Il rischio (invisibile) per i ragazzi: il carcere di Iuri Maria Prado Il Riformista, 3 gennaio 2023 La rissa di strada, l’abuso d’alcol e stupefacenti, l’incidente stradale: sono questi i pericoli temuti dal genitore medio, e dalla società che mostra di tenere ai propri giovani. E sono pericoli dovuti all’imprudenza, all’avventatezza, all’intemperanza non raramente tipiche appunto di quando si è ragazzi. Ma c’è un pericolo cui essi sono esposti e del quale non si parla mai, un pericolo anche più grave di quelli, e che più di quelli può infierire sulla vita del giovane che vi incappa. È il carcere. E il finire nelle grinfie di questo mostro, lo Stato, che in nome del popolo italiano istituisce, mantiene e organizza l’inutile e criminale segregazione dei ragazzi, a volte poco più che bambini, in luoghi di degrado fisico e morale, luoghi di istigazione alla criminalità che si vorrebbe prevenire e reprimere e che invece trionfa nell’incattivimento ulteriore del recluso e nella prospettiva moltiplicata della sua recidiva. È strano che non ci si pensi, ma che tra le tragedie di cui può essere vittima un giovane spicchi quella preparata dal potere pubblico, dallo Stato che tiene in funzione gli ambiti di abiezione in cui essa si consuma in nome della legge, dovrebbe costituire materia di grave cruccio per chi dice di avere a cuore la sorte dei giovani. L’adolescente che per un delitto non sempre di grave portata, anzi spesso di nessun allarme sociale, viene strappato alla famiglia e imprigionato in un ambiente violento, di sopraffazione, ed è perciò incamminato più rigorosamente su una via di emarginazione che aveva forse solo accennato a intraprendere, non è meno figlio di tutti noi rispetto a quello incolpevolmente coinvolto nella bravata, o spinto allo sballo dalla solitudine o dalla compagnia cosiddetta sbagliata. Con la differenza che questi incidenti non chiamano in causa in modo tanto diretto la responsabilità dello Stato, che invece in modo deliberato e persino con la pretesa di comportarsi giustamente eleva contro la vita, contro la salute, contro il futuro di tanti giovani la propria promessa di ingiustizia, la propria gratuita crudeltà, la propria ottusa perseveranza nel maltrattare giovani esistenze bisognose di cure, non di privazioni ulteriori. Bisognose di considerazione, non di umiliazione. Bisognose di credito, di speranza, di possibilità di vita: non del grugno inquirente dello Stato che rinfaccia la cattiva condotta che esso stesso induce e compila le poste di debito che peseranno per sempre su quella vita agli esordi. È curioso che la preoccupazione istituzionale sia richiamata dall’evasione di alcuni ragazzi, quella dell’altro giorno dal Beccaria di Milano: e non dal fatto che vi fossero rinchiusi. Mi sembra esemplare: il problema era la fuga e come evitare che fuggissero. Perché è questo che incrina l’affidabilità e la rispettabilità dello Stato: il fatto che esso non riesca a impedire a un adolescente di scappare, non il fatto di averlo imprigionato. Per tanti giovani, e non solo tra i più disagiati, prima e più della droga, prima e più della violenza di strada, prima e più degli incidenti, il pericolo è lo Stato con le sue prigioni. Donne discriminate in cella: carceri costruite su modello maschile di Sara Cariglia Libero, 3 gennaio 2023 Il carcere non è solo un gigantesco muro corvino che guarda il firmamento, ma quando è donna, in un mondo di uomini, è probabile che lo diventi. Giaele, 30 anni, ex detenuta, inciampata da ragazzina in reati piccoli e frequenti, racconta “quel pezzo di carcere da abolire” confidando anche come lo vorrebbe: “Con uguali diritti per tutti”. L’ex favoreggiatrice della mala milanese, spezza una lancia “a sfavore” del sistema detentivo italiano. Ci dice: “Se la prigione è un luogo di dolore, la prigione femminile, a causa di un’istituzione progettata da e per gli uomini lo è ancora di più”. Ci si chiede: in un sistema carcerario (da ripensare), incentrato su regole modulate su una visione maschio-centrica, quanti fiotti di parole, inchiostro e carta dovranno ancora scorrere prima di sprigionare dal blindo delle buone intenzioni l’umanità femminile che vive dietro le sbarre? Fino a quando le agorà penitenziarie continueranno a essere considerate invisibili gattabuie, tributo alla morte, “cimitero dei vivi”, e non microcosmi brulicanti di vitalità? A rispondere a questo grido, in nome delle oltre 2mila donne-detenute rinchiuse nella circa cinquanta sezioni femminili ricavate all’interno delle carceri maschili, ci prova Melissa Miedico, professoressa associata presso il Dipartimento di studi giuridici dell’Università Bocconi e responsabile del progetto cliniche legali dell’Ateneo milanese. “La carcerazione femminile rappresenta meno del 5% della popolazione carceraria, e subisce un’ulteriore discriminazione proprio per questa condizione di minoranza”. Quindi, “la sofferenza delle detenute è tanto più carica di emozioni, di emotività e sensi di colpa verso l’esterno e la famiglia che rimane fuori. Anche gli uomini provano sofferenza, ma è una sofferenza più razionale”. “Qualche giorno fa”, racconta la prof di via Sarfatti che spesso porta gli studenti nel carcere di Bollate, “un detenuto mi ha detto: “Le donne soffrono una doppia detenzione, quella che le priva della libertà e quella che le priva della femminilità”. In effetti la “donna criminale”, secondo gli stereotipi, tradisce non solo femminilità, ma anche vocazione materna. Si tratta però di un preconcetto che risponde a una realtà generalizzata che non riguarda specificatamente Bollate, che considero invece officina di idee e laboratorio di sperimentazioni”. La Miedico, in mondo ossessionato dall’emancipazione del gentil sesso, ma fondato su un farisaico rispetto delle “quote rosa”, rivolge uno sguardo anche alle forti criticità sanitarie interne al carcere delle donne, privi di servizi di ginecologia, ostetricia e pediatria. C’è poi la questione “cuore”. Se