Uccidersi a un passo dalla libertà di Fabio Fazio Oggi, 5 gennaio 2023 Ottantaquattro è il numero che ha chiuso il 2022. Un detenuto bengalese di 30 anni, che si è impiccato nel carcere di Rebibbia, era l’ottantaduesimo suicida dall’inizio dell’anno. Sarebbe uscito a luglio, gli mancavano pochi mesi. Ma non è un fatto inusuale. Sono molti coloro che crollano proprio alla fine del percorso, a pochi metri dal traguardo. Non è logico, lo so, ma niente è logico quando si parla di carcerazione. Era stato riportato in carcere per scontare un residuo di pena dopo la sentenza di appello. Due anni per concorso in rapina. A fine ottobre, a Torino, un uomo poco più che trentenne si ammazzò all’indomani dell’arresto per il furto di un paio di cuffiette, di auricolari. Basta poco per andare in galera e la galera è quanto di più innaturale possa esserci per un essere umano. Difficile da sopportare soprattutto per chi è fragile. La gran parte dei detenuti, almeno la metà, è in carcere in attesa di giudizio. Una percentuale altissima è costituita da tossicodipendenti e moltissimi dei suicidi sono persone con problemi psichici o senza fissa dimora. Sono persone che andrebbero curate più che detenute. Al carcere si chiede di svolgere un ruolo difficilissimo ai limiti dell’impossibile. Nel corso del 2022 si sono suicidati anche cinque agenti penitenziari. In prigione ci si ammazza circa 20 volte di più che nella vita libera. Molti istituti sono fatiscenti, fuori dal tempo e quasi tutti sovraffollati. La violenza è inevitabile. C’è un problema addirittura di lingua e dunque di comunicazione perché la maggior parte dei detenuti è composta da extracomunitari. Sono luoghi di sofferenza enorme e gli ottantatré suicidi di quest’anno lo stanno a dimostrare. Ottantatré: il numero più alto degli ultimi dieci anni. Chi invoca la galera come soluzione ai problemi di sicurezza dei cittadini perbene, non sa quel che dice. Il carcere è una sconfitta per tutta la società. È una istituzione che non si è mai evoluta nel corso dei secoli. Chiudere in gabbia un essere umano implica una responsabilità enorme e dovrebbe essere una soluzione limite. Speriamo che il Ministro Nordio si adoperi per incentivare misure alternative alla detenzione e che il tema delle carceri sia affrontato nella sua complessità. So bene che quello dei diritti dei carcerati è uno degli argomenti più impopolari che si possano affrontare ma far finta di niente dovrebbe essere, quello sì, un reato. Infine, secondo l’associazione Antigone, alla fine dello scorso giugno nelle carceri italiane c’erano anche 24 donne con figli detenuti assieme a loro: 25; 24 donne con 25 bambini, in carcere. Caso Cospito, i giudici alla Consulta: “Non precludeteci di bilanciare la pena” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 gennaio 2023 La corte d’Appello di Torino richiama la necessità di una sanzione proporzionata alla effettiva portata lesiva delle condotte. L’anarchico al 41 bis è in sciopero della fame da 77 giorni e rischia l’ergastolo. Se la Consulta dovesse accogliere la questione di illegittimità costituzionale sollevata dalla corte d’Assise d’Appello di Torino, gli anarchici Alfredo Cospito e Anna Beniamino non rischiano più l’ergastolo per aver collocato di notte del 2 giugno 2006 (così come ritiene l’accusa con tanto esito di condanna) due ordigni nei pressi di uno degli ingressi della scuola allievi di Fossano. Non causarono né morti né feriti. Furono condannati definitivamente per strage contro la pubblica incolumità (articolo 422 del codice penale) che prevede una pena non inferiore ai 15 anni. A luglio scorso la Cassazione ha riqualificato il reato a strage contro la sicurezza dello Stato. Parliamo dell’articolo 285 che prevede appunto l’ergastolo. Nel caso specifico ostativo. Si tratta del reato più grave del nostro ordinamento che non è stato nemmeno applicato per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. La corte d’Appello che avrebbe dovuto rivalutare la pena, ha accolto le questioni sollevate dalla difesa e con l’ordinanza di nove pagine, da poco depositate, la Consulta dovrà valutare se è incostituzionale l’articolo 69 comma 4 del codice penale. Nello specifico la parte che prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante. Se verrà accolta la questione, i due anarchici non rischiano più l’ergastolo, ma la pena sarà tra i venti e i ventiquattro anni. Che la pena dell’ergastolo sia spropositata, lo dicono gli stessi giudici della corte d’Appello. A pagina 3, scrivono che “per poter apprezzare la rilevanza della questione di legittimità costituzionale che si intende sollevare con la presente ordinanza, corre l’obbligo di specificare che, a giudizio di questa corte d’Assise d’Appello, il giudizio di bilanciamento fra circostanze dovrebbe risolversi nel caso concreto riconoscendo la prevalenza della circostanza attenuante di cui trattasi rispetto alla recidiva ex art. 99 comma 4 c.p”. E ancora, a pagina 7, i giudici scrivono nero su bianco che “si tratta, infatti, di scongiurare la possibilità di precludere all’interprete la facoltà di parametrare la pena al fatto concreto, mitigando tramite l’applicazione delle circostanze attenuanti l’entità della pena inflitta all’autore del reato nei casi di minore disvalore delle sue condotte”. Una preclusione che “frusta” il principio della necessaria proporzione della pena rispetto all’offensività del fatto e di assicurare I’irrogazione di una pena adeguata e proporzionata alla differente gravita del fatto-reato. Secondo la corte d’Appello di Torino, infatti, la norma censurata impedisce “in modo assoluto al giudice di affermare la prevalenza di una circostanza attenuante che, per l’appunto, disciplina i casi di lieve entità, con ciò inibendo l’applicazione degli effetti che essa mira ad attuare, in contrasto con la funzione di riequilibrio sanzionatorio di cui essa costituisce evidente espressione concreta”. Mentre si attende la decisione della Consulta, nel frattempo vige un’altra spropositata pena nei confronti di Cospito. Ovvero la reclusione al 41 bis, misura emanata dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia. Per protestare contro questa misura, l’anarchico è in sciopero della fame da 77 giorni. Le sue condizioni fisiche cominciano a destare qualche preoccupazione nei medici: il peso corporeo è sceso di 35 kg e si registra una carenza di potassio nelle sue analisi. Tale carenza può compromettere il cuore. Una misura, quella del 41 bis, nata sull’onda delle terribili stragi di mafia. Da emergenziale è diventata “ordinaria”. Con il tempo, questo carcere differenziato è stato raggiunto da altre misure afflittive. Nato con lo scopo di evitare che un boss mafioso dia ordini al proprio clan di appartenenza, sembra che si sia con il tempo trasformato in uno strumento di tortura dove lo Stato pretende la collaborazione. Quando il tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato il ricorso dei difensori di Cospito dove chiedevano la revoca del 41 bis, tra le varie motivazioni di rigetto si legge testualmente: “A fronte di questo profilo elevatissimo di pericolosità sociale, non risulta alcun segno di ravvedimento o di dissociazione del detenuto, il quale, anzi, dimostra di non aver effettuato alcun percorso di revisione critica”. Eppure il 41 bis, sulla carta, non nasce per imporre una dissociazione. Se fosse così, sarebbe non solo incostituzionale ma da condanna da parte della Corte Europa di Strasburgo. Alfredo Cospito è il primo anarchico che è recluso al 41 bis. Il motivo di questa misura resta tuttora incomprensibile. Quando era detenuto in regime AS2, l’uomo ha costantemente intrattenuto relazioni epistolari con decine o centinaia di anarchici e anarchiche, con siti e riviste della medesima matrice politica, partecipando anche alla esperienza editoriale che ha condotto alla pubblicazione di due libri sulla storia del movimento anarchico. Attività svolta alla luce del sole, in cui veniva esposto il suo pensiero anarchico e che lo ha visto, nonostante ciò, in almeno tre occasioni, destinatario di altrettante iniziative giudiziarie per il reato di istigazione a delinquere. Eppure, parliamo di un pensiero anarchico che ha, tuttavia, posto in seria difficoltà i giudici i quali, nei diversi gradi di giudizio, hanno alternato qualificazioni giuridiche contrapposte, talvolta riconducendolo alla abrogata propaganda sovversiva, ex art. 272 cp, altre all’istigazione a delinquere. Nella precedente detenzione, Cospito riceveva libri e riviste, partecipava a dibattiti pubblici mediante contributi scritti, condivideva la sezione AS2 con imputati della medesima area politica e/ o con detenuti politici, godeva di numerose ore d’aria, palestra, biblioteca, socialità. E soprattutto non era stato sottoposto al 41 bis nonostante dal 2016, a seguito dell’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare del Gip di Torino, era stato ritenuto comunque intraneo al sodalizio anarchico denominato Fai, la cui appartenenza, nel 2022, sarà posta a fondamento del decreto ministeriale applicativo del 41 bis. L’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini, ha denunciato che “dall’aprile scorso e in assenza di avvenimenti che possano giustificare la diversità di trattamento penitenziario, il medesimo è privato di ogni diritto ed in particolare di leggere, studiare, informarsi su ciò che corrisponde alle sue inclinazioni e interessi, non riceve alcuna corrispondenza, quelle in entrata sono tutte trattenute e quelle in uscita soffrono dell’autocensura del detenuto stesso”. Un dramma che non trova ragione. Luigi Manconi, ex senatore e presidente dell’associazione “A buon Diritto”, è intervenuto più volte sulla questione, denunciando che “si tratta in tutta evidenza, di una condizione totalmente illegale e di uno stravolgimento della lettera e del senso della legge che affida al regime di 41 bis il solo ed esclusivo scopo di impedire i legami tra il recluso e l’organizzazione criminale di appartenenza”. Il questore fa il veggente per tenere Cospito al 41bis di Frank Cimini Il Riformista, 5 gennaio 2023 Nei giorni in cui vengono rese note le motivazioni con cui la corte d’assise di appello di Torino rivolgendosi alla Corte Costituzionale sostiene che l’ergastolo a Alfredo Cospito per un’azione che non ha fatto morti e feriti non si può dare, il Questore di Torino dotato evidentemente di una sfera di cristallo in conferenza stampa dice di non escludere il passaggio degli anarchici in clandestinità. “È una realtà e un segmento che guardiamo con attenzione perché non escludiamo il passaggio dalla soluzione pubblica della manifestazione alla soluzione clandestina da parte di singoli soggetti”. Così il questore Vincenzo Ciarambino, nella conferenza stampa di inizio anno, interpellato sulle manifestazioni anarchiche in solidarietà ad Alfredo Cospito, che si sono svolte anche a Torino, dove è in corso il processo d’Appello per gli attentati a Fossano. “C’è attenzione più che allarme - spiega il questore - perché la componente anarchica qua a Torino ha fatto registrare azioni imprevedibili, scarsamente prevedibili o di difficile prevedibilità. Come ad esempio l’attento alla scuola allievi carabinieri di Fossano di cui si è reso responsabile Cospito o gli attentati alla Crocetta con la classica tecnica del doppio scoppio per attirare e per poi far male. Anche nel recente passato sono stati inviati pacchi bomba da Genova mandate a figure istituzionali dell’amministrazione penitenziaria”. “Continua la nostra attenzione - aggiunge Ciarambino - gli anarchici adesso stanno manifestando in strada e stanno cercando di pubblicizzare quella che loro ritengono essere la sofferenza di Cospito, che è attualmente sottoposto al 41 bis”. “Sono frange che non escludiamo possano passare dall’attività di manifestazione in strada all’attività clandestina con alcuni elementi cani sciolti che possano portare a termine attentati contro istituzioni che ritengono responsabili di questa vicenda. Facciamo attenzione a questi eventi e cerchiamo di intercettare ogni segnale e pericolo possibile”. La corte d’assise di appello invece trasmettendo gli atti del