelle nostrane. O perdurerà il disallineamento giurisprudenziale nazionali nei confronti della Corte di Giustizia europea come ad esempio sulla presunzione di innocenza e sul giusto processo tutelato dall’articolo 111 della Costituzione? Per quanto concerne la ragionevole durata del processo prevista dall’art. 111 della Costituzione, ho già risposto. Per il resto, l’art. 27, comma 2, della Costituzione sancisce il principio di non colpevolezza quando afferma che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. È un principio che, purtroppo in Italia, troppo spesso non viene rispettato. Infatti accade costantemente, specialmente quando il processo penale vede coinvolto un personaggio pubblico, che addirittura nella fase dell’indagini preliminari si accrediti una presunzione di colpevolezza nei confronti dell’indagato, frutto di processi mediatici strumentalizzati dagli avversari politici dello stesso. Il tema è delicato. Se è vero che sussiste la necessità di tutelare il diritto di cronaca, è altrettanto vero, però, che l’indagato, nel rispetto del principio costituzionale, ha il sacrosanto diritto di non essere vittima della presunzione di colpevolezza e, quindi, di non veder lesa irreparabilmente la sua reputazione. Tanto più ove si consideri che spesso il soggetto indagato viene assolto nel corso del giudizio, quando, però, la sua reputazione è stata lesa irreparabilmente. È auspicabile, quindi, un adeguato intervento del legislatore per ovviare a tale criticità, che certamente non è in linea con le regole europee. Novara. “In carcere servono educatori”. L’appello di Camera penale e Nessuno tocchi Caino di Cecilia Colli lavocedinovara.com, 7 gennaio 2022 Un solo operatore per 173 detenuti. Una delegazione ha visitato la casa circondariale di Novara promuovendola a metà: “Clima disteso ma personale sottodimensionato”. “Nel carcere di Novara servono educatori. In pianta organica ne sarebbero previsti tre, invece ce n’è solo uno in servizio, oltretutto in questo periodo assente per Covid. Anche nel momento in cui fossero a regime, sarebbero impossibile svolgere un lavoro utile con 173 detenuti”. È questo l’appello lanciato dalle delegazioni della Camera penale di Novara con il presidente Alessandro Brustia, il referente Federico Celano e Luana Nigito e dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” con la presidente Rita Bernardini, il segretario Sergio D’Elia, entrambi ex parlamentari, Elisabetta Zamparutti e Umberto Baccolo, dopo la visita di ieri alla casa circondariale di via Sforzesca. Il gruppo ha incontrato la direttrice del carcere, Rosalia Marino, il comandante della Polizia penitenziaria Renato Ruffo, la direttrice sanitaria e una trentina di detenuti Dell’area di media sicurezza. Non è invece stato possibile accedere alla sezione 41bis dove viene applicato il regime di isolamento. “Dalle visite in carcere usciamo sempre sconfortati, ma qui a Novara non è successo - ha detto Bernardini -. Abbiamo trovato un clima disteso, confermato dal colloquio con la direttrice: pochi eventi critici, un’atmosfera quasi famigliare, i detenuti ci hanno accolto con molto calore e ci hanno anche preparato il caffè. Novara, però, come molte altre carceri, dimostra il fallimento della pena: abbiamo ascoltato le storie dei detenuti, la maggior parte di loro proviene da precedenti detenzioni e dimostra che la permanenza in carcere non è servita a niente. Deve essere preparato un terreno sano per la loro re-integrazione in società. La paura più grande è, infatti, il fine pena: l’80% è straniero, molti non hanno né casa, lavoro o famiglia. Una volta usciti non hanno mezzi di sussistenza, devono rinnovare i documenti e sono completamente abbandonati. Anche per questo motivo il ruolo degli educatori è fondamentale. Esistono solo corsi di alfabetizzazione e la scuola media; c’è il campo sportivo e solo due attività: la tipografia e il laboratorio di ceramica”. Per quanto riguarda la situazione sanitaria, Bernardini è stata rassicurante: “Non c’è paragone con alcune realtà del sud Italia, ci sono gli ambulatori interni e non abbiamo ricevuto alcuna lamentela da parte dei detenuti”. Un plauso alla direzione della struttura è arrivato dal segretario D’Elia: “I carcerati hanno una buona opinione sia della direttrice che del comandante perché sono stati in grado di creare un clima di armonia attraverso il dialogo: non ci sono parti contrapposte, tutti vivono quella realtà in modo collaborativo”. Il referente Celano ha invece sottolineato “la necessità di riconoscere il carcere come istituzione al pari di altre cittadine. A noi interessa che la pena sia utile, conoscere cosa avviene all’intero e preparare un reingresso dei soggetti in società anche attraverso il supporto di enti e istituzioni. Ma con un solo educatore queste parole restano tali”. Il presidente Brustia ha poi ricordato l’obiettivo della Camera penale: “Fare in modo che il carcere non rimanga un’isola serpata dalla città, perché dall’ignoranza nascono i pregiudizi. Se i cittadini potessero parlare con i detenuti, molte persone smetterebbero di pensare che l’unica soluzione è “buttare via la chiave”. Nel 2022 in Italia sono stati registrati 85 suicidi in carcere, una strage dimenticata di cui la politica dovrebbe occuparsi e invece non fa nulla”. È stato infine D’Elia a ricordare che “quest’anno “Nessuno tocchi Caino” compie 30 anni. Per le celebrare il traguardo, organizzeremo un convegno nel carcere di Opera la settimana prima di Natale”. Il sovraffollamento non sembra essere il problema del carcere di Novara che da questo punto di vista è stato definito come “un’isola felice”. La capienza prevede 153 detenuti: ce ne sono 173, solo 20 in più. Di questi, 70 sono al 41bis, tutti in celle singole e per la quasi totalità di nazionalità italiana; gli altri 103 in regime di media sicurezza, per l’80% stranieri, tutti in celle da quattro persone di circa 10 metri quadrati oltre al bagno. Tre, invece, gli stanzoni con cinque letti. Nelle celle non ci sono le docce, ma i detenuti - esclusi quelli al 41bis - hanno la possibilità di stare negli spazi comuni per 8/10 ore al giorno. Tra i reclusi di media sorveglianza, sono 9 quelli in cura al Sert per problemi di tossicodipendenza di cui 5 con trattamento farmacologico; altri 14 hanno problemi psichiatrici. Al 41bis, 8 sono in trattamento farmacologico psichiatrico. Per quanto riguarda gli agenti di Polizia penitenziaria, in servizio ce ne sono 156 rispetto ai 186 previsti in pianta organica. Padova. “Le periferie al centro”, giornata di studio teologico con i volontari del carcere di Paola Zampieri settimananews.it, 7 gennaio 2022 Le periferie sono tante, diverse, e ci interrogano. Attraversarle è un’esperienza intima, profonda e personale, che chiede tempo e rispetto, in