fino a ieri, nelle carceri, così come nel sesso, vigeva “il diritto di rimanere in silenzio” e “il dovere di arrestare e tenere in gabbia la libido”, oggi sembrano essere le carceri stesse a issare a patrimonio inalienabile il diritto alla affettività e alla sessualità. “In Italia è stata avanzata l’ipotesi delle “stanze dell’affettività”. Ma sono state però tacciate sin da subito come “celle a luci rosse”. “A Bollate ce n’è una anche al Femminile. È arredata con divano e Tv. Prima del Covid le recluse potevano soggiornarvi col partner, figli o amici, ma purtroppo dentro a uno spazio di detenzione appare ancora molto difficile conciliare l’inviolabilità di questi diritti”. Allarme sulla condizione dei detenuti nelle carceri di Giuseppe Picciano lospecialegiornale.it, 3 gennaio 2023 La condizione dei detenuti nelle carceri italiane sarà una delle questioni che, presto o tardi, il governo Meloni dovrà necessariamente affrontare, se non altro per l’entità del fenomeno e degli effetti collaterali. Come il sovraffollamento in alcuni penitenziari e i suicidi, per esempio. Negli ultimi dieci anni si sono tolti la vita 583 detenuti, 79 solo negli ultimi 11 mesi: il numero più alto in questo lasso di tempo e un dato ancora più allarmante se si considera che ora i detenuti sono molti meno che dieci anni fa. Vi sono dei dati ricorrenti e, secondo un’indagine del Garante nazionale, se si considera che un suicidio su cinque si verifica nei primi dieci giorni dall’ingresso nel carcere, più che le condizioni di vita in cella o la durata della pena da scontare, sembrano pesare “lo stigma” e anche la “paura dell’esterno”. Da qui la necessità di attenzione sulle condizioni di accertata fragilità, degli 84 suicidi, infatti, 33 erano senza fissa dimora o persone con disagio psichico. C’è “grande dolore” per la sequenza di suicidi, ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ha delineato in linea di massima quella che potrebbe essere una rivoluzione per il sistema carcerario. Tra i primi a togliersi la vita quest’anno, un 25enne di origine marocchina: era entrato alle 21 ed è morto alle 5 del mattino seguente, non c’è stato il tempo di immatricolarlo. Il più anziano aveva 83 anni, con un fine pena al 2030, e un reato che viene definito dall’Amministrazione penitenziaria di “riprovazione sociale”, quando si è tolto la vita era in isolamento dovuto al Covid. Da inizio anni 194 persone sono morte in carcere, 82 per cause naturali, 79 per suicidio, 30 per cause da accertare e 3 per cause accidentali. Tra i suicidi, 74 uomini e 5 donne, 46 italiani e 33 stranieri. Per la prima volta il Garante ha indagato sul fenomeno dei suicidi in carcere, andando oltre la conta. Sono stati incrociati gli elementi ricorrenti, l’età, condizioni le fragilità personali o sociali di partenza, e poi la posizione giuridica dei suicidi. Ne viene fuori, sottolinea l’organismo presieduto da Mauro Palma, che “a dispetto di quanto ci si potrebbe aspettare, le condizioni della vita detentiva o la durata della pena ancora da scontare o della carcerazione preventiva spesso non sembrano risultare determinanti nella scelta di una persona detenuta di togliersi la vita”. Quarantanove persone si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione; di queste, 21 nei primi tre mesi dall’ingresso in istituto e 15 entro i primi 10 giorni, 9 delle quali addirittura entro le prime 24. La metà erano in attesa di una sentenza definitiva: 31 persone perché in attesa di primo giudizio, 7 attendevano l’appello. Il ministro Nordio ha assicurato “tutele per i fragili”, in coordinamento con le autorità sanitarie, gli enti locali e le comunità terapeutiche: “L’obiettivo è individuare fin dall’inizio le persone con problematiche da dipendenza o con patologie psichiatriche o rischio di autolesionismo”. Guardando più in là, Nordio intende ripensare all’intera architettura carceraria, grazie all’ingresso di un commissario straordinario. “Per i detenuti meno pericolosi, o comunque per quelli in custodia cautelare, si può pensare all’uso delle numerosissime caserme dismesse, e le carceri in appetibili centri città potrebbero essere vendute per costruirne altre più grandi, moderne e funzionali”. Su tali problemi ritorna periodicamente Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Una delle risposte più efficaci, osserva il presidente Patrizio Gonella, è il regime di semilibertà. “Circa 700 persone recluse hanno beneficiato dei provvedimenti varati dal governo per contrastare il diffondersi del Covid-19 all’interno del carcere. Nel loro caso, questi provvedimenti consistevano nel non rientrare in carcere la notte, dopo aver passato la giornata fuori, in libertà, per attività di lavoro o altre attività autorizzate. Dal 31 dicembre, senza un’ulteriore proroga, questi detenuti dovranno tornare in carcere la notte nonostante in questi due anni abbiano dato grande prova di affidabilità, ripagando ampiamente la fiducia che le istituzioni avevano riposto in loro. Proprio questo rapporto di fiducia creatosi, dovrebbe portare il Governo a decidere per la proroga, ricordando che compito della pena è quello di costruire percorsi di risocializzazione, cosa che per queste persone sta avvenendo. Non ha senso interrompere questi percorsi, anche se solo parzialmente. Inoltre, in un momento in cui il sovraffollamento sta tornando a livelli preoccupanti (sono oltre 56.000 le persone detenute per circa 47.000 posti effettivi, con una crescita di 1.500 unità negli ultimi quattro mesi) - conclude Gonnella - trovare nuovamente posto a queste 700 persone è un aggravio in più per tutto il sistema penitenziario e per gli operatori. Auspichiamo perciò un intervento deciso del ministro della Giustizia Nordio”. “Presto mille agenti, comandanti e direttori. I detenuti tossici devono andare in comunità” di Riccardo Lo Monaco quotidianosociale.it, 3 gennaio 2023 “Entro ottobre di quest’anno ogni penitenziario italiano avrà il suo comandante della