processo di Torino per i pacchi esplosivi di Fossano sostiene la tesi della lieve entità dei danni spiegando che il trattamento sanzionatorio sollecitato dal procuratore generale il massimo della pena sarebbe incostituzionale. Insomma il questore mette le mani avanti cercando di influenzare sia la Consulta che dovrà decidere sulla concessione delle attenuanti evitando l’ergastolo sia la Cassazione chiamata a esaminare il ricorso dell’avvocato Flavio Rossi Albertini contro l’applicazione del carcere duro previsto dall’articolo 41 bis del regolamento penitenziario. Le parole del questore ipotizzando il passaggio in clandestinità degli anarchici che manifestano solidarietà a Cospito hanno un significato chiaramente intimidatorio che non viene colto ovviamente dai giornali e dai politici di tutti i partiti. Intanto nella giornata di oggi Cospito in sciopero della fame dal 20 ottobre e ha già perso 35 chili riceverà la visita del medico di fiducia Angela Melia. C’è preoccupazione soprattutto per il calo di potassio che può incidere sul cuore. La balla della decadenza morale dell’Occidente. I magistrati che ne parlano chiedono giustizialismo di Alberto Cisterna Il Riformista, 5 gennaio 2023 “Il decadimento etico e morale della società civile, soprattutto di quella del mondo occidentale, è palese e riguarda tutte le categorie”. A recitare il de profundis della nostra società, anzi dell’intera società occidentale, non è stato né Putin né qualche ayatollah iraniano né qualche patriarca ortodosso filorusso. Vedremo alla fine a chi appartenga la frase, ma un nome e un cognome in fondo non hanno alcuna importanza. La crisi dei valori in Occidente non è cosa che si scopra oggi ed evocare scenari così cupi dopo la presunta corruzione nell’Europarlamento non sembra il modo più appropriato né proporzionato per affrontare un tema cruciale nel funzionamento della democrazia. Il fatto che un’istituzione così importante sia macchiata dal sospetto di tangenti è grave, ma insomma non si può pensare che sia qualche malandrino a rappresentare la metrica dell’etica occidentale e della sua asserita decomposizione. Volumi e studi hanno scandagliato da qualche decennio il tema in ogni direzione, ma in verità solo alcuni filoni dell’estremismo religioso e politico ritengono che sia in corso una sorta di irrefrenabile decadenza morale all’interno delle democrazie. È vero che le società che popolano il variegato mondo dell’Ovest si stanno profondamente evolvendo; che antichi schemi di rappresentazione della realtà si stanno modificando; che plessi valoriali una volta ritenuti indistruttibili si stanno disgregando sotto il peso di nuovi costumi, di nuove visioni antropologiche, di culture improntate alla tolleranza più che all’identità. Ma che l’Occidente cambi non vuol dire che sia sull’orlo del precipizio morale, che nuove Sodoma e Gomorra attendano di essere rase al suolo da immacolati catari rimasti a presidio dei costumi di società contagiate dal vizio. Dispiace che queste parole le abbia pronunciate - proprio in esordio alla classica intervista di fine anno sui problemi della giustizia in Italia - un magistrato tra quelli più in vista della Repubblica e sia pure in un contesto per molti altri versi meritevole di attenzione. Il nome del magistrato non importa. Se si trattasse di un nome, la questione sarebbe addirittura irrilevante: il punto è che quella frase condensa ed esplicita una convinzione profondamente diffusa in settori tutt’altro che marginali di una certa magistratura e di segmenti influenti della società italiana che la sostiene e fiancheggia. Si denuncia il decadimento etico e morale di una società che, se ben si comprende, soffrirebbe di endemiche corruzioni e irreparabili cedimenti sul versante dei costumi individuali e collettivi. E rispetto a questa sconfinata distesa di macerie appare inevitabile che si debba mettere mano alla spada e menar fendenti a destra e manca per tentare di arginare le orde di infedeli che minacciano l’etica e la morale pubblica. E’ il punto d’attrito, forse il vero punto di irrecuperabile frizione, che corre tra una visione laica, mite, moderna, proporzionata della funzione giudiziaria, e un modo cupo, rancoroso, misantropo di concepire gli uomini, le loro debolezze, le fragilità dell’esistenza che guida talvolta le opzioni investigative e securitarie di un ceto sacerdotale che si sente assediato dal male. Due le questioni in campo. È legittimo avere qualunque opinione sull’etica collettiva e sulla morale individuale; si può anche assecondare la tempesta ideologica che da ogni parte sta aggredendo le fondamenta della cultura occidentale e delle sue democrazie. Per certo non è lecito valutare le vicende giudiziarie, anche le più gravi, sotto il prisma di una visione eticizzante e moraleggiante che cerchi nel reo l’infedele e nel reato il tradimento. La corruzione sta letteralmente divorando l’Africa, il Sud-centro America, buona parte dell’Asia, Cina inclusa, gli oligarchi russi hanno accumulato ricchezze enormi; corruzione e democrazia non stanno a braccetto, né sono l’una il frutto avvelenato dell’altra. Basterebbe, d’altronde, aver fatto studi quanto meno regolari per ricordarsi di quanto funesta fosse la corruzione nei tempi più antichi, persino nell’età d’oro della Roma caput mundi (come ricordava Luciano Perelli, La corruzione politica nell’antica Roma. Tangenti malversazioni malcostume illeciti raccomandazioni, Milano, Rizzoli, 1994). Il secondo punto è tentare di stabilire quanto questa visione retriva, eticizzante, segregazionista della società che si vuole scomporre a fil di spada in buoni e cattivi, abbia inciso e incida sui protocolli di interpretazione della realtà, di punizione delle condotte, di ricostruzione dei reati; soprattutto di quelli a maglie larghe e ad alto tasso di elasticità e indeterminatezza. Affiora il sospetto che il precipitato processuale di questa impostazione siano inferenze, deduzioni, supposizioni, indizi che si incistano nelle sentenze, nelle ordinanze, nei decreti di prevenzione, nelle interdittive antimafia invocando la dignità di prove sol perché fondate su una interpretazione della società, dei suoi mali, delle sue devianze che non tollera obiezioni, né dubbi. Il mondo occidentale sta cambiando rapidamente in ogni suo volto sinora noto; se il cambiamento è un decadimento non è questione che qualcuno può arrogarsi di fissare come precondizione della propria azione di purificazione pubblica. Almeno che non si sottoponga al voto degli elettori e ne consegua il consenso, come pure accade talvolta per alcuni politici. Certo è un linguaggio che incoraggia l’idea di un pubblico ministero inserito nella compagine del governo (come accade in altri civilissimi paesi) perché da quella posizione chiara ed evidente l’accusa risponda di ogni propria scelta che sia ideologicamente, moralmente o eticamente guidata. Giustizia, il codice svuotato: le mazzette meno gravi dei picchetti di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2023 Pene più dure per droga e immigrazione clandestina. Colletti bianchi sempre salvi. L’ultima proposta in tema di giustizia è quella di aumentare le pene per chi imbratta i muri. È la reazione di esponenti della maggioranza all’azione degli attivisti di Ultima Generazione, che hanno gettato vernice sulla facciata del Senato per protestare contro l’inerzia nei confronti della crisi climatica. È da almeno trent’anni che in Italia si continua a modificare il codice penale e, più in generale, le norme sulla giustizia. Si aggiungono reati, si alzano le pene, poi si abbassano. Poi si ricomincia da capo. Nella giostra della giustizia, ci sono fasi in cui aumentano il rigore e la severità. In altre fasi, la politica cerca di difendere se stessa attenuando e depenalizzando, quando si tratta di reati dei colletti bianchi e contro la pubblica amministrazione. Un’altalena impazzita. Poi ci sono momenti in cui il rigore per alcuni si somma al lassismo per altri. Il risultato? Un codice che punisce a caso. Con evidenti incongruenze, contraddizioni, sproporzioni. Una giustizia ingiusta. C’è il momento dell’indignazione popolare, in cui (come durante Mani pulite, o quando i Cinquestelle diventano primo partito) si tolgono privilegi e si varano leggi più severe. Poi arriva la restaurazione, e ciò che è stato fatto viene smontato o depotenziato. C’è la fase in cui qualche fatto di cronaca (i morti per incidente stradale, o le rapine in villa, o un rave party visto in tv) innescano norme specifiche (il reato di omicidio stradale, i decreti sicurezza, la legge contro i rave). E c’è il momento in cui, finalmente, si prende coscienza di quanto pesino i reati contro le donne (e nasce il “Codice rosso”). La destra di solito sbandiera i fatti di cronaca che provocano allarme sociale e, anche se le statistiche dimostrano che alcuni reati sono in calo, alimenta emergenze a cui risponde con “decreti sicurezza”. Ma l’esito è una giustizia a due velocità: lenta e debole per i forti, rapida e implacabile per i poveri cristi. E sfasata: le pene per l’omicidio stradale sono così alte che “a chi, guidando, uccide un uomo, converrebbe dire di averlo voluto ammazzare, perché con le attenuanti potrebbe ottenere una pena minore”, dice con una battuta l’ex magistrato Piercamillo Davigo. In principio c’era il codice Rocco. Fascista, ma almeno coerente. In era repubblicana è iniziata una lenta e inesorabile opera di smontaggio e rimontaggio del codice penale, da farlo sembrare un Frankenstein schizofrenico. La grande svolta è arrivata nel 1989, quando si è tentato di riformare il codice di procedura penale introducendo il processo accusatorio: ma lasciando (e poi via via aumentando) le garanzie del precedente processo inquisitorio. Il risultato è un processo lungo, lento, farraginoso, che poi si è cercato di abbreviare (o meglio: azzerare) con la prescrizione o con la improcedibilità (introdotta dalla riforma Cartabia). Negli ultimi anni, sono state aumentate le pene per lo spaccio di droga o per l’immigrazione clandestina, si sono moltiplicati i “decreti sicurezza”, blocchi stradali e picchetti sindacali e studenteschi sono puniti fino a 6 anni, il furto aggravato a 22. E contemporaneamente si è abbassata la guardia per i reati contro la pubblica amministrazione. Tanto, il problema più grave sembrano essere i rave party, puniti con la legge voluta da Giorgia Meloni con pene fino a 6 anni di carcere: più che l’omicidio colposo (5 anni) o la pedopornografia (3 anni). Ora: pene più severe per chi imbratta i muri. E i colletti bianchi? Quasi intoccabili. Nelle carceri italiane sono solo il 5,3 per cento della popolazione carceraria. In Francia il 5,8. In Germania il 13,2. Del resto, per Roberto Formigoni, i 5 anni e 10 mesi di condanna per corruzione si sono trasformati in soli 5 mesi di detenzione. È andata ancora meglio a Cesare Previti, l’avvocato di Silvio Berlusconi coinvolto in quello che la sentenza definisce “il più grave caso di corruzione nella storia dell’Italia repubblicana”: la condanna definitiva a 6 anni si è tradotta in soli 5 giorni in cella. Il carcere: in Italia è una Fata Morgana, in cui ciò che si vede non corrisponde a ciò che è. Se si vuole abolirlo, lo si faccia. Ma invece lo si lascia, lo si rende inesorabile per i poveri cristi e solo virtuale per i potenti. Le pene scritte nelle condanne non sono mai reali. Quelle sotto i 4 anni sono inesistenti, quelle sopra sono sempre generosamente ridotte. Si continua a ripetere che in Italia ci sono troppi detenuti, che gli istituti di pena sono sovraffollati, che i loro occupanti sono per lo più in custodia cautelare, non ancora condannati. Tre leggende, spiega Davigo. Il numero dei detenuti in Italia in rapporto alla popolazione è inferiore alla media europea. Il sovraffollamento è determinato dai criteri di misura: 9 metri quadrati per detenuto in Italia, contro i 4 della media Ue. E solo l’8 per cento è detenuto in custodia cautelare, il 71 per cento è di condannati definitivi, il resto è formato da condannati in primo o secondo grado, che in Europa sono conteggiati come “condannati”, in Italia come “in attesa di giudizio”. Certo: la situazione