particolare se si svolge dentro la realtà carceraria. La giornata di studio su “Le periferie al centro” ha unito l’analisi del teologo al racconto dei volontari nel carcere Due Palazzi di Padova. La centralità della periferia - binomio apparentemente contraddittorio - è stata il focus della giornata di studio “Le periferie al centro. I luoghi dell’incontro e dell’annuncio”, promossa dal biennio di specializzazione/licenza in teologia spirituale della Facoltà teologica del Triveneto e svoltasi a Padova il 13 dicembre 2022. “La composizione dei due termini, periferia e centro, nell’apparente contraddizione, apre a una visione dinamica della realtà, a una prospettiva più ampia, invitando a guardare il mondo dal bordo, modificando o convertendo la mentalità sociale, economica, culturale che genera esclusione e colossale distanza tra classi sociali, tra paesi ricchi e poveri” ha esordito Antonio Bertazzo, vicedirettore del ciclo di licenza, presentando con il biblista Daniele La Pera il tema dell’incontro. Uscire dal centro permette di re-interpretare la visione globalizzata del mondo e ripartire dalle periferie si presenta come una narrazione alternativa ed esperienziale delle vicende umane e sociali. “La periferia è una chiave per interpretare non solo le situazioni esistenziali difficili ma anche per animare e dare vita alla stessa esperienza spirituale del cristiano. Le periferie - ha concluso Bertazzo - non sono solo luoghi fisici, sono anche punti interni della nostra esistenza; sono luoghi dell’anima che hanno bisogno di essere nutriti”. Cos’è una periferia? E come entra in relazione con il centro? Matteo Pasinato, docente di Teologia pastorale e di Morale fondamentale presso la Facoltà teologica del Triveneto, ha sviluppato la questione a partire da una sottolineatura: “La periferia non è soltanto il limite di una città (e di tutto ciò che finisce); è anche, e soprattutto, lo spazio distinto dal centro, oltre il quale percepiamo un pericolo”. Qui si inserisce un elemento culturale che potremmo chiamare “barriera” e che “è l’esperienza dei confini, dello stabilire spazi di non comunicazione, di soglie non superabili e non oltrepassabili, di un “fuori che resta fuori” e un “dentro che resta dentro”. Si tratta di spazi “involontari” dove vengono confinati ed esclusi i pericolosi e ai quali non è permesso uscire - ha affermato citando Zygmunt Bauman - che generano “ghetti volontari” di tutti gli altri che aspirano a difendere la propria sicurezza procurandosi la sola compagnia dei simili, e tenendo lontano gli stranieri”. Mettere in equilibrio la periferia come un insieme di limite e di confine è cosa difficile. Ma centro e periferia sono impossibili all’incontro? È questa una sfida teologica fondamentale, che Pasinato ha rappresentato richiamando il passo lucano dell’incontro tra il fariseo Simone, Gesù da lui invitato, e la donna peccatrice che si introduce all’improvviso e tocca Gesù. “La scena esprime meravigliosamente il confine superato tra l’intoccabile (la donna che non deve essere toccata) e l’intangibile (Dio che non può essere toccato) - spiega. In quella stanza evangelica, intoccabile e intangibile si toccano e si guariscono reciprocamente, quasi scambiandosi il posto. La donna intangibile diventa toccabile (il suo corpo di donna diventa amabile in modo dignitoso) e il Dio intoccabile diventa tangibile (l’incontro con Dio diventa esperienza). Tra il centro (Gesù che incarna l’amore di Dio) e la periferia (la donna che incarna la distanza più pensabile) la soglia (di cui è spettatore Simone) è il momento in cui l’intoccabile tocca l’intangibile e l’intangibile tocca l’intoccabile. E il medium (il canale) di quel tocco doppiamente scandaloso è l’amore: l’amore della donna per Gesù e l’amore di Gesù per quella donna. Ma lo spettatore di quella soglia varcata (il nostro Simone fariseo) sembra mancare proprio di quel medium”. È facile tornare alla conclusione di Simone: il centro va rimesso al centro (Gesù va tenuto lontano dalla donna) e la periferia va rimessa alla periferia (la donna va tenuta lontana da Gesù): “Qui è un punto sensibile: quanti cristiani osservano, discutono, protestano come Simone fariseo?”. Il vangelo non è una notizia per certi spazi, bensì notizia in movimento; incontro e annuncio sono dei processi non riducibili a spazi. “Il collegamento fra centro e periferia richiede dei processi - ha concluso Pasinato -. Il confine non è una linea tra dentro e fuori; è come una porta che ha un lato verso l’interno della casa e un lato verso l’esterno. Il confine permette di uscire e permette di entrare, ma permette anche di bloccare la porta in entrata e in uscita. E, mentre chiudi l’altro fuori, in realtà chiudi anche te dentro. Se centro e periferia divengono luogo di incontro e di annuncio o luogo di distanza a confinamento… dipende molto dalla porta”. Quella periferia che è il carcere - Di taglio esperienziale l’intervento a due voci del diacono Marco Longo e di Antonio Benfatto, operatori nella cappellania del carcere Due Palazzi di Padova, una struttura che conta oltre seicento detenuti ed è una tra le più avanzate in Italia per l’attenzione verso le persone “ristrette”, con l’offerta di attività di rieducazione e di reinserimento sociale. Sì, perché “di persone si parla”, ha puntualizzato Longo, precisando subito che “non si sminuisce la gravità della colpa per i reati commessi né il dolore delle vittime che li hanno subiti, assolutamente, ma dentro il carcere ci sono persone che chiedono solo di essere trattate come tali e che possono fare un percorso di recupero tramite il lavoro, tramite la cura delle relazioni - fra detenuti, con i familiari, con gli agenti di polizia penitenziaria, con gli operatori volontari - e, in alcuni casi, anche tramite un cammino di fede e di conversione”. Il carcere toglie la libertà, “ma non dovrebbe togliere la dignità alla persona, come purtroppo spesso accade” ha sottolineato Benfatto, aggiungendo: “La dignità è restituita, tra l’altro, dalla possibilità di lavorare e così di contribuire a mantenere la famiglia che sta fuori. La perdita dell’occupazione, in regime di detenzione o di semilibertà, è un dramma che riporta la persona indietro nel percorso di recupero”. Sprofondare nella periferia è un attimo. Chiunque può essere volontario in carcere, può “andare e vedere”. “Accostiamo i detenuti come compagni di viaggio - hanno raccontato - parliamo con loro, ne raccogliamo le confidenze, dialoghiamo con le famiglie e cerchiamo di aiutarle, anche concretamente, a sostenere il viaggio o a trovare alloggio per la notte, perché la maggior parte viene da lontano. E rispettiamo anche la scelta del detenuto che decida di non essere recuperato”. Nella parrocchia del carcere la messa domenicale è un momento che