polizia penitenziaria e avrà anche il suo direttore”. Lo annuncia il sottosegretario Andrea Delmastro, avvocato penalista prestato alla politica, vicinissimo alla premier Giorgia Meloni. E non è l’unica notizia: in questa intervista il vice di Nordio parla anche di detenuti tossicodipendenti, da aiutare per la disintossicazione. Di detenuti extracomunitari: “Da rimpatriare”. E di magistrati onorari, da stabilizzare. Sottosegretario Delmastro, 190 sedi carcerarie coperte entro l’anno. È un risultato storico per il sistema dell’esecuzione penale italiana... “Ci abbiamo lavorato da subito, sin dal primo giorno del governo Meloni. La fine dello scavalco, la certezza che ogni istituto ha il suo comandante e il suo direttore è la premessa per garantire la sicurezza nelle carceri. Riusciremo ad ottenere questo risultato grazie ai concorsi, che per il vero erano già stati banditi prima del mio arrivo, e grazie a importanti operazioni di bilancio che hanno liberato risorse finanziarie. Un risultato che andrà a beneficio del corpo polizia penitenziaria, alla quale va prima di tutto il mio pensiero. E anche a beneficio dei detenuti”. Che qualche problema lo stanno creando. Vedi Benevento e il carcere minorile Beccaria di Milano... “Anzi, è il contrario. La rivolta di Benevento è stata sedata immediatamente e senza l’uso della forza proprio grazie al fatto che in quel carcere sono presenti il comandante della polizia penitenziaria e il direttore del carcere”. E per il carcere minorile di Milano come intende agire il governo Meloni? “Abbiamo capito che va fermato il fenomeno del capobranco, ossia il detenuto maggiorenne che assume il comando dei detenuti minorenni. Le norme in vigore consentono che persino un venticinquenne sia detenuto dentro un istituto minorile e questo è inaccettabile proprio perché genera questi fenomeni di branco. Per noi chi commette reati nella minore età può entrare e restare al minorile sino a 21 anni. Chi è condannato dopo il compimento dei 18 anni deve entrare nel circuito maggiore. Sarà necessario legiferare su questo, se vogliamo evitare che si ripetano fenomeni come la fuga dal Beccaria”. Alla polizia penitenziaria avevate promesso nuovi agenti: arriveranno? “Ho trovato le risorse finanziarie per mille nuovi agenti della polizia penitenziaria e posso annunciare qui che i primi 250 entreranno in servizio quest’anno, in aggiunta alle normali assunzioni previste per il turn over. Dunque, entro il 2026 l’organico della polizia penitenziaria conterrà mille dipendenti in più. A naso non mi pare che ci siano altre forze dell’ordine che abbiano ricevuto l’impegno finanziario per mille extra assunzioni”. Resta il tema, drammatico, del sovraffollamento carcerario. Il livello di civiltà di uno Stato si misura da come tratta chi priva della libertà… “Non possiamo non occuparci del sovraffollamento e infatti ce ne stiamo occupando seriamente. Un terzo dei nostri detenuti è extracomunitario, circa 17 mila persone. Insieme al viceministro agli Esteri Cirielli stiamo lavorando per rimandare questi extracomunitari il più possibile e il prima possibile nei penitenziari dei loro paesi. A oggi è necessario il consenso del detenuto, a meno che i trattati bilaterali come quello con l’Albania non prevedano diversamente. Per ridurre al massimo il numero dei detenuti extracomunitari possiamo immaginare anche una premialità nel decreto flussi per quegli Stati che consentono il rimpatrio anche senza il consenso”. Un detenuto costa mediamente 137 euro al giorno: senza gli extracomunitari non esisterebbe il tema del sovraffollamento e lo Stato risparmierebbe una tombola di euro... “Lo sappiamo bene. Per questo ho costituito un pool che si occuperà di informare il detenuto extracomunitario sulla possibilità di tornare a casa in un carcere del suo Paese. Serve il consenso del detenuto, se non si rivedono i trattati. E serve anche il certificato per l’esecuzione penale all’estero, che le procure devono produrre insieme alla sentenza di condanna per evitare che le procedure di espatrio giudiziario si rallentino inutilmente nei tribunali di sorveglianza”. Poi c’è il tema dei detenuti tossicodipendenti… “Che sono un quarto del totale dei detenuti. La prima rieducazione per loro è la disintossicazione. Il governo intende incentivare chi sceglie di andare in una comunità chiusa e protetta per curarsi e liberarsi dalla droga. Dobbiamo prevedere che per questi soggetti la pena si possa scontare così, da subito, senza passare per il vaglio del Tribunale di sorveglianza. L’obiettivo è anche far risparmiare molto lo Stato e far lavorare il terzo settore italiano. Una norma analoga avrebbe senso anche per i detenuti psichiatrici non di alta pericolosità, con comunità dedicate a loro e alternative al carcere. Non sarà facile ma è un percorso sul quale dobbiamo riflettere e prendere decisioni”. Le opposizioni vi accusano di avere un approccio ideologico verso la giustizia... “È l’esatto contrario: altri hanno un approccio ideologico ai temi della giustizia e lo hanno dimostrato con la concessione indiscriminata e generalizzata delle misure alternative alla detenzione senza una valutazione del condannato e del tipo di reato. Con noi non ci sarà uno svuota carceri mascherato: siamo pragmatici e deve essere sempre chiaro che il carcere, umano, è la via maestra della pena e della rieducazione. Che nel caso del tossicodipendente può essere raggiunta con il percorso in comunità. Mi sembra un discorso lineare che non viene capito soltanto da chi ancora equivoca sui diritti individuali. E su questi equivoci, non a caso, ha perso le elezioni”. Che fine faranno i magistrati onorari: lavorano da venti anni come precari dello Stato e amministrano la giustizia. Una parentesi vergognosa della Repubblica.. “È la prima volta che un presidente del Consiglio cita la magistratura onoraria in un discorso di fine anno. Non è un caso, c’è un impegno preciso verso di loro. Centouno viceprocuratori della