delle carceri italiane è disastrosa, la pena che vi si sconta difficilmente riesce a essere rieducativa. Ma questo anche perché non si fanno interventi di restauro e, quando si fanno, i lavori durano 16 anni, come nel carcere minorile Beccaria di Milano. Agli interventi legislativi per introdurre nuovi reati e modificare quelli già in vigore, si sommano gli interventi che modificano la possibilità di entrare o no in carcere. L’ultimo è stato il 6 dicembre 2022: dentro il decreto legge sui rave party, è stato infilato alla Camera l’emendamento che cancella i reati contro la pubblica amministrazione dall’elenco di quelli “ostativi”, per i quali non sono previsti i benefici penitenziari automatici. Così si è tornati a prima della cosiddetta legge “Spazzacorrotti”, voluta dall’allora ministro della Giustizia del governo Conte 1, Alfonso Bonafede, che aveva aggiunto anche i reati contro la pubblica amministrazione come corruzione, concussione, peculato, nell’elenco di quelli che impediscono di poter godere di benefici automatici e incondizionati: detenzione domiciliare, affidamento ai servizi sociali, libertà condizionata, semilibertà eccetera. In futuro, corrotti e corruttori, politici e colletti bianchi potranno usufruire dei benefici anche prima di entrare in carcere. La giostra italiana della giustizia continua a girare. “Le multe non bastano, carcere fino a cinque anni” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2023 Il ddl di Forza Italia per punire i giornalisti che pubblicano intercettazioni non più segrete. La proposta dei deputati Annarita Patriarca e Tommaso Antonio Calderone chiede di introdurre una nuova “fattispecie tipica di reato punibile da due a cinque anni”, per impedire di “pubblicare con leggerezza atti di indagine fino all’udienza preliminare”. Se diventasse legge, i giornalisti rischierebbero una pena carceraria. già dichiarata illegittima dalla Cedu. E sarebbe superiore a quella di chi è imputato di truffa, corruzione tra privati, malversazione di fondi pubblici o favoreggiamento personale. Da due a cinque anni di carcere per chi pubblica atti d’indagine, anche non più coperti da segreto. È l’arma devastante contro la diffusione sulla stampa dei contenuti delle intercettazioni prevista in una proposta di legge depositata alla Camera il 22 dicembre da due deputati di Forza Italia, Annarita Patriarca e Tommaso Antonio Calderone, entrambi membri della Commissione Giustizia. Al momento è sempre ammessa la pubblicazione del contenuto di atti non segreti (cioè a disposizione delle parti). Mentre chi li pubblica materialmente, anche in modo parziale, prima del termine dell’udienza preliminare (o, quando non è prevista, del termine delle indagini preliminari) è punito dall’articolo 684 del codice penale con l’arresto fino a trenta giorni o l’ammenda da 51 a 258 euro. Conseguenze troppo blande per Forza Italia, che vorrebbe sostituire quella norma con una nuova, l’articolo 379-ter, “che introduce una fattispecie tipica di reato, punibile da due a cinque anni e quindi, una volta approvata la norma, nessuno potrà più pubblicare con leggerezza atti di indagine fino all’udienza preliminare, così come prescritto. Il mostro non andrà più sbattuto in prima pagina a fronte di una semplice contravvenzione”, scrivono i due deputati in una nota. E poco importa, per loro, che in questo modo giornalisti colpevoli di aver pubblicato atti non più segreti rischino una pena superiore a quella di chi, ad esempio, è imputato di truffa, corruzione tra privati (fino a tre anni), malversazione di fondi pubblici o favoreggiamento personale (fino a quattro anni) e uguale a quella di chi partecipa a un’associazione per delinquere (cinque anni). “Il nostro ordinamento processuale penale vieta che vengano pubblicati o diffusi atti di indagine, anche a stralcio. Purtroppo, da anni si assiste allo scempio di sbattere il mostro in prima pagina con tutte le attività di indagine, intercettazioni, dichiarazioni di collaboratori o sommarie informazioni testimoniali pubblicate su tutti i giornali. Questo fatto, a oggi, è vietato da una norma del codice di procedura penale che ne vieta la pubblicazione fino all’udienza preliminare e che prevede, per la violazione, soltanto una punizione blanda, una contravvenzione, sebbene tutto questo incida gravemente sui diritti costituzionali del cittadino. Adesso si potrà avere finalmente una svolta significativa”, si legge ancora nel comunicato. Una “svolta” che prevede il carcere per i giornalisti, già dichiarato illegittimo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e su cui facilmente potrà arrivare il consenso del resto della maggioranza. Anche perché, da quando è in carica, il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è scagliato innumerevoli volte contro la pubblicazione dei dialoghi intercettati, definita tra le altre cose “una porcheria” e uno “strumento micidiale di delegittimazione”. Se una proposta del genere diventasse legge si completerebbe l’opera di silenziamento della stampa inaugurata con il decreto “sulla presunzione d’innocenza” fatto approvare dall’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, che ha imposto pesantissime restrizioni alla comunicazione delle autorità giudiziarie, impedendo di fornire informazioni ai giornalisti al di fuori di cornici formali, con la previsione (successiva) anche di sanzioni disciplinari per chi non si adegua. E si aggiungerebbe un tassello al progetto di controriforma messo in campo dal nuovo governo: dopo il ritorno dei benefici penitenziari per i colletti bianchi condannati e il disegno di legge per impedire l’uso del trojan nelle indagini nei loro confronti, arriva il carcere per chi ancora scrive dei procedimenti che li riguardano. Senza contare l’approvazione in Parlamento di un ordine del giorno per abolire il blocco della prescrizione del reato dopo il primo grado, introdotta dalla legge Spazzacorrotti dell’ex ministro Alfonso Bonafede. L’assalto è appena iniziato. L’affidabilità delle intercettazioni non è mai garantita di Pieremilio Sammarco* Libero, 5 gennaio 2023 Cosa c’è dietro la volontà del ministro Nordio di ridimensionarne l’uso. Il Ministro Nordio giustamente ha dichiarato di voler limitare l’uso delle intercettazioni come mezzo della ricerca della prova. Oltre alle ingenti spese per l’utilizzo di appositi sistemi informatici che costituiscono un salasso per le casse dello Stato (circa 200 milioni di euro all’anno per origliare i dialoghi di circa 130mila persone), le intercettazioni non sono un mezzo di prova sempre affidabile e la loro utilità andrebbe ridimensionata. Nel 1996, quando il banchiere Pacini Battaglia fu arrestato, uscirono intercettazioni che lo riguardavano: egli, a proposito di Antonio Di Pietro e del suo avvocato Lucibello, disse: “se li arrestano, per me è solo un piacere... perché a me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato”. Alle polemiche che divamparono, Pacini Battaglia disse che il termine “sbancato” era invece da intendersi “sbiancato”, poi diventato “stangato”, corretto successivamente in “stancato” e poi di nuovo “sbancato”, riferendosi però non alle pretese economiche di Di Pietro e Lucibello nei suoi confronti, quanto alla severità del primo e alla esosità delle parcelle del secondo. È evidente che, a seconda della trascrizione, i significati sono estremamente diversi. A distanza di oltre un quarto di secolo, anche se i dispositivi tecnici sono più potenti, permangono le stesse oggettive difficoltà nella fedele traslitterazione dei file audio delle conversazioni registrate per conto dell’autorità giudiziaria; incidono dei rumori di fondo, parole mal pronunciate, malfunzionamenti tecnici e, non ultimo, errori umani da parte di chi materialmente trascrive i dialoghi, sulla cui involontarietà talvolta può sorgere perplessità. Ancora Nordio, sempre a proposito delle intercettazioni, ha definito una “porcheria ciò che è successo nel caso Palamara”; esse “sono state pilotate, selezionate, diffuse secondo l’interesse di chi le diffondeva”; non sapremo mai, quindi, se nei colloqui intercettati si faceva riferimento a dei “carabinieroni” o al nome dell’ex Procuratore Capo di Roma, né se la frase trascritta nei verbali “si vira su Viola” era “si arriva a Viola”. Al fine di scongiurare dubbi, dovrebbe essere sempre consentito alle difese avere la disponibilità dei file audio così da poterli confrontare con le trascrizioni riportate negli atti giudiziari e verificarne la corrispondenza. Ciò che sembra scontato per assicurare un processo privo di errori non viene sempre attuato. Si assiste anche a distruzione dei file audio in ragione dei “dati sensibili” ivi presenti o “per la delicatezza delle conversazioni”. Nessuno sostiene che, in questi casi, vi sia da parte dei trascrittori l’intento di alterare le parole ascoltate perché equivarrebbe ad una dolosa manipolazione. Dunque subentra l’errore umano che le neuroscienze spiegano così: comprendere in modo sbagliato una parola ascoltata è un fenomeno legato alle nostre aspettative, cioè a ciò che pensiamo verrà detto, che produce una ridotta attività di un particolare circuito cerebrale che ha un molo critico nell’elaborazione dei suoni del discorso. Pertanto, l’ascoltatore, nel trascrivere quanto udito, sarebbe (inconsapevolmente) condizionato da ciò che si attende di sentire; in altri termini, la malizia risiederebbe nelle orecchie di chi ascolta. *Professore Ordinario di Diritto Comparato Procure, iscrizioni a ostacoli e sistemi in stallo: è l’effetto Cartabia di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2023 I lenti aggiornamenti telematici e la mancata ricezione delle notizie di reato. Sistemi informatici non aggiornati. E impossibilità per i magistrati di ricezione delle notizie di reato. Nei primi giorni di entrata in vigore della riforma Cartabia è successo anche questo in molte Procure italiane. Alcune di queste si trovano in Puglia, altre in Abruzzo, altre ancora nelle Marche. Come ad Ascoli Piceno, ufficio giudiziario su un territorio di circa 210mila abitanti che oggi diventa un laboratorio del nuovo corso della giustizia. In queste ore la situazione sta migliorando, ma il meccanismo non è certo perfettamente oliato. Dal 28 al 30 dicembre c’è stato infatti un aggiornamento di tutti i portali e i registri informatici. A questo non sarebbe seguita una tempestiva diffusione di un manuale d’uso con le novità inserite. Di qui la difficoltà della polizia giudiziaria che dal 30 dicembre per alcuni giorni non è riuscita a inserire le notizie di reato nel portale dedicato. Di conseguenza i magistrati, non ricevendo nulla, hanno dovuto chiedere trasmissione via posta elettronica certificata o deposito in cartaceo con vari ritardi. Si è creato così un piccolo caos, con le informazioni che in una fase iniziale non riuscivano ad essere gestite e la mancata ricezione delle notizie di reato. In queste ore, mentre scriviamo, in molti uffici giudiziari la situazione è in via di risoluzione. Stessi problemi anche in qualche procura pugliese. Qui alcuni magistrati segnalano altre difficoltà nell’applicazione della Cartabia: il nuovo procedimento penale sarà più telematico, con possibili testimonianze a distanza e l’uso massiccio delle video-registrazioni. Ma proprio su questo molti lamentano la mancanza di strumenti. La soluzione, proprio per consentire le video-registrazioni in casi specifici, potrebbe essere quella di affidarsi a fornitori esterni, dunque necessariamente con costi maggiori: in un settore nel quale, a quanto pare, bisogna risparmiare, ma solo in determinati settori, come le intercettazioni telefoniche. A quasi una settimana dall’entrata in vigore, le nuove norme restano insomma di non facile applicazione. Per questo il 29 dicembre c’è stato un incontro al ministero della Giustizia tra Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati e il capo di gabinetto di via Arenula Alberto Rizzo. Secondo quanto trapela, il ministero ha assicurato una più stretta collaborazione e una pronta risposta a tutti i problemi organizzativi che possono sorgere, anche per quel che riguarda la riforma del processo civile che