La Costituzione ha 75 anni, è ora che entri in carcere di Franco Corleone Il Manifesto, 4 gennaio 2023 Proprio mentre il 31 dicembre il Presidente della Repubblica Mattarella pronunciava il tradizionale discorso di fine anno, richiamando tra tante cose anche i valori della Costituzione, centinaia di detenute e detenuti in regime di semilibertà rientravano a dormire in carcere dopo due anni di licenza straordinaria e di ineccepibile dimostrazione di reinserimento. Il governo e il Parlamento sono stati sordi di fronte all’appello dei garanti per il rispetto del principio di progressività nel trattamento penitenziario. D’altronde non c’è da aspettarsi senso di umanità da parte di chi proclama di voler essere garantista nel processo e giustizialista nel carcere e alza la bandiera della certezza della pena. A questi bisogna ricordare la lezione di Alessandro Margara. L’art. 27 della Costituzione rappresenta il fondamento di una concezione della pena non vendicativa e non è un caso che anche in questa legislatura sia stata presentata una proposta per modificarlo cambiandone il segno. Se la modifica dovesse entrare nel confronto politico reale, oltre che essere una bandiera di propaganda, mi auguro che la voce di Mattarella si alzerà forte e chiara. Fra pochi giorni si insedierà il nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il dottor Giovanni Russo, fino ad ora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia. La scelta del ministro Nordio rientra nella tradizione di affidare quel delicato ruolo a magistrati, preferibilmente a pubblici ministeri. Aspettiamo dunque alla prova dei fatti le intenzioni e l’impostazione che verrà data. Dirigere il sistema carcerario è un compito gravoso per la complessità della macchina amministrativa da riorganizzare a livello centrale e periferico, ma soprattutto per rispondere alle contraddizioni poste da una vasta detenzione sociale che si è manifestata drammaticamente con il record di suicidi l’anno scorso. Una grande riforma del carcere è indilazionabile e davvero si sa tutto quel che si dovrebbe fare. Si vedrà presto se l’ambizione sarà all’altezza dei problemi o se si sceglierà la strada della gestione burocratica a difesa delle corporazioni. A Udine per il nuovo anno il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e due associazioni, Icaro e Società della Ragione, hanno preparato e diffuso un Calendario intitolato “Oltre i muri”, destinato ai detenuti, alla polizia penitenziaria e a tutto il personale e al volontariato, con la scelta di dodici articoli della Costituzione, le immagini della storia della repubblica, alcune poesie dell’Italia civile per accompagnare un anno di grande impegno per la ristrutturazione del carcere, in particolare per la creazione di un polo culturale e formativo. L’idea è di costruire una diversa concezione del tempo che in galera è un tempo vuoto: un luogo che non sia caratterizzato dal nulla e dal senza, soprattutto senza speranza. I fronti prioritari su cui si dovrà impegnare la rete dei garanti e il movimento delle associazioni per la giustizia vanno dalla applicazione integrale e aggiornata del Regolamento del 2000, alla risposta ai problemi della salute mentale (senza nostalgie manicomiali), alle pene alternative sul territorio per la popolazione detenuta classificata come tossicodipendente. Occorre anche una risposta per chi è condannato a pene brevi o a chi è a fine pena: evitare che le persone stiano fino all’ultimo giorno in carcere è davvero un investimento sociale contro la recidiva. La proposta di costruire “case di reintegrazione sociale” per questi soggetti, con una gestione affidata ai sindaci, rivisitando l’esperienza delle case mandamentali, rappresenta una strada che vale la pena di sperimentare per abbattere il sovraffollamento e aiutare a sanare le ferite sociali. Insomma, una prassi ricca di fantasia e originalità può segnare la differenza. Carceri, il Ministero si prepara alle rivolte? money.it, 4 gennaio 2023 La risposta alla crisi delle carceri italiane: ordinati 8.500 caschi antisommossa e scudi protettivi. Sempre più calda la situazione nelle carceri italiane e i motivi non mancano. Le carceri italiane sono perennemente sovraffollate: i detenuti sono quasi 57.000 ma i posti regolamentari sono solo 51.000. Il sovraffollamento delle carceri italiane costringe in media oltre 105 detenuti a vivere nello spazio assegnato a 100 persone. Un vero e proprio record europeo secondo la panoramica statistica delle divergenze nelle condizioni carcerarie tra gli Stati Ue pubblicata della Commissione europea: l’Italia nel 2021 si è collocata tra gli otto Paesi Ue con una densità media delle carceri superiore ai 100 detenuti ogni 100 posti. Peggio di noi solo Romania (119,3), Grecia (111,4), Cipro (110,5) e Belgio (108,4). A tutto ciò si aggiunge il dramma dei suicidi. Nel 2022 sono stati 84 i detenuti che si sono tolti la vita dietro le sbarre: il precedente primato negativo era del 2009, quando in totale furono 72. Ma all’epoca i detenuti presenti erano oltre 61.000, 5.000 in più di oggi. Un altro segnale del disagio che cova nelle carceri italiane è lo stato di salute dei detenuti. Nel 2022, all’8,7% dei detenuti è diagnosticata una patologia psichiatrica grave mentre il 18,6% assumeva regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi e ben il 42,4% sedativi o ipnotici ed il 18,9% erano tossicodipendenti in trattamento. Il Ministro della Giustizia Nordio ha di recente ammesso l’impossibilità di avere nuove e più dignitose strutture carcerarie durante le comunicazioni sulle linee programmatiche del Dicastero in Commissione al Senato: “L’Italia non è la California dove puoi costruire un carcere in sei mesi con dei moduli prefabbricati in mezzo al deserto. Qui ci vogliono dieci anni per fare un carcere se va bene, se poi le fai a Venezia o Roma trovi un coccio etrusco o veneziano e gli anni diventano venti”. L’unica risposta alla crisi delle carceri, in assenza di una seria riforma e di fondi adeguati, non resta che quella del pugno di ferro. E in tutta fretta il Dipartimento amministrazione penitenziaria, che gestisce le carceri italiane, ha ordinato 8.500 caschi protettivi antisommossa e da ordine pubblico (Importo di aggiudicazione: euro 1.778.709,15 oltre Iva) e 8.500 scudi protettivi rettangolari antisommossa e da ordine pubblico (importo di aggiudicazione: euro 2.037.875,00 oltre Iva). Un messaggio abbastanza chiaro che prelude ad un 2023 piuttosto teso dietro le sbarre. “Il caso Beccaria evidenzia il disagio post Covid degli istituti minorili” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 4 gennaio 2023 Per il criminologo Adolfo Ceretti “dopo l’emergenza pandemica la tensione è aumentata. È fondamentale la realizzazione dei percorsi di giustizia riparativa”. La fuga, il giorno di Natale, di sette giovani detenuti dal carcere minorile di Milano “Cesare Beccaria” ha riportato alla ribalta il tema delle condizioni di vita negli istituti penali minorili. “I riflettori - spiega al Dubbio Adolfo Ceretti, ordinario di Criminologia nell’Università di Milano- Bicocca, coordinatore del gruppo di lavoro per l’attuazione della riforma Cartabia in tema di giustizia riparativa - si sono accesi quando sono emersi fatti drammatici, che però erano già stati ampliamente osservati e monitorati dal Dipartimento di Giustizia minorile e di Comunità”. Quanto accaduto il 25 dicembre scorso è il risultato di una serie di situazioni sedimentatesi dopo l’emergenza pandemica. “L’allarme sulla situazione critica all’interno di tutti gli Ipm d’Italia, non solo il “Beccaria” di Milano - afferma Ceretti - è scattato ben più di un anno fa, quando, dopo il periodo Covid, in cui negli istituti è prevalsa, inaspettatamente, una sorta di bonaccia, sono emerse vecchie e nuove criticità. Dopo l’emergenza pandemica, con il progressivo normalizzarsi della vita all’esterno negli Ipm, al contrario, la tensione, fino a quel momento contenuta, è lentamente ma inesorabilmente salita. Tutti i problemi che si erano congelati durante i mesi più duri del Covid si sono presentati con delle modalità fino ad allora quasi inedite. Abbiamo così assistito sempre più spesso da parte degli adolescenti in conflitto con la legge ad atteggiamenti di insubordinazione nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria, agli incendi di materassi e delle camere di pernottamento, fino ad arrivare alle violenze interpersonali. Fatti che hanno toccato le sensibilità di tutti gli operatori e della dirigenza degli Istituti penali minorili. Ragion per cui il Dipartimento di Giustizia minorile ha prontamente attivato dei gruppi di lavoro per studiare i mutamenti repentini ai quali abbiamo assistito nelle carceri minorili”. I fatti del Beccaria non sono al tempo stesso il sintomo di una sottovalutazione della giustizia penale minorile. Secondo il professor Ceretti non è stata trascurata negli ultimi anni. “Nel 2017 - aggiunge - ho fatto parte della Commissione che ha contribuito a redigere il Dlgs 121/18, che disciplina, come è noto, l’esecuzione delle pene nei confronti dei minorenni. Dopo decenni di attesa, finalmente, è entrato in vigore l’ordinamento penitenziario minorile. L’apposita Commissione istituita dall’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha portato a termine un lavoro complesso, che, oltre ad introdurre le misure penali di comunità, ha rivolto molta attenzione all’intervento educativo all’interno degli istituti. L’articolo 2 del Decreto, nel delineare le regole e le finalità dell’esecuzione, si sofferma sul favorire i percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato. Nello specifico, si intende favorire la responsabilizzazione, l’educazione e il pieno sviluppo psico-fisico del minorenne. Tutto finalizzato all’inclusione sociale e alla prevenzione di ulteriori reati, mediante percorsi di istruzione, formazione professionale ed educazione alla cittadinanza attiva responsabile. Ogni istituto avrebbe dovuto redigere un regolamento interno, ispirato a questi principi. Ma l’avvento del Covid ha rallentato anche questo iter. Recentemente, interpellato dal Dipartimento, ho insistito molto sul fatto che all’interno degli istituti venga promossa nei confronti dei minori una “responsabilità riflessiva”. Un altro tema che Adolfo Ceretti tiene a porre all’attenzione riguarda il rapporto tra la giustizia riparativa e le carceri minorili. “Anche la giustizia riparativa - commenta l’accademico - va pensata nel solco tracciato da queste parole. Sostanzialmente, essa non può, di fatto, divenire uno strumento per delegare ai mediatori “funzioni di controllo” all’interno di un istituto. La giustizia riparativa, che si concretizza secondo alcuni principi ormai ben noti, si pensi alla partecipazione consensuale, alla confidenzialità, alla valorizzazione della dimensione relazionale, alla riparazione come ricucitura di una relazione interrotta, può operare proficuamente con riferimento allo svolgersi della vita intramuraria solo se tutti coloro che compongono questa particolare “comunità sociale”, mi riferisco ai detenuti, al personale di polizia penitenziaria, agli educatori, al direttore, al personale amministrativo, si rendono disponibili a essere potenzialmente coinvolti nei cammini di pacificazione. In buona sostanza, sono questi alcuni orientamenti che vedo necessari per contrastare il momento così drammatico che gli Istituti stanno vivendo”. Fuga dal Beccaria. Quei “ragazzi Papillon” chiedono anche a noi di oltrepassare i muri del carcere di Antonella La Morgia  Voci di Dentro, 4 gennaio 2023 La fuga di sette ragazzi dal carcere minorile Beccaria non andrebbe letta come la conseguenza di cosa mancava- e avrebbe dovuto esserci - al penitenziario in cui erano reclusi. Cioè, l’assenza di punti vulnerabili di cui è stato facile approfittare: le impalcature e le protezioni di un cantiere nell’edificio i cui lavori non erano terminati. O la scarsa sorveglianza degli agenti per un organico insufficiente. D’accordo. Mettiamo più personale di polizia a guardarli come cani e pastori un gregge. Oggi solo a qualche illuminato direttore, ai cappellani, ai pochi educatori e ancora ai sempre meno numerosi volontari va riconosciuta la lodevole missione - laica o evangelica che sia - di riprendere quelle vite smarrite, come pecore. E mettiamo muri più alti, a chiudere ancora più aria, luce, cielo di quanto non filtri, per sognare di rubarli nel giorno di Natale.  Questo episodio piuttosto che evidenziare cosa mancava, ci dice invece cosa c’era in quel carcere. Spesso, quasi sempre, cosa c’è in ogni carcere. Solitudine, vuoto, negazione di diritti diversi da quell’integrità della libertà personale che la pena detentiva principalmente aggredisce, poi però portandosi dietro molte altre e afflittive privazioni, che investono affetti, occupazioni, direzioni e impegni, aspettative, desideri, interessi. Era stato già Mauro Palma, il Garante Nazionale, a denunciare nella sua relazione annuale al Parlamento il problema del tempo. “Il tempo della sottrazione di libertà non può essere un tempo vuoto” aveva detto, precisando che la finalità rieducativa sancita nell’art 27 della Costituzione non va intesa come “un’indicazione di politica penale, ma è la concretizzazione di un diritto soggettivo della persona reclusa”. Questi giovani, davvero così giovani, ancora o poco più che adolescenti, hanno sì compiuto un gesto estremo e questo Natale con la loro fuga da film hanno voluto che la luce della cometa indicasse a noi la loro “capanna” e illuminasse il carcere. Quel luogo che nemmeno gli 85* detenuti suicidi (erano 79 nel momento in cui a giugno il Garante riferiva alle Camere) hanno potuto mettere sotto i riflettori e l’attenzione seria della stampa nazionale. Un luogo dove se non si vede la speranza di un domani, si preferisce alla paura dello stesso domani la morte (dopo la quale non si può rischiare nulla) o i rischi - anche molti - della fuga. È stata una cine-evasione, come hanno scritto alcuni giornali, che ci ricorda il celebre Papillon e molti altri titoli di una lunga filmografia. Se non fosse che colpevoli di evasione siamo anche noi. Lo siamo dal compito e dal dovere di occuparci dei carichi che se non sono residuali, da sempre fanno parte di quanto “scartiamo”, perché in fondo il carcere è questo (gabbia o discarica) del e nel nostro immaginario collettivo. Stando così le cose, uscire da lì nuovi, recuperando se stessi, è solo questione di eroismo, la fortunata coincidenza di legami che si incontrano in un dentro che vuole isolare, alienare, confinare mente e corpo delle persone e un fuori che ci prova ad accogliere. E troppe poche volte ci riesce, per un’infinita serie di ostacoli. Dalla scarsità delle risorse alla difficile collaborazione delle istituzioni, fino agli stessi limiti del privato sociale quando non qualificato e deresponsabilizzato, fino quasi alla resa per citare chi, proprio in questi giorni, esorta a non incensare il Terzo settore ma lo invita all’autocritica. Non da lì dentro a fuori, come hanno fatto i ragazzi nella loro fuga, ma da fuori a dentro dobbiamo tutti oltrepassare quei muri del carcere. Per entrarvi, guardarlo e interrogarci molto e ancora di più, e da parte di chi non lo fa abbastanza. Su cosa? Sul suo senso, non solo per i più giovani, come si sta facendo, non senza retorica, in questi giorni. Si interroghino non già le persone che da anni e ogni giorno lo fanno: operatori, volontari, agenti, direttori. Ma oltrepassi i muri chi manca all’appello di questo sguardo di attenzione. Uno sguardo che questa fuga, i suicidi, le parole mai ascoltate dei garanti, degli studiosi, le voci che da quel dentro escono e pochi ascoltano chiedono a noi, alla società. Un invito forte. Più che mai un grido d’allarme. *Dati ricavati da Dossier di Ristretti “Morire di carcere” con l’aggiunta di A. Arben che viene contato tra i suicidi del 2021 (31 dicembre), mentre è il primo del 2022 come indicano le agenzie di stampa. Il viaggio nelle carceri di Ilaria Cucchi: “A Pesaro situazione d’emergenza” Il Dubbio, 4 gennaio 2023 La senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra ha visitato a sorpresa il penitenziario marchigiano dove nel 2015 morì suicida Anas Zenzami. “Ieri, 2 gennaio 2023, ho effettuato la terza visita di quello che sarà un lungo viaggio all’interno delle carceri italiane. Ispezione a sorpresa all’Istituto Penitenziario Villa Fastiggi di Pesaro dove moriva di burocrazia Anas Zenzami, suicida il 25 settembre 2015”. Lo scrive su Facebook la senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi. “Per questa morte la Corte Europea ha messo sotto accusa lo Stato italiano sia per la drammatica inadeguatezza dell’assistenza sanitaria fornita al detenuto sia per le inaccettabili modalità con le quali è stata esercitata l’azione giudiziaria. Ma anche perché nel settembre 2021, Villa Fastiggi è stata teatro di una eclatante protesta di circa 50 agenti di Polizia Penitenziaria che iniziavano uno stato di agitazione per “pessima gestione del personale e dell’istituto”, “pessime condizioni strutturali degli edifici”, “intollerabile presenza di numerosi pazienti con malattie psichiatriche rilevanti che non possono essere curati nell’ istituto per carenza di mezzi e personale”, “grave carenza di organico”. Ho trovato una situazione che definire di emergenza è dire poco. Proteste di detenuti ed agenti sono rimaste inascoltate”. “Perdite d’acqua non riparate da anni, muri devastati da umidità e muffe, pazienti psichiatrici parcheggiati come fossero pacchi accatastati nei magazzini delle grandi imprese logistiche. Privati del diritto alla salute ed alla dignità. Tossicodipendenti abbandonati a sé stessi. Strutture funzionali e ricreative fatiscenti, per usare un’espressione benevolente, prosegue Cucchi. Tutto questo di fronte ad un personale che cerca disperatamente di fare quello che può. Detenuti e Personale penitenziario che, nella narrazione ignorante e superficiale di qualcuno, sarebbero schierati gli uni contro gli altri. E invece non è così. Progetti di rieducazione i cui finanziamenti vengono persi perché non utilizzati. Non, quindi, carenza di fondi, ma addirittura mancata utilizzazione di quelli che sarebbero disponibili. Approfondirò questi argomenti. Andrò fino in fondo. In questi giorni la direttrice era in ferie. Peccato, perché avrei tanto voluto chiederle come si fa a rimanere indifferenti ed inerti di fronte a tutto ciò. Avrei voluto ricordarle che i detenuti non sono carne da macello. Mentre al signor Ministro delle infrastrutture, Matteo Salvini, che dice che le carceri vanno messe in sicurezza rispondo: vada all’Istituto Penitenziario Villa Fastiggi di Pesaro signor Ministro! Venga con me che le mostro quel che si deve fare. Le chiedo un po’ del suo tempo. In fin dei conti il carcere di Pesaro è a pochi chilometri dal luogo delle sue notissime vacanze estive rivierasche”, conclude Cucchi. A digiuno da 75 giorni. I silenzi dello Stato sulla protesta di Cospito di Luigi Manconi La Repubblica, 4 gennaio 2023 Dal 21 ottobre l’anarchico si trova nel carcere di Sassari e rifiuta il cibo contro il 41-bis. Dal 2009 già 4 detenuti morti così. Quando si fa lo sciopero della fame, di fame si può anche morire. Questa elementare consapevolezza sembra del tutto assente da quel tanto di riflessione che ha suscitato il digiuno intrapreso dall’anarchico Alfredo Cospito, a partire dal 21 ottobre scorso, contro il regime di detenzione speciale del 41-bis, cui è sottoposto nel carcere di Bancali (Sassari). L’atteggiamento che prevale è un altro. C’è un tratto del carattere nazionale che oscilla tra un disincanto assoluto che si fa efferatezza e un consumato scetticismo che diventa amoralità. È la maschera italiana che non prende mai nulla troppo sul serio, nemmeno le tragedie e i grandi processi sociali: non le istituzioni né il cambiamento climatico, né il voto politico; e che - in odio al “buonismo” - come il Franti di De Amicis “burla perfino Robetti, quello della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato un bambino”. C’è qualcosa di questo dietro il silenzio che circonda la vicenda di Cospito, motivato innanzitutto da una diffusa diffidenza verso lo strumento dello sciopero della fame: “tanto mangiano di nascosto” e “al massimo dimagriscono un po’“. Sì, in effetti, Cospito è dimagrito di 35 chili. È ormai nell’undicesima settimana di digiuno, assume solo acqua, un po’ di sale e miele e qualche integratore e registra una alterazione dei sali minerali e un forte calo di potassio.  La cosa non ha prodotto alcun interesse presso la classe politica, a parte le interrogazioni presentate da un pugno di parlamentari, e presso l’amministrazione penitenziaria, ulteriormente indebolita da un cambio di vertice. Si dà per scontato che la vicenda sia destinata a finire nell’oblio, ma è sufficiente scavare negli archivi per avere qualche sorpresa. Dal 2009 a oggi sono state ben quattro - Sami Mbarka Ben Gargi, Cristian Pop, Gabriele Milito, Carmelo Caminiti - le persone che hanno perso la vita facendo del proprio corpo l’estrema posta in gioco di una battaglia contro ciò che si riteneva una ingiustizia.  E questo solleva importanti questioni di diritto e di etica: può lo Stato assistere passivamente a questa forma di autolesionismo? Può l’individuo astenersi dal cibo fino a morirne? Deve lo Stato intervenire con una misura di autorità anche contro la volontà del soggetto? Si tratta, come è evidente, di problemi estremamente delicati, che chiamano in causa, per un verso, il fondamentale diritto all’autodeterminazione e, per l’altro, il principio della responsabilità dello Stato nel tutelare l’incolumità degli individui, tanto più se affidati alla sua custodia. A prescindere dalla risposta che ciascuno di noi sceglie di dare, emerge tutta l’importanza delle questioni che l’azione di Cospito pone, al di là delle sue convinzioni politiche e dei suoi precedenti penali, della sua concezione del mondo e del suo atteggiamento verso lo Stato, le istituzioni, il sistema democratico. La sua storia giudiziaria, infatti, presenta molte anomalie. In primo luogo, il fatto che Cospito è stato condannato per il reato di strage, pur se il suo atto criminale - l’invio di due pacchi bomba contro la Scuola Allievi Carabinieri di Fossano - non ha prodotto né morti né feriti. La qualificazione del reato come strage ha portato con sé sia la misura dell’ostatività (l’impossibilità di ottenere i benefici penitenziari e la liberazione condizionale) sia, appunto, il regime penitenziario differenziato, quello adottato in genere a carico dei membri della grande criminalità organizzata. L’istituzione del 41-bis risponde a una e una sola finalità: quella di interrompere i legami tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza. Ma, col tempo, la misura si è trasformata in un regime di reclusione particolarmente pesante, discriminatorio e afflittivo: fino al divieto, nel caso di Cospito, di tenere in cella le foto dei genitori defunti, se non dopo che fossero state riconosciute dal sindaco della località di residenza. E c’è un’altra questione giuridica di rilievo, al punto che la Corte di Appello di Torino ha disposto l’invio degli atti alla Corte Costituzionale - sono state rese note ieri le motivazioni - in base a un fondamentale principio del diritto contemporaneo: quello di proporzionalità. Il Tribunale chiede alla Consulta: esiste un rapporto equilibrato, congruo, proporzionato tra l’entità del reato commesso da Cospito e l’entità della pena inflittagli? Come si vede, il gesto dell’anarchico non riguarda solo l’interessato e la sua area politica: interroga, piuttosto, tutti noi in quanto cittadini di uno Stato di diritto, costantemente in affanno per adeguarsi ai principi che afferma. Cospito, per dirne una, trascorre la sua ora d’aria all’interno di un cubicolo chiuso da alti muri, dove la vista del cielo è consentita solo attraverso una grata. Probabilmente, sarebbe troppo definire questa condizione “un inferno”, come diceva Fëdor Dostoevskij a proposito dello stato delle carceri russe nel racconto Il Prete e il Diavolo. La scrittrice Emma Goldman - un’anarchica - ricorda quel testo di Dostoevskij nell’introduzione a un saggio sul sistema carcerario statunitense. Da allora, le condizioni sono mutate - enormemente mutate - ma una traccia di quell’“inferno” si ritrova tuttora nelle prigioni dei nostri sistemi democratici. Quell’appello inascoltato di Donatella, morta suicida in carcere a 27 anni di Davide Varì Il Dubbio, 4 gennaio 2023 Donatella era in carcere per un paio di furti. Poca roba, in realtà: qualche centinaio d’euro per comprare eroina. Donatella non era una criminale, era una tossica che rubava per assecondare la sua dipendenza. La verità, dunque, è che avrebbe dovuto alloggiare in una comunità di recupero e non in una prigione. Donatella si è uccisa quattro mesi fa. Era nella sua cella del carcere di Verona e ha inalato la bomboletta di gas del fornelletto. Lo fanno molti detenuti: è il modo più rapido, indolore ed economico per uccidersi. Quei giorni anche il giudice di sorveglianza chiese scusa: “Se in carcere muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente”, scrisse il dottor Vincenzo Semeraro. Un’amica di Donatella lesse quelle parole il giorno del suo funerale. Le lesse tutte d’un fiato e in chiesa piombò il silenzio. Prima di uccidersi, Donatella scrisse una lettera al fidanzato. Stavolta era lei che chiedeva scusa: “Perdonami, caro Leo - diceva -, sei la cosa più bella che mi poteva accadere e per la prima volta in vita mia penso e so cosa vuol dire amare qualcuno, ma ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei. Perdonami amore mio, sii forte, ti amo e scusami...”. Poi il silenzio. Ma oggi, a distanza di mesi, la voce di Donatella torna a parlare, a urlare. Lo fa attraverso un’altra lettera che era andata perduta ma che l’ostinazione amorevole di suo padre ha salvato dall’oblio. Donatella, pensate, non scrisse né a giudici né ad avvocati. La sua richiesta d’aiuto volle inviarla a Maria De Filippi: “Maria ti prego, ti chiedo di aiutarmi, voglio uscire fuori da tutta questa situazione, voglio smettere con la droga, voglio finire con il carcere, ma ho bisogno di qualcuno che mi dia una possibilità... Ho 26 anni, ho ancora una vita davanti, voglio sistemarmi, avere un futuro, riprendere i rapporti con la mia meravigliosa famiglia... Oggi ho la voglia, il coraggio di voler cambiare, voglio ricominciare e lasciarmi tutto alle spalle, ho bisogno di un aiuto, di trovare un lavoro... voglio vedere gli occhi di mia madre piangere nel vedermi realizzata e non perché sta soffrendo per colpa mia...”. Ma quella lettera non è mai arrivata a Maria De Filippi. La sua supplica, la speranza di poter avere una seconda possibilità è caduta nel vuoto. Lo stesso vuoto nel quale si è persa irrimediabilmente. Tutto questo accade nei giorni in cui 700 “semiliberi”, rientrano in galera dopo la fine delle misure anti Covid. Nonostante gli sforzi per ricominciare una nuova vita e i comportamenti esemplari, lo Stato ha infatti deciso di rinchiuderli di nuovo in cella. Questo accade perché, in spregio al fine rieducativo della pena, alcune esistenze sono considerate semplicemente irredimibili. Servirebbe l’afflato e la consapevolezza di un Cardinal Martini, il quale ripeteva: “La pena deve guardare sempre al futuro, è chiamata a svolgere una funzione pedagogica ed educativa ed è volta a sostenere un reale cambiamento della persona, anche di chi si fosse macchiato dei delitti più ripugnanti”. Ma così non è, e purtroppo ci ritroveremo ancora chissà quante Donatella alle quali dover chiedere scusa. Giustizia, centrodestra d’accordo ma non troppo sulle riforme da fare di Valentina Stella Il Dubbio, 4 gennaio 2023 “Ovviamente” quella della giustizia “è una materia delicata che va maneggiata con molta cura, però credo che questo governo, mettendo insieme le anime della sua maggioranza, abbia complessivamente una visione molto equilibrata di questa materia”. Queste le parole della premier Giorgia Meloni nella conferenza stampa di fine anno. Un patto solido sulla giustizia all’interno della maggioranza esiste: lo ha certificato un comune programma presentato per le elezioni dello scorso 25 settembre da parte di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia; lo hanno siglato pure in un colloquio Silvio Berlusconi e Carlo Nordio lo scorso 19 ottobre a Villa Grande. I temi sono quelli classici, come la separazione delle carriere, l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Ma quel patto e quegli equilibri all’interno delle forze di maggioranza sono a prova di bomba? Sarà infatti interessante capire se queste “anime” che sorreggono il governo nei prossimi cinque anni riusciranno a marciare compatte o verranno fuori delle possibili frizioni sui temi della giustizia declinata nei vari aspetti: esecuzione penale, riforma dell’ordinamento, modifiche ai codici di rito. Lo aveva detto qualche tempo fa il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin a questo giornale: “Ci troviamo per la prima volta con una coalizione di centrodestra sbilanciata più a destra che al centro. Con le ovvie conseguenze. Forza Italia sulla giustizia ha una storia molto diversa da quella di Fratelli d’Italia e della Lega”, per poi concludere: “Premesso che sosterremo convintamente il governo, sui temi della giustizia cercheremo di spingere per un maggiore garantismo”. E allora, ad esempio, Forza Italia aveva sostenuto, a differenza di Fratelli d’Italia, il referendum giustizia giusta promosso dal Partito Radicale e della Lega, che comprendeva anche un quesito contro l’abuso della custodia cautelare. Al 30 novembre, come riporta il ministero della Giustizia, c’erano in carcere 8.777 reclusi in attesa di primo giudizio e 7.281 condannati non definitivi. Forza Italia continuerà a battere su questo tasto o accantonerà il tema per non scontrarsi con l’azionista più forte della maggioranza? La stessa domanda vale anche per la Lega di Matteo Salvini. Nel programma elettorale di Forza Italia c’è poi l’abrogazione della legge Severino. Proposta sostenuta sempre dal Carroccio nei referendum. Tuttavia la posizione di Fratelli d’Italia è più morbida, come ci disse il senatore Sergio Rastrelli: “Guardiamo con interesse alla prospettiva di aprire con coraggio un confronto politico in Parlamento per perfezionare la legge Severino, anche attraverso un suo maggiore “orientamento costituzionale”, magari modellandone le articolazioni applicative, mantenendone però integro il principio di fermezza”. Un’altra sfida di Forza Italia è quella della depenalizzazione, auspicio anche di molta parte della magistratura. Eppure in passato l’attuale premier non aveva mostrato empatia sulla proposta: secondo Giorgia Meloni, l’Italia è l’unico Paese al mondo che cerca