Repubblica hanno firmato un appello che dice che senza gli onorari si fermano la giustizia civile e quella penale. A differenza della ministra Cartabia, che voleva fare una riforma a costo zero e destinare gli onorari a una funzione servente del “giudice di concorso”, noi riteniamo che questi professionisti siano stati formati dallo Stato alla funzione giurisdizionale. E debbano dunque svolgerla con tutti i diritti e le garanzie. Come le ferie e la malattia, con un compenso equo. Senza di loro l’Italia sarebbe in perenne infrazione dall’Ue e di questo tema mi occupo da anni, ben prima di entrare nel governo Meloni: nel mio staff ho voluto un magistrato onorario al quale ho chiesto espressamente di trovare le migliori soluzioni per la categoria. Siamo sicuri che nel 2023 avranno il loro riconoscimento, ne sono convinto”. Il destino incerto della riforma Cartabia, tra forca e garanzie di Ermes Antonucci Il Foglio, 3 gennaio 2023 La riforma del processo penale è entrata in vigore il 30 dicembre, ma tutti la vogliono già cambiare, a partire da Fratelli d’Italia. Resta da vedere se in senso garantista o giustizialista. La riforma Cartabia del processo penale, entrata pienamente in vigore il 30 dicembre, già rischia di essere cambiata. Resta da vedere se in senso garantista o giustizialista. Nella prima direzione si potrebbe andare se il governo decidesse di cancellare definitivamente la legge, voluta nel 2019 dall’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede, che interrompe il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, rendendo i processi potenzialmente eterni. La ministra Cartabia ha messo una toppa a questo obbrobrio giuridico, inducendo i grillini ad accettare il meccanismo della cosiddetta improcedibilità, cioè l’estinzione del processo se supera la durata di due anni in appello (tre per i reati più gravi) e uno in Cassazione (o 18 mesi). Ne è comunque venuto fuori un iter processuale schizofrenico. Così, la scorsa settimana il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni ha dato parere favorevole a un ordine del giorno presentato dal deputato Enrico Costa (Azione), e sottoscritto da tutto il Terzo polo, che impegna l’esecutivo a cancellare il blocco della prescrizione dopo il primo grado, ripristinando la disciplina della prescrizione sostanziale in tutti i gradi di giudizio. “È un’indicazione di buon senso, la prescrizione rimane un fondamento dello stato di diritto, altrimenti rischiamo di avere indagati o imputati a vita”, ha affermato la stessa premier Meloni nella conferenza stampa di fine anno. “Credo che su questo ci sia un consenso trasversale, è uno degli elementi che ci stanno a cuore”, ha aggiunto Meloni. Venerdì sono entrate in vigore altre parti della riforma Cartabia poco gradite alla nuova maggioranza di centrodestra, soprattutto nelle sue componenti più giustizialiste. Si tratta innanzitutto delle norme che consentiranno la concessione di pene sostitutive al carcere (semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità, pena pecuniaria) agli imputati condannati a pene inferiori ai quattro anni. Visto che le pene fino a quattro anni riguardano circa il 30 per cento dei detenuti, le norme potranno avere un impatto importante sul piano del contrasto al sovraffollamento carcerario. Questa parte del provvedimento è stata fortemente criticata da Fratelli d’Italia e Lega, fedeli a una visione carcerocentrica della pena (scambiata per “certezza della pena”). Un altro intervento della riforma Cartabia poco gradito da FdI e Lega è costituito dall’estensione dell’elenco dei reati procedibili soltanto su querela della persona offesa, e non più d’ufficio: da venerdì sono diventati tali anche reati come lesioni personali dolose non aggravate, sequestro di persona semplice, lesioni personali stradali gravi o gravissime, violenza privata non aggravata, furto, truffa, frode informatica, appropriazione indebita. Anche queste norme mirano a ridurre il numero dei procedimenti penali, favorendo condotte risarcitorie e riparatorie. Anche questa parte della riforma, però, non piace a quei partiti convinti che a ogni reato commesso debba fare seguito la detenzione in carcere. Il risultato, come fa sapere un esponente di Fdi al Foglio, è che il partito guidato da Meloni “non esclude di migliorare la riforma per rispondere alla domanda di sicurezza dei cittadini”. “Fratelli d’Italia non aveva votato la riforma Cartabia - prosegue - Una volta arrivati al governo, consapevoli della necessità di rispettare le scadenze europee per il Pnrr, abbiamo deciso responsabilmente di mantenere gli impegni. Restano però molte riflessioni aperte sulla riforma: occorrerà valutarne gli effetti deflattivi, ma garantendo l’esigenza di sicurezza dei cittadini e un’efficace lotta alla criminalità”. Insomma, per la riforma Cartabia, entrata in vigore da poche ore, già sembrano profilarsi all’orizzonte profondi cambiamenti. Le proposte più giustizialiste provenienti da FdI e Lega, però, potrebbero scontrarsi con le visioni più moderate non solo di Forza Italia, ma anche del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Proprio quest’ultimo, il giorno del suo insediamento a via Arenula, affermò di aver “concordato continuità anche di colloqui” con Cartabia, “perché - come detto in tempi non sospetti - la direzione che aveva assunto nelle riforme era secondo me quella giusta”. Quel patto tra Meloni, Nordio e il Cav per riformare la giustizia di Giacomo Puletti Il Dubbio, 3 gennaio 2023 Berlusconi ribadisce il pieno sostegno al guardasigilli per una riforma in senso garantista, la premier va oltre e ipotizza la separazione delle carriere “nei prossimi mesi”. Galeotto fu l’aperitivo. Emerge ora in tutta chiarezza, a poco più di due mesi di distanza, quale sia stato il momento davvero decisivo per l’avvio del governo Meloni. Cioè il colloquio, con tanto di prosecco, tra Silvio Berlusconi e Carlo Nordio, avvenuto il 19 ottobre a Villa Grande, che ha