aggrega e amalgama il “dentro” e il “fuori”, poiché è permesso alle persone libere di entrare e di partecipare; almeno due o tremila finora hanno fatto questa esperienza di trovarsi con i ristretti per celebrare insieme la domenica, sentendosi tutti uguali davanti a Dio. “In quel confine delimitato da mura e cancelli e segnato da profonda sofferenza - hanno concluso - Dio viene a trovare le persone. È nel luogo più basso della propria vita che si incontra Gesù e questo incontro può segnare l’avvio di un percorso, lungo e difficile, per riportarsi dalla periferia al centro”. Salerno. “Befana” al carcere di Fuorni con i volontari dell’Humanitas di Roberto Junior Ler salernotoday.it, 7 gennaio 2022 Nel corso dell’iniziativa, resa possibile dalla direttrice Rita Romano, è andato in scena anche uno spettacolo di magia, con protagonista il mago Pako, che ha fatto divertire tutti, soprattutto i più piccoli. Tanta emozione al carcere di Salerno, dove i volontari dell’Humanitas, guidati dal presidente Roberto Schiavone di Favignana, ed accompagnati dalla vice sindaca Paky Memoli hanno consegnato la calza della Befana ai figli delle detenute, che questa mattina hanno potuto abbracciare e trascorrere un po’ di tempo con i loro bambini. Nel corso dell’iniziativa, resa possibile dalla direttrice Rita Romano, è andato in scena anche uno spettacolo di magia, con protagonista il mago Pako, che ha fatto divertire tutti, soprattutto i più piccoli. Commozione quando le mamme-detenute hanno raccontato i loro sogni di libertà come Gloria o chi ha manifestato il grande desiderio di tornare a casa dai propri figli come Monica. “Oggi - dichiara alla nostra redazione la vice sindaca Memoli - abbiamo donato non solo dolci e regali ma anche un sorriso alle donne detenute e ai loro figli. E anche noi siamo usciti col sorriso e particolarmente commossi. Dobbiamo fare molto per queste persone che hanno certamente sbagliato, ma che stanno già pagando per i loro errori. Un ringraziamento alla direttrice Romano, che è sempre pronta a fare la sua parte anche per iniziative come quella di oggi”. “Il Celeste”, un documentario che non si sostituisce ai tribunali di Aldo Grasso Corriere della Sera, 7 gennaio 2022 L’ascesa al potere, il declino, il carcere e la rinascita: il biopic scritto da Carmen Vogani e diretto da Giulia Cerulli è interessante perché non è è un atto d’accusa contro uno dei maggiori protagonisti della storia politica italiana. Doverosa premessa: non ho mai amato Roberto Formigoni, mi hanno sempre infastidito le commistioni di potere e religione, le sue frequenti manifestazioni di arroganza, alterigia e vanità, l’atteggiamento di una ipocrisia irritante, spocchiosa e vana. Il suo sbaglio più grande, ma forse l’avrebbe commesso chiunque dopo il plebiscito alle elezioni europee del 1984 e i quattro mandati alla presidenza della regione Lombardia, è stato un peccato di tracotanza, la hybris dei Greci, la violazione della norma della misura cioè dei limiti che l’uomo deve incontrare nei suoi rapporti con gli altri uomini, con la divinità. Però ora Formigoni è tornato con i piedi per terra, ha pagato il suo conto con la giustizia, merita il rispetto di tutti. Il documentario “Il Celeste - Roberto Formigoni”, scritto da Carmen Vogani con Danilo Chirico, Marco Carta e Lorenzo Avola, regia di Giulia Cerulli, è molto interessante perché non è un atto d’accusa, non è un regolamento di conti, non è un’inchiesta stile “Report” o “Iene”: non alza mai il ditino per rinfacciare a Formigoni gli sbagli commessi (Nove e Discovery+). In più, il racconto è arricchito da materiale d’archivio scovato nelle teche di Telelombardia (dove Formigoni era spesso presente), che si aggiunge al repertorio privato messo a disposizione dallo stesso ex governatore. “Il Celeste” non ha nulla dell’agiografico o del riparatorio. A Formigoni non vengono risparmiate critiche da Ferruccio Pinotti, Giuseppe Civati, Marco Cappato, David Parenzo soprattutto da Carla Vites, moglie di Antonio Simone, il migliore amico di Formigoni finito anche lui in carcere (parole che raccontano la fine di un’amicizia, di un mondo, di una ristretta comunità), però il tono è quello giusto, la tv non si sostituisce ai tribunali. E poi Formigoni ha la possibilità di raccontare la sua verità, di ricostruire i fatti avendo finalmente perso una maschera poco evangelica. Manconi: serve unità per difendere il welfare di Andrea Carugati Il Manifesto, 7 gennaio 2022 Intervista. “Un vecchio motto popolare dice che non bisogna fasciarsi la testa prima di rompersela. Ecco, io credo che sia un motto più ottuso che lungimirante”, dice Luigi Manconi. “Ritengo che invece che occorra fasciarsela prima la testa: è un modo per organizzarsi davanti alle sfide del futuro e trovare soluzioni anche all’ultimo minuto per evitare il disastro. Si riferisce alle divisioni dei progressisti alle regionali del Lazio? Condivido il pensiero che il collega sociologo Domenico De Masi ha espresso ieri al vostro giornale. Un ragionamento molto saggio sull’opportunità di riaprire i giochi e costruire un’alleanza competitiva. Per non regalare la regione a Meloni... Non si tratta solo di impedire l’ennesimo trionfo della destra, ma anche di un modo per affrontare il nodo cruciale del conflitto politico e sociale di questa fase. E cioè sanità e istruzione, i due pilastri del welfare, indispensabili se si vogliono combattere le diseguaglianze. Credo che l’assessore D’Amato abbia governato molto bene la sanità regionale durante la pandemia, con intelligenza e senza alcuna forzatura restittiva o tentazione autoritaria. Mi pare prioritario che questa esperienza venga rilanciata e rafforzata. I 5 stelle sembrano orientati a correre da soli... Su una battaglia del genere a difesa della sanità pubblica serve una coalizione ampia, dai 5 stelle al terzo polo. Inviterei tutte queste forze ad evitare posizioni ideologiche o esclusioni preventive, e a concentrarsi sui programmi. Finora non è successo... Le ultime ore che restano prima della presentazione delle liste sono sufficienti per accordarsi su pochi e chiari punti di programma che abbiano al centro il welfare. Veramente Calenda ha detto che è pronto a lasciare la coalizione se arriva il M5S... Se vorrà prendersi questa responsabilità è libero di farlo. Ma va certamente coinvolto nella stesura di un programma comune. Anche i 5 stelle dovrebbero evitare di dire che con Calenda non si può discutere, che la sua presenza è un ostacolo insormontabile. Mi pare un modo burocratico di fare politica. Il Movimento vede nel termovalorizzatore di Roma un ostacolo insormontabile... Capisco che possa apparire come una questione dirimente, ma tutti i soggetti sono chiamati a prendere una decisione: la difesa intransigente di una posizione assoluta prevale