di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario “non costruendo nuove carceri” ma “togliendo reati”. Concetto ribadito qualche mese fa in una replica alla senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi che aveva sollevato il problema delle carceri: “La soluzione non è depenalizzare” aveva detto la Meloni. E meno di un mese fa c’era stato uno scontro tra Fi e gli altri due partiti di maggioranza su un possibile emendamento che prevedeva uno scudo penale per i reati fiscali. Non scordiamo neanche tutto il lavoro emendativo del partito del Cavaliere per migliorare il testo sulla nuova norma anti-rave, che pure in generale contraddice la strada della depenalizzazione. E che comunque è ritenuta da molti accademici, magistrati e avvocati illiberale se non addirittura incostituzionale. Non c’è del tutto compattezza altresì sulla questione del trojan. Come noto il senatore di Fi Zanettin ha presentato un disegno di legge per escludere l’impiego del captatore informatico nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione. Su questo il responsabile giustizia di Fd’I, il sottosegretario Andrea Delmastro delle Vedove, aveva detto alla Stampa che bisogna “iniziare a parlare a gennaio, valutando anche gli effetti della precedente normativa e poi i necessari aggiustamenti da fare”. Dunque d’accordo ma non troppo, si consiglia cautela. E pure Nordio aveva sostenuto che il trojan è una “porcheria”. E qui sorge l’altra domanda: quanto il ministro della Giustizia si sentirà sostenuto dalla maggioranza intera nei suoi desiderata? Ad esempio, la scelta di nominare il magistrato Giovanni Russo, già procuratore nazionale antimafia aggiunto, a capo del Dap e togliere la poltrona all’ex magistrato di sorveglianza Carlo Renoldi è stata del Guardasigilli (che aveva comunque paradossalmente speso parole di apprezzamento per lui) per avere accanto una persona con cui ha più sintonia o gli è stata imposta da Fratelli d’Italia e Lega che sulle carceri ribadiscono e rivendicano di avere una visione giustizialista? Sempre in tema di esecuzione penale l’ex pubblico ministero ha sempre sostenuto una posizione garantista: il carcere deve essere extrema ratio. Tuttavia il governo ha deciso di non prorogare i provvedimenti per i semiliberi assunti durante l’emergenza Covid. Una mossa considerata insensata da molti operatori della giustizia. Per terminare con la questione dell’ergastolo: al Corriere della Sera in una delle sue prime interviste Nordio disse che andrebbe abolito per poi presentarsi nella prima conferenza stampa del governo a difendere l’ergastolo ostativo. Tutto questo discorso, tutta questa serie di contraddizioni ci conduce a porci l’ultima domanda: quanto all’interno del centrodestra si condividono pienamente concetti come Stato di diritto, garantismo, rispetto dei diritti individuali? Parla Nordio: “Torni la prescrizione, no a processi infiniti” di Hoara Borselli Libero, 4 gennaio 2023 Carlo Nordio,75 anni, veneziano, ex pm, Ministro della giustizia, garantista. Ha accettato di rispondere a qualche domanda di Libero. Ministro, la vicenda Zaia-Crisanti dimostra che le intercettazioni sono più uno strumento di potere e di lotta politica che uno strumento di giustizia. Lei ha detto che vuole riformarle…. “Quando 10-15 giorni fa ho esposto il mio programma sulla rivoluzione copernicana delle intercettazioni, qualche anima bella del giornalismo e della politica ha detto: “Cosa dice Nordio? Ormai questa riforma è stata fatta da Orlando e queste cose non accadranno più. Io ho detto che non avevano capito niente, difatti oggi la questione è ritornata sui giornali. Le intercettazioni innanzitutto non danno nessuna garanzia di attendibilità perché non sono trascritte nella forma della perizia, sono estrapolate dal contesto, manca il tono, sono spesso pilotate e sono di solito selezionate da un maresciallo di polizia che sceglie ciò che vuole e poi trattate dal pubblico ministero che a sua volte prende quello che gli serve. È tutta una serie di porcherie che vengono indirizzate verso una persona per distruggerla più o meno politicamente. Io questo lo scrivo da 25 anni”. Quindi lei ritiene vadano abolite? “Vanno riformate radicalmente tenendo ferme quelle contro il terrorismo e la mafia, purché però siano ben individuati i reati di terrorismo e di mafia. Ormai in Italia si parla di mafia anche quando due buttano dei rifiuti nel cassonetto e si parla di mafia ecologica. Salvo quelle, tutte le altre vanno radicalmente cambiate e ridimensionate, responsabilizzando quelli che sono i tutori, i garanti per la loro segretezza. E appena viene vulnerata la libertà di espressione di un cittadino che si vede sbattuto in prima pagina con cose che magari non ha neanche mai detto, immediatamente bisogna individuare il responsabile e deve essere punito”. Riformare questo sistema di intercettazioni è il suo obiettivo? “Lo considero il mio cavallo di battaglia. Nel mio discorso programmatico che ho tenuto alla Camera e al Senato l’ho detto e ribadito come uno dei miei principali obiettivi”. La riforma delle riforme è la separazione delle carriere. Che però è una riforma costituzionale. Pensa che la maggioranza ce la farà? Non teme la capacità di condizionamento dell’Anm su interi settori della politica anche a destra? “La separazione delle carriere è consustanziale al processo accusatorio Vassalli, che noi avevamo introdotto nell’89. È un processo accusatorio firmato da un decorato della resistenza, quindi non un fascista, che ha sostituito un codice firmato da Benito Mussolini. In tutti i codici ispirati al principio di Vassalli, cioè il codice accusatorio, le carriere sono separate. L’obiezione principale che si fa, è che verrebbe vulnerata l’unità, la cultura della giurisdizione tra Pm e giudice, se si separassero”. E lei come risponde a questa prima obiezione? “Che la cultura della giurisdizione non c’entra nulla perché la giurisdizione è un tavolo a tre gambe, avvocato, Pm e giudice. E quindi soltanto un alibi mentale” Alla seconda obiezione? “Che il pm passerebbe sotto l’esecutivo; e anche questa è una grande assurdità. Negli Stati Uniti il public prosecutor è addirittura eletto e nel Regno Unito è l’avvocato dell’accusa e non è il capo della polizia giudiziaria”. Perché allora ci si oppone alla separazione? “La ragione di fondo per la quale ci si oppone alla separazione, è che si vogliono mantenere il potere e i benefit che ci sono, interscambiando le carriere le une con le altre. Se il Pm da domani può decidere di andare a fare il giudice, è un beneficio professionale che non tutti hanno e che dovrebbe essere compensato. Anche questo è un obiettivo che fa parte del governo, richiede sicuramente dei tempi maggiori. L’unità delle carriere e la composizione del CSM che ne deriva, sono scritti nella costituzione e quindi andrebbe fatta una riforma costituzionale che richiede tempi più lunghi”. La ritiene fattibile nei cinque anni? “Ritengo che in cinque anni, anche meno, si possa fare. È giusto dire che una riforma radicale della giustizia debba cominciare al più presto ma non è detto che possa concludersi in tempi brevi perché ci sono degli step che derivano da elementi normativi. Io auspico che entro gennaio vada a buon fine la riforma sull’abuso d’ufficio che secondo me è un reato che va abolito, poi mano a mano, mese dopo mese, anno dopo anno, passeremo ad altri tipi di riforme secondo i tempi che sono ovviamente previsti dalla costituzione”. È favorevole al ritorno dell’immunità parlamentare? “L’immunità parlamentare non è nel programma di governo. È bene quindi in questo momento non metterla in discussione. Rimane il problema che i padri costituenti che la vollero non erano degli ingenui, Togliatti Terracini, De Gasperi, sapevano benissimo quali sarebbero stati i rischi, sapevano anche quali sarebbero stati i rischi maggiori e quindi la vollero, per evitare che la magistratura potesse esercitare delle interferenze improprie”. Tornerà la prescrizione? “La prescrizione deve tornare, la prescrizione è un istituto di diritto sostanziale perché la prescrizione significa estinzione del reato e l’estinzione del reato è un istituto sostanziale e non di diritto processuale. La Ministra Cartabia, che a mio avviso è stata un’ottima Ministra, secondo me ha fatto quello che ha potuto. Non potendo sconfessare il suo predecessore che aveva realizzato quell’obbrobrio sulla prescrizione che avrebbe tenuto i processi all’infinito, ha trasformato la prescrizione in improcedibilità. E questo ha sollevato dei problemi tecnici enormi. Ritengo quindi che la prescrizione vada completamente riveduta e riportata al suo rango di diritto sostanziale. Che poi possa essere modificata, perché effettivamente alcuni reati si prescrivono in tempi troppo brevi, questo è un altro discorso”. Nordio: “Le intercettazioni non danno garanzia di attendibilità” di Davide Varì Il Dubbio, 4 gennaio 2023 Il Guardasigilli in un’intervista conferma la volontà di cambiare e ridimensionare le captazioni della polizia giudiziaria, salvaguardando quelle utilizzate per i reati di mafia e terrorismo. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in una intervista a “Libero Quotidiano” dice che “le intercettazioni non danno nessuna garanzia di attendibilità perché non sono trascritte nella forma della perizia, sono estrapolate dal contesto, manca il tono, sono spesso pilotate e sono di solito selezionate da un maresciallo di polizia che sceglie ciò che vuole e poi trattate dal pubblico ministero che a sua volte prende quello che gli serve. È tutta una serie di porcherie che vengono indirizzate verso una persona per distruggerla più o meno politicamente. Io questo lo scrivo da 25 anni”. Quindi “vanno riformate radicalmente tenendo ferme quelle contro il terrorismo e la mafia, purché però siano ben individuati i reati di terrorismo e di mafia. Ormai in Italia si parla di mafia anche quando due buttano dei rifiuti nel cassonetto e si parla di mafia ecologica. Salvo quelle, tutte le altre vanno radicalmente cambiate e ridimensionate, responsabilizzando quelli che sono i tutori, i garanti per la loro segretezza. E appena viene vulnerata la libertà di espressione di un cittadino che si vede sbattuto in prima pagina con cose che magari non ha neanche mai detto, immediatamente bisogna individuare il responsabile e deve essere punito”. Riformare questo sistema di intercettazioni è il suo obiettivo: “Lo considero il mio cavallo di battaglia Nel mio discorso programmatico che ho tenuto alla Camera e al Senato l’ho detto e ribadito come uno dei miei principali obiettivi”.  La riforma delle riforme è la separazione delle carriere: “La separazione delle carriere è consustanziale al processo accusatorio Vassalli, che noi avevamo introdotto nell’89. E’ un processo accusatorio firmato da un decorato della resistenza, quindi non un fascista, che ha sostituito un codice firmato da Benito Mussolini. In tutti i codici ispirati al principio di Vassalli, cioè il codice accusatorio, le carriere sono separate. L’obiezione principale che si fa, è che verrebbe vulnerata l’unità, la cultura della giurisdizione tra Pm e giudice, se si separassero”. E il ministro a questa prima obiezione risponde che “la cultura della giurisdizione non c’entra nulla perché la giurisdizione è un tavolo a tre gambe, avvocato, Pm e giudice. È quindi soltanto un alibi mentale”. Quanto alla seconda obiezione, ossia che il pm passerebbe sotto l’esecutivo: “Anche questa è una grande assurdità. Negli Stati Uniti il public prosecutor è addirittura eletto e nel Regno Unito è l’avvocato dell’accusa e non è il capo della polizia giudiziaria”. “La ragione di fondo per la quale ci si oppone alla separazione - osserva infine il ministro - è che si vogliono mantenere il potere e i benefit che ci sono, interscambiando le carriere le une con le altre. Se il Pm da domani può decidere di andare a fare il giudice, è un beneficio professionale che non tutti hanno e che dovrebbe essere compensato. Anche questo è un obiettivo che fa parte del governo, richiede sicuramente dei tempi maggiori. L’unità delle camere e la composizione del CSM che ne deriva sono scritti nella costituzione e quindi andrebbe fatta una riforma costituzionale che richiede tempi più lunghi”, ha concluso Nordio. Orrori grillini al capolinea, bye bye al processo eterno di Tiziana Maiolo Il Riformista, 4 gennaio 2023 In continuità con la riforma Cartabia, Nordio accoglie l’ordine del giorno di Costa che cancella la prescrizione di Bonafede e ripristina la vecchia disciplina di Orlando fino al terzo grado di giudizio. La riforma Cartabia è appena entrata in vigore da tre giorni e già si scatena la penna di Marco Travaglio con immagini truculente che paiono confondere la certezza della pena con la certezza del carcere. E intanto anche l’ex procuratore Giancarlo Caselli inaugura il 2023 con un’intera pagina sulla Stampa per mettere in guardia governo e Parlamento dal dare seguito all’ordine del giorno del deputato Enrico Costa, che ha osato mettere in discussione la “spazzacorrotti” dell’ex ministro Bonafede sul problema della prescrizione. In sintesi, è un po’ come se i pensieri che ruotano intorno al mondo del Movimento cinque stelle fossero fissati su due concetti: processi eterni in modo che nessuno sfugga alla tenaglia giustizia/persecuzione, e carceri il più possibile piene fino allo straripamento. È evidente che il percorso tracciato dall’ex ministra Marta Cartabia, cui il nuovo guardasigilli Carlo Nordio ha già dichiarato voler dare continuità, va nella direzione opposta. E se la prima, per esempio sulla prescrizione, ha dovuto trovare una mediazione tra l’orrore della norma voluta dai grillini e il proprio progetto riformatore all’interno di un governo che conteneva in pancia tutto e il suo contrario, il secondo, almeno su questo punto, ha un tracciato già aperto. Perché il governo di centrodestra ha dato il proprio consenso all’ordine del giorno del deputato di Azione, in modo che sulla prescrizione si scavalchi di peso la legge “spazzacorrotti” entrata in vigore il primo gennaio di due anni fa, che bloccava alla sentenza di primo grado, anche se di assoluzione, la possibilità della rinuncia dello Stato a perseguire il reato quando è trascorso troppo tempo. Perché, come ci spiega anche l’ex procuratore Caselli sulla Stampa, oltre al problema dei costi economici, “…del reato si è persa la memoria, le prove sono ormai difficili, se non impossibili da trovare, e si presume che la persona da processare possa essere cambiata”. Impeccabile. Manca solo un accenno, che ci saremmo aspettati da parte di un devoto, alla sofferenza umana, vera tortura, che lo stesso processo, oltre al carcere, riversa sulla persona-imputato. Anche quella andrebbe sempre messa in conto. Due sono gli argomenti che stanno a cuore al dottor Caselli. Uno di ordine statistico, perché a quanto pare (gli crediamo, si sarà sicuramente documentato) la percentuale italiana di prescrizione sarebbe arrivata al 10/11% contro lo 0,1/2% degli altri Paesi europei. Questo è il primo argomento. Il secondo è di tipo socio-politico. Perché, secondo l’ex procuratore, la prescrizione gioverebbe solo ai “galantuomini”, cioè ai ricchi potenti e “agguerriti”, mentre per i “cittadini comuni” ci sarebbe una seconda giustizia, che sbrigativamente arriverebbe a conclusione. alle solite. Non una parola sul perché e quando i processi cadono a terra come frutti maturi. Per