convinto il Cavaliere a togliere dal tavolo la carta di Maria Elisabetta Alberti Casellati alla Giustizia. Da lì in poi sarà tutto in discesa, tranne il famoso pizzino con la descrizione del comportamento di Meloni che ha rischiato di far saltare tutto, e il governo nascerà in pochi giorni. E si baserà, è ormai evidente, su un patto di ferro che lega Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia: la riforma della giustizia. E chi se non Carlo Nordio, il magistrato che Giorgia Meloni ha voluto a tutti i costi in via Arenula, per completare il disegno dei tre alleati? Ciò risulta ancora più evidente da due fatti recenti, avvenuti a poche ore di distanza. Il primo, la conferenza stampa di fine anno della presidente del Consiglio, in cui Meloni ha ribadito come la riforma della Giustizia sia una priorità del suo governo; il secondo, l’intervista di ieri di Berlusconi a Libero, in cui il leader di Forza Italia illustra i suoi piani per i prossimi mesi e descrive la riforma della giustizia come uno degli obiettivi dei prossimi mesi di governo. “Secondo le linee indicate dallo stesso ministro Nordio, come ha ribadito il Presidente Meloni nella conferenza stampa di fine anno”, ha sottolineato Berlusconi. Dunque con una stretta sulle intercettazioni, con la separazione delle carriere tra giudici e magistrati e con l’inappellabilità per le sentenze di assoluzione dopo il secondo grado di giudizio. Secondo Berlusconi, infatti, “il problema più grave (del paese, ndr) sono le commistioni fra la politica e altri ordinamenti dello Stato, come alcuni settori della magistratura o della pubblica amministrazione, che, per definizione, dovrebbero essere neutrali e basarsi sulla competenza e sul merito”. Una chiara sponda alle idee di Nordio, alla quale fa seguito il giudizio del Cavaliere sul Qatargate. “Nonostante quello che ho subito, rimango garantista con tutti e continuo a credere nella presunzione di innocenza fino a condanna definitiva - è il ragionamento del leader azzurro - Valuteranno i giudici gli aspetti penali, se ci sono”. Ma è proprio sulla separazione delle carriere che si nota l’accelerazione del governo rispetto alle scorse settimane. Nel descrivere le linee guida del suo operato, Nordio aveva definito come prioritaria la riforma degli uffici giudiziari, relegando la separazione delle carriere a tema da affrontare in corso di legislatura, evidentemente per non irritare una Anm già sul piede di guerra. Ma a ribadire le intenzioni del governo ci ha pensato la stessa presidente del Consiglio, che nella conferenza stampa di fine anno citata da Berlusconi ha definito la separazione delle carriere come una riforma “da completare nei prossimi mesi”. Mesi, appunto, non anni. Dunque presumibilmente nel corso di quest’anno, con buona pace dell’Anm. “La riforma della giustizia non riguarda solo il sistema giudiziario ma rappresenta uno snodo fondamentale per i rapporti tra cittadino e Stato - ha dichiarato ieri il forzista Francesco Paolo Sisto, vice di Nordio - È necessario, infatti, che questa relazione non sia più avvertita come un rischio, una imposizione, ma come un percorso orientato al sano raggiungimento degli scopi sociali di ciascuno: riformare la giustizia significa garantire la libertà e la centralità dell’individuo”. Tutti temi certamente trattati nel famoso aperitivo a Villa Grande in cui Berlusconi ha voluto conoscere di persona Nordio e sincerarsi delle sue intenzioni. Che, visto come si è evoluta la faccenda, hanno certamente convinto il Cavaliere, per cui è necessario ora più che mai completare quella “rivoluzione liberale” che lui non ha mai potuto, o chissà, voluto, portare a termine. Oggi gli astri sembrano allineati, a meno che qualcuno non decida di mettersi di traverso come già fatto intendere dallo stesso Nordio in audizione, quando disse di essere pronto a battersi “fino alle dimissioni” pur di completare fino in fondo il suo piano riformatore. Berlusconi, Meloni e Salvini, i tre leader di maggioranza, sono d’accordo. Nei prossimi mesi, parola al Parlamento. Diritto all’oblio per gli assolti. Ora è (finalmente) in vigore di Valentina Stella Il Dubbio, 3 gennaio 2023 Enrico Costa esulta: “Basta innocenti marchiati a vita da indagini finite nel nulla”. Sarzana: “Ora deindicizzare per far sparire il nome dell’interessato”. “Dal 1° gennaio 2023 sarà vigente la mia proposta sull’oblio per gli assolti: i motori di ricerca dovranno dissociare i nomi degli assolti dalle notizie circolanti in rete sulle inchieste da cui sono risultati innocenti. Basta innocenti marchiati a vita da indagini finite nel nulla”: così il deputato e responsabile giustizia di Azione Enrico Costa ha chiuso il suo anno su Twitter. Stiamo parlando del suo emendamento approvato alla riforma del processo penale di mediazione Cartabia. “La persona nei cui confronti sono stati pronunciati una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero un provvedimento di archiviazione - recita l’articolo 64-ter della norma- può richiedere che sia preclusa l’indicizzazione o che sia disposta la deindicizzazione, sulla rete internet, dei dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento, ai sensi e nei limiti dell’articolo 17 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016. Resta fermo quanto previsto dall’articolo 52 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”. Basterà che la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento apponga e sottoscriva una annotazione. Come dice Enrico Costa al Dubbio “la forza dell’emendamento è che oggi il soggetto può presentarsi dinanzi al motore di ricerca con un provvedimento della cancelleria del giudice. Lo spirito delle mie iniziative, anche riguardo alle spese legali per gli assolti, è quello per cui se lo Stato ti chiama a rispondere per un reato e poi ti assolve deve consentirti di rientrare in società con la stessa reputazione che avevi prima. Non ci deve essere una macchia solo perché le notizie della