entrerà in vigore il prossimo 28 febbraio. Vedremo. Nel frattempo le Procure stanno correndo ai ripari. Perché oltre ai problemi legati all’adeguamento dei sistemi informatici, ci sono da gestire le conseguenze ben più gravi dell’introduzione di nuove norme come quella sui reati perseguibili a querela: per il furto, le lesioni lievi o le molestie, ma anche il sequestro di persona e la violenza privata, il pubblico ministero potrà far partire l’indagine soltanto se la vittima deciderà di presentare querela (finora invece questi reati erano procedibili d’ufficio). Una norma criticata da più parti perché si tratta di reati che avvengono in contesti prevaricatori, come il mondo del crimine organizzato, e causano una sottomissione psicologica della vittima. Proprio su questo il procuratore di Ascoli Piceno, Monti, spiega: “Facciamo un paio di esempi: una violenza sessuale in danno di un maggiorenne preceduta poco prima da lesioni contro la vittima resta da ora perseguibile a querela anche se lesioni arrivano fino a 40 giorni di prognosi, stessa cosa per lo stalking. Le vittime sono lasciate sole. E ancora: se viene fermato un camion con la refurtiva di un furto anche grave commesso poco prima, come un bancomat divelto, se non viene subito rintracciata la vittima di quel furto per fargli sporgere querela, non si potrà procedere all’arresto in flagranza degli autori che verranno lasciati andar via”. La disobbedienza ecologista e il muro di gomma della politica di Federico Zuolo* Il Domani, 5 gennaio 2023 Anche se la disobbedienza civile ecologista è moralmente giustificata, sembra al momento incapace di scuotere il torpore della maggioranza. Nella storia recente, i movimenti non violenti hanno mediamente avuto più successo di quelli più settari e violenti. La natura dimostrativa delle azioni puramente simboliche, anche se ancora inefficaci, si inserisce in una strada inclusiva e promettente Ha ragione il direttore di Domani a denunciare il vero scandalo della disobbedienza di Ultima generazione: la risposta repressiva della politica italiana è ben più sconcertante delle azioni di disobbedienza. Ma ha anche ragione Gianfranco Pellegrino nel dubitare che azioni di un’avanguardia possano muovere il corpaccione di una maggioranza inerte e inebetita di fronte a quello che è e sarà il problema degli anni a venire. Manca, come ha rilevato Ferdinando Cotugno, la mediazione della rappresentanza politica. La domanda impellente, che intreccia la cronaca quotidiana con le grandi questioni del nostro avvenire, ripropone un vecchio dilemma: in che modo le azioni di un’avanguardia possono essere efficaci di fronte a un problema che richiede cambiamenti di vasta scala del nostro modo di vivere? Questa domanda non è nuova e attraversa tutti i movimenti, di cui quello ecologista è l’ultimo in ordine di apparizione: dalle lotte di liberazione coloniale ai movimenti civili contro la discriminazione, dal femminismo di tutte le generazioni sino alle battaglie più recenti per i diritti di gay, lesbiche e trans. Di fronte a questioni urgenti e sistemiche, i movimenti che talvolta violano la legge sembrano proporre delle fughe in avanti che non sempre vengono capite dalla maggioranza. Ma le azioni dimostrative nei musei o nei luoghi della politica nazionale sono azioni puramente simboliche per risvegliare la coscienza della maggioranza. Le iniziative solo apparentemente scandalose sono tutt’altro che radicali e problematiche in sé, poiché, almeno in Italia, non hanno portato a significativi danni a cose, né tantomeno a persone. Eppure, la gravità del problema potrebbe far ritenere necessarie azioni anche più eclatanti, come ad esempio i sabotaggi invocati da Andreas Malm. Ma una serie di ricerche portate avanti da Erica Chenoweth sulla resistenza e disobbedienza civile ha dimostrato che i movimenti sociali più efficaci sono stati quelli non violenti e inclusivi. Sembra un’ovvietà nelle nostre società democratiche, ma la pratica della non violenza non è solo più corretta moralmente, ma è anche più efficace, persino di fronte a regimi oppressivi, poiché riesce a includere il maggior numero di persone. Invece, i movimenti più settari e violenti non riescono a convertire chi sembra essere avvantaggiato dallo status quo. Come conciliare allora il bisogno di scuotere le coscienze, che le azioni dimostrative per ora non hanno scalfito, con la necessità di una diffusione su larga scala? La sordità politica potrebbe portare acqua al mulino delle proteste: mostrando l’assoluta sproporzione tra la natura sostanzialmente innocua della disobbedienza e le risposte feroci evocate dai politici di destra, si potrebbe scuotere il torpore della maggioranza. In un mondo ideale non dovrebbe essere necessario rendere gli attivisti dei martiri ma, nella speranza che il risveglio avvenga prima della catastrofe definitiva, qualcuno potrebbe giocare anche questa carta paradossale. *Filosofo Altro che “Ultima generazione”, a imbrattare le istituzioni parlamentari ci pensa ormai l’informazione italiana di Francesco Damato Il Dubbio, 5 gennaio 2023 Il Senato, quello non di chissà quale accademia ma della Repubblica, più contenuto della Camera ma presieduto dalla seconda carica dello Stato, e quindi un po’ il ramo nobile del Parlamento, è stato imbrattato più volte, almeno tre, in questi primi ma poco fausti giorni del nuovo anno. La prima volta dimostranti armati di vernici al servizio - dicono - della causa dell’ambiente e simili hanno imbrattato la facciata di Palazzo Madama approfittando “vigliaccamente” di una rete di sorveglianza e di sicurezza minore rispetto ad altre che proteggono Montecitorio, o Palazzo Chigi, o il Quirinale, come ha ricordato il presidente Ignazio La Russa. Che ha naturalmente deciso di muoversi per ridurre lo svantaggio improvvidamente accumulato dai suoi troppo ottimisti predecessori. Come dargli torto? Ma i soliti, chiamiamoli così, ci hanno già provato lo stesso. Uno dei giornali più orgogliosamente nuovi e proiettati sul futuro, tanto da essere stato chiamato Domani dal suo editore Carlo De Benedetti, stanco della improvvida rinuncia dei suoi eredi alla ben più solida e diffusa Repubblica, ha diviso la sua prima pagina dopo il fattaccio fra una cronaca lacrimevole e un commento di solidarietà agli autori della protesta, realizzando così un secondo, sostanziale imbrattamento. “I politici - raccontava il titolo di cronaca dell’azione contro il Senato - hanno più paura di un po’ di vernice che della crisi climatica”. “Un gruppo di militanti di Ultima generazione - continuava il racconto sommario dell’accaduto, con tutte le maiuscole e le minuscole al loro posto - ha imbrattato la facciata di palazzo Madama. I ragazzi rischiano multe e carcere. Intanto il governo Meloni annuncia nuove misure di sicurezza”. E che altro doveva fare? Mi chiedo considerando che le indagini e tutto il resto è competenza della magistratura rigorosamente libera e autonoma. “Hanno ragione loro a sposare la superficie dell’indifferenza”, gridava il titolo di un editoriale- arringa “in difesa degli attivisti” firmato dal direttore in persona, probabilmente gonfiando di giovanilismo il petto dell’anziano editore. Che i suoi anni, del resto, se li porta meravigliosamente. Il terzo imbrattamento, volontario o casuale che sia, è quello consumatosi con la denuncia fotografica, da parte di due giornali stavolta di area di destra, Libero e Il Tempo, di un Senato disertato dalle opposizioni nella seduta convocata, pur ad alberi di Natale ancora esposti e illuminati nelle case private e pubbliche, per l’annuncio, arrivo, deposito e quant’altro del decreto legge ormai abituale dal titolo, o soprannome, che parla da solo: mille proroghe, in due o anche in una sola parola. Un’aula parlamentare desolatamente vuota, in tutti o in una parte cospicua dei suoi settori, fa sempre una certa impressione e, se volete, anche tristezza naturalmente. Ma imbrattarla di una malizia - direi - di sapore qualunquistico, nel segno di un’antipolitica che possiamo considerare indifferentemente figlia o madre dell’antiparlamentarismo, non mi sembra cosa di cui potersi vantare. E tanto meno scambiare per uno scoop. Si dirà in difesa di questi altri “attivisti” - per rimanere nel solco del direttore di Domani a proposito dei primi imbrattatori- che la seduta di cosiddetto annuncio o arrivo di un decreto legge, da convocare entro cinque giorni, è imposta dall’articolo 77 della Costituzione in un testo concepito e scritto nella presunzione di una effettiva, reale straordinarietà e urgenza dello strumento “temporaneo” - dice anche questo la norma costituzionale - del decreto legge. Ma il deposito, annuncio e quant’altro di simile non significa discussione e votazione in aula, essendo di due mesi il tempo lasciato alle Camere dalla stessa Costituzione per l’approvazione, conversione o come altro volete chiamare il sì del Parlamento. Questo lo capisce anche un alunno di prima elementare, senza bisogno di arrivare all’Università e alla laurea in legge, e tanto meno alla cattedra. Se il livello di alfabetizzazione giuridica è sceso così in basso nella politica sia di chi la fa sia di chi la racconta e la commenta, è forse il caso di modificare l’articolo 77 della Costituzione con precedenza assoluta, prima di arrivare alle vette del presidenzialismo, e sue varianti, riproposto dalla presidente del Consiglio. Che vi è arrivata peraltro non per prima come da donna a Palazzo Chigi- ma per ultima in una lista di presidenzialisti aperta già nell’Assemblea Costituente dal giurista e azionista Piero Calamandrei. Questo lo ricordo anche a quelli che in questo 2023 appena cominciato hanno l’aria di salire in montagna, come i padri o nonni partigiani della Resistenza, se davvero si dovesse arrivare all’elezione diretta del Presidente della Repubblica, o del Consiglio. Strage di Erba. Ecco cosa non torna nella condanna di Olindo e Rosa di Valentina Stella Il Dubbio, 5 gennaio 2023 Tanti i punti oscuri: dalle pressioni degli inquirenti all’ambiguità delle tracce ematiche nella macchina di Olindo, fino ad arrivare a una confessione piena di contraddizioni. “Sono passati sedici anni dalla strage di Erba, ci sto riflettendo parecchio in questi giorni. Forse è arrivato il momento di fare un po’ di chiarezza”. A parlare all’Adnkronos è Olindo Romano, condannato all’ergastolo in concorso con la moglie Rosa Bazzi con l’accusa di aver ucciso Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Dal carcere di Opera si proclama innocente mentre il suo legale Fabio Schembri, insieme ai colleghi Nico D’Ascola, Luisa Bordeaux e Patrizia Morello, sta lavorando a una richiesta di revisione del processo alla luce di “nuove prove e un testimone chiave”. Persino il marito di Raffaella, Azouz Marzouk, li ritiene estranei ai fatti, benché in un primo momento i due confessarono, per poi fare un passo indietro. Sulla loro colpevolezza ci sono molti dubbi, soprattutto relativamente a tre elementi, centrali per giungere alla loro condanna. 