sulla prospettiva di una vittoria del centrosinistra in una regione cruciale? Conte e i suoi dicono che il Pd li ha ignorati, salvo poi chiedere loro di accodarsi a cose fatte... Non nego che anche il Pd abbia commesso errori, ma non è questo il momento per attardarsi sui rotroscena delle ultime settimane. Si tratta di decidere in poche ore se ricostruire una relazione che appare compromessa o lasciare le cose come stanno. Guardi, non sono di quelli che grida alla possibile vittoria del fascismo, o che accusa qualcuno di voler essere complice di Fdi. Segnalo però che si rinuncerebbe a una battaglia cruciale sui temi del welfare in una regione di primaria importanza. Auspica un ticket tra D’Amato a la 5 stelle Donatella Bianchi? Mi pare ragionevole, visti anche gli indubbi meriti di D’Amato in questi anni difficili. L’importante è muoversi, abbandonando presidi ideologici e casematte. Se c’è una volontà sincera da parte dei vari interlocutori il tempo a disposizione è sufficiente. Perchè i 5 stelle sono attratti dalla corsa solitaria? Per la volontà di affermare la loro identità in un periodo di ricostruzione sia della loro immagine che della struttura interna, dopo le molte e tormentate vicende. Non stupisce che in questo momento di grande forza della destra scatti una competizione feroce nell’altro campo. Ma ripeto: il Lazio merita uno sforzo in più da parte di tutti. Cassese: “Il ricorso allo spoils system tradisce merito e imparzialità” di Concetto Vecchio La Repubblica, 7 gennaio 2022 Il giurista: “I ministri non si fidano di chi trovano. Alla fine non si sa quanti sono entrati con una selezione e quanti a scoppola”. Professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, lei è uno storico avversario dello spoils system. “Da trent’anni almeno. Ho sempre detto e scritto che la legge che lo codificava, voluta dal ministro Bassanini, è stata un errore e andava abrogata”. Cosa non la convince? “Tradisce almeno due principi costituzionali, merito e imparzialità: l’accesso non avviene tramite concorso o esame comparativo aperto a tutti e il principio di imparzialità, che dovrebbe ispirare la pubblica amministrazione, viene di conseguenza meno”. Ma così hanno fatto tutti, le potrebbe rispondere Giorgia Meloni. “Non mi sembra un buon motivo per perseverare nell’errore. Il concorso o l’esame comparativo aperto consentirebbe di scegliere persone veramente qualificate, con i titoli giusti. Per esempio: come direttore generale delle fonti di energia deve esserci un esperto energetico e non una figura scelta sulla base della fiducia dalla politica”. Come dovrebbero essere questi concorsi o esami comparativi? “Aperti a tutti. E competitivi, ovvero con più candidati per i posti da occupare. E in terzo luogo dovrebbero essere giudicati da una commissione composta da persone in grado di giudicare. Lo si è fatto e lo si intende fare per cariche importanti come quelle delle autorità indipendenti”. Insomma, figure non scelte dai partiti al governo? “Sì, nessun collegamento. Leali e capaci servitori dello Stato, e del governo in carica”. Perché all’epoca non si decise di fare così? “Semplicemente perché non hanno riflettuto abbastanza su quel che facevano”. Una volta al governo tutti reclutano persone di fiducia. “Di spoglia in spoglia, i ministeri sono cresciuti. I ministri che arrivano non si fidano di chi trovano e portano con sé altre persone. Quanti sono entrati per concorso? La Ragioneria generale non sa quanti sono entrati per concorso e quanti a scoppola”. A scoppola? “Termine meridionale che indica la spintarella”. La politica fa bene a non fidarsi della burocrazia? “Guardi, le leggo cosa scrisse l’ex presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti: “Nel far ricadere la colpa sulla burocrazia i ministri danno prova dell’incapacità di saper utilizzare gli uomini secondo le loro attitudini”. Che anno era? “Il 1953”. Ora il ministro Crosetto attacca la burocrazia. “Ho stima di lui. E mi auguro che un governo che ha aggiunto la parola merito al ministero dell’Istruzione avvii una riflessione sullo spoils system”. Crosetto ha invocato addirittura il machete. Cosa rivela? “È un’espressione che gli è sfuggita, e che credo avesse lo scopo di avvertire la burocrazia a rigare dritto. Il potere dello spoils system non consiste soltanto nel cambiare, ma nel ventilare che si può cambiare”. La burocrazia conta più della politica? “Ho cercato di spiegarlo in un libro che esce la settimana prossima per Mondadori, Amministrare la nazione. Penso che la burocrazia sia soprattutto spaventata, dalla Corte dei conti, dall’Anac, dalle Procure, e si difende facendo il meno possibile”. Che voto dà ai primi mesi del governo Meloni? “Trenta e lode per il buon funzionamento del consiglio dei ministri, che si è riunito quattordici volte, quindi con buona regolarità. Ma lo boccio per i troppi decreti legge approvati: così viene assorbita la funzione legislativa, ai danni del Parlamento. Purtroppo, è una prassi invalsa da parecchi anni”. Eppure il centrodestra dispone di una solida maggioranza. “Non viene avvertito. Dovrebbero ricordarlo gli uffici legislativi ai ministri”. Come valuta il decreto sui migranti? “Penso che non meriti tutte le critiche che ha avuto. Ha cercato di regolare i soccorsi in mare, mettendo un po’ di ordine”. E quello sui rave? “Sarei meno indulgente. Intanto non hanno usato l’espressione rave, ma una formulazione - invasione di terreni ed edifici altrui - che si presta ambiguamente anche ad altre manifestazioni. E poi hanno scritto che la pena è dai tre ai sei anni per chi organizza, mentre la pena è diminuita (ma di quanto?) per il solo fatto di parteciparvi”. Coglie un rischio per altri tipi di raduni? “Rave significa riunione delirante, andava specificato. Le cose vanno chiamate col loro nome”. Insomma, mi sembra ben disposto verso questo governo. “Giudico i fatti. Ho dato trenta e lode alla premier per come ha calibrato le parole sulle riforme che intende fare. Non ha mai parlato di riformare la presidenza della Repubblica, e soprattutto non vuole procedere a maggioranza”. È più urgente eleggere direttamente il premier? “Il Parlamento dura cinque anni, il Presidente della Repubblica sette, i giudici della Consulta nove. L’unico precario è il ministro”. Andrebbe rafforzata la stabilità del governo? “Ne abbiamo avuti 68 in settantacinque anni. Questo è il biglietto da visita con cui ci presentiamo alle riunioni internazionali. Va fissata la durata del governo”. Migranti. Bimba annega, un altro in salvo. I destini diversi dei piccoli nella strage infinita di Alessandra Ziniti La Repubblica, 7 gennaio 2022 Bimba annega, un altro in salvo. I destini diversi dei piccoli nella strage infinita dei migranti. Lampedusa era ancora lontana, almeno altre sei ore di