stare ai numeri e alle statistiche, tra il 60 e il 70% dei casi capita nella fase delle indagini preliminari, cioè nel regno del dominio incontrastato dei pubblici ministeri. E qui i casi sono due: o i nostri investigatori sono pigri e incapaci o il problema risiede nell’assurdità, oltre a tutto ipocrita, della pretesa di applicare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non viene il dubbio che sia proprio questo il motivo dell’unicità del caso italiano con le sue percentuali diverse rispetto agli altri Paesi, come per esempio quelli di common law? Questa è infatti la prima grande riforma da fare, prima o in contemporanea alla separazione delle carriere. È inutile fare gli schifiltosi, non si può avere la pretesa di perseguire tutti i reati, e soprattutto le fattispecie andrebbero diminuite, non aumentate. Da questo punto di vista la riforma Cartabia appena entrata in vigore ha aperto una strada importante di deflazione sia processuale che detentiva. Ed è inutile versare lacrime sulle condizioni delle carceri e sul sovraffollamento, se non si comincia ad arrestare di meno. E a togliersi dalla mente che la sanzione sia solo la privazione totale della libertà. Utilissima da questo punto di vista la possibilità per il giudice di applicare le forme alternative alle prigioni per condanne inferiori a quattro anni: semilibertà, detenzione domiciliare, lavori socialmente utili, pena pecuniaria. Così come l’estensione dei tipi di reato procedibili a querela della persona offesa e non d’ufficio. Anche in questo modo si potrebbe diminuire il numero dei processi e anche dei casi di prescrizione del reato. E si favorirebbero le azioni di risarcimento del danno e di quella giustizia riparativa che tanto stava a cuore alla ministra Cartabia. Sono le norme che Travaglio chiama “schiforme” e l’ex procuratore Caselli considera “di classe”, nel senso che sfavorirebbero il mitico cittadino comune. Che invece sarebbe quello più avvantaggiato dal percorso. Quel che serve adesso è che il nuovo governo di centrodestra, guidato dall’ottimo ministro Nordio, mantenga la barra dritta senza farsi tentare da controproducenti tentazioni di correzioni giustizialiste nel nome della sicurezza. Lentezza dei processi e giustizia penale come la tela di Penelope di Gian Luigi Gatta* Il Sole 24 Ore, 4 gennaio 2023 La Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (Cepej) pubblica un report nel quale, tra gli indicatori di efficienza dei sistemi giudiziari, figura il disposition time. Per ciascun grado di giudizio, questo indicatore misura il tempo medio di definizione dei procedimenti. È lo stesso indicatore preso a riferimento dalla Commissione Ue ai fini del Pnrr. Quanto al processo penale, l’impegno assunto con Bruxelles è di ridurre il disposition time, in ciascuno dei tre gradi di giudizio, del 25% entro il 2026. La lentezza dei processi, agli occhi degli osservatori internazionali, è infatti il principale problema che affligge la giustizia italiana. Bastano pochi dati per capire perché: l’Italia è al primo posto, nel Consiglio d’Europa, per numero di condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per irragionevole durata dei processi (1.230, dal 1959; al secondo posto, doppiata, la Turchia, con 609 condanne), nonché per durata media del processo penale in appello: 1.167 giorni (tre anni e due mesi), contro una media europea di 121 giorni (quattro mesi). In Italia gli appelli penali durano cioè dieci volte tanto la media europea. Le cose vanno un po’ meglio, si fa per dire, nel primo grado di giudizio, che in Italia dura mediamente 498 giorni - oltre tre volte la media europea, che è di soli 149 giorni - e nel giudizio di cassazione, che nel nostro Paese dura solo due volte la media europea (237 giorni contro 120). Per fronteggiare questa emergenza, il Governo Draghi ha varato una riforma del processo penale: la più ampia e trasversale degli ultimi trent’anni. Gran parte della riforma, rinviata nel suo primo Consiglio dei Ministri dal Governo Meloni, è entrata in vigore solo da pochi giorni. Da oltre un anno, invece, è in vigore la parte che è intervenuta sulla prescrizione del reato. Nella passata legislatura quella parte della riforma fu anticipata perché ritenuta urgente: si trattava di correggere la riforma Bonafede del 2019, che con il pur lodevole intento di ridurre l’incidenza della prescrizione del reato in appello (pari al 25%) aveva stabilito il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado, senza però considerare gli effetti di prevedibile allungamento dei tempi nei successivi gradi di giudizio, venuto meno lo spauracchio della prescrizione e, quindi, l’impulso a fare presto per non mandare in fumo i processi. Per questo il Governo Draghi, nel nuovo contesto del Pnrr, ha apportato a quella riforma un correttivo impedendo l’irragionevole durata dei giudizi di secondo e terzo grado. La soluzione tecnica, innovativa e sfidante, è stata la previsione della improcedibilità per superamento di termini di durata massima di quei giudizi, individuata in due anni, per l’appello, e in un anno, per la cassazione (salva la previsione di un sistema di eccezioni, di proroghe e sospensioni dei termini). Se la prescrizione è un cerino che passa di mano - è colpa di tutti e di nessuno, perché i ritardi possono essere imputati a chi ha tenuto il fascicolo prima - l’improcedibilità è un cerino che brucia tutto in mano ai giudici di appello odi cassazione. È un meccanismo che responsabilizza i magistrati, chiamati dal Pnrr a una sfida epocale, impietosamente messa a nudo dai dati europei. L’effetto-nudge dell’improcedibilità è già misurabile: nel primo semestre del 2022 il disposition time è diminuito di circa il 15% in appello e in cassazione. Gli uffici giudiziari, encomiabilmente, si sono già riorganizzati, anche grazie all’apporto di migliaia di giovani addetti all’ufficio per il processo, assunti con fondi Pnrr, e ancora lo faranno, con il necessario supporto del Ministero della Giustizia e del CSM. Per questo preoccupa l’approvazione, da parte della Camera, di un ordine del giorno che impegna il Governo a reintrodurre la prescrizione del reato nei giudizi di impugnazione, tornando al sistema vigente prima delle riforme Bonafede e Cartabia, cioè al sistema in cui sono maturati i dati - le lentezze - che l’Europa ci chiede di migliorare. Prima di tornare al passato, mettendo in cantiere la quarta riforma della prescrizione negli ultimi sei anni, è meglio concentrarsi sul presente e misurare gli effetti di una riforma appena varata, senza dare messaggi di disimpegno. La giustizia penale non può essere trattata come una tela di Penelope. Nel 2019 la riforma Bonafede cancellò la riforma Orlando prima di misurarne l’impatto. L’auspicio è che, nel 2023, non prenda corpo una riforma Nordio che faccia altrettanto con la riforma Cartabia. Errare è umano. Perseverare è diabolico. E l’Europa, questa volta, non ci perdonerebbe. *Ordinario di Diritto penale, Università degli Studi di Milano, Componente del Comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura L’evoluzione digitale e la giustizia sempre lenta di Paolo Pombeni Il Messaggero, 4 gennaio 2023 La pronuncia del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, a favore di un rapporto di lavoro che vada valutato per il conseguimento di obiettivi anziché in termini di paga oraria è di quelle che fanno discutere, ma coglie un problema nell’evoluzione dei rapporti di impiego. Nel momento in cui con la digitalizzazione, con lo smart working, con l’allentamento del legame del lavoratore con un determinato luogo di produzione cambia il quadro tradizionale, o meglio quello che si era imposto negli ultimi secoli, riconsiderare anche questo aspetto diventa opportuno. Ovviamente non sarebbe possibile, né sarebbe bene assolutizzare ed uniformare ogni tipo di rapporto di impiego: ce ne sono non pochi che non si prestano a rientrare nelle coordinate di un lavoro per obiettivi, ma ce ne sono molti che non solo possono stare in questa dimensione, ma che anzi è bene far evolvere in quella direzione. È necessaria una rivoluzione culturale, una volontà di adeguarsi ad un nuovo modo di produrre, altrimenti non si raggiungerà nessun obiettivo di rilievo, però è bene sapere che in molti settori ci si muoverà in quella direzione. Per spiegare il necessario cambio di mentalità che implica l’evoluzione di cui stiamo parlando possiamo scegliere come esempio il settore della giustizia. Qui la digitalizzazione del processo ha tagliato i tempi di molte incombenze legate al rapporto fra burocrazia giudiziaria (le cancellerie) e gli avvocati (di conseguenza i cittadini che percorrono i sentieri del rapporto con la giurisdizione). Il fatto che gli atti si possano far circolare telematicamente, senza bisogno di copie vidimate, di lunghe file per acquisirle, di procedure varie per l’accesso ai documenti, ha disincagliato un collo di bottiglia di cui tutti si lamentavano. Eppure il tempo di conclusione dei processi non si è ridotto in proporzione ai benefici introdotti da questa tecnologia. Perché? Secondo molti osservatori perché il tempo che impiegano molti magistrati, non tutti ovviamente, per scrivere i loro atti e in specie le sentenze non si è velocizzato. Chi giudica rimane arbitro dei tempi che ritiene necessari per assolvere le sue funzioni. Per lui l’obiettivo (rendere la giustizia più veloce come è richiesto non solo dai ritmi della vita attuale, ma anche per esempio dal Pnrr) non assume un valore discriminante. Se dicessimo che un magistrato non può essere “stressato” obbligandolo a rispettare dei tempi fissati in astratto per adempiere al suo obiettivo di “rendere giustizia” ai cittadini troveremmo il plauso di tutti quanti temono una robotizzazione della produzione giurisdizionale, cosa che ovviamente sarebbe in contrasto con la necessità di pronunce eque e meditate. Tuttavia è sotto gli occhi degli osservatori che abbiamo un sistema giudiziario in cui i tempi di produzione delle decisioni sono i più vari: ci sono sedi e magistrati che lavorano più che con solerzia, altri contesti in cui per così dire ce la si prende comoda, alcuni in cui verrebbe voglia di dire che si batte la fiacca. Che lezione generale si deve trarre da questi esempi? Che l’adeguamento alle possibilità di ridurre i tempi morti e senza significato offerte dalle nuove tecnologie non riesce ad esplicare tutti i suoi effetti benefici perché si scontra con la mancanza di disponibilità ad adeguare il proprio modo di lavorare al nuovo contesto. Come dicevamo, ogni cambiamento dei modi di lavorare e produrre implica un adeguamento culturale, l’acquisizione di una nuova mentalità. Si è spesso disquisito in passato sulla diversità fra il lavoro, in qualche misura almeno, creativo e quello di routine (senza entrare nell’estremo del lavoro banalmente ripetitivo).  Oggi si cerca dovunque, nei limiti del possibile, di inserire elementi di creatività in ogni lavoro, di abolire l’alienazione dell’assolvere un compito che in sé è di scarso significato perché lo avrà solo in ordine alla produzione di un risultato finale che è estraneo a quanto fa il singolo lavoratore. Ora un sistema che acquisisca l’ottica dell’impegnarsi per obiettivi ovvierebbe a questo stato di cose: il raggiungimento di un risultato vuol dire conquistare un significato per il proprio impegno e fatica e ciò dovrebbe essere sufficiente a gratificare il lavoratore quale che sia la sua posizione e il suo livello. Però nell’obiettivo da raggiungere sta anche il fattore tempo, perché un giusto impiego di esso è una forma di rispetto verso il contenuto di quanto viene prodotto e verso la responsabilità che ci si assume nei confronti sia di coloro che sono coinvolti in quel processo produttivo, sia di quanti trarranno utilità e vantaggio dal raggiungimento degli obiettivi previsti. Può sembrare un discorso molto astratto, mentre invece è una frontiera dell’evoluzione del nostro modo di rapportarci alle esigenze della società e del mondo in cui viviamo, cioè di dare al lavoro un contenuto di soddisfazione. Non è un qualcosa da riservare solo a certe mansioni, ma una esigenza generale. Richiede, lo ribadiamo ancora una volta, rivoluzione culturale e cambio di mentalità, in assenza dei quali l’impiego anche massiccio di nuove tecnologie non supererà i colli di bottiglia che stanno al termine di ogni processo produttivo. Si tratta però di una esigenza importante nel momento in cui, giustamente, vogliamo liberare dove possibile il lavoro dal rapporto con forzature, spostamenti, consumo di tempo non necessario. Bisogna però che questo si risolva in un beneficio per tutto il sistema, cioè per tutti coloro che dipendono dai risultati che si possono raggiungere. L’esempio della pubblica amministrazione, di cui l’esercizio della giustizia è parte per quanto molto qualificata, è facilmente comprensibile, ma il ragionamento ha una portata generale che, ben considerata e senza indulgere a semplificazioni ed estremismi, costituisce una delle sfide del passaggio d’epoca che stiamo vivendo. Arresti e processi: lo Stato prova a fermare gli attivisti del clima di Davide Maria De Luca e Lisa Di Giuseppe Il Domani, 4 gennaio 2023 Processati per direttissima i tre ragazzi che hanno lanciato vernice arancione su palazzo Madama. Il Senato si costituirà parte civile. Un altro attivista fermato mentre andava in una trasmissione tv. Arresti in flagranza, processi per direttissima, sorveglianza speciale e la possibilità di ricevere di anni di carcere: sono alcuni dei rischi che corrono gli attivisti per il clima su cui in questi giorni si sta abbattendo la mano pesante della repressione statale. Il blitz al Senato - Si parte con i tre attivisti del movimento Ultima generazione, Davide Nensi, Alessandro Sulis e Laura Paracini, che lunedì hanno gettato vernice arancione contro la facciata del Senato. Arrestati in flagranza mentre attendevano l’arrivo della polizia, sono stati processati per direttissima martedì mattina e rimessi in libertà. Il tribunale ha convalidato l’arresto e il procedimento dei tre, accusati di danneggiamento aggravato, proseguirà il prossimo 12 maggio. Per ora non è stata prevista nessuna misura cautelare nei loro confronti. Il gesto, che non ha prodotto danni permanenti alla facciata dell’edificio, ha ricevuto la condanna unanime da parte di tutte le forze politiche. “Sono vicina al presidente del Senato e a tutti i senatori e condanno il gesto oltraggioso, incompatibile con qualsiasi civile protesta”, ha fatto sapere ieri la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha annunciato che la sua camera si costituirà parte civile nel processo contro i tre ragazzi. Il Movimento 5 stelle è stata l’unica forza politica a dichiararsi contraria alla decisione. Altri fermi - Per esprimere solidarietà agli attivisti arrestati, Ultima generazione aveva organizzato un presidio a piazzale Clodio, di fronte al tribunale di Roma, poi annullato. Gli ecologisti hanno fatto sapere di aver scelto di annullare l’evento dopo che uno di loro, Simone Ficicchia, già in attesa di un’udienza per l’imposizione della sorveglianza speciale fissata per il prossimo 10 gennaio, è stato fermato dalla polizia mentre si dirigeva a Saxa Rubra per partecipare alla trasmissione di Rai3 Agorà. Durante la trasmissione, l’attivista che lo ha sostituito, Michele Giuli, ha spiegato la vicenda: “Non dovrei neanche essere qui. Doveva venire