tua indagine sono andate in giro”. Ma questa norma “non interessa tanto i processi di persone estremamente in vista e popolari, ma soprattutto le persone semplici che vanno, ad esempio, a cercare un lavoro e potrebbero non ottenerlo perché da una ricerca in rete di chi fa il colloquio compare subito la notizia della sua indagine benché sia stato assolto”. Vediamo tecnicamente come funziona la norma. Due sono le strade: o una deindicizzazione preventiva, ossia il soggetto prima indagato/processato e poi assolto chiede che non vengano scritti articoli o, qualora già ci fossero, chiede che scompaiono dai motori di ricerca. Ma cosa è la indicizzazione? Come ci spiega Fulvio Sarzana, avvocato e professore di diritto comparato delle nuove tecnologie presso l’Università internazionale Uninettuno, “deindicizzare significa fare in modo, attraverso particolari procedure tecniche, che, all’interno dell’articolo, il nome del soggetto non appaia sui motori di ricerca, non venga da loro catturato. Se c’è un archivio storico del giornale, però, esso va mantenuto ma l’articolo online deve far sì che il nome non appaia su Google, ad esempio”. Il diritto all’oblio, prosegue Sarzana, “non deve per forza riguardare inchieste giudiziarie, ambito nel quale si muove l’emendamento Costa, e prevede diverse strade: eliminazione del nome, delle iniziali, de-indicizzazione, cancellazione dell’articolo. Quest’ultima, per una serie di ragioni, non è stata mai realmente realizzata”. Una volta ottenuta l’annotazione della cancelleria che succede? “Non sono indicati i passaggi successivi - evidenzia Sarzana -; è probabile che il soggetto interessato, una volta ottenuta l’annotazione della cancelleria, scriva al sito giornalistico o ai motori di ricerca”. Sull’accettazione della richiesta e sui tempi di risposta Sarzana ammette: “Dipende da chi la fa e cosa chiede. I motori di ricerca quando si tratta di persona pubblica o per la quale ci sarebbe interesse fa sempre resistenza. Diverso è se non si tratta di personaggio pubblico. Sulle tempistiche, possono passare anche mesi, se non di più”. E qualora il motore di ricerca o il sito si opponessero? “Ci si può rivolgere al Garante della Privacy o ricorrere in sede civile. Ma si badi bene, che non si otterrà il risarcimento per i possibili danni subiti nel procedimento davanti al Garante”. Sulla retroattività della norma, spiega ancora Sarzana, “essendo una disposizione di carattere processuale, che non è soggetta al principio dell’applicazione della legge successiva più favorevole al reo, come avviene nel diritto penale sostanziale, è difficile che si potrà applicare anche ai casi ante riforma Cartabia”. Inoltre “l’emendamento è stato approvato durante la discussione sulla riforma Cartabia del codice di procedura penale: è stato introdotto, dunque, un principio giudiziale non sostanziale. Agisce quindi solo in caso di procedimento penale, conclusosi con una archiviazione, proscioglimento o sentenza di non luogo a procedere”. Il pezzo mancante, prosegue, “è quello che riguarda in realtà il vero diritto all’oblio: ossia la deindicizzazione o rimozione di qualsiasi atto passato (anche diverso da una inchiesta o processo) perché quelle informazioni non sono più attuali e la loro circolazione può danneggiare la reputazione del soggetto”. Ad esempio “se una persona che ha espiato una pena venti anni fa volesse, anche nel rispetto dell’articolo 27 della Costituzione che prevede la rieducazione del recluso, che nulla si sapesse su quanto accaduto non potrebbe trovare soddisfazione alla sua richiesta”. Nonostante queste limitazioni, conclude Sarzana “l’emendamento Costa assume una importanza rilevante in relazione ad una decisione della Cassazione dello scorso novembre, secondo la quale il Garante della privacy o il giudice possono disporre la deindicizzazione globale, ossia in tutto il mondo. È molto significativa questa decisione perché in una sorta di combinato disposto con la norma introdotta grazie all’emendamento di Costa siamo quasi in presenza di una cancellazione totale”. C’è da segnalare che durante la discussione del decreto rave il Movimento Cinque Stelle alla Camera aveva presentato un ordine del giorno affinché le disposizioni sul diritto all’oblio, così come previste dalla Cartabia, non venissero applicate quando “Il soggetto o i comportamenti posti in essere dallo stesso abbiano rilevanza pubblica”. Il Parlamento ha bocciato l’odg. “Dire che i trojan sono essenziali non è certo populismo giudiziario” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 gennaio 2023 Continuano sul nostro giornale le riflessioni in merito alla proposta del senatore di Forza Italia Zanettin di escludere l’impiego del trojan nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione. Ne parliamo con Mario Palazzi, magistrato alla Dda di Roma, esponente di AreaDg. Che ne pensa della proposta Zanettin? Eliminare la possibilità dell’utilizzo del captatore informatico nelle indagini per reati contro la PA significherebbe ridurre fortemente la possibilità del loro accertamento, senza tema di smentita. È esperienza di tutti, non certo solo di chi delinque, di come progressivamente sia diventato obsoleto comunicare con la tradizionale linea telefonica. Quanti di noi continuano ad utilizzare l’SMS rispetto ad un più pratico messaggio whatsapp? Quante volte, per praticità, non certo per timore, utilizziamo quest’ultima piattaforma anche per comunicazioni vocali? Ebbene, senza lo strumento tecnologico del captatore queste comunicazioni non potrebbero essere mai ascoltate. Ma il captatore consente anche intercettazioni ambientali... Vorrei ricordare come il sistema vigente richieda sempre, da parte del giudice che lo autorizza, una motivazione c.d. rafforzata, con esplicita indicazione delle ragioni che giustificano l’utilizzo nei luoghi di privata dimora. La corruzione, nel nostro Paese, è purtroppo un fenomeno endemico, di difficile accertamento per l’assenza di