navigazione, quando il barchino sul quale erano stipati in 38, si è capovolto. Nessuna mano, se non quelle dei genitori che annaspavano cercando disperatamente di tenerli a galla, a tirarli fuori dall’acqua. Jamila e Ibrahim si sono guardati per l’ultima volta, stretti tra le braccia delle loro mamme, prima che il cielo diventasse mare e il mare cielo. Poi risucchiati nel vortice d’acqua, sono andati incontro al loro tragico (e al momento diverso) destino: Jamila, un anno appena, non ce l’ha fatta, il corpicino prono abbandonato in mare recuperato prima di essere inghiottito dal buco nero del Mediterraneo, Ibrahim invece, un anno e mezzo, respirava ancora quando le braccia forti di alcuni pescatori tunisini (i primi ad arrivare) lo hanno sottratto alla morte. “Era con la mamma sul barcone che si è rovesciato, sono finiti in mare e ha cominciato ad ingerire acqua fino a riempire i polmoni. Quando è arrivato qui da noi era in condizioni molto critiche. Insieme ad un collega l’ho subito intubato, stabilizzato e messo sull’elicottero che lo ha portato a Palermo all’ospedale dei bambini. Speriamo di essere riusciti a salvargli la vita”, racconta Vincenzo Mazzarese, medico dell’ambulatorio. Il corpicino di Jamila, avvolto in una coperta, è rimasto a lungo sul tavolo dell’obitorio insieme a quelli di una donna e di uomo, le altre due vittime di questo ennesimo naufragio arrivato dopo cinque giorni di sbarchi continui. “Siamo in una guerra che molti ignorano o fanno finta di ignorare. Serve una legge speciale per Lampedusa che ci aiuti concretamente, serve una task force pronta ad occuparsi di tutti gli aspetti connessi ai soccorsi e alla macchina dell’accoglienza: il ministro Piantedosi venga a vedere di persona”, dice sconvolto il sindaco di Lampedusa Filippo Mannino che negli ultimi tre mesi di bare bianche per piccoli migranti ne ha dovute recuperare già otto.  Vita e morte che si incrociano in una manciata di minuti nel tratto di mare più pericoloso del Mediterraneo su cui già più di 2.500 persone nei primi cinque giorni dell’anno si sono avventurate. Era stata una notte di sbarchi a Lampedusa, ben sette barchini tutti di metallo con motore fuoribordo (come quello su cui viaggiavano Jamila e Ibrahim) erano partiti uno dietro l’altro dalle coste della Tunisia ed erano approdati a Lampedusa con più di 300 persone a bordo: non solo tunisini ma, come ormai accade sempre più spesso, tanti subsahariani che pagano un prezzo più basso per salire su questi gusci facilmente rovesciabili. “Spero che il governo Meloni si ravveda e nel Milleproroghe conceda al nostro Comune gli aiuti promessi. Con questi ritmi, con questi numeri da capogiro anche in pieno inverno, non so fino a quando riusciremo a fronteggiare tutto ciò”, dice sconsolato il sindaco di Lampedusa, che guarda quasi con sollievo ai quattro giorni di maltempo previsti da lunedì, sperando in una tregua degli sbarchi, aumentati di otto volte rispetto agli stessi giorni dello scorso anno. Migranti. “La Francia ha tentato di rimpatriare profughi siriani” di Filippo Ortona Il Manifesto, 7 gennaio 2022 La denuncia delle ong. Due prefetture hanno contattato a ottobre scorso l’ambasciata di Damasco. La Francia ha sollecitato la collaborazione delle autorità di Damasco per espellere due migranti in Siria, malgrado la rottura dei rapporti diplomatici che dura fin dal 2012 e lo stato di guerra che vige nel paese arabo, hanno rivelato in questi giorni Amnesty International e due Ong francesi. Due migranti siriani in Francia, detenuti in due centri di detenzione differenti dallo scorso ottobre, hanno rischiato di essere rinviati in Siria su iniziativa di due prefetture distinte, quella di Tolosa e quella di Parigi, che hanno fatto del loro meglio per espellere verso un paese in guerra due richiedenti asilo. Una violazione delle convenzioni internazionali ed europee eseguita “in piena cognizione di causa”, secondo Amnesty International, La Cimade e Revivre. Le prefetture in questione avevano rinchiuso i due migranti nei Centres de rétention administrative (Cra, l’equivalente francese dei Cpr italiani) di Tolosa e Parigi, in attesa di poterli espellere verso la Siria, nonostante il divieto “assoluto di rinviare una persona verso un paese nel quale rischia di subire torture o persecuzioni”, ha scritto l’antenna francese di Amnesty. In particolare, le due prefetture hanno preso contatto con l’ambasciata siriana in Francia, nonostante le relazioni siano state interrotte un anno dopo lo scoppio della guerra civile nel 2011. Come appare dal dossier che le Ong hanno potuto consultare, sono le stesse prefetture ad aver sollecitato la collaborazione della rappresentanza diplomatica di Damasco per ottenere un lasciapassare ed eseguire l’espulsione dei due richiedenti asilo. “In entrambi i casi, l’ambasciata siriana ha risposto che in assenza di un documento d’identità valido, non si poteva rilasciare alcun lasciapassare. È quindi il rifiuto dell’ambasciata che ha impedito l’espulsione sollecitata dalle autorità francesi”, si legge nel comunicato delle Ong. “Non avevamo mai visto niente del genere negli ultimi anni” ha detto Manon Fillonneau, responsabile di Amnesty International all’Afp. “Pur di eseguire fogli di via ed espulsioni, le autorità hanno scelto di contraddire le promesse fatte dalla Francia, che assicura di non avere più relazioni diplomatiche con la Siria”. Un fatto sconcertante per le tre Ong, tanto più che il tentativo ha riguardato due persone differenti in due luoghi distinti, accomunati dalla destinazione, la Siria, tuttora in guerra. “Nessuno oggi si immagina di espellere qualcuno verso l’Ucraina”, ha denunciato Manon Fillonneau. Interrogato a proposito dall’Afp, il ministero degli Interni ha negato ogni tentativo di espulsione verso la Siria, con un ma: “alle volte è necessario sollecitare, tramite dei contatti consolari, le autorità siriane per verificare la nazionalità di uno straniero in situazione irregolare”. I due richiedenti asilo sono stati poi liberati dal Juge des libertés et de la détention, il magistrato che si occupa delle domande di rimessa in libertà dai luoghi di detenzione. Tuttavia, le Ong si dicono preoccupate per il tentativo messo in atto “proprio mentre sono stati recentemente documentati numerosi esempi di omicidi, di sparizioni e torture di rifugiati” tornati in Siria. Quella Mani Pulite belga peggiore dell’originale di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 7 gennaio 2022 I reati contestati sono confusi, gli indizi assai incerti, eppure ci sono già arresti. Se nascondi sacchi di denaro contante in casa, qualcosa di poco lecito hai sicuramente commesso. E se sei un Parlamentare, cioè un rappresentante del popolo, intanto devi renderne conto immediatamente ai tuoi elettori. Ma dal momento che