Simone Ficicchia, un altro ragazzo che sta venendo posto, probabilmente, sotto sorveglianza speciale, che è una misura che andrebbe applicata ai mafiosi e ai terroristi. Stamattina è stato portato via dall’hotel in cui stava dormendo perché doveva venire qua, in questo studio”. Agorà ha anche mostrato l’immagine di Ficicchia che veniva portato via di peso da tre agenti della polizia. In un video, gli ambientalisti spiegano che la protesta al Senato “è stata, come sempre, pacifica e non violenta, non avrebbe mai potuto né voluto portare il minimo danno alle persone. Il semplice imbrattamento è considerato punibile dal codice penale con un reato specifico”. Le accuse - Per Ultima generazione, i dettami della legge sono stati disattesi: “Nonostante la previsione di legge e nonostante gli attivisti siano rimasti sul posto in attesa dell’intervento delle forze dell’ordine, nel pieno rispetto dei principi della non violenza, sono stati trattenuti e verranno processati per direttissima con l’accusa ben più grave di reato di danneggiamento”. L’accusa, in ogni caso, secondo Ultima generazione è fuorviante. “Il reato di danneggiamento, oltre a non essere stato commesso, trattandosi di semplice imbrattamento, comunque non prevede l’arresto in flagranza, ma la semplice denuncia a piede libero. Siamo quindi di fronte all’ennesimo abuso, a un’azione volta a intimorire e criminalizzare chi sta cercando di portando l’attenzione sul vero crimine che questo governo sta commettendo”. Gli attivisti rischiano multe da migliaia di euro e condanne alla reclusione che possono arrivare anche a cinque anni. Non è l’unico caso in cui magistratura e forze di polizia hanno adottato metodi duri contro gli attivisti climatici. Tre membri di Ultima generazione che avevano imbrattato la sede dell’Eni store di Roma sono in attesa della prima udienza del processo con l’accusa di violenza privata, danneggiamento e possesso di armi. Due attiviste che avevano lanciato della zuppa contro la copertura in vetro di un quadro di Van Gogh rischiano una condanna fino a cinque anni di carcere. Sei attivisti che avevano bloccato il ponte della Libertà a Venezia sono già stati condannati a pagare una multa da 1.333 euro e sono in attesa di processo. Anche loro, per via dell’inasprimento delle pene previsto dai decreti Sicurezza, rischiano anni di carcere. In carcere per un po’ di vernice, governo a tinte fosche di Frank Cimini Il Riformista, 4 gennaio 2023 Il caso degli attivisti di “Ultima Generazione” in cella per aver imbrattato il palazzo del Senato arriva dopo la norma anti-rave: toni e linguaggio dicono che la repubblica penale è ormai compiuta. La circostanza della scarcerazione dopo una sola notte dei tre attivisti di “Ultima Generazione” che avevano lanciato la vernice sul palazzo del Senato non elimina la vergogna assoluta degli arresti ai quali erano stati sottoposti. Una misura cautelare come minimo spropositata insieme allo stesso capo di imputazione, danneggiamento aggravato, quando bastava contestare il reato di imbrattamento previsto appositamente per casi simili. Davide Nesi, Alessandro Sulis e Laura Pacini sono tornati in libertà per decisione di un giudice monocratico mentre il pubblico ministero aveva chiesto l’obbligo di dimora. La causa per la discussione è stata rinviata al prossimo 12 maggio. Insomma, è stato fatto un altro chiarissimo passo verso una compiuta repubblica penale arrestando attivisti di un movimento che dice di seguire una disciplina rigorosamente non violenta. “Durante l’imbrattamento il Senato era vuoto, non volevamo colpire il Presidente come accusa Ignazio La Russa”, dicono in un comunicato su Twitter gli attivisti. Ignazio La Russa l’aveva messa giù dura convocando il consiglio del Senato, chiamando al telefono il ministro dell’Interno Piantedosi al fine di organizzare misure preventive come se Palazzo Madama si trovasse sotto chissà quale attacco. A contribuire a creare l’ennesima inesistente emergenza anche gli investigatori della Questura di Pavia che hanno chiesto la Sorveglianza speciale per Simone Ficicchia, 20 anni, protagonista di una serie di azioni tra le quali il lancio di vernice sull’ingresso del teatro Alla Scala il 7 dicembre scorso. Gli investigatori mettono nero su bianco che Ultima Generazione è “un movimento oltranzista che riesca a far fronte sembra anche alle spese di sostentamento dei suoi componenti”. Sulla richiesta di sorveglianza speciale dovrà decidere il Tribunale di Milano in una udienza fissata per il prossimo 10 gennaio. Ficicchia viene descritto come “un elemento di punta di tale organizzazione risultando sempre in prima linea nelle azioni delittuose perpetrate da tale associazione”. Ficicchia, ripetiamo 20 anni, è in pratica accusato anche di non lavorare e di essere “mantenuto dall’organizzazione”. La logica della risposta da parte dei poteri sembra la stessa che ha portato per fronteggiare i quattro o cinque rave all’anno che si organizzano in Italia a una sorta di legislazione speciale. I toni e il linguaggio usati forse ancora più degli arresti e delle misure di sorveglianza dimostrano che siamo dì fronte a una evidente strumentalizzazione che si coglie anche senza avere simpatie per Ultima Generazione che non sembra puntare all’insurrezione armata. Violenza di genere, stretta sulle misure cautelari di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 gennaio 2023 Anche se la vittima va nella casa protetta per l’indagato resta la custodia in carcere. Il collocamento presso un centro antiviolenza non giustifica la sostituzione della misura con il divieto di avvicinamento. Per la Cassazione alla minore libertà della vittima non può corrispondere una maggiore libertà per il presunto aggressore. Il collocamento della vittima di violenza domestica, e dei suoi figli, presso una casa protetta, non giustifica la revoca della custodia cautelare in carcere per il presunto colpevole. La Cassazione, respinge il ricorso dell’uomo, che chiedeva di sostituire la misura più restrittiva, con il divieto di avvicinamento. A suo dire, infatti, la circostanza che la moglie, dalla quale era separato, e figli fossero stati accolti in un centro antiviolenza, un luogo da lui non raggiungibile, sgombrava il campo dal rischio di nuovi “incontri”. Per il difensore, considerata l’incensuratezza dell’indagato, sarebbe stato ragionevole adottare una misura meno afflittiva del carcere, come il divieto di avvicinamento, congiunto all’obbligo di allontanamento dalla casa familiare. La Suprema corte fa invece altre valutazioni. Sul no dei giudici pesa il quadro indiziario a carico del ricorrente, basato sulle dichiarazioni della persona offesa, la sua incapacità a contenere l’aggressività, dovuta sia all’uso di alcol sia ad un senso di rivalsa verso l’ex, anche dopo l’accoglienza della famiglia nella casa rifugio. L’incapacità di controllare l’aggressività - Agli atti c’era anche il suo tentativo di scoprire il luogo nel quale si trovava la sua ex con i minori, grazie a informazioni che aveva cercato di avere presso la scuola frequentata dai figli. Per i giudici di legittimità la scelta della custodia in carcere è sopportata da una motivazione adeguata, che ha tenuto conto della estrema gravità dei fatti. Aggressioni con lesioni ripetute nel tempo, accompagnate da minacce di morte. Mentre dell’elemento novità dell’accoglienza della vittima nella casa rifugio viene data una lettura del tutto inappropriata. La collocazione di una persona in un centro antiviolenza non può, infatti, essere considerata, come chiesto dal ricorrente, un buon motivo per allentare le misure cautelari imposte all’imputato a tutela della persona offesa. La circostanza è, al contrario, la prova della pericolosità dell’aggressore. Né è logico pensare che ai condizionamenti della libertà della vittima, possa corrispondere una maggiore libertà d’azione per l’autore delle violenze. Caso Cospito, la Consulta deciderà sulle attenuanti di Mario Di Vito Il Manifesto, 4 gennaio 2023 Sono nove le pagine con cui la Corte d’Assise d’Appello di Torino motiva la propria chiamata in causa della Corte Costituzionale per il caso di Alfredo Cospito. Era l’inizio di dicembre quando i giudici annunciarono la propria intenzione di sottoporre alla Consulta la vicenda dell’anarchico che rischia l’ergastolo per aver messo una bomba carta fuori dalla caserma per allievi carabinieri di Fossano (Cuneo) nel 2006 senza aver causato morti né feriti. La procura generale aveva chiesto per Cospito il massimo della pena per devastazione, saccheggio e strage (ergastolo), mentre la difesa si è appellata alla lieve entità del fatto. In punta di diritto, se venisse concessa l’attenuante della lieve entità, la condanna non potrebbe più essere quella massima ma, in base al reato, sarebbe compresa tra i venti e i ventiquattro anni. Nello specifico, la questione costituzionale riguarda la prevalenza dell’attenuante sulla recidiva del reato da parte dell’anarchico, attualmente sottoposto anche al regime del 41 bis nel carcere di Sassari. La Corte d’Appello arriva a dire che “il giudizio di bilanciamento fra circostanze dovrebbe risolversi nel caso concreto riconoscendo la prevalenza della circostanza attenuante”, il tutto per la “necessità di irrogare una sanzione proporzionata alla effettiva portata lesiva delle condotte”. L’esito del processo è dunque sospeso fino al pronunciamento della Consulta. Nella giornata di ieri, il questore di Torino Vincenzo Ciarambino, quasi a rispondere indirettamente alle questioni sollevate dai giudici, nella sua conferenza stampa d’inizio anno, ha espresso forti preoccupazioni sull’universo anarchico e antagonista: “È una realtà e un segmento che guardiamo con attenzione perché non escludiamo il passaggio alla soluzione clandestina da parte di singoli soggetti. C’è attenzione più che allarme, perché la componente anarchica a Torino ha fatto registrare azioni imprevedibili”. Cospito, intanto, prosegue il suo sciopero della fame contro il 41bis. Quando ormai siamo a quasi due mesi e mezzo di protesta, le sue condizioni fisiche cominciano a destare qualche preoccupazione nei medici: il peso corporeo è sceso di 35 kg e si registra una carenza di potassio nelle sue analisi. “Alfredo ha il morale alto, è stato spostato di cella e durante l’ora d’aria ora può incontrare altri tre detenuti. Per risolvere i cali glicemici sta assumendo del miele”, ha detto la sua dottoressa di fiducia, Angelica Milia, ai microfoni di Radio Onda d’Urto. Toscana. L’emergenza carceri peggio di un anno fa. Aumentano i detenuti, tante celle inagibili di Jacopo Storni  Corriere Fiorentino, 4 gennaio 2023 L’emergenza carceri, nonostante annunci e frasi di circostanza, non accenna a diminuire. Anzi. Nelle quindici carceri toscane i detenuti da gennaio 2022 alla fine di novembre sono aumentati, passando da 2.910 a 3.028. E a fronte di questa crescita della popolazione carceraria, sono sempre di più le celle fuori uso perché in stato di degrado o in corso di ristrutturazione, talvolta da anni per ritardi nei cantieri. Un numero impressionante: 528 posti non utilizzabili solo in Toscana. Il caso più eclatante è quello di Livorno, dove sono 191 i posti non disponibili su una popolazione carceraria complessiva di 265 reclusi. Sono invece 84 i posti non disponibili nel carcere di Arezzo e rappresentano il 70% del totale dei posti visto che nel penitenziario aretino potrebbero starci in tutto circa 110 persone. C’è poi Sollicciano, dove i posti che mancano all’appello sono 73 (capienza regolamentare circa 500 posti), questo anche in seguito agli ingenti lavori di ristrutturazione che stanno interessando il penitenziario fiorentino. Ammontano a 50 i posti non disponibili a San Gimignano (capienza 235 posti) e 24 a Lucca (capienza 63). Vanno meglio invece Grosseto, Massa Marittima, Volterra e Gorgona, dove tutte le celle sono riempite da reclusi. A fornire un quadro della situazione è l’associazione Antigone. “La Toscana è la regione con il numero più elevato di posti non disponibili, seguita dal Lazio - ha commentato il coordinatore dell’associazione Alessio Scandurra - Le cause vanno rintracciate nelle gravi condizioni in cui versano i penitenziari, è questo il vero problema. C’è Sollicciano che cade letteralmente a pezzi, anche se da qualche mese sono partiti i lavori. È molto problematica anche la situazione di Livorno, dove molti spazi sono chiusi e una parte di quelli aperti versa in pessime condizioni quanto a igiene e affollamento e non è rispettato il limite di 3 mq calpestabili a persona. Altrettanto a Pisa, dove si registrano gravi carenze edilizie e strutturali, come infiltrazioni, muffe, umidità e importanti cedimenti. Molte stanze di pernottamento presentano ancora il problema del bagno a vista e tutte sono sprovviste di acqua calda. Tutte queste criticità comportano il sovraffollamento di molte strutture”. Il caso più eclatante, secondo Scandurra, è quello del penitenziario di Arezzo, “dove gran parte dell’istituto non è in funzione almeno dal 2010” proprio a causa delle celle indisponibili. Quanto al sovraffollamento, i numeri parlano chiaro: in Toscana è complessivamente pari al 108%, ma in alcuni istituti le percentuali sono altissime: su tutte Lucca, con quasi il 172% dei detenuti rispetto alla capienza e Pisa con il 156%. Male anche Sollicciano, con un affollamento pari al 135%, ma comunque meglio di qualche tempo fa quando era arrivato ad ospitare oltre mille reclusi, quasi il doppio della capienza del penitenziario. Tutto questo a fronte di una carenza cronica di educatori. Anche in questo caso Sollicciano non brilla: c’è un educatore per ogni 140 detenuti, anche se negli ultimi mesi sono arrivati rinforzi. Male anche Massa, dove c’è un educatore per ogni 68 detenuti, mentre c’è un educatore ogni 66 reclusi a Livorno e a San Gimignano. Un altro problema resta il reinserimento dei reclusi. “È questa la vera questione delle nostre carceri - commenta il garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani - I detenuti dovrebbero essere presi per mano e accompagnati in un percorso di rinascita, i progetti però scarseggiano”. Secondo il provveditore toscano dell’amministrazione penitenziaria, Pierpaolo d’Andria (anche provveditore di Umbria, Lazio, Abruzzo e Molise), “la situazione è nella norma per la maggior parti dei 15 istituti, critica invece per Sollicciano e Livorno”. In merito alla ristrutturazione e ai posti da recuperare, nel carcere fiorentino “vanno avanti i lavori di rifacimento delle facciate delle sezioni detentive, a cura del Dap, e quelli di efficientamento energetico con fondi europei, a cura delle Opere Pubbliche. È stato ultimato un piano di decongestionamento della struttura che permette di mettere a disposizione quattro sezioni vuote, due nel penale e due nel giudiziario”. A Livorno “sono in via di ultimazione i lavori di completo adeguamento di due nuovi padiglioni. Per uno di essi è previsto il collaudo a inizio 2023”. E poi Arezzo, dove “sono in corso di ultimazione lavori per la riapertura delle sezioni inattive già da alcuni anni” e San Gimignano, dove “si stanno concludendo lavori di manutenzione straordinaria per il ripristino di un reparto”. Novara. “In carcere servono educatori”. L’appello di Camera penale e “Nessuno tocchi Caino” di Cecilia Colli lavocedinovara.com, 4 gennaio 2023 Un solo operatore per 173 detenuti. Una delegazione ha visitato la Casa circondariale di Novara