1. Il racconto dell’unico testimone della tragedia, Mario Frigerio - Colpito con un fendente alla gola e creduto morto dagli assalitori, riuscì a salvarsi grazie ad una malformazione congenita alla carotide che gli impedì di morire dissanguato. Vi riproponiamo un estratto della consulenza effettuata nel 2010, su richiesta degli avvocati al professor Piergiorgio Strata, neuroscienziato di fama internazionale e accademico italiano. A lui, in qualità di studioso nel campo della memoria, fu chiesto un parere sulla testimonianza fornita da Frigerio: è affidabile il ricordo di una persona che ha fornito una prima versione dei fatti, versione che si è andata poi progressivamente modificando nel tempo durante gli ulteriori interrogatori avvenuti sia nei giorni immediatamente successivi sia a distanza durante il dibattimento? Per la Corte di Assise “a sostegno della presunta “assoluta attendibilità del teste” si dice che “le sue dichiarazioni hanno progredito nel tempo a più riprese senza mai mostrare incongruenze logiche interne e senza mai mostrare contraddizioni tra una versione e l’altra”. Per il professor Strata non è così. Come leggiamo nella sua relazione “nel primo interrogatorio del 15 dicembre da parte del PM Dott. Pizzotti, il teste Frigerio risponde con precisione e lucidità alle varie domande e poi descrive il suo aggressore di carnagione scura (poi precisa olivastra) capelli corti, tanti capelli corti, grosso di stazza, capelli neri. Inoltre, su precisa domanda risponde di non aver mai visto prima quella persona. Fra l’altro tra il 15 ed il 20 dicembre 2006 il Sig. Frigerio dirà al figlio Andrea di poter riconoscere lo sconosciuto aggressore tramite identikit o fotografia segnaletica. Trattandosi di fatti raccontati a pochi giorni dagli eventi questa memoria va considerata la più genuina e affidabile”. Il teste “non aveva il minimo dubbio che l’aggressore fosse persona a lui sconosciuta. Partendo dal presupposto che il teste non abbia mentito, il contenuto di questa testimonianza va considerata come altamente affidabile”. Tutto cambia con un altro interrogatorio reso al Luogotenente Gallorini. “All’inizio dell’interrogatorio l’interrogante chiede: “Lei conosce Olindo il suo vicino di casa? Che abita nella palazzina lì vicino?” Frigerio? “Sì lo conosco di vista” Int. “Cioè non ..l’ha…cioè…lo sa come è fatto? Cioè … lo saprebbe riconoscere insomma?” Inter. “Voglio dire se avesse visto Olindo lo avrebbe riconosciuto’” Frigerio? “Non posso essere” Inter.?” ..sto dicendo “ Frigerio? “No..” Inter? “Diciamo per assurdo però lo dobbiamo fare (inc.) Se Lei avesse avuto di fronte l’Olindo…avrebbe saputo che era Olindo…” Frigerio “Penso di sì” Inter? “Pensa di sì, ma non è sicuro … Di questa figura nera di fronte, di cui lei ha parlato nelle precedenti occasioni “ Frigerio? (inc.) Inter. “non è in grado di escludere che sia alcuno che potrebbe essere uno conosciuto da lei e che non abbia riconosciuto?” Frigerio (questo sì) Inter? “Quindi Lei la persona l’ha guardata?” Frigerio? “Sì” Inter? “… però potrebbe non averla riconosciuta” Frigerio? “… caratteristiche “ Inter. - “Le caratteristiche ma non in modo preciso”“. Per il professor Strata “questo pressante esercizio di immaginazione avvenuto nell’interrogatorio da parte del Luogotenente Gallorini sulla figura di Olindo ed il ripetuto tentativo di insinuare un dubbio costituisce la più potente arma per falsificare il ricordo. Il valore della testimonianza del Sig. Frigerio, il quale ha sicuramente sempre agito in buona fede, richiede di essere valutata con molta cautela. Dall’esame del materiale in mio possesso non risulta che il teste Frigerio abbia fatto dichiarazioni “senza mai mostrare contraddizioni fra una versione e l’altra”. La seconda versione deve ritenersi sicuramente influenzata dall’invito a meditare sulla possibilità che l’aggressore fosse il Sig. Olindo Romano. La seconda versione, quindi, non può avere un peso determinante agli effetti di un’eventuale condanna, mentre la prima versione va considerata altamente affidabile”. 2. La traccia di sangue presente nell’auto di Olindo - Attribuita a Valeria Cherubini, una delle vittime, essa ha rappresentato uno dei pilastri della Pubblica Accusa. Infatti, la Procura ha sostenuto (con successo) che quella traccia ematica sia stata trasportata nell’auto dei Romano da Olindo, dopo aver calpestato il sangue delle vittime per le aggressioni mortali da lui stesso provocate. Per il biologo forense Eugenio D’Orio, incaricato di condurre le indagini biologiche e genetiche per conto di Azouz Marzouk, ovvero della parte offesa, “ la “traccia di sangue” non esiste! Quella traccia biologica, che appartiene alla vittima Cherubini, è certamente non di provenienza ematica. Una cosa è dire che c’è sangue della vicina di casa barbaramente uccisa nell’auto di Olindo, altra cosa, diametralmente opposta, è dire che c’è DNA della tua vicina di casa nell’auto, ma che questa traccia è, con certezza, non-sangue. Il che esclude, a priori, che questa sia una “prova del delitto”“. Inoltre non si esclude che sia finita lì a causa del via vai di persone che hanno attraversato la scena del crimine. 3. La confessione: anche gli innocenti confessano - Secondo il National Registry of Exonerations (Registro Nazionale delle Assoluzioni, progetto realizzato dalla University of California Irvine, the University of Michigan Law School and Michigan State University College of Law), il 27% delle persone nel registro che sono state accusate di omicidio hanno rilasciato false confessioni e l’81% delle persone con malattie mentali o disabilità intellettive hanno fatto lo stesso quando accusate di omicidio. Per quanto riguarda Olindo e Rosa, come disse uno dei legali, Nico D’ Ascola, “è vero che i Romano confessano la loro responsabilità, ma lo fanno sulla base di una ricostruzione dei fatti nella quale l’avvocato Schembri è stato capace di individuare ben 384 contraddizioni rispetto alla realtà dei fatti che risulta da prove oggettive e accertate”. Per chi fosse interessato, segnaliamo una approfondita inchiesta de Le Iene, a cura di Antonino Monteleone. Piemonte. 319 posti non disponibili nelle 13 carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 gennaio 2023 Dal settimo dossier, presentato dal garante regionale Bruno Mellano, sulle criticità strutturali e logistiche degli istituti piemontesi emerge che ci sono spazi, stanze, locali, trascurati, sottoutilizzati o del tutto inutilizzati. “Ci sono spazi abbandonati perché piove dentro e non ci sono i soldi per riparare. Torniamo a insistere di fare un monitoraggio e una valutazione perché questi soldi vengano usati bene con un’idea progettuale”, ha affermato Bruno Mellano, il garante dei detenuti della regione Piemonte, durante la presentazione di fine anno del settimo dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi. Infatti, mentre ancora si parla di costruire nuove carceri, rimane il problema di come spendere i fondi per ristrutturare i penitenziari già esistenti. Nel dossier redatto dal garante regionale, emerge che appare una necessaria e urgente completa e attenta ricognizione degli spazi presenti nelle 13 strutture penitenziarie per adulti del Piemonte e nel carcere minorile di Torino. Si apprende che spesso spazi, stanze, locali, magazzini, depositi, cortile, pur esistenti, risultano trascurati, sottoutilizzati o del tutto inutilizzati, potrebbero essere opportunamente recuperati o convertiti per le attività formative, scolastiche, lavorative, sanitarie, di socialità, sportive, culturali o ricreative. Il dossier sottolinea che, come si è già verificato, anche in Piemonte, un attento monitoraggio degli spazi può portare concrete e positive sorprese: troppo sovente locali che hanno perduto la propria originaria funzione finiscono per diventare nel complesso di una struttura che vive nell’emergenza e nel turbinare delle figure apicali, un deposito dimenticato o una porta chiusa. Il dossier osserva che ogni programma di ristrutturazione o di riorganizzazione, ma anche di costruzione o di adeguamento, deve essere preceduto da una rigorosa analisi del patrimonio esistente. Alcuni dati sviscerati dal dossier aiutano a capire meglio. Ad esempio a fine luglio 2022 in Piemonte risultavano ben 269 camere di pernottamento non utilizzabili, corrispondenti a ben 319 posti “temporaneamente” non disponibili nelle 13 carceri per adulti: si tratta della dimensione di un istituto penitenziario di media grandezza. La stessa emergenza pandemica, con le urgenze legate all’isolamento sanitario e alla separazione della popolazione detenuta, ha fatto emergere risorse e spazi sottoutilizzati o non più utilizzati, spingendo - in alcuni casi - ad un recupero, almeno temporaneo. Ma i progetti interessanti non mancano. “Abbiamo un intervento straordinario sul minorile di Torino da 25 milioni e mezzo - ha spiegato il garante Mellano durante la presentazione del dossier - noi chiediamo che sia attentamente studiata una progettazione architettonica e urbanistica per l’intero compound del Ferrante Aporti”. Per Mellano “ci sono delle progettazioni molto interessanti della Regione Piemonte sullo sportello lavoro e sportello multiservizi, sugli agenti di rete che chiederanno alle carceri piemontesi nei prossimi mesi di avere spazi, uffici, ambiti di incontro e colloquio con i detenuti. Occorre davvero che l’amministrazione penitenziaria nazionale (Dap) e l’amministrazione regionale facciano uno sforzo per mettere agli operatori gli strumenti per poter lavorare”. E ha sottolineato: “Le criticità sono tante, le strutture sono vecchie, obsolete e usurate dal sovraffollamento. Paradossalmente nei nostri istituti ci sono progetti di eccellenza, alcuni in fase di avvio. Voglio citare Agorà di Alessandria che è uno spazio innovativo da tre anni in partenza”. Non solo. “Non possiamo tollerare ulteriormente questo spreco di spazio e risorse. Per esempio non è tollerabile scoprire che ad Asti ci sono 5 stanze nell’area infermieri che non vengono utilizzate”, ha denunciato il Garante regionale. Bologna. Le condizioni del carcere della Dozza: 759 detenuti, pochi medici bolognatoday.it, 5 gennaio 2023 Sono i dati forniti da Monica Mischiatti e Gemma Gasponi del Partito Radicale, che ieri hanno effettuato una visita all’interno della Dozza soffermandosi in particolare sulla sezione femminile. Nel carcere di Bologna sono presenti 759 detenuti, di cui 682 uomini e 77 donne. Le persone tossicodipendenti sono 301: 280 uomini e 21 donne. Non ci sono, al momento, minori. Sono i dati forniti da Monica Mischiatti e Gemma Gasponi del Partito radicale, che ieri hanno effettuato una visita all’interno della Dozza soffermandosi in particolare sulla sezione femminile. Il dato delle presenze “è definito di leggero sovraffollamento- afferma Mischiatti in conferenza stampa- perché il numero ordinario sarebbe di 502 unità. Naturalmente ci sono due persone per ogni cella e sono rispettati i tre metri quadrati per detenuto escluso il bagno, quindi tutte le normative sono state rispettate da questo punto di vista”. Però, aggiunge Mischiatti, “ci sono delle criticità che ci portiamo dietro da sempre, perché questo è un carcere che dovrebbe essere completamente ristrutturato, sicuramente per quello che riguarda la parte maschile che abbiamo visitato in agosto”. Mentre la sezione femminile presenta una “situazione assolutamente ideale: il carcere dovrebbe essere tutto così”, afferma Mischiatti. In particolare, spiegano le due rappresentanti del Partito radicale, la visita ha dato l’opportunità di un lungo colloquio con il responsabile medico e il responsabile dei servizi psichiatrici. Il reparto psichiatrico della sezione femminile è “assolutamente ben organizzato”, riferisce Gasponi, mentre in generale l’aspetto sanitario all’interno del carcere presenta “un problema di inidoneità degli spazi e di insufficienza del personale dedicato alla cura e all’assistenza. Non è una colpa delle persone che fisicamente lavorano dentro”, il punto è che l’organizzazione anche normativa di questo campo “limita fortemente” la presenza di personale specializzato. “E’ un problema di budget? Di filosofia politica? Non lo so”, continua Gasponi, ma di certo alla Dozza “l’Ausl è sottodimensionata, anche se tenta con le unghie e con i denti di approntare qualcosa di efficiente, così come possiamo dire essere in atto per quanto riguarda la sezione psichiatrica femminile”. Una condizione “che però si auspica possa essere estesa come regime di garanzia del presidio medico-sanitario e dell’assistenza ai tossicodipendenti, ai malati in generale a quelli psichiatrici- sottolinea Gasponi- a tutta la popolazione penitenziaria. Che rimane popolazione, cioè rimangono persone: una cosa che forse dovremmo tutti ricordare quando si parla di carcere duro, reati ostativi e di una punizione che invece deve tendere alla rieducazione, quindi non può prescindere da una corretta organizzazione delle risorse anche in campo sanitario e assistenziale”. Infine, “una nota positiva e negativa insieme è quella relativa alla presenza dell’asilo”, continua Gasponi. “Le condizioni sono buone e le sale anche ben pensate, addirittura alcune non hanno le sbarre alle finestre”, riferisce Gasponi, dando “un po’ quell’illusione di non essere in carcere”. Ma detto ciò, la presenza