un indizio grave di un ancora ignoto reato non è di per sé un reato, è compito di chi investiga scoprire quale sia il reato che hai molto verosimilmente commesso, o concorso o agevolato a commettere. Ed è proprio qui, esattamente in questo punto della vicenda, che si biforca la strada tra paesi civili e non. In un Paese civile, che fonda cioè il proprio patto sociale sull’habeas corpus, sulla presunzione di innocenza, sull’onere probatorio a carico dell’accusa, non dovrebbe essere consentito che accada quel che sta accadendo in Belgio. E cioè che quelle persone cui son state trovate i borsoni gonfi di soldi vengano arrestati prima di aver accertato, con un corredo indiziario più vicino alla certezza che al sospetto, la ragione, la provenienza e la destinazione di quei borsoni di denaro contante. Salvo che detenere denaro contante in misura incongrua non sia già di per sé un reato, cosa che non mi risulta essere. Sappiamo poco di cosa esattamente si contesti agli indagati, e questo di per sé non sarebbe un fatto grave, anzi è certamente un fatto virtuoso - per noi del tutto inconsueto- la tenuta del principio di segretezza delle indagini. Ma ad una condizione: che invece sia chiaro agli indagati cosa esattamente gli si stia contestando, e sulla base di quali elementi di indagine. Perché se nemmeno agli indagati dovesse essere chiaro di cosa l’eroico giudice istruttore in concreto li accusa - date, luoghi, persone, atti concreti sintomatici del o dei reati ipotizzati- le cose cambiano assai. E cambiano per la semplice ragione che quegli indagati sono stati privati della libertà personale; la qual cosa - nei paesi civili- è lecito che avvenga solo eccezionalmente, non certo perché detenere borsoni di denaro contante sia una cosa assai disdicevole. Occorre severamente indagare sulle ragioni di quei borsoni, senza sconti e senza riguardi per nessuno. Ma se si sceglie di fare il passo della privazione della libertà, nei Paesi civili si invertono le regole del gioco: sei tu investigatore, sei tu giudice che devi rendere accuratamente ragione di questo passo gravissimo, spiegando bene - soprattutto- perché esso fosse indispensabile. Ora, suggerisco di leggere con attenzione l’intervista del Corsera all’avvocato difensore della ormai ex vice- presidente del Parlamento Europeo Eva Kaili, alla quale solo dopo 28 giorni è stato concesso di passare - in carcere- un paio di ore con la figlia di 20 mesi (anche il padre è in carcere); cosa che - in un paese civile- sarebbe spiegabile, forse, solo se la mamma fosse, chessò, indagata di aver assassinato il fratellino, non di aver avuto in casa (ma lei nega) 600mila euro in contanti, non si sa bene ancora perché. Ed infatti il difensore, alla domanda di come sia stata possibile una simile vergogna, risponde garbatamente: “Mi sono fatto l’idea che probabilmente non le permettevano di vedere la bambina per farle pressione affinché confessasse, ammettesse di aver commesso qualcosa. Ma la signora Khaili non ha nulla da confessare perché è completamente estranea a ogni genere di accusa”. Si, pensiamo tutti la stessa cosa, e senza il “probabilmente”; e dunque, in un Paese civile, il giudice dovrebbe essere chiamato a rispondere di una simile vergogna, salvo a ritenere che la bambina di 20 mesi fosse depositaria o potenziale tramite di informazioni sui borsoni di denaro, giusto? E invece, a leggere la stampa, tutta Europa guarda con ammirazione a questa indagine, che più passano i giorni e meno appare chiara nei suoi esatti contenuti. Ma se tu arresti e impedisci per un mese ad un padre ed a una madre di vedere la figlia di 20 mesi anche solo in carcere, oltre che ad usare metodi vergognosi ed infami, significa che hai molto poco in mano, oltre i borsoni di denaro, e vuoi che te lo raccontino gli indagati stessi, sotto la pressione delle sbarre (ma allora tiriamogli via direttamente le unghie, che facciamo prima), perché tu non hai saputo, ad oggi, dare un seguito investigativo concreto al più che legittimo sospetto. Ed infatti il difensore ci informa che “nell’udienza che si è svolta il 22 dicembre a Bruxelles, il giudice istruttore Michel Claise ha affermato di non avere le prove che sostengono l’accusa di corruzione contro Eva Khaili”. Beh, fantastico! E quando rompi le regole dello Stato di diritto, noi lo sappiamo benissimo, la deriva diviene incontrollabile. Come, ad esempio, la notizia di conti milionari esteri della Khaili, che - ci informa il difensore- le banche interessate hanno smentito ufficialmente e formalmente, ma continua a circolare, come usa farsi in questi casi con il fango nel ventilatore. O come l’appartamentino in montagna di Figà Talamanca, che però ci paga il mutuo. Ma c’è grande eccitazione giustizialista, intorno a questa indagine, e tanta voglia del nuovo “Di Pietro belga”, e della nuova “Mani Pulite” europea. Cosicché questa storia è diventata, a tutto tondo, un “italian job”, sia dal lato degli indagati che per il marchio di fabbrica di questa indagine. Che effettivamente ricorda tanto, e forse perfino in peggio (ove mai possibile), i gloriosi anni 90, con Paolo Brosio tutti i giorni a fare il gazzettiere della Procura su chi fosse stato arrestato di bello quella mattina, e chi stesse per esserlo. E magari anche chi si fosse suicidato. Orgogliosi? Résister, résister, résister! Così l’Algeria padrona del gas silenzia stampa e opposizione. E l’Europa tace di Leonardo Martinelli La Repubblica, 7 gennaio 2022 La guerra in Ucraina ha arricchito le casse dello Stato. E il presidente Tebboune sfrutta il momento per irrigidire il controllo interno contando sulla benevolenza dei clienti europei, Italia in primis. In carcere finisce anche Ihsane El Kadi, simbolo del giornalismo indipendente nel Paese maghrebino. Era il 2019: i giovani inondavano le strade di Algeri per protestare contro un regime moribondo. Il prezzo del petrolio viaggiava ai minimi. Oggi, all’inizio del 2023, le quotazioni degli idrocarburi sono schizzate alle stelle a causa della guerra in Ucraina. L’Hirak, il movimento di protesta algerino, resta solo un vago ricordo. E Abdelmadjid Tebboune, presidente proprio dal dicembre 2019, tiene in mano salde le redini del suo Paese. Si assicura con l’arma del gas naturale (l’Algeria ne ha riserve colossali, pari a 2.400 miliardi di metri cubi stimati) sia la pace sociale all’interno che il rispetto all’esterno, soprattutto dei clienti europei, Italia in primis. Non è un caso che proprio in questo periodo ad Algeri scatti una stretta sulla libertà d’espressione.  