promuovendola a metà: “Clima disteso ma personale sottodimensionato”. “Nel carcere di Novara servono educatori. In pianta organica ne sarebbero previsti tre, invece ce n’è solo uno in servizio, oltretutto in questo periodo assente per Covid. Anche nel momento in cui fossero a regime, sarebbero impossibile svolgere un lavoro utile con 173 detenuti”. È questo l’appello lanciato dalle delegazioni della Camera penale di Novara con il presidente Alessandro Brustia, il referente Federico Celano e Luana Nigito e dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” con la presidente Rita Bernardini, il segretario Sergio D’Elia, entrambi ex parlamentari, Elisabetta Zamparutti e Umberto Baccolo, dopo la visita di ieri alla casa circondariale di via Sforzesca. Il gruppo ha incontrato la direttrice del carcere, Rosalia Marino, il comandate della Polizia penitenziaria Renato Ruffo, la direttrice sanitaria e una trentina di detenuti Dell’area di media sicurezza. Non è invece stato possibile accedere alla sezione 41bis dove viene applicato il regime di isolamento. “Dalle visite in carcere usciamo sempre sconfortati, ma qui a Novara non è successo - ha detto Bernardini -. Abbiamo trovato un clima disteso, confermato dal colloquio con la direttrice: pochi eventi critici, un’atmosfera quasi famigliare, i detenuti ci hanno accolto con molto calore e ci hanno anche preparato il caffè. Novara, però, come molte altre carceri, dimostra il fallimento della pena: abbiamo ascoltato le storie dei detenuti, la maggior parte di loro proviene da precedenti detenzioni e dimostra che la permanenza in carcere non è servita a niente. Deve essere preparato un terreno sano per la loro re-integrazione in società. La paura più grande è, infatti, il fine pena: l’80% è straniero, molti non hanno né casa, lavoro o famiglia. Una volta usciti non hanno mezzi di sussistenza, devono rinnovare i documenti e sono completamente abbandonati. Anche per questo motivo il ruolo degli educatori è fondamentale. Esistono solo corsi di alfabetizzazione e la scuola media; c’è il campo sportivo e solo due attività: la tipografia e il laboratorio di ceramica”. Per quanto riguarda la situazione sanitaria, Bernardini è stata rassicurante: “Non c’è paragone con alcune realtà del sud Italia, ci sono gli ambulatori interni e non abbiamo ricevuto alcuna lamentela da parte dei detenuti”. Un plauso alla direzione della struttura è arrivato dal segretario D’Elia: “I carcerati hanno una buona opinione sia della direttrice che del comandante perché sono stati in grado di creare un clima di armonia attraverso il dialogo: non ci sono parti contrapposte, tutti vivono quella realtà in modo collaborativo”. Il referente Celano ha invece sottolineato “la necessità di riconoscere il carcere come istituzione al pari di altre cittadine. A noi interessa che la pena sia utile, conoscere cosa avviene all’intero e preparare un reingresso dei soggetti in società anche attraverso il supporto di enti e istituzioni. Ma con un solo educatore queste parole restano tali”. Il presidente Brustia ha poi ricordato l’obiettivo della Camera penale: “Fare in modo che il carcere non rimanga un’isola serpata dalla città, perché dall’ignoranza nascono i pregiudizi. Se i cittadini potessero parlare con i detenuti, molte persone smetterebbero di pensare che l’unica soluzione è “buttare via la chiave”. Nel 2022 in Italia sono stati registrati 85 suicidi in carcere, una strage dimenticata di cui la politica dovrebbe occuparsi e invece non fa nulla”. È stato infine D’Elia a ricordare che “quest’anno “Nessuno tocchi Caino” compie 30 anni. Per le celebrare il traguardo, organizzeremo un convegno nel carcere di Opera la settimana prima di Natale”. Il sovraffollamento non sembra essere il problema del carcere di Novara che da questo punto di vista è stato definito come “un’isola felice”. La capienza prevede 153 detenuti: ce ne sono 173, solo 20 in più. Di questi, 70 sono al 41bis, tutti in celle singole e per la quasi totalità di nazionalità italiana; gli altri 103 in regime di media sicurezza, per l’80% stranieri, tutti in celle da quattro persone di circa 10 metri quadrati oltre al bagno. Tre, invece, gli stanzoni con cinque letti. Nelle celle non ci sono le docce, ma i detenuti - esclusi quelli al 41bis - hanno la possibilità di stare negli spazi comuni per 8/10 ore al giorno. Tra i reclusi di media sorveglianza, sono 9 quelli in cura al Sert per problemi di tossicodipendenza di cui 5 con trattamento farmacologico; altri 14 hanno problemi psichiatrici. Al 41bis, 8 sono in trattamento farmacologico psichiatrico. Per quanto riguarda gli agenti di Polizia penitenziaria, in servizio ce ne sono 156 rispetto ai 186 previsti in pianta organica. Verona. Si evirò in carcere con una lametta: lo Stato condannato a risarcirgli i danni di Laura Tedesco Corriere Veneto, 4 gennaio 2023 I giudici: “Concorso di colpa per non aver sorvegliato il detenuto impedendogli l’atto autolesionistico”. A dicei anni dal fatto riceve 48.533 euro. A dieci anni esatti da quando si evirò nel carcere veronese di Montorio usando una lametta che non sarebbe mai dovuta entrare nella sua cella, il ministero della Giustizia è stato condannato a risarcirgli i danni. Lo Stato italiano dovrà rifondere all’incirca 50 mila euro - per l’esattezza 48.533 euro, cifra attualizzata al momento della decisione - a favore del detenuto per concorso di colpa nel gravissimo atto autolesionistico da lui commesso in cella. E questo perché, trattandosi di un soggetto notoriamente affetto da serie problematiche di tipo psichico, non sarebbe stato vigilato a dovere. Secondo i magistrati all’interno della casa circondariale scaligera si sarebbe dovuto impedire che nelle mani del detenuto giungesse “l’arma del reato”, vale a dire quella lametta da lui usata per ferirsi irrimediabilmente con l’evirazione. Nei suoi riguardi, dal punto di vista della sorveglianza, si sarebbero dovute prestare le massime accortezze soprattutto perché, appena due giorni prima del “fattaccio”, era già riuscito a tagliarsi i polsi. La sentenza di condanna pronunciata in sede civile nei confronti del ministero è definitiva e non più impugnabile: emessa in primo grado dal tribunale di Venezia e pubblicata il 30 luglio del 2019, è stata poi confermata in toto dai magistrati d’appello lagunari. Dopodiché non c’è stato neppure bisogno di attendere l’ultima parola della Cassazione, perché i termini entro cui lo Stato avrebbe potuto presentare un ulteriore ricorso agli Ermellini sono nel frattempo scaduti. Le motivazioni - Nella motivazione della condanna inflitta allo Stato, si contesta in particolare alla “amministrazione penitenziaria il non aver esercitato una vigilanza idonea ad impedire al detenuto la disponibilità di una lametta”. Da parte dell’avvocato Edoardo Lana, che ha tutelato gli interessi del detenuto risarcito, si sottolinea che “questa sentenza rappresenta una grande soddisfazione umana e professionale, non solo per il tema di natura assolutamente personale trattato, ma anche per la complessità istruttoria espletata nel corso dei due gradi di giudizio. La sentenza riequilibra una situazione di grave ingiustizia morale e giuridica che affliggeva da anni il cliente che, per vedere riconosciuta la responsabilità del Ministero della Giustizia, ha dovuto affrontare un iter processuale durato diversi anni”. Lunga attesa - In effetti, è stata necessaria un’attesa ben decennale prima di giungere a una pronuncia definitiva, se si considera che il gravissimo gesto autolesionistico risale al 17 novembre 2012, quando si evirò con quella famigerata lametta nel carcere di Verona. A sostegno della domanda risarcitoria il detenuto aveva ripercorso con il suo legale la propria storia personale, connotata da ricorrenti problemi psichiatrici e da un precedente atto di autolesionismo ai polsi, compiuto solo due giorni prima, in ragione del quale era sottoposto a regime di grande sorveglianza, deducendo la responsabilità della struttura penitenziaria, per non avergli impedito la disponibilità delle lamette. All’istanza risarcitoria il ministero si era opposto sul presupposto che la relazione medica del 15 novembre 2012, redatta in occasione dell’atto di autolesionismo ai polsi, aveva escluso intenti suicidari e sostenendo che comunque la sorveglianza, pur non continuativa, era stata adeguatamente esercitata, dovendosi ravvisare quanto meno un concorso di colpa del detenuto. Diverso però il giudizio dei magistrati, secondo i quali “l’amministrazione penitenziaria non è stata in grado di adottare tutte quelle misure che, attese le specifiche ragioni di rischio, avrebbero dovuto impedire che l’appellato potesse avere di nuovo la disponibilità di una lametta”. Condotta non imprevedibile - Per i giudici, “la relazione della direzione della casa circondariale, datata 28 novembre 2012, dà atto del fatto che non si può escludere che le lamette siano state passate da altri detenuti nella sezione infermeria, oppure attraverso le inferriate della cella, posto che, nel corridoio antistante, erano transitati, in quella giornata, per due volte, 42 detenuti, i quali avrebbero potuto consegnare al detenuto una lametta attraverso le inferriate; in tale contesto, non solo si deve concludere che la vigilanza fu di fatto inadeguata a prevenire il rischio di nuovi atti di autolesionismo, ma neppure può sostenersi che il comportamento del detenuto sia stato del tutto imprevedibile e come tale non evitabile, posto che, al contrario, la condotta posta in essere dal medesimo ha costituito una reiterazione, due giorni dopo, proprio del gesto posto in essere il 15 novembre 2012, rispetto al quale la vigilanza, alla quale l’amministrazione penitenziaria era tenuta, si è rivelata inadeguata”. Milano. Generosità oltre le sbarre per il Banco Alimentare: “Donare ci dona dignità” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 4 gennaio 2023 La colletta di alimenti nelle carceri. “La crisi ha reso i detenuti ancora più sensibili”. Da Padova a Catania superata la raccolta del 2019. Chi offre un pugno di fagioli: “È tutto ciò che ho”. Quando il direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano, li aveva visti arrivare con tutto l’armamentario consueto di scatoloni e furgoni e così via, quest’anno non era riuscito a trattenere una battuta: “Con la crisi che c’è mi sa che questa volta tirate su poco”. Poi si era fatto serio: “I detenuti fanno sempre meno spesa, non hanno niente”. Quando invece li ha visti andarsene con furgoni e scatoloni zeppi ne ha detta un’altra, con un gran sorriso, tutta di cuore e in fondo anche di soddisfazione: “È sempre così. I più generosi son sempre i più poveri”. Perché è un fatto: la colletta alimentare prenatalizia nelle carceri non ha mai deluso le aspettative e anzi ogni anno si fa più intensa. Contributo - Qualcuno pur di non restare indietro non ha aspettato neanche l’arrivo dei volontari per la raccolta, fissata a fine novembre come da tradizione ormai matura, ma hai visto mai che per qualche motivo quest’anno non li lasciassero entrare: e così Pietro, dal carcere Due Palazzi di Padova, già dieci giorni prima si era presentato al colloquio con due pacchi di pasta da dare a sua mamma. “Per i poveri”, le ha detto. La colletta alimentare del 2021 gli era rimasta impressa, mezza tonnellata era stato alla fine il contributo dei detenuti di Padova, e lui che alla fine è un ragazzino alla sua prima carcerazione l’aveva in seguito raccontata così: “Non mi era mai capitato di sentirmi importante per il solo fatto di essere io a regalare qualcosa a degli sconosciuti”. In misura più o meno consistente - perché poi dipende anche dalla collaborazione dell’amministrazione penitenziaria, delle varie direzioni, del personale, delle cento autorizzazioni che si devono chiedere ogni volta che in un carcere c’è da spostare un foglio - anche quest’anno è stato un fiume: praticamente ovunque, da Catania a Lecce a Bari a Taranto, su fino a Verona. Paola Moretti è una delle volontarie dell’associazione Incontro e Presenza, che collabora col Banco Alimentare per la raccolta delle donazioni appunto sul fronte di San Vittore. Guido Boldrin fa lo stesso nel carcere di Opera. Entrambi sottolineano in effetti una premessa iniziale: “Questa è una cosa che si riesce a fare grazie alla collaborazione di tutte le parti di quella organizzazione complessa che è un carcere: direttori, agenti, educatori, cappellani, referenti dei detenuti... Dopodiché - dice Paola, quasi rispondendo a distanza alla battuta di cui sopra - quest’anno a San Vittore abbiamo notato un dettaglio: le altre volte le persone donavano quel che avevano in cella, questa volta molti di loro hanno fatto la spesa apposta. Proprio perché sanno che fuori è più dura”. Tradotto in chili: a questo giro nel carcere storico di Milano ne sono stati raccolti 244, “che non è solo il triplo dell’anno scorso - dice Paola - segnato ancora dalla pandemia, ma è più dei 220 chili raccolti nel 2019, quando la pandemia non c’era”. I numeri di Opera sono anche molto più alti poiché più grande è il carcere: “Quest’anno oltre una tonnellata”, dice Guido. “Ma il punto - riprende subito - non sta nella quantità. È il fatto che praticamente tutti quando li incontriamo ci dicono la stessa cosa e cioè grazie. Loro a noi, capito? Perché nel gesto di donare qualcosa a qualcuno ritrovano la propria dignità di persone”. Le immagini scorrono nella memoria: “A Opera - continua Guido - c’era un ragazzo appena arrivato dal minorile, dal Beccaria, che al nostro arrivo è corso in cella e si è presentato con un sacchetto di fagioli secchi dicendoci “è tutto quel che ho”. Un altro ha svuotato nel nostro scatolone tutto quel che aveva nel suo dicendo “sono solo scatolette di tonno”, poi le conti e scopri che sono quindici e le ha messe lì tutte”. Quest’anno per la prima volta c’è anche chi ha ottenuto di fare un passo in più, col permesso di uscire e partecipare alla colletta aiutando i volontari del Banco fuori dai supermercati. Come Ambrogio, che da Opera ha passato mezza giornata davanti a un super di via Feltre, dalla parte opposta di Milano. Lo stesso è successo a Napoli e Verona. Fabio Romano, presidente di Incontro e Presenza, sintetizza l’esperienza traendone una riflessione più generale: “La svolta è stata l’Ucraina. In primavera dalle carceri non hanno neppure aspettato una richiesta di aiuto, hanno chiamato loro per offrirlo. Si tratta di riscoprire e mostrare un’umanità viva e presente nonostante l’errore commesso. E riscoprire che il carcere è un luogo dove la privazione della libertà non impedisce di essere uomini. Nella “società civile” spesso ci muoviamo per avere la coscienza a posto, loro invece lo fanno per rispondere a un bisogno urgente per sé, per dare significato alla loro esistenza. Un dono di sé commosso per il bene dell’altro, ogni tanto addirittura contagioso”. La ferocia dell’antimafia nel libro coraggioso e rigoroso di Barbano recensione di Giuliano Cazzola* Il Dubbio, 4 gennaio 2023 Ci sono due aspetti del saggio di Alessandro Barbano (L’Inganno - Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene - Marsilio 2022) che mi hanno particolarmente colpito: in primo luogo il lavoro di ricerca e di documentazione a cui ha dovuto sottoporsi l’autore per poter raccontare una brutta storia italiana in modo ineccepibile, senza fornire alcun pretesto di critica e di contestazioni. Questo rigore costituisce la migliore