di minori nei penitenziari è “un elemento di penalizzazione eccessivo sul quale tutti, a partire dal legislatore- continua la rappresentante del Partito radicale- dovrebbero iniziare a un momento di riflessione”. Si dice che le colpe dei padri non ricadono sui figli ma in questi casi “invece ci ricadono”, aggiunge Gasponi, nonostante “l’estrema cura delle aree dedicate all’eventuale presenza di minori”. Per i prossimi mesi, il Partito radicale si impegna a visitare l’istituto minorile del Pratello: lì “la situazione è veramente critica”, afferma intanto Mischiatti. Parma. Presidio di Potere al Popolo davanti al carcere: solidarietà ad Alfredo Cospito La Repubblica, 5 gennaio 2023 Si è tenuta oggi davanti al carcere di via Burla la conferenza stampa di Potere al Popolo con Marta Collot, portavoce nazionale, in solidarietà a Alfredo Cospito, detenuto a Sassari, e contro il regime di detenzione del 41 bis. “Cospito, militante anarchico accusato di strage contro la sicurezza dello Stato, condanna cui non si è fatto ricorso neanche per la strage di Bologna né per gli attentati di Capaci e via D’Amelio è in sciopero della fame da circa 70 giorni. Con la sua lotta sta denunciando una situazione di utilizzo strumentale del regime di tortura da parte dello Stato italiano che gli ha inflitto l’ergastolo ostativo, dopo 10 anni di pena già scontata, condannandolo al fine pena mai, con l’accusa, tra le altre, smentita dalla stessa Corte d’Appello, di essere al vertice di un’organizzazione anarchica operante sul territorio nazionale”, scrive Potere al Popolo in una nota. “La stessa amministrazione del carcere di Parma è stata accusata, anche recentemente, di scarsa cura verso le condizioni igienico-sanitarie dei detenuti, che in gran parte si trovano già in precarie condizioni di salute. Il carcere di Parma infatti è dotato di un servizio di assistenza integrato che però dispone solo di 16 posti, a fronte di una maggiore richiesta. A più riprese i detenuti denunciano anche la mancanza di acqua calda e riscaldamento, oltre che la generale carenza di personale educativo e sanitario. Oltre a portare solidarietà ad Alfredo Cospito ed opporsi al regime 41 bis, Potere al Popolo chiede condizioni dignitose per i detenuti”. Milano. Come si vive nel Centro per rimpatri: “È un carcere senza i diritti dei detenuti” di Simone Giancristofaro fanpage.it, 5 gennaio 2023 Dentro i centri per il rimpatrio dei migranti le condizioni di vita sono pessime e alle persone in attesa di partire non è garantito alcun diritto. A dicembre vi avevamo raccontato della protesta di un uomo tunisino, trattenuto nel Cpr di Milano (Centri di permanenza per i rimpatri), che si era cucito la bocca con un filo di ferro e che gli era stato rimosso dagli agenti di polizia senza l’intervento di un medico (qui la sua testimonianza con il video dell’aggressione). A Milano c’è un movimento di attivisti e associazioni, riuniti sotto la sigla di “Mai più lager- No ai CPR” che si batte per la chiusura di questi luoghi, dove vengono trattenuti i cittadini stranieri che devono essere rimpatriati. Chi sta nei CPR è praticamente in carcere ma ci si trova per questioni amministrative. Giovanni Motta è un avvocato e un attivista di “Mai più lager - No ai CPR”. Quello di Milano si trova in via Corelli ed è in funzione dall’autunno del 2020. Per l’avvocato Motta “si tratta di razzismo istituzionale, ogni diritto viene calpestato ed è inesistente, dal diritto alla salute alla comunicazione”. “Chiunque è stato qui - continua Motta - ne parla come il periodo peggiore della sua vita, ti prendono di notte per portarti via” e metterti su un volo destinato al Paese di origine dello straniero, come è accaduto all’uomo che si era cucito la bocca, rimpatriato in Tunisia. Nei CPR ci sono solo stranieri, trattenuti in condizioni spesso anche peggiori del carcere, con l’aggravante però che si tratta di una detenzione amministrativa, ovvero un ossimoro. “Le condizioni igieniche sono terrificanti, abbiamo foto dei piccioni che mangiano dove dovrebbero mangiare i trattenuti, non c’è personale medico e paramedico, non si può chiamare liberamente”. I trattenuti, ci racconta l’avvocato Motta, dormono su materassi di gommapiuma, spesso hanno condizioni tali per cui non si potrebbe nemmeno stare in un posto come un CPR, per problemi fisici o mentali. “Qui non c’è gente che ha compiuto un reato, ci si trova in una struttura che è più severa del carcere, vogliamo che i diritti di chi finisce nei CPR siano tutelati con quelli di ogni altro cittadino”. San Gimignano (Si). Nel carcere di Ranza a due psicologi per detenuti e polizia penitenziaria di Claudio Coli Corriere di Siena, 5 gennaio 2023 Anche il personale del carcere sangimignanese di massima sicurezza di Ranza usufruirà del supporto di due psicologi pronti a supportare chi si trova a lavorare in un contesto, come si sa, particolarmente faticoso e complesso. Questo grazie al progetto dell’Azienda ospedaliera universitaria fiorentina di Careggi, finanziato con 24 mila euro per un anno dalla Regione Toscana, che prevede il coinvolgimento di due psicologi psicoterapeuti, i quali saranno impegnati in consulenze psicologiche, individuali e di gruppo, per il personale delle carceri toscane, quello di Sollicciano e Gozzini e Firenze, del Don Bosco a Pisa e come detto di San Gimignano, in Val d’Elsa. I professionisti saranno negli istituti una volta a settimana, mentre una mattina e un pomeriggio ogni sette giorni svolgeranno consulenze telefoniche o in videochiamata, con rapporti periodici da consegnare al centro di riferimento regionale sulle criticità relazionali. “L’iniziativa intende rispondere con un’azione specifica al disagio di chi lavora negli istituti penitenziari” fa sapere la Regione Toscana, che ricorda di essere da anni impegnata sul tema, avendo nel 2012 attivato un osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria, organismo di monitoraggio a cui partecipa il Centro regionale sulle criticità relazionali, in particolare per ciò che riguarda il benessere ambientale ed organizzativo e la prevenzione e gestione di eventi critici nelle carceri. “E’ un progetto sperimentale - aggiunge il direttore del carcere di San Gimignano Giuseppe Renna - avviato lo scorso anno e a cui è stata data continuità. Un’iniziativa importante a supporto del personale del carcere, basti pensare al fatto che a livello nazionale le carceri italiane registrano un altissimo numero di suicidi, fra i detenuti ma anche nel personale, e questa è una grossa problematica”. Con l’inizio del 2023 si può tracciare un breve bilancio di come è stato vissuto l’anno da poco concluso nella casa circondariale valdelsana, in precedenza al centro di alcune questioni che l’hanno portata alla ribalta della cronaca, come ad esempio il caso del presunto pestaggio di un detenuto tunisino da parte di alcuni agenti. I sindacati della Polizia Penitenziaria in questo 2022 hanno segnalato alcuni episodi relativi all’intercettazione di alcuni oggetti non autorizzati giunti all’interno della struttura e destinati ai reclusi, circa 272 soggetti di cui 269 definitivi, per la gran parte con alle spalle reati legati all’associazione mafiosa. “Nell’ultimo anno la situazione è stata relativamente tranquilla, diciamo non allarmante - sottolinea il direttore - i detenuti hanno però subito l’assenza di permessi premio e di misure alternative in attesa dell’entrata in vigore della nuova riforma sull’ergastolo ostativo”. La priorità assoluta per il 2023 è avere più operatori in servizio (sono 154 al momento): “Dobbiamo rimpolpare l’organico della Polizia Penitenziaria - sottolinea Renna - c’è carenza e dal 2019 abbiamo perso 30 elementi”. Approvvigionamento acqua ed energia, da tempo due talloni d’Achille della struttura, il punto: “Per quanto riguarda l’approvvigionamento idrico stiamo costruendo un nuovo pozzo dell’acqua, per cui il problema è parzialmente risolto - evidenzia il direttore - per l’energia invece lavoriamo a dei progetti per ottenere un risparmio dei consumi”. Roma. Turista ferita a Termini, Prefettura e Campidoglio: il piano per trasferire tutti i clochard di Luisa Monforte Corriere della Sera, 5 gennaio 2023 Il Comune riqualificherà nove stabili con i fondi del Pnrr in modo da aumentare i posti a disposizione per i senza fissa dimora. Non più solo a Termini. Anche in altre zone della città ci saranno strutture per ospitare i senzatetto di sera e di notte. Il Centro di accoglienza gestito dalla Caritas in via Marsala non chiuderà, ma nel corso dell’ultima riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, presieduto dal prefetto Bruno Frattasi, si è discusso - dopo l’accoltellamento della studentessa israeliana - di aumentare il numero dei ricoveri. Ipotesi che adesso sarà vagliata dal Campidoglio.  “Il Centro di via Marsala è in convenzione con Roma Capitale e lo spazio è messo a disposizione della Caritas da Ferrovie dello Stato, non c’è nessuna intenzione di spostarlo”, conferma l’assessora alle Politiche sociali, Barbara Funari. “Il Centro Caritas e Binario 95 a Termini danno una risposta a chi ha un problema sociale e di alloggio - aggiunge -. Sono due spazi che servono a diminuire il fenomeno dei senza fissa dimora che stazionano in strada. Chiuderli non è la risposta giusta. Dobbiamo invece aumentare l’accoglienza”.  Per farlo il Campidoglio, in collaborazione con l’Istat, avvierà a febbraio un nuovo censimento dei senzatetto. L’ultima rilevazione risale al 2014, anno in cui furono conteggiati circa ottomila clochard. Tuttavia, considerando che nel 2022 ben 22mila persone si sono rivolte, per diversi motivi, ai servizi sociali comunali, è credibile che il numero dei senzatetto sia aumentato. “Purtroppo a Roma, e in tutta Italia, la povertà cresce ed è normale che chi scivola improvvisamente in una condizione estrema cerchi rifugio nei luoghi più frequentati della città, ad esempio le stazioni ferroviarie”, osserva Funari.  Al momento l’idea della giunta Gualtieri è quella di ampliare i posti di accoglienza notturna - almeno quattromila entro il Giubileo del 2025 - riqualificando nove immobili inutilizzati attraverso i bandi del Pnrr. Un numero che appare limitato rispetto alle stime sulla povertà crescente ma che, secondo l’assessora, “potrebbe essere sufficiente: bisogna considerare l’accoglienza notturna come transitoria. Si sta in una struttura per sei oppure otto mesi e poi si viene avviati al reinserimento nella società, attraverso il lavoro. In questo modo c’è un ricambio”.  