Il caso El Kadi - L’ultima vittima si chiama Ihsane El Kadi, un giornalista e un simbolo nel Paese maghrebino: 63 anni, ne è da sempre una delle firme indipendenti, fondatore e direttore di Radio M (Maghreb) e del sito Maghreb Emergent. Si tratta dei due media davvero liberi e con un certo seguito rimasti in Algeria. Forse, però, è meglio utilizzare il passato. Nella notte del 24 dicembre El Kadi è stato arrestato e la radio e il sito chiusi: più nessuna attività. Il 29 dicembre la sua è diventata una “detenzione preventiva”, fino a un processo di cui chissà quando sarà fissata la data. Maghreb Emergent ha precisato che la procedura contro El Kadi è basata sull’articolo 95 bis del codice penale: prevede una pena tra i cinque e i sette anni di prigione per “chi riceve fondi per compiere o incitare atti suscettibili che rappresentino un attentato alla sicurezza dello Stato”. Le accuse, comunque, restano per il momento molto, molto vaghe. Da sottolineare: pochi giorni prima El Kadi aveva pubblicato un articolo dove esprimeva dubbi (condivisi apparentemente da molti connazionali) sulla possibilità che Tebboune si presenti alle prossime presidenziali, fra due anni (alla bellezza di 79 anni). I sospetti su presunti “finanziamenti stranieri illegali” sarebbero solo un pretesto?  Il silenzio dell’Europa - Dalle cancellerie europee, per il momento, nessuna reazione. Nonostante durante il 2022 si siano già succeduti procedimenti giudiziari contro giornalisti e arresti e mentre un progetto di legge è in preparazione per bloccare del tutto i finanziamenti stranieri ai media algerini, più o meno esangui (almeno quelli privati e indipendenti). Lo storico quotidiano El Watan non paga gli stipendi dal luglio scorso e il rivale Liberté è scomparso nell’aprile 2022, per le difficoltà finanziarie. Restano oggi pochi siti informativi con una certa indipendenza, come Twala, Tsa e ObservAlgérie. Intanto nei giorni scorsi Algérie Patriotique, sito vicino a certi militari, ha preso di mira lo storico francese Benjamin Stora, che pure da decenni opera per una storiografia più giusta sulle malefatte della colonizzazione francese in Algeria, in un articolo di un antisemitismo inquietante, ricordando le sue origini ebraiche. Anche qui, zero reazioni.  Sulla rete, però, cresce il movimento di appoggio a El Kadi, mentre Reporters sans frontières (Rsf) ha lanciato un appello alle Nazioni Unite. “L’Onu - sottolinea Antoine Bernard, responsabile dell’assistenza giuridica di Rsf - deve esigere la sua liberazione immediata e l’abbandono puro e semplice dell’azione giudiziaria, basata su falsità: mirano solo a ridurlo al silenzio”. Quanto a Tebboune, a fine 2023 ha concesso una (rara) intervista al Figaro dove ha parlato di “amicizia reciproca” con Emmanuel Macron e di una “certa complicità” fra i due. Dopo tensioni a ripetizione, la Francia (che starebbe per chiedere una maggiorazione delle forniture di gas) ha operato una svolta a 180 gradi nelle sue relazioni con Algeri, accettando anche di ritornare il mese scorso a un flusso normale di visti per i cittadini del Paese maghrebino, che aveva dimezzato bruscamente nel 2021. Il nuovo gasdotto verso l’Italia - Nella stessa intervista Tebboune ha ricordato che “abbiamo iniziato la costruzione di un secondo gasdotto tra le nostre coste e quelle della Sicilia per aumentare il volume delle forniture di gas da 25 a 35 miliardi di metri cubi all’Italia, per noi un hub verso il resto dell’Europa”. È il frutto di un primo accordo che venne firmato da Mario Draghi nell’aprile dell’anno scorso proprio con Tebboune e di un’intesa parallela fra Eni e Sonatrach, l’ente pubblico algerino degli idrocarburi.  Dall’inizio della guerra in Ucraina i ricavi delle vendite di gas algerino all’Europa sono aumentati di oltre il 70%. Il Governo ha potuto così portare a oltre 22 miliardi di dollari le spese militari previste per il 2023 (più del doppio rispetto all’anno precedente), mentre a fine 2022 Tebboune ha annunciato un aumento del 47% dello stipendio dei funzionari pubblici entro il 2024 e ritocchi sensibili verso l’alto di pensioni e sussidi per i disoccupati. I pochi giornalisti liberi superstiti, invece, finiscono dietro le sbarre.  Il giornalista algerino Drareni: “Usano le accuse sulla sicurezza per farci tacere, ma io non me ne andrò” di Leonardo Martinelli La Repubblica, 7 gennaio 2022 Durante l’Hirak, la protesta contro il regime scoppiata nel 2019, Drareni è stato in carcere e poi rilasciato. Rimasto ad Algeri, ora si batte per la libertà di espressione. Quando Khaled Drareni, 42 anni, il suo giovane amico e collega, uscì dal carcere, dopo poco più di un anno, ad accoglierlo lì fuori c’era pure lui, Ihsane El Kadi. Era il 19 febbraio 2021: ottenere la liberazione di Khaled fu una lunga strada e impervia. Ebbene, oggi è Ihsane, altro paladino della libertà d’espressione in Algeria, a essere finito dietro le sbarre. Drareni, che durante l’Hirak, la protesta contro il regime scoppiata nel 2019, l’aveva seguita per TV5 Monde, canale pubblico francese, e che a lungo ha pure lavorato per Radio Maghreb, uno dei media di El Kadi, è rimasto ad Algeri, dove oggi è il rappresentante di Reporters sans frontières (Rsf), per tutta l’Africa del Nord. Tocca a lui adesso battersi per El Kadi. Quando lei fu incarcerato, si organizzò una grossa campagna a suo favore, anche all’estero, soprattutto a Parigi. Sarà così anche per Ihsane? È troppo presto per dirlo. Sta di fatto, però, che l’Algeria, dall’inizio della guerra in Ucraina, gioca un ruolo estremamente importante sulla scena internazionale, grazie al gas. Oggi la voce del Governo e del presidente è ascoltata molto di più fuori dai confini nazionali. Questo può compromettere l’impatto del lavoro degli organismi internazionali a favore di El Kadi e della sua scarcerazione. Chi è Ihsane El Kadi? Ha oltre 35 anni di esperienza. Ha lavorato in media diversi, prima pubblici, poi privati. Era già stato messo in carcere nel 1981, per nove mesi, quando faceva parte del movimento studentesco giovanile. È oggi un giornalista molto rispettato in Algeria, per la sua pertinenza, l’indipendenza e il senso critico. Ha fondato e dirige Radio Maghreb e il sito Maghreb Emergent, ora chiusi... Erano davvero indipendenti: davano la parola al Governo, all’opposizione, a tutti. Sono tra le ultime voci libere in Algeria, accanto ad altri media digitali, che continuano a lavorare, ma con difficoltà. Ha notizie di Ihsane? Sì, fortunatamente sta bene. Gli avvocati hanno potuto incontrarlo nei giorni scorsi alla prigione di El Harrach, ad Algeri. Lui è una persona coraggiosa, tiene duro. Di cosa l’accusano? Per il momento non abbiamo notizie esatte. Ma un comunicato della procura ha tirato in ballo presunti finanziamenti stranieri e infrazioni alle regole sulle donazioni estere. I suoi media avevano ricevuto aiuti dall’Unione europea. Ma si tratta probabilmente di pretesti: sono i suoi articoli all’origine dell’arresto. Nel giugno scorso era già stato condannato a sei mesi di carcere per un suo