spiegazione del secondo aspetto: il coraggio. Ne occorre tanto per intraprendere una battaglia come quella condotta nel libro. Del resto quando ci si impegna in un’impresa non solo difficile, ma anche rischiosa sul piano personale, non si deve mai commettere un errore capitale come quello di affrontare casi e situazioni senza garantirsi la sicurezza delle informazioni. Chi scrive è convinto, in coscienza, di aver difeso nella sua ormai lunga vita le proprie convinzioni, di aver condotto la buona battaglia (che non significa avere sempre ragione, ma credere in quello che si sostiene) in tante occasioni e attività che ha scelto o dovuto svolgere. Ho subito minacce e ho vissuto in contesti di possibile rischio che mi hanno portato a vivere per ben 11 anni sotto tutela. Ma, inoltrandomi nella lettura del saggio, mi è capitato spesso di stupirmi di fronte a coraggio d cui sono intrise le parole e le frasi di quelle pagine, sorrette da una forza morale veramente inconsueta. Barbano non si tira indietro e denuncia di “che lacrime grandi e di che sangue” il potere politico e giudiziario dell’Antimafia, tanto nelle sue istituzioni portanti (la superprocura e la Commissione bicamerale), quanto nelle organizzazioni che agiscono nella società civile (come il network Libera e il suo carismatico leader). L’idea forza del libro sta nella denuncia di un sistema in cui a fianco di un diritto penale ordinario è operante un diritto penale speciale, emergenziale dedicato alla lotta alla mafia. La stortura è insita nel “procedimento di prevenzione” che consente ai magistrati addetti di sequestrare e confiscare beni e aziende sulla base di accertamenti superficiali e di comminare pene a soggetti che spesso non sono neppure colpevoli né giudicate e condannate. “Pensate all’assurdo logico - scrive Barbano - che si realizza quando una persona viene, allo stesso tempo, riconosciuta innocente e colpita da una misura afflittiva come la confisca di una casa o dell’azienda di una vita, solo perché viene ritenuto comunque un soggetto a rischio di delinquere anche se nessun fatto specifico gli è contestato. Si è venuta a creare così una sorta di “manomorta” giudiziaria che distrugge ricchezza, posti di lavoro e che arricchisce soltanto gli commissari nominati dai tribunali appositi per gestire le attività economiche sequestrate e confiscate perché in odore di mafia. La conseguenza è la seguente: secondo l’Osservatorio istituito dal ministro Marta Cartabia le aziende affidate agli amministratori giudiziari risultano essere 2.245, ma solo 145 sono ancora attive. Ma le dimensioni reali del fenomeno - aggiunge l’autore - sono assai più numerosi. In un’audizione il ministro Cartabia ha indicato la cifra monstre di ben 215.995 beni coinvolti dalle misure di prevenzione. Di questi 81.913 sono stati confiscati. Il bello è che l’Agenzia nazionale per la gestione dei beni confiscati è stata promossa nel 2010 dal governo Berlusconi. Gli addetti ai lavori vanno in giro dicendo - c’è caduta anche Cartabia - che la nostra legislazione antimafia è la migliore del mondo e che tutti i Paesi ce la invidiano, salvo, come nota Barbano, guardandosi bene dall’adottarla. In generale il sequestro dei beni negli altri Paesi viene effettuato nell’ambito del processo penale e in conseguenza del suo esito; da noi è una procedura che va avanti sul suo conto sulla base di un sospetto, di stili di vita considerati non compatibili con il proprio reddito, di arricchimenti maturati troppo in fretta. E non c’è Santo che tenga: l’onere della prova è invertito; tocca alla vittima discolparsi della sua … innocenza. Barbano racconta vere e proprie storie di persecuzioni, di famiglie rovinate a causa di errori nelle indagini in un contesto - quello della c. d. prevenzione - che non consente neppure le tradizionali garanzie di difesa. La passione civile e l’onestà intellettuale hanno persuaso Alessandro Barbano a cimentarsi con il Santuario del giustizialismo come l’Antimafia: una sorta di “guardiani della rivoluzione” di “talebani in toga” sempre pronti loro e i loro manutengoli ad accusare di complicità con la mafia e le altre organizzazioni malavitose chiunque non si prostri ai loro piedi beneficandone il ruolo e santificandone le azioni. I media hanno creato intorno ai “professionisti del bene” un’aura di perfezione, nonostante che taluni di loro meriterebbero di essere spernacchiati per gli insuccessi delle loro retate. Il diritto penale dell’Antimafia non si cura degli effetti collaterali delle azioni dei suoi sacerdoti, i quali non esitano a coprire i loro soprusi evocando tanti valorosi magistrati, funzionari e personalità politiche che sono morti sul campo dell’onore nel condurre la lotta alla mafia. Il fatto è che l’opinione pubblica è sobillata dall’azione incessante del circolo mediatico giudiziario. Alla fine nei panni del mio amico Alessandro mi chiederei se dovessi temere di più la mafia o l’antimafia. Cosa nostra può farti saltare per aria mentre guidi l’auto o può mandare un killer ad ucciderti. L’antimafia può fare di peggio: rinchiuderti in un carcere innocente e gettare via la chiave. Fondi Pnrr, per la scuola un’occasione irripetibile di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 4 gennaio 2023 Per la prima volta nella storia le risorse messe a disposizione del nostro Paese possono rafforzare il nostro sistema di istruzione, innovandolo sia dal punto di vista strutturale che funzionale. Il primo sistema d’istruzione del nostro Paese è stato introdotto con la legge Casati del 13.11.1859, in soli 4 mesi. Un tempo record per gli standard odierni. Forse potrebbe essere improprio parlare di una legge italiana emanata prima dell’Unità d’Italia del 1861 ma è certo che alla stessa, o per meglio dire al suo legislatore, non può essere negato il merito di aver compreso che nel “fare l’Italia” dovevano essere “fatti anche gli italiani” che, in quel momento storico, erano analfabeti per il 78%. Sia pure con tutte le problematiche connesse, tra le quali quelle legate alla carenza di diffusione nelle zone più disagiate del Sud, oppure la mancanza dell’obbligo scolastico, ma anche l’assenza di disposizioni per le scuole dell’infanzia e la promozione professionale, è certo che la scuola rappresentò il più potente collante della popolazione. Eppure, nella concreta attuazione della riforma, il sistema scolastico tradì i principi sulla base dei quali era stato realizzato. In primo luogo la inadeguatezza delle risorse stanziate. A distanza di oltre un secolo e mezzo e nonostante le numerose riforme nel frattempo intervenute, i problemi della scuola di oggi, quantomeno nella sua macro enucleazione, sono rimasti gli stessi. Proprio per questa ragione possiamo ben dire che per la prima volta nella storia le risorse messe a disposizione del nostro Paese dal progetto di ripresa europeo Next Generation EU, del quale il nostro Pnrr fa parte, rappresentano una possibilità irripetibile per rafforzare il nostro sistema di istruzione, innovandolo sia dal punto di vista strutturale che funzionale. Benché il conflitto russo-ucraino, che ha modificato gli equilibri geo-politici ed economico-finanziari internazionali portando l’Europa in una imprevista e rilevante crisi energetica, imponga un riordinamento delle priorità e degli investimenti previsti dal Pnrr, dobbiamo continuare a mantenere la barra dritta e non rinunciare agli obiettivi preventivati. Tra questi l’istruzione e ricerca, che con la disponibilità di oltre 30 miliardi di euro, è la terza missione maggiormente finanziata e, verosimilmente, quella che consentirà al nostro Paese di conseguire una maggiore efficienza e competitività. Parliamo di una riforma che, suddivisa in due tronconi, attiene al “potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione: dagli asili nido alle università” il cui stanziamento è di 19,44 miliardi di euro e riguarda sia investimenti strutturali che formativi. E l’altro segmento “Dalla ricerca all’impresa” con il quale si mira, attraverso la disponibilità di 11,44 miliardi di euro, a sostenere gli investimenti in ricerca e sviluppo, promuovendo l’innovazione e la diffusione delle tecnologie e a rafforzare le competenze. D’altra parte la messa in sicurezza e, più in generale, la modernizzazione degli oltre 42 mila edifici scolastici italiani, che mediamente ospitano circa 8 milioni di studenti, non è ulteriormente differibile posto che, solo per dare un’indicazione di massima, il 3% è stato costruito nell’Ottocento, e soltanto il 32% dopo il 1976. A ciò si aggiunga l’altro rischio sismico, considerando che solo l’8% è stato progettato secondo normative anti sismiche nonostante il 54% degli stessi si trovi in zone sismiche. Con analogo impegno si deve puntare allo sviluppo del capitale umano. Un obiettivo che deve diventare priorità assoluta per scongiurare il declino del nostro Paese che più di altri, tra quelli europei, è caricato da un ingente debito pubblico, da una ormai insostenibile paralisi infrastrutturale, da un costo del lavoro eccessivo, una economia sommersa e basso tasso di natalità. Soltanto assumendo con determinazione l’impegno di innovare scuola e università, riconoscendo il merito e promuovendo le eccellenze, si può implementare lo sviluppo e migliorare il benessere della società. L’attrattività della scuola, con la realizzazione di strutture idonee e stimoli formativi, tra i quali l’attuazione di un sistema integrato scolastico professionale, è l’arma più potente per contrastare i pericoli dell’abbandono e della dispersione scolastica. Caccia ai migranti in Friuli, ritornano le deportazioni: la direttiva segreta del governo di Gianfranco Schiavone Il Riformista, 4 gennaio 2023 Non sembra esserci pace al confine terrestre tra Italia e Slovenia, un tempo un pezzo della cortina di ferro ma dal 2007 solo un confine interno all’Unione Europea. Su quel confine, lontano dal clamore mediatico, ma dove entrano i rifugiati che attraversano la rotta balcanica, da alcuni anni un’Italia in profonda crisi politica e morale ha scelto di attuare scelte illegittime di eccezionale gravità: tra maggio 2020 e gennaio 2021 (vedasi l’analisi su queste pagine del 6 agosto 21) il Governo di allora, con Lamorgese ministro dell’Interno e Piantedosi capo del suo Gabinetto, rispolverò un accordo del lontano 1996 tra l’Italia e la Slovenia relativo alle cosiddette riammissioni immediate degli stranieri intercettati lungo la linea confinaria che si trovino in condizioni di irregolarità di soggiorno. Dovremmo parlare, a stretto rigore, di un accordo solo presunto, dal momento che esso, pur avendo una chiara natura politica, non è mai stato ratificato dal Parlamento italiano come previsto, quale condizione vincolante, dall’art. 80 della Costituzione. In cosa consisteva, in breve, quel maldestro tentativo del 2020? Nell’assoggettare alle già dubbie procedure di riammissione anche coloro che, alla frontiera, o rintracciati nelle sue vicinanze, volevano chiedere asilo all’Italia impedendo loro di accedere alla procedura e procedendo a una immediata restituzione alla polizia slovena delle persone, trattate alla stregua di semplici irregolari. Per rinforzarne l’efficacia l’intera operazione veniva attuata in modo “informale”, ovvero senza notificare agli sventurati alcun provvedimento, in modo che non potessero agire in giudizio a loro tutela, in spregio ai principi basilari di uno stato di diritto. Sulla base di tale scaltra strategia, il diritto di chiedere asilo al confine terrestre italiano che guarda a Est sarebbe divenuto solo un lontano ricordo, con buona pace del diritto internazionale, di quello europeo, nonché anche del nostro diritto interno. Tra maggio 2020 e gennaio 2021 seguirono dalla sola Italia oltre mille riammissioni, quasi tutte proseguite con un ben rodato meccanismo “a catena” che in poche ore produceva il trasporto forzato dei malcapitati attraverso la Slovenia e la Croazia e che si concludeva rigettando il carico dei deportati a suon di botte, sprangate, scosse elettriche e ogni altro genere di sevizie oltre il confine esterno dell’Unione tra Croazia e Bosnia. Nel gennaio 2021 un’ordinanza del Tribunale di Roma pronunciata in sede cautelare (R.G. 56420/2020) riscontrò la sussistenza di innumerevoli e gravissime violazioni della legalità da parte delle autorità italiane; le riammissioni dei richiedenti asilo cessarono e a metà ottobre dello stesso anno il Ministero dell’Interno, rispondendo alla Camera a una interrogazione di Riccardo Magi, ammise, con burocratico linguaggio affinché poco si capisse oltre la cerchia ristretta degli addetti ai lavori, che almeno la riammissione dei richiedenti asilo è senza dubbio illegale. A riprova del fatto che le riammissioni fossero servite quasi esclusivamente per impedire l’accesso al diritto di asilo, il numero di riammissioni degli “irregolari” effettuato dall’Italia alla Slovenia, in tutto il 2021, come nel 2022, crollò a qualche decina. A lungo sembrò che quella delle riammissioni fosse una delle tante brutte pagine occorse in questo Paese, ma comunque una pagina chiusa. Non è stato così: il 6 dicembre scorso, a margine di una visita al consiglio regionale del Fvg il novello sottosegretario agli Interni Prisco dichiarò che “Il ministro Piantedosi ha diramato [ndr, il 28.11.22] una direttiva alla Polizia di frontiera e ai Prefetti per riutilizzare i meccanismi di riammissione già considerati dagli accordi italo-sloveni” in modo da consentire “all’Italia di poter riconsegnare chi non ha titolo per restare”. Dichiarazioni talmente vaghe che non permettono di dare una risposta alla domanda cruciale ovvero se il governo abbia ripristinato o meno le riammissioni dei richiedenti asilo pur essendo consapevole che ciò sarebbe illegittimo. Inutile cercare una risposta nelle dichiarazioni di alcuni giorni dopo dell’uscente prefetto di Trieste Vardè che al giornale online Trieste Prima ha dichiarato che “ci sono state alcune riammissioni, ma non posso entrare nel merito”. Poco male, si potrebbe dire dal momento che in uno Stato che rispetti il principio di trasparenza della pubblica amministrazione, la voluta vacuità delle dichiarazioni politiche viene superata dalla diretta conoscenza degli atti. Così Duccio Facchini, direttore del noto mensile Altreconomia, ha chiesto (come può fare chiunque) sulla base delle vigenti previsioni di legge, di conoscere il contenuto della succitata direttiva (la cui firma viene attribuita nel frattempo non più all’attuale ministro dell’Interno ma alla sua Capo di Gabinetto, Sempreviva) ricevendone però un secco rifiuto “in ragione del concreto pregiudizio che dall’ostensione dell’atto deriverebbe alla integrità dei rapporti internazionali del nostro Paese con la Slovenia e con l’Austria, anche in tema di cooperazione di polizia ed inoltre, alla tutela, in sede locale, della sicurezza pubblica, con specifico riferimento all’attività di prevenzione e contrasto all’immigrazione illegale”. Immagino che il lettore non crederà ai propri occhi; come può la pubblica conoscibilità di una semplice direttiva indicante le modalità di attuazione di procedure di riammissione ritenute legali dal Governo compromettere nientemeno che i rapporti internazionali dell’Italia con gli stati confinanti? Cosa si sta nascondendo e cosa sta effettivamente avvenendo al confine terrestre con la Slovenia dal quale arrivano in Italia rifugiati che fuggono dalle persecuzioni e conflitti in Afghanistan, in