contrapposizione di interessi tra pubblico ufficiale e corruttore e con una vittima silente costituita dalla collettività tutta. Ricostruire il pactum sceleris, la natura illecita delle relazioni, il flusso di mascherati rapporti economici senza una efficace attività di captazione è, pressoché una chimera. È questo che si vuole? Eppure un suo autorevole collega come Nello Rossi si è detto d’accordo... Ho avuto il piacere di lavorare con Nello Rossi, collega di grande valore a cui rinnovo tutta la mia stima. Dissento però da quanto da lui sostenuto per due ordini di motivi. Innanzitutto non è vero che l’estensione della possibilità di utilizzo del captatore informatico per i reati contro la PA sia opera, come ho letto sul vostro giornale, della c. d. legge Spazzacorrotti, termine che non mi piace ma che uso per brevità. Vorrei ricordare che ciò è possibile grazie al D. Lvo 216/ 17 - l’allora ministro della giustizia era Orlando - seppure con una diversa limitazione per le intercettazioni ambientali nei luoghi di privata dimora. Ciò per chiarire come una eventuale approvazione della proposta del sen. Zanettin non significherebbe affatto ritornare alla legge Orlando e ai suoi più meditati equilibri, ma ad un regime che escluderebbe la possibilità di tali captazioni. La seconda considerazione riguarda il principio di proporzionalità, per come stabilito dalla Corte di Giustizia Europea, tra l’invasività del captatore informatico e i gravi reati contro la PA, principio pacificamente ritenuto come rispettato nell’attuale assetto normativo. Ci spieghi... Non solo ci troviamo di fronte a reati di riconosciuta pericolosità ed allarme sociale - le pene edittali stabilite dal legislatore saranno pure un indice rilevante - ma anche a condotte che per loro fenomenologia si contraddistinguono da meccanismi di omertà e impermeabilità di alcuni ambienti che giustificano l’impiego di peculiari strumenti captativi. L’asserita irrazionalità dell’estensione, come pure invocata dal prof. Manes in un’altra vostra intervista, a me pare anch’essa posizione aprioristica, non si confronta con fenomenologia ed interessi in gioco. Invocare la semplicistica contrapposizione garantismo- populismo giudiziario è uno sterile artificio dialettico a volte proprio dell’agone politico ma che, per come la penso, non dovrebbe appartenere a noi giuristi. Se per garantismo intendiamo il rispetto di un accertamento oggettivo lontano da qualsivoglia manipolazione ed arbitrio, il nostro sistema processuale sul captatore informatico è pienamente in linea con tale principio. Ma non c’è nel nostro sistema, come dice il presidente Ucpi Caiazza, una “ossessione del doppio binario”? È un tema oramai antico e sicuramente è il portato di un affastellarsi di normative “spot”, molte volte dettate dall’emergenza, una sorta di “filo rosso” che collega le varie disposizioni di legge destinate ad operare nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata, qualificanti una diversa e più adeguata disciplina processuale. Senza tali norme - va detto chiaro e forte - non sarebbe stato possibile una risposta efficace al crimine organizzato. Mi permetto però di ribaltare la considerazione di fondo. Come? Vogliamo domandarci perché il “binario principale” non funziona e, quindi, si è dovuto fare ricorso a normazione speciale? Vogliamo ridurre il “traffico” su tale binario, congestionato all’inverosimile, spesso un binario morto, che si infrange spesso sulla prescrizione? Tornano in campo le richieste di sempre, anche della magistratura associata: una depenalizzazione delle troppe ipotesi bagatellari, che dovrebbero trovare altrove una sanzione più congrua e sicuramente più efficace. Se così non fosse, e finora non lo è stato, perché allora non pensare ad un “triplo” binario, l’ultimo dei quali semplificato? Non appaia una provocazione, ma mi chiedo: è mai possibile che per una rapina a mano armata e per una guida in stato di ebbrezza debbano valere le medesime complesse regole processuali del rito accusatorio? Lei teme come altri suoi colleghi che l’obiettivo principale del governo sia quello di abbassare la guardia sui reati come corruzione e concussione? Mi auguro sinceramente che non sia così, per quello che accade non solo in Italia ma anche in Europa, visto le recenti vicende. Allo stato mi preoccupa il combinato disposto di tanti segnali: abbiamo detto del captatore informatico, ma anche il continuo riferimento, per quello che si legge sui giornali, ad abrogazioni o modifiche dei reati di abuso d’ufficio e traffico di influenze non rassicura. Quanto a quest’ultimo reato vorrei ricordare che l’introduzione - dall’oramai lontano 2012 - è il portato di precisi obblighi sovranazionali, quali la convenzione ONU di Merida del 2002, a cui l’Italia ha adempiuto semmai con ritardo. La fattispecie, poi, dopo gli iniziali e fisiologici assestamenti interpretativi, grazie anche ad una giurisprudenza che si va consolidando, ha assunto contorni sicuramente rassicuranti. Quanto all’abuso di ufficio, rimaneggiato non ricordo più quante volte, è un reato che spaventa solo chi non conosce effettivamente le dinamiche giudiziarie. Quante denunce ci arrivano quotidianamente sul tavolo per presunti casi di malasanità? Le indagini vengono doverosamente svolte e, direi per fortuna, sono pochi i casi in cui si ipotizzano responsabilità da sottoporre al vaglio del giudice. Vogliamo affermare che le denunce dei parenti “bloccano” l’attività sanitaria? Vogliamo sostenere l’abolizione delle lesioni e dell’omicidio colposo con responsabilità professionale per assicurare un più efficiente servizio sanitario? Noto, infine, un grande assente nel dibattito non solo politico ma anche dell’accademia: non è questo il tempo per riprendere la riflessione su una disciplina organica sul c. d. lobbying? La trasparenza dell’attività di rappresentanza di interessi presso le pubbliche autorità non è certo una panacea che elimina la possibilità di condotte