pezzo. El Kadi si trova in “detenzione preventiva”. Quanto può durare? Quattro mesi, ma può essere rinnovata una volta. Insomma, sono otto mesi in tutto. Ora, comunque, stiamo aspettando l’inizio della fase istruttoria. Quando sarà finita, verrà fissata la data del processo. Il caso del suo collega è isolato? No, altri giornalisti sono stati arrestati in Algeria, pure il sottoscritto. Lo stesso nel vicino Marocco. Lì com’è la situazione? Preoccupante come da noi. In Marocco ci sono oggi tre giornalisti in carcere: Taoufik Bouachrine, Omar Radi e Soulimane Raissouni. Sono accusati di stupro, ma sono falsità. Sappiamo bene che le vere ragioni di queste incarcerazioni sono il loro lavoro giornalistico e l’indipendenza. Praticamente è la stessa cosa in Marocco e in Algeria, ma lì, quando si vuole mettere in prigione un giornalista, lo si accusa di violenze sessuali e da noi di attentato all’unità nazionale e alla sicurezza dello Stato. Tanti giornalisti algerini fuggono all’estero. Lei se ne andrà? Non credo che lascerò il mio Paese. Il mio posto è qui, con i miei connazionali, la mia famiglia e i miei amici. Sono più utile qui che altrove. Capisco e rispetto la scelta di chi se ne va, è comprensibile e legittima. Ma non è la mia. Tunisia. Legali in piazza per la Giornata della rabbia: “A rischio diritti e libertà” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 7 gennaio 2022 “Il giorno della rabbia”. Così l’Ordine degli avvocati tunisini ha chiamato la giornata di mobilitazione, organizzata insieme ai tribunali regionali, per esprimere il rifiuto nei confronti del decreto numero 79, il nuovo aumento delle tasse sui servizi legali. Centinaia di legali hanno così protestato giovedì scorso davanti al Palais de Justice di Tunisi, il loro è stato un secco “no” alla draconiana legge finanziaria che graverà pesantemente sulle tasche della popolazione. Il bilancio, presentato la scorsa settimana, impone infatti ulteriori imposte per riportare il deficit della Tunisia a quasi il cinque per cento del Pil, in attesa di un salvataggio da parte del Fondo monetario internazionale. Il governo dunque cerca di aumentare le entrate per il tesoro a corto di liquidità. Sacrifici che gli avvocati, insieme ad altre categorie di lavoratori rifiutano, visto che tra le misure è previsto proprio un aumento degli oneri relativi alle spese legali, dal 13 al 19 per cento. Nella nuova legge di bilancio presentata dalla ministra delle Finanze della Tunisia, Sihem Boughdiri, viene previsto un disavanzo di 8,5 miliardi di dinari (2,5 miliardi di euro) pari al 5,2 per cento, in calo rispetto al rapporto deficit- Pil del 7,7 per cento del 2022. Un miglioramento dovuto a un corposo incremento soprattutto delle entrate fiscali, tra cui una tassa sulla ricchezza immobiliare. Ma la Tunisia è ancora alle prese con una profonda crisi economica. Negli ultimi mesi dello scorso anno più volte il paese ha subito la carenza di alcuni prodotti alimentari essenziali come lo zucchero, il latte e il riso. L’inflazione, secondo le recenti rilevazioni statistiche di dicembre, ha fatto registrare percentuali a due cifre limitando il potere d’acquisto dei cittadini. Un contesto drammatico dunque che ha costretto il presidente tunisino Kais Saied a invocare l’aiuto del Fmi, che fedele ai sui piani di aggiustamento strutturale per concedere ossigeno finanziario ha chiesto in cambio i consueti tagli alla spesa sociale. E proprio contro queste pesanti sforbiciate, che gli avvocati definiscono diktat dell’organismo monetario internazionale, è stata portata avanti la protesta di piazza. I 9.200 legali della Tunisia, guidati dal presidente dell’Ordine degli avvocati, Hatem Mziou, affermano che la nuova tassa colpirà più duramente gli utenti dei servizi legali provenienti da ambienti socialmente svantaggiati, facendo ricadere gli effetti della crisi economica su queste fasce di popolazione. Gli avvocati hanno chiaramente fatto intendere pubblicamente che non rimarranno inattivi di fronte a quelli che definiscono “attacchi ai diritti e alle libertà”. Una sottolineatura che fa riferimento allo scontro apertosi a seguito del controverso decreto del settembre scorso da parte di Saied che introduce pene detentive contro chi viene ritenuto colpevole di diffondere false voci al fine di minare la sicurezza pubblica. È il caso di diversi legali, tra cui alcuni che difendono un gruppo di giudici estromessi dal presidente dal loro ruolo, che sono costretti ora ad affrontare procedimenti giudiziari. Saied infatti ha assunto il controllo del sistema giudiziario al fine di poter licenziare una costituzione su misura che rafforza il suo controllo sull’esecutivo. Una mossa iniziata nel luglio 2021 quando ha, di fatto, sciolto il governo e congelato il parlamento. Non a caso dai colloqui con il ministro dell’Interno Taoufik Charfeddine, è emerso che il presidente ha lanciato avvertimenti per nulla velati. È stato direttamente l’ufficio di Saied a rendere note le sue parole: “libertà non significa caos e complotti contro lo stato”. E, senza nominare esplicitamente nessuno, ha accusato “alcune persone sostenute da lobby note di violare la legge e minare la sicurezza nazionale”. Stati Uniti. Bambino di 6 anni spara a scuola alla maestra: ferita gravemente, lui arrestato di Paolo Foschi Corriere della Sera, 7 gennaio 2022 La polizia locale: “Non è un episodio accidentale”. Ancora una sparatoria in una scuola americana. Stavolta però la notizia ha qualcosa di ancora più sconvolgente del solito: ad aprire il fuoco è stato infatti un bambino di 6 anni che ha ferito gravemente una maestra trentenne e - secondo quanto riferito dalla polizia - non si “è trattato di una sparatoria accidentale”. La drammatica storia arriva dalla Virginia, teatro dell’episodio la Richneck Elementary School nella città costiera di Newport News. “Si ritiene che la vita dell’insegnante sia in pericolo. Le indagini sono in corso”, si legge in una nota dell’ufficio della polizia locale. Nessuno studente è rimasto ferito e l’incidente è stato circoscritto a un’unica classe, hanno assicurato le autorità. Il bambino che ha sparato è in stato di fermo. “Sono sotto shock e sono scoraggiato”, ha detto il sovrintendente delle scuole della città, George Parker. “Abbiamo bisogno del sostegno della comunità per assicurarci che le armi non siano disponibili per i giovani”. Le sparatorie nelle scuole affliggono gli Stati Uniti, con recenti tragedie tra cui l’uccisione lo scorso maggio di 19 bambini e due insegnanti a Uvalde, in Texas, da parte di un uomo armato di 18 anni. L’anno scorso negli Stati Uniti ci sono stati circa 44.000 decessi legati alle armi, circa la metà dei quali casi di omicidio, incidenti e autodifesa e metà dei quali suicidi, secondo il database Gun Violence Archive.