Per questo entro quest’anno il Campidoglio conta di partecipare ai bandi Pnrr con l’obiettivo di destinare all’accoglienza nove immobili, in altrettante zone della città. Per uno, il complesso edilizio noto come “Ex colonia Vittorio Emanuele di Ostia”, è già pronto il progetto. Per un altro, l’ex albergo noto come “Casa del passeggero” in via del Viminale, zona Castro Pretorio, si attende una risposta positiva dalla Regione Lazio per acquisirlo a patrimonio capitolino. Altra valutazione in corso riguarda la parte inutilizzata di alcuni uffici del ministero della Difesa, nei dintorni della stazione Termini e di piazza dei Cinquecento. Sempre entro la fine dell’anno, inoltre, sarà aperto un infopoint in piazza dei Cinquecento, uno spazio in cui intercettare le persone bisognose di accoglienza e avviarle a un percorso di reinserimento sociale e lavorativo. “Sicurezza significa proteggere da malintenzionati turisti e passeggeri, ma anche i più deboli: per questo è necessario presidiare la stazione non soltanto con le forze dell’ordine ma anche con strutture di accoglienza”, conclude Funari. Torino. Storie di riscatto: esce il primo numero de “Il Ferrante”, il mensile del carcere minorile di Irene Famà La Stampa, 5 gennaio 2023 La redazione è composta da adolescenti su cui nessuno ha mai scommesso. Questa è la loro scommessa, riuscire a mettere su carta il loro mondo e comunicarlo. A Torino c’è un mensile, “Il Ferrante”, che dà voce ai giovani detenuti. Un giornale “pensato, studiato e realizzato” al di là delle sbarre del penitenziario minorile di Torino. “Un ampliamento dell’offerta formativa” per chi è recluso, certo. Ma anche e soprattutto un’opportunità per raccontare sogni, difficoltà, rabbia, speranze e riflessioni di chi, non ancora maggiorenne, è in cella. Qualcuno sconta una pena, i più sono sottoposti a misura cautelare. Il primo numero de “Il Ferrante. Idee e pensieri in movimento” la realtà carceraria dei più giovani la riassume a pieno tra reportage sui progetti educativi e interviste all’autorità. Quell’autorità che rappresenta un nemico, un ostacolo alla libertà, ma anche un punto di riferimento e di confronto. E così nelle interviste a Simona Vernaglione, direttrice del Ferrante Aporti, e a Mara Lupi, comandante della polizia penitenziaria, domande personali sulle loro origini o piatti preferiti si alternano a quelle sul loro lavoro e sul futuro del carcere. Che poi è il futuro di chi, da recluso, si è misurato con il giornalismo. E c’è una frase, una “libertà letteraria” dell’autore dell’intervista, che racchiude tutti questi sentimenti: “Abbiamo fatto vedere un cortometraggio realizzato parecchi mesi fa. Mi è piaciuto, speriamo di poter utilizzare di più quell’area, quel teatro, e fare molte cose belle”. Il giornale del carcere è una scommessa, lo strumento per riflettere e riscattarsi. Così, tra le pagine, c’è un servizio sull’inaugurazione del teatro, uno spazio polivalente che da un lato ospiterà attività di aggregazione e laboratori, dall’altro sarà aperto al quartiere e alla città. Con i detenuti che andranno in scena, si esibiranno davanti al borgo e cucineranno per gli spettatori. E ancora. Una riflessione sul cambiamento climatico e la questione ambientale, recensioni di film, un’intervista a un detenuto che “ce l’ha fatta”: in carcere ha imparato a cucinare, si è diplomato all’alberghiero e ora insegna dispensa ricette culinarie e di vita. Il progetto è ambizioso. Per il contesto in cui nasce, per le tematiche che pone e per gli obiettivi che vuole raggiungere, come un’intervista al sindaco o alla procuratrice capo dei minorenni. La redazione è composta da quegli adolescenti su cui nessuno ha mai scommesso nulla, quei ragazzi scomodi e violenti accusati di rapine, aggressioni, omicidio, stupro. La scommessa è dare loro occasione di riflessione, come quell’articolo sugli effetti del crack che scrivono in prima persona. E in questo primo numero si legge: “La scrittura ha un ruolo importante e molto meno noioso di quello che si immagina”. Milano. Malati psichiatrici e detenuti insieme per condividere emozioni Famiglia Cristiana, 5 gennaio 2023 Nel carcere di Opera venti detenuti e cinque pazienti della Fondazione Sacra famiglia lavorano insieme a progetti sulla lavorazione del legno delle barche dei migranti. Fondazione Sacra Famiglia e dell’Associazione in Opera hanno coinvolto persone con disabilità o patologie psichiatriche e i detenuti in attività ricreative di confronto e condivisione all’interno del carcere. Quest’anno il progetto - che si sta concentrando sull’importanza delle emozioni, da cui prende il nome Emozioni in Opera - vede la partecipazione di cinque utenti del Centro diurno psichiatrico Il Camaleonte della Fondazione Sacra Famiglia e di circa venti detenuti, di origini italiane e straniere, all’interno del carcere di Milano-Opera.  Le attività sono cominciate seguendo l’impostazione dei percorsi terapeutici del Centro Il Camaleonte, con momenti di scambio tra i due gruppi, che hanno avuto modo di conoscersi e confrontarsi sulla percezione reciproca dell’altro, sulle proprie emozioni e su parole chiave che favorissero il dialogo, la conoscenza e l’empatia. Sono seguiti poi momenti pratici che hanno visto i partecipanti ormai affiatati impegnarsi insieme per costruire presepi e strumenti musicali all’interno del Laboratorio di Liuteria e Falegnameria della Casa di reclusione. Pazienti e detenuti hanno potuto lavorare un materiale particolare per le proprie creazioni: presepi e strumenti sono stati infatti ricavati dal legno di alcune imbarcazioni di migranti, trasportate dal molo Favarolo di Lampedusa all’interno delle carceri per essere trasformati in oggetti di speranza grazie alla collaborazione con Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti. Le testimonianze dei partecipanti al progetto sono state raccolte da Fondazione Sacra Famiglia e dall’Associazione In Opera che hanno rilevato la condivisa soddisfazione e il beneficio emotivo ricavato dalle attività da parte di entrambi i gruppi.  Barbara Migliavacca, responsabile del Centro diurno psichiatrico Il Camaleonte di Fondazione Sacra Famiglia, ha sottolineato: “È stato molto emozionante per tutte le persone che vivono questo progetto e per tutte quelle che contribuiscono a realizzarlo. Progressivamente, abbiamo visto le barriere abbassarsi e le distanze accorciarsi tra i due gruppi. I benefici del percorso per entrambi nascono proprio dalla prossimità e dalla vicinanza emotiva che si crea. Per le persone detenute, così come per gli ospiti di Fondazione Sacra Famiglia che hanno accolto, il progetto è un’esperienza importante che aiuta ad affinare la capacità di relazionarsi in modo costruttivo ed empatico con il prossimo, oltre che a riappropriarsi di quella percezione di senso e utilità che ogni persona ha bisogno di attribuire alle proprie azioni”. Italia a mano armata, fra reticenze e retorica di Emanuele Giordana Il Manifesto, 5 gennaio 2023 Un percorso costellato da tre studi per capire meglio quantità e qualità dell’industria degli armamenti, fra export e mercato interno. Il 2023 porta in dote agli italiani con la Legge di bilancio un nuovo incremento complessivo della spesa militare con circa settecento milioni in più destinati all’acquisto di nuovi armamenti. Ma non è certo il mercato interno a fare da traino al settore industriale armato del made in Italy, che si distingue per la presenza di Leonardo e Fincantieri tra i primi cento grandi produttori mondiali. Per capire quantità e qualità dell’industria degli armamenti italiana tre saggi illuminano il comparto, sia dell’export sia del mercato interno, disegnandone i lati spesso oscuri e controversi attraverso i quali il nostro Paese mette assieme a spaghetti e mandolini blindati e fucili, elicotteri e pistole. Armi grandi e piccole, apprezzate da molti eserciti del pianeta e piuttosto diffuse anche nel Belpaese. Un settore importante per la guerra ma in realtà ben meno rilevante di quanto si pensi come contributo nazionale in termini economici. Ne “Il Paese delle armi” (Altreconomia, euro 15), Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal), di Rete Pace e Disarmo e firma nota de il manifesto, scrive che “l’Italia è il Paese delle armi… (ma anche) delle opacità e delle reticenze, dei silenzi e delle connivenze: atteggiamenti mirati soprattutto a nascondere i fatti - e i dati - ma perfettamente funzionali per alimentare la retorica”. Retorica sulla sicurezza ovviamente ma anche sul valore Paese dell’industria delle armi. Importante? Niente affatto. Tanto per cominciare la produzione di armi e munizioni ad uso civile, sbandierata come settore trainante, vale circa lo 0.05% del Pil: l’equivalente del settore giocattoli escludendo i videogiochi. Molti occupati? Nemmeno: non supera i 3.500 addetti (diecimila con terzisti e settori ausiliari) e il dato è in calo: siamo allo 0,03% su scala nazionale. Gran parte del saggio di Beretta è dedicato al ruolo che hanno nel Belpaese la vendita di armi e le leggi che dovrebbero regolarla e di come dovrebbe funzionare la responsabilità aziendale e la regolamentazione delle licenze. Il libro Crisi globali e affari di piombo (Seb27, pp. 128, euro 15) riprende molti di questi temi, ma se Beretta approfondisce il mercato nazionale, Futura D’Aprile affida il ruolo centrale del suo saggio all’analisi dell’export militare autorizzato dall’Italia tra il 2015 e il 2021, rilevando le incongruenze tra “scelte politiche dei governi e leggi che regolano questo tipo di esportazioni”, così che Roma “continua a fornire materiale militare a Paesi in guerra… sfruttando cavilli legali e zone grigie”. Un’opacità, registrata anche da Beretta, con sauditi ed egiziani, con la Turchia di Erdogan, con la Libia, il Turkmenistan o il Pakistan. Opacità che si nutrono di triangolazioni, aggiramento delle regole sul transito, cavilli legali per alimentare un “sistema economico finanziario militarizzato - scrive Alex Zanotelli nella prefazione a D’Aprile - che sta facendo guerre a non finire per avidità e bramosia”, trasformando “l’homo sapiens in homo demens”. Anche D’Aprile decostruisce: la vendita di armi militari è rilevante ma “costituisce meno dell’1% del Pil, meno dello 0,7% dell’export e meno dello 0,5% in termini di occupati”. Potremmo farne a meno. Il terzo saggio riguarda invece la presenza delle armi nucleari nel nostro Paese: è uno studio realizzato dalla International Association of Lawyers Against Nuclear Arms per sondare la possibilità di ricorrere - in appoggio all’azione politica - alla via giudiziaria, nazionale o internazionale, contro la detenzione di armamento nucleare sul nostro territorio. Lo studio di “Abbasso la guerra”, a cura di Elio Pagani e Ugo Giannangeli (“Parere giuridico sulla presenza di armi nucleari in Italia”, pp. 185, euro 18, Pressenza/Multimage), cui hanno contribuito gli avvocati di Ialana Italia, ricorda che oggi nel mondo vi sono circa 13.400 testate nucleari e nuove sono in fase di sviluppo. E che sono cinque i Paesi Nato sul territorio europeo a detenere armi nucleari: tra questi l’Italia, con le basi di Aviano (Veneto) e Ghedi (Lombardia), con almeno una quarantina di ordigni nucleari B61 (che ufficialmente non esistono). Inoltre Ghedi ha ampliato le sue strutture per ospitare i nuovi caccia F35 (dovremmo acquistarne novanta, ognuno per 155 milioni di euro) in grado di trasportare nuove testate atomiche ancora più pericolose (le B61-12). La ricerca, che analizza lo stato dell’arte delle leggi nazionali, dei trattati internazionali e delle campagne per la denuclearizzazione, conclude che “la presenza delle armi nucleari sul territorio italiano potrebbe avere rilevanza penale e comportare la responsabilità penale di chi ha importato e di chi possiede sul territorio italiano ordigni nucleari”, ipotizzando “una denuncia/querela” che spinga a un’indagine sulle eventuali responsabilità. Anche di queste potremmo davvero farne a meno. Basta braccianti schiavi: i fondi della Ue per la lotta al caporalato di Paolo Riva Corriere della Sera, 5 gennaio 2023 In Italia si stimano fino a 180mila lavoratori reclutati illegalmente. In arrivo misure a difesa dei diritti legate alle politiche agricole. Un decreto contro lo sfruttamento. E aiuti dal Pnrr per gli alloggi. Cinque arrestati a Foggia l’undici novembre. Quattro misure cautelari eseguite in provincia di Viterbo il giorno prima. Altri due arresti ad Argenta, nel Ferrarese, il quattro novembre. L’accusa è sempre la stessa: intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Cioè, caporalato. Nell’agricoltura italiana, è ancora un problema. Lo ha confermato anche un’indagine conoscitiva della Camera dei deputati. “Il fenomeno del caporalato rappresenta una forma di sfruttamento lavorativo che interessa diversi settori produttivi (quali, in particolare, i trasporti, le costruzioni, la logistica e i servizi di cura), ma che si manifesta con particolare forza e pervasività nel settore dell’agricoltura”, si legge nel documento. “Lo sfruttamento - prosegue l’indagine pubblicata lo scorso anno - si sostanzia in forme illegali di intermediazione, reclutamento e organizzazione della manodopera”. In pratica, le persone sfruttate, spesso straniere, vengono reclutate in maniera illegale, lavorano tanto e vengono pagate poco. Il tutto con contratti non rispettati o inesistenti. Senza tutele e diritti. Il problema, per sua natura, è difficile da quantificare. Le stime vanno dai 160 ai 180mila lavoratori in tutta Italia. Anche all’estero - Lo scorso aprile, per esempio, è arrivata la prima condanna per caporalato nel Nord Ovest, giunta con una sentenza di primo grado del Tribunale di Cuneo. Il fenomeno, quindi, per quanto radicato al Sud, è ormai nazionale. E anzi, non tocca solo il nostro Paese. “È legato