Iraq, in Iran, in Siria e da altri paesi del Medio oriente e dell’Asia centrale? Innanzitutto ciò che è certo è che le riammissioni continuano ad avvenire sempre in modo “informale”, una parola gentile che nasconde l’incredibile mancanza di un provvedimento motivato in fatto e in diritto, notificato e quindi impugnabile in giudizio. A ben guardare in questa storia di giochi linguistici, omissioni e silenzi, anche l’altra parola gentile, ovvero riammissione, nasconde quella di respingimento, o, con maggior precisazione nasconde quella reale, ovvero deportazione, giacché il respingimento, quale istituto giuridico legittimo, consiste sempre in un atto motivato e notificato. Per comprendere quali sono i parametri di legalità da applicare, alle frontiere dell’Unione Europea nei confronti di chi intende chiedere asilo, va richiamata la Direttiva 32/2013/Ue sulle procedure d’asilo la quale dispone che “qualora vi siano indicazioni che cittadini di paesi terzi o apolidi […] presenti ai valichi di frontiera […] desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, gli Stati membri forniscono loro informazioni sulla possibilità di farlo” (art. 8 paragrafo 1). Inoltre il “Manuale pratico per le guardie di frontiera” edito dalla Commissione Europea (Bruxelles, 8.10.2019 C(2019) 7131 final) impartisce le seguenti disposizioni: “Un cittadino di paese terzo deve essere considerato un richiedente asilo/protezione internazionale se esprime in un qualsiasi modo il timore di subire persecuzioni o danni gravi facendo ritorno al proprio paese di origine o nel paese in cui aveva precedentemente la dimora abituale. L’intenzione di chiedere protezione internazionale non deve essere manifestata in una forma particolare. Non occorre che la parola “asilo” sia pronunciata espressamente; l’elemento determinante è l’espressione del timore di quanto potrebbe accadere in caso di ritorno. In caso di incertezza sul fatto che una determinata dichiarazione possa essere intesa come l’intenzione di chiedere asilo o un’altra forma di protezione internazionale, le guardie di frontiera devono consultare le autorità nazionali a cui spetta esaminare le domande di protezione internazionale. […] le autorità di frontiera devono informare i richiedenti, in una lingua che possa essere da loro sufficientemente compresa, delle procedure da seguire (come e dove presentare la domanda), nonché dei loro diritti e doveri, incluse le conseguenze possibili dell’inosservanza dei loro obblighi e di una mancata collaborazione con le autorità”. L’esistenza di un’attività informativa da parte della polizia di frontiera sul diritto e le modalità per chiedere asilo e sulle conseguenze della eventuale scelta di non farlo, è dunque condizione preliminare per garantire il rispetto della legalità. Ad esempio un rifugiato afgano può di primo impatto indugiare nel chiedere asilo in Italia perché intende, con buone ragioni, raggiungere al più presto il fratello in Germania. Ma ciò non lo rende di per sè una persona che può essere respinta. Parimenti colui che di fronte alla domanda posta dall’agente di frontiera “sei venuto per lavorare?” risponde “sì” non vuol dire che possa essere disinvoltamente classificato quale migrante che non è in cerca di protezione. Il diritto di chiedere asilo è uno dei diritti fondamentali che sono tutelati dall’ordinamento giuridico nazionale e sovranazionale e non già un gioco di società dove vale la risposta giusta e veloce, altrimenti passi il giro. Le frontiere italiane sono note non solo per la frequente mancanza di interpreti ma anche per l’uso costante di prassi distorcenti quali l’uso del cosiddetto “foglio notizie” da far compilare agli stranieri in pochi istanti. Eppure sull’illegittimità dell’uso del foglio notizie quale strumento di selezione e determinazione della condizione giuridica delle persone si è già pronunciata la Corte di Cassazione, con due successive pronunce (n. 18189/2020 e n. 18322/2020). Risulta che presso la polizia di frontiera a Trieste, come altrove, sia in uso un foglio notizie che alla voce “venuto in Italia per” riporta, nell’ordine, le seguenti caselle da sbarrare: a) per migliorare le condizioni economiche; b) lavoro; c) raggiungere famigliari; c) altro; d) asilo. Domande quanto mai ambigue e scivolose. Alla luce dei gravi fatti avvenuti nel 2020, nonché dell’opacità della situazione attuale, sospettare che si possano verificare nuovamente estesi abusi non è solo lecito ma è doveroso. La fitta nebbia che continua ad avvolgere quanto avviene al confine terrestre italiano con la Slovenia, va infatti dissolta; farlo è un compito, nei rispettivi diversi ruoli, di tutte le forze politiche democratiche, della magistratura e dell’Unhcr. (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) quale agenzia internazionale posta a tutela del diritto d’asilo. Migranti. L’ammiraglio Gallinelli: “Ong, decreto contro il diritto internazionale” di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 gennaio 2023 Da 40 anni in Guardia costiera, l’ufficiale critica il provvedimento Piantedosi: ha difetti di giurisdizione e presenta troppe ambiguità. “Partenze e affari dei trafficanti continueranno, non farà diminuire morti e dispersi”, dice al manifesto. “Nella norma c’è un miscuglio concettuale tra aspetti relativi al soccorso e di immigrazione”. Sandro Gallinelli entra nella Guardia costiera nel 1983. In servizio attivo fino al 2019, segue da vicino il Sar (search and rescue/ricerca e soccorso) relazionato alle migrazioni. All’inizio dei Duemila, come comandante della Capitaneria di Gallipoli, gestisce i soccorsi alle navi provenienti dalla Turchia con profughi curdi e abbandonate alla deriva. Dal 2014 lavora nel terzo reparto, “operazioni”, da cui dipende il centro nazionale per il coordinamento del soccorso marittimo (Imrcc). Cuore e testa dei salvataggi istituzionali. Cessato dal servizio e ora contrammiraglio in ausiliaria, continua a occuparsi del tema. Con il manifesto commenta il decreto Piantedosi. Sembra che l’Italia voglia normare quanto avviene su una nave straniera in acque internazionali. Ha giurisdizione? Non mi risulta, le disposizioni che riguardano attività svolte da navi straniere in acque internazionali contrastano con il diritto internazionale. In base alla Convenzione Onu sul diritto del mare (Unclos del 1982) in alto mare ha giurisdizione solo lo Stato di bandiera. Rovesciamo l’ottica. L’Italia dice: a queste condizioni ti garantisco l’ingresso nel mio territorio, altrimenti vai altrove... Il decreto dice che le autorità italiane possono emanare un provvedimento di interdizione per motivi di sicurezza e ordine pubblico, a meno di alcune condizioni. Basta che una sola sia disattesa e le autorità sono legittimate a vietare l’ingresso della nave finalizzato allo sbarco. Le navi Ong dovrebbero dirigersi nei porti assegnati “senza ritardo”. Se c’è un Sos il comandante può trascurarlo? Non mi risulta. La nave più vicina e in condizione di prestare soccorso ha il dovere di intervenire. A meno che il centro di coordinamento responsabile dica espressamente di non farlo perché ha risorse migliori. Il comandante, comunque, risponde all’ordinamento dello Stato di bandiera e mantiene una discrezionalità tecnico/nautica. Il problema di fondo è che il decreto non regolamenta tutta l’attività Sar connessa ai flussi migratori. Impone obblighi solo alle navi Ong, ma non fa altrettanto con le autorità nazionali. C’è uno sbilanciamento che lascia margini di incertezza. E se il pericolo è in Sar libica? Se le autorità responsabili non rispondono il comandante ha l’obbligo, impostogli dal proprio ordinamento di bandiera ai sensi dell’art. 98 Unclos, di intervenire senza ritardo. Se i libici dicono di non farlo formalmente sarebbe svincolato da responsabilità, ma in base alla sua discrezionalità e ad altri elementi deve decidere che fare. Qui può nascere un problema col decreto, se avesse poi necessità di sbarcare i naufraghi in Italia. Il provvedimento garantisce sosta e transito nel mare territoriale solo ai fini di assicurare soccorso e assistenza. Possono esserci conseguenze nei rapporti con altri Stati? La frase mi pare equivoca. Le navi commerciali, tutte quelle non militari, hanno diritto di transitare nelle acque di un altro paese ed entrare nei suoi porti per attività commerciali o di altra natura (ripararsi dal maltempo, rifornirsi di viveri o portare a terra i naufraghi), a condizione che sia garantito un trattamento reciproco e detto passaggio risulti inoffensivo, cioè non metta in pericolo interessi di rilievo dello Stato costiero. Non si capisce bene quale sia l’interesse che si vuole tutelare con questa disposizione, che comunque non dice che le navi devono uscire dalle acque nazionali dopo lo sbarco. Ma se fosse interpretata così, magari per ritardare nuove missioni? Sarebbe in contrasto con la convenzione internazionale sui porti marittimi del 1923. Il cui principio cardine è la reciprocità: lo Stato costiero non può imporre obblighi che lo Stato di bandiera non impone. Comunque queste sono suggestioni. Mi lascia perplesso trovino spazio. Le norme devono essere chiare e univoche. Altrimenti sorgono dubbi sulla validità della tecnica normativa, al di là dei suoi obiettivi. Il decreto accompagna la nuova prassi di assegnare il porto dopo il primo soccorso e lontano. È una prassi corretta? Assegnare il porto sicuro di sbarco (Pos) subito dopo un soccorso non è strano. Semmai è anomalo imporlo quando c’è un altro caso aperto, soprattutto a una nave straniera che è in acque internazionali e senza che il centro di soccorso abbia assunto la responsabilità della gestione dell’evento Sar. Rispetto alla distanza il diritto internazionale e le istruzioni dell’Organizzazione marittima internazionale (Imo), basate sulle Convenzioni Solas e Sar, dicono che il porto deve essere dato senza indebito ritardo e con la minima deviazione possibile per la nave soccorritrice. Anche se non è scritto da nessuna parte il “porto più vicino” si intende chiaramente che dovrebbe essere quello sicuro più vicino possibile. Sempre? Può essere necessario assegnare porti un po’ più lontani, ma occorre motivare chiaramente la deviazione dall’indirizzo generale, perché il diritto italiano prevede che i provvedimenti discrezionali della Pubblica amministrazione debbano essere motivati e non arbitrari e dare perciò anche la possibilità di contestare la scelta. Anche successivamente allo sbarco: per esempio dimostrando che in situazioni analoghe le autorità si sono comportate in modo diverso. A chi ha dedicato la vita a Guardia costiera e soccorsi in mare che effetto fa il decreto? Il decreto si intitola “gestione dei flussi migratori” ma guarda a un aspetto marginale del fenomeno. L’unico obiettivo evidente è contenere i soccorsi operati dalle navi delle Ong. Questo non fermerà le partenze, continuate anche in questi giorni con le Ong in porto o lungo rotte in cui queste non sono presenti (come da Algeria, Cirenaica e Turchia). Non colpirà neanche gli affari dei trafficanti che, nonostante i miliardi investiti da Italia e Ue, continuano a prosperare quantomeno dagli anni ‘90. Perché solo l’esistenza di credibili ed efficaci vie legali di migrazione può veramente limitare questo business. Dubito che il decreto possa incidere davvero sull’immigrazione irregolare e, purtroppo, sicuramente non limiterà morti e dispersi. Oksana, Shireen, gli eroi messicani. La strage impunita dei giornalisti di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 4 gennaio 2023 Il dossier: 66 uccisi in un anno (un terzo in più del 2021), 14 soltanto nel Paese dei narcos. Otto sono donne. Sapevano da tempo che non avrebbero brindato al 2023 insieme in casa Baulina. Ma non immaginavano che non ci sarebbe più stato alcun Capodanno da festeggiare insieme, la madre e la sorella di Oksana. L’ex redattrice di moda diventata il flagello del Cremlino, era stata costretta in primavera a lasciare Mosca dopo che la Fondazione anticorruzione di Navalny per cui lavorava era finita nella lista degli estremisti. Ma la sua nuova vita da inviata di guerra contro disinformazione e fake news è durata poco, stroncata a 42 anni, mentre riprendeva la distruzione causata dalle bombe russe in un centro commerciale fuori Kiev il 23 marzo. Dieci giorni prima a lasciarci la pelle da quelle parti era stato il “veterano” Brent Renaud: l’acclamato videomaker americano, autore di memorabili reportage per il New York Times, stava girando un documentario per il Time: è stato ucciso dal fuoco russo mentre cercava di testimoniare l’orrore dei corridoi umanitari violati a Irpin, alle porte di Kiev. Colpito al collo, è morto all’istante. Magra consolazione per suo fratello Craig, inseparabile compagno di lavoro negli angoli più bui del mondo. Soltanto due giorni dopo a cadere sarà Pierre Zakrzewski, l’”eroe buono” di Fox News, colpito insieme alla sua fixer Oleksandra Kuvshynova, la loro auto crivellata di colpi da soldati di Mosca alla periferia di Kiev. Giornalisti affermati la cui fine drammatica ha fatto molto rumore sui media, e reporter più giovani, che se ne sono andati quasi nel silenzio collettivo: di alcuni di loro non c’è nemmeno una foto nel rapporto dell’International Press Institute (Ipi) pubblicato ieri. La ricerca certifica un anno nero per la sicurezza dei giornalisti, con 66 reporter ammazzati nel mondo, tra cui 8 donne. Un terzo in più rispetto al 2021. E la maggior parte delle vittime, 39, è stata oggetto di attacchi mirati. In 9 casi su 10, poi, gli omicidi restano impuniti. A trainare questo drammatico aumento non è soltanto il fronte di guerra all’interno dell’Europa, ma soprattutto la violenza senza fine che insanguina il Paese dei narcos: 14 reporter sono stati trucidati in Messico nel 2022, l’anno più mortale dal 2017, contro gli 8 uccisi in Ucraina (quelli documentati, ma potrebbero essere di più) e altrettanti ad Haiti. Il Messico si conferma dunque il Paese più pericoloso al mondo per i media, con i giornalisti che sfidano la morte per denunciare corruzione e criminalità. Qui il 2022 si è aperto con tre esecuzioni in due settimane: a Veracruz viene centrato José Luis Gamboa Arenas, direttore della pagina Facebook Inforegio Network; e a Tijuana, Margarito Martínez e poi María Guadalupe Lourdes Maldonado, freddata a colpi di pistola mentre è a bordo della sua auto. Ad alimentare gli attacchi contro la stampa è la quasi certezza dell’impunità ma anche l’incapacità dello stato di garantire protezione, come dimostra anche la vicenda di Lourdes Maldonado. La donna già nel 2019 aveva chiesto il sostegno del presidente Andrés Manuel López Obrador, segnalando come mandante di possibili violenze contro di lei Jaime Bonilla Valdez, membro del partito presidenziale Morena. Bonilla è il proprietario del giornale con cui Lourdes Maldonado era in causa dal 2013 per licenziamento ingiustificato e debiti salariali. Il 19 gennaio la giornalista vince la causa. Quattro giorni dopo viene uccisa. Lourdes Maldonado è uscita di scena senza grande clamore internazionale. I riflettori del mondo si sono accesi invece per la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, raggiunta da un colpo di pistola alla testa mentre documentava un raid israeliano in Cisgiordania, a maggio. La giacca con la scritta “press” che indossava non le ha impedito di trasformarsi in un bersaglio. A colpire “per errore” sarebbe stato l’esercito israeliano.