ai problemi sistemici che riguardano la catena agroalimentare da decenni”, spiega Enrico Somaglia, vicesegretario generale di Effat, la Federazione europea dei sindacati dei settori alimentari, agricoltura e turismo. “In certe regioni di Spagna e Grecia - prosegue - il fenomeno esiste ed è storico Ma non è una questione solo dell’Europa Meridionale: abbiamo riscontrato delle forme di caporalato anche in Germania ed episodi di sfruttamento persino in Svezia”. A problema europeo potrebbe corrispondere una soluzione europea, o quanto meno qualche strumento in più per affrontarlo. Uno di questi è la cosiddetta condizionalità sociale, che legherà i fondi per gli agricoltori elargiti dalla Politica agricola comune Pac al rispetto dei diritti dei lavoratori. Si tratta di una novità, che tutti gli stati Ue dovranno obbligatoriamente inserire nel loro ordinamento dal 2025 oppure, volontariamente, già dall’anno prossimo. Proprio come farà l’Italia. La scelta era già stata fatta dal governo Draghi ed è stata confermata dall’attuale esecutivo Meloni. “Tolleranza zero verso chi pensa che in Italia gli esseri umani possano essere trattati come schiavi”, ha dichiarato il neo ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida nel giorno in cui ha firmato il relativo decreto interministeriale. “Il provvedimento - spiega il Ministero in una nota - ha l’obiettivo di garantire idonee condizioni di lavoro, tutelare le norme di salute e sicurezza all’interno delle aziende agricole, nonché contrastare il caporalato e il fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori del settore”. La “condizionalità sociale” - Onofrio Rota, segretario generale della Fai-Cisl, ha dichiarato che si tratta di “un’ottima notizia per il mondo del lavoro”. Somaglia di Effat concorda, ma mette in guardia. “È importante - avverte - che il Governo investa nei controlli e, soprattutto, che le sanzioni che verranno decise siano proporzionate, efficaci e dissuasive”. Il decreto sulla condizionalità sociale dovrebbe essere approvato a breve ma l’entità delle sanzioni per la mancata applicazione del provvedimento verranno decise solo in seguito e saranno quelle a renderlo efficace, oppure no. Un altro strumento per contrastare il caporalato è incluso nel Pnrr. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, finanziato dall’Ue, ha stanziato 200 milioni di euro per “il superamento degli insediamenti abusivi dei braccianti agricoli”, luoghi dove si vive in condizioni estremamente precarie e dove il reclutamento illegale è molto più facile. Gli insediamenti - Secondo una ricerca commissionata dal Ministero del Lavoro, sarebbero almeno 10mila i lavoratori agricoli, in larghissima parte stranieri, che vivono in insediamenti informali privi di servizi. I fondi del Pnrr serviranno proprio per “il recupero di soluzioni alloggiative dignitose” per queste persone. Lo scorso aprile, le risorse sono state distribuite tra i trentasette comuni con gli insediamenti più ampi o storici. Tra i centri che riceveranno più fondi spiccano Manfredonia e San Severo in provincia di Foggia e Ispica nel ragusano, ma sono inclusi nella lista anche altri nomi saliti più volte alle cronache nazionali come Rosarno, Castel Volturno e Latina. Le attività sono ancora da avviare e, stando al cronoprogramma del Pnrr, dovranno essere completate almeno al 90 per cento entro marzo 2025. La clava giudiziaria del Qatar usata contro i paladini dei diritti di Iuri Maria Prado Il Riformista, 5 gennaio 2023 La Mani Pulite europea è diventata un grande ordalia per fare a pezzi la cooperazione internazionale e semplificare ciò che non è affatto semplice. Nessuno dice che in nome del fin di bene si debbano tollerare o mandare assolti i casi di corruzione e illecito arricchimento personale di cui i recenti scandali europei avrebbero reso evidenza. Ma tutti dovrebbero capire che quando alcuni casi di probabile malversazione diventano - ed è ciò che sta succedendo - l’espediente per destituire di legittimità interi settori e diffuse comunità della cooperazione internazionale, allora e ancora una volta non ci si rivolge all’accertamento della verità e alla sanzione dei possibili illeciti, ma all’ennesima opera di moralizzazione per via giudiziaria che non risana nessun diritto e ne sacrifica molti, non ripristina nessun ordine e li disarticola tutti, non chiarisce nulla e intorbida tutto in un mare di chiacchiere onestamente demagogiche. Ma, accanto a queste considerazioni per così dire generali, un’altra e specifica mi pare urgente e del tutto trascurata in un dibattito che più provinciale non si può: e cioè che il lavorìo diplomatico e politico nei rapporti con ordinamenti autoritari, dittatoriali e di sistematica violazione dei diritti umani è molto diverso rispetto a quello che corre quando si ha a che fare con il governo di un Paese cosiddetto civile e democratico. In quell’ambito, l’operatore agisce sempre e per definizione in zona grigia, sul crinale di una legalità approssimativa e nel pericolo inevitabile di essere lambito da faccende apparentemente poco raccomandabili. Per capirsi: se non devo discutere di tutela dei cetacei con un plenipotenziario scandinavo, ma di lapidazioni e mani mozzate con un autocrate africano, ben può darsi che per ottenere qualche limitazione di quello scempio io debba chiudere un occhio su qualcos’altro, ben può darsi che io decida di concedere qualcosa che in un salotto europeo farebbe alzare il sopracciglio dell’osservatore civile, figurarsi quello del moralista togato. È questa una realtà che ormai decenni di storia della cooperazione internazionale e umanitaria dovrebbero aver insegnato, e se è vero che negli interstizi ambigui di quel mondo, di quella complessa e multiforme realtà, si coltivano anche interessi illeciti, è vero altrettanto che proprio in quelle aree d’ombra si esercitano attività - di allocazione di risorse, di scambio di informazioni, di intelligence - senza le quali non si sarebbero raggiunti risultati importantissimi nella tutela della vita e dei diritti di moltissimi: altrimenti assistiti, si fa per dire, dalle perfezioni di una legalità completamente inerte. Guardare la questione da questo punto di vista significa mandare dove merita l’obiezione facile secondo cui i borsoni pieni di soldi non servivano in questo caso a fermare lo scudiscio sulla schiena delle adultere, ma a prenotare il resort da novemila euro a notte. Obiezione che avrebbe un senso, appunto, se qui si trattasse di sanzionare specifici casi di comportamenti illeciti e non, piuttosto, della generalizzata e generalizzante criminalizzazione di un ambito delicatissimo che riguarda i rapporti tra gli Stati, il posizionamento delle organizzazioni non governative, l’immensa rete di relazioni e investimenti rivolti faticosamente a insinuare diritti e miglioramenti di vita dove questa e quelli non valgono nulla. Il tutto, sulla base del supponente approccio da Mani Pulite poliglotta che smonta l’Europa come un giocattolo e la rimette nel canale dell’onestà. Israele. Il governo Netanyahu è il peggiore mai esistito: i focolai di guerra potrebbero estendersi di Fabio Marcelli* Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2023 Guai a sottovalutare il grido d’allarme lanciato da oltre trecento rabbini statunitensi, i quali hanno recentemente affermato che il governo Netanyahu costituisce un grave pericolo per l’immagine di Israele nel mondo attraverso prese di posizione ed azioni estremiste che costituiscono “un anatema per i principi della democrazia”. Si tratta in effetti del peggior governo israeliano mai esistito che fa scivolare ulteriormente il Paese medio-orientale nel pantano del fascismo dichiarato. Il suo programma è chiaro: espandere ulteriormente gli illegittimi insediamenti coloniali nei Territori palestinesi occupati, rafforzare il regime di apartheid autorevolmente denunciato da Amnesty International, continuare quel che ritengo un feroce genocidio a dosi omeopatiche contro il popolo palestinese e specialmente i suoi giovani, rilanciare la tensione nell’area fino allo scatenamento di una guerra contro l’Iran e mettere la museruola ai giudici, sia quando in qualche modo tentano di attenuare l’oppressione contro i Palestinesi che cozza contro ogni più elementare principio dello Stato di diritto, sia quando vorrebbero mettere in galera qualche corrotto, tra i quali ovviamente lo stesso Netanyahu è in pole position. Si possono ravvisare in effetti vari elementi di similitudine fra questo programma e quello del governo Meloni e soprattutto quello dell’avversione contro i giudici che devono essere messi a tacere qualora si azzardino a indagare sui politici. Chissà che fra il neofascismo di stampo sionista di Netanyahu e l’ambiguo postfascismo di Meloni non sia ipotizzabile una sostanziale convergenza. Le ipocrite lacrimucce di Giorgia nella sua visita alla Comunità ebraica romana non valgono certo a rimuovere le pesanti complicità del regime fascista nella Shoah. E occorrerebbe sempre ricordare come nella repubblichina di Salò il ruolo di ministro addetto alla Difesa della Razza fosse ricoperto da quel Giorgio Almirante che è stato il fondatore e massimo leader del Movimento Sociale, oggi apertamente osannato se non, per motivi di opportunità, dalla Meloni, da esponenti di primo piano del suo governo e del suo partito, come La Russa, Rauti junior ed altri. Siamo passati da Giorgio a Giorgia, ma non può certo dirsi che l’animale sia mutato, se non forse in superficie. Ieri si appoggiava e aiutava con entusiasmo lo zio Adolfo concorrendo allo sterminio di, secondo alcune stime, oltre diecimila ebrei italiani. Oggi, con altrettanto entusiasmo, i postfascisti meloniani sostengono il governo dello zio Benjamin, che si propone di estendere e rendere ancora più sistematico il massacro dei Palestinesi da parte dello Stato di Israele che negli ultimi anni ha ucciso a sangue freddo centinaia di Palestinesi inermi. Personalmente ho sempre criticato i parallelismi tra la Germania del Terzo Reich e l’Israele attuale, tanto più che la ricerca di nuovi Hitler per giustificare le guerre è sempre stato un inquietante tratto caratteristico dei pessimi media occidentali, ma non c’è dubbio che coll’ascesa al trono di Netanyahu sia stato compiuto un ulteriore passo nella direzione dell’autoritarismo, e quindi si tratta di regime che va isolato nell’interesse dello stesso popolo israeliano e della comunità ebraica internazionale. C’è poi un aspetto del servilismo dell’attuale governo italiano nei confronti del regime israeliano che colpisce particolarmente riproponendo il motivo già accennato della repulsione nei confronti dei giudici e dello Stato di diritto, ed è quello costituito dal no dell’Italia a una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che chiede alla Corte internazionale di giustizia di pronunciarsi nuovamente sulle conseguenze dell’occupazione israeliana della Palestina. In tal modo il governo Meloni, tramite il suo impresentabile ministro degli Esteri Tajani, ha schiaffeggiato millenni di tradizione giuridica, dal Corpus juris giustinianeo all’importante dottrina internazionalista simboleggiata da giuristi come, fra gli altri, Roberto Ago e Gaetano Arangio Ruiz. Si è trattato di un’ulteriore coltellata alla schiena alla pace e alla giustizia da parte di un governo già schierato al guinzaglio di Stati Uniti e Nato nella corsa ventre a terra verso la perpetuazione a tempo indeterminato della guerra in Ucraina, dalla quale Biden & C. stanno traendo benefici di ogni genere. Si può essere facili profeti affermando che l’insediamento del governo di Netanyahu preluda a nuove pericolosissime estensioni dei focolai di guerra verso una deflagrazione generalizzata che ogni giorno che passa pare più inevitabile e più probabile. La sostanziale impunità di cui i governi israeliani godono da troppo tempo, nonostante le loro politiche disumane che violano norme internazionali di importanza fondamentale costituisce un elemento decisivo di questa situazione drammatica. E su questo come su altri piani il governo postfascista della signora Meloni sta dando il suo pessimo contributo. *Giurista internazionale