illecite ma ne riduce i rischi. Questa sì mi pare un approccio normativo di tipo liberale. Stragi di mafia: così Report (e non solo) “suggestiona” pentiti ed ergastolani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 gennaio 2023 “Io parlo di quello che ho sentito in televisione, sia in un programma televisivo su la7 (Atlantide ndr) sia su Rai3”. Dalla pista nera alle donne bionde, ecco il racconto degli ex mafiosi stragisti sentendo la Tv. E qualche procura ci mette il carico da novanta. Tra cinquant’anni, quando l’antimafia mediatica (e parte di quella giudiziaria) sarà oggetto di studio, sicuramente non potrà passare inosservato come presunte inchieste di Report (canale pubblico) o di Atlantide (canale privato) inconsapevolmente alimentano di nuove suggestioni i pentiti stessi. Perfino uno come Gaspare Spatuzza, che fu parte attiva degli attentati mafiosi come le stragi continentali del maggio-luglio 1993 a Firenze, Milano e Roma, parla di ipotesi apprese in Tv. Ed è così che si crea un insostenibile circolo vizioso utile per gli ascolti, ma completamente distruttivo per i giovani che si affacciano per la prima volta allo studio del fenomeno mafioso di quegli anni. Ma non aiuta nemmeno una grossa fetta di magistrati antimafia che si diletta nell’infinita ricerca delle “entità”. Pm che creano infiniti teoremi, chiudono e riaprono le stesse identiche inchieste giudiziarie (pensiamo a Berlusconi e Dell’Utri indagati per la quinta volta come mandanti occulti delle stragi), si spendono numerose risorse umane e si alimenta il circuito mediatico - giudiziario che, com’è detto, a sua volta “alimenta” i pentiti stessi. Molto utile, per comprendere il fenomeno dei pentiti che raccontano ciò che sentono in Tv, è la lettura della relazione finale della scorsa commissione nazionale Antimafia relativa alla attività istruttoria sull’evento stragista di via dei Georgofili a Firenze. Si apprende così che viene sentito l’ergastolano Cosimo Lo Nigro, già condannato per le stragi e ritenuto la persona che si occupava del recupero dell’esplosivo in mare, quello che verrà utilizzato sia per le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, che per quelle “continentali”. Dalle risultanze processuali è emerso, grazie alle consulenze già svolte dai periti, che in ciascuna delle cariche esplosive utilizzate per le stragi i medesimi componenti, miscelati, sono da ricondurre a esplosivi di tipo militare e segnatamente tritolo (o Tnt), T4 (o Rdx), e Pentrite (o Petn). Per la strage di Capaci, furono utilizzati 500 chili di esplosivo. Per via D’Amelio, 100 chili. Per l’attentato di Firenze, la carica era da 250 chili. Lo Nigro però si dichiara innocente. “Io oggi mi trovo qui - spiega innanzi alla commissione antimafia - detenuto da 26 anni, con queste accuse tremende, e io per la giustizia italiana sono un definitivo e sono un ergastolano, ma nella mia coscienza e nel mio cuore, io sono un innocente e chiedo a voi, principalmente a voi, che siete quelli che in merito agli ultimi sviluppi, in questi anni su cosa è successo di quello che sta accadendo nel nostro Paese, vi chiedo a voi di approfondire e di investigare”. Alla domanda posta dall’ex presidente Nicola Morra su cosa bisognerebbe investigare, ecco cosa risponde: “Io le parlo di quello che ho visto in Tv. Ci siamo? Noi siamo qui oggi per la situazione di Firenze, per la tematica e la disgrazia di Firenze. Mi dica una cosa: in televisione io ho ascoltato personalmente alcuni format mirati di questi eventi che sono successi all’epoca. Sulla situazione di Firenze, come Firenze e come Milano, e in qualche altra strage, si parla di una donna”. Ecco, lo dice chiaramente: parla di ciò che ha appreso guardando le inchieste in TV. Lo Nigro, infatti, evoca il discorso della donna, la famosa bionda che secondo la tesi elaborata principalmente dal magistrato Gianfranco Donadio quando svolse le attività presso la Direzione Nazionale Antimafia (poi fu trasferito dal csm per via delle denunce nei suoi confronti da parte della procura di Catania e di Caltanissetta), sarebbe stata una sorta di 007 che avrebbe partecipato alle stragi. Bionda, corpo da amazzone, descritta da improbabili pentiti (per lo più della ‘ndrangheta) già decostruiti dalla procura nissena e catanese. L’ex presidente Morra, in commissione, pone nuovamente la domanda a Lo Nigro: “Come mai la colpisce questa questione della donna? Lo chiedo così, per mia curiosità”. Ecco cosa risponde: “Lei ha parlato di ipotesi. Io parlo di quello che ho sentito in televisione, sia in un programma televisivo su La7 (Atlantide, ndr) sia su Report su Rai 3, in occasione dei tre anniversari. Le trasmissioni hanno parlato anche di questi fatti che sono accaduti nel 1993 e riportano di una donna, non solo a Firenze!”. Più chiaro di così non si può. Non sa nulla, ma racconta ciò che ha appreso dalle “inchieste” mainstream. Interessante anche la deposizione del pentito Gaspare Spatuzza. Egli ebbe un ruolo primario in tali gravi accadimenti perché legato a Giuseppe Graviano, mafioso ai vertici del mandamento di Brancaccio ed esponente di cosa nostra, a sua volta in stretti rapporti con i vertici di tale organizzazione e in particolare con il latitante Matteo Messina Denaro. Grazie alla sua collaborazione si è potuto rifare da capo il processo sulla strage di Via D’Amelio (Borsellino quater) e condannare anche gli esecutori delle stragi continentali. Lui partecipò alle stragi come quelle di Firenze. Ha sempre raccontato tutti i dettagli dell’operazione stagista, compreso il reperimento dell’esplosivo e della sua collocazione. Però non basta, perché non collima con il teorema delle donne bionde e dell’esplosivo fornito dalle entità. Spatuzza però è sincero. Esclude che il suo gruppo sia entrato in contatto con soggetti esterni a cosa nostra, ma nel contempo dichiara di poter supporre che ci siano stati contatti. Ma da dove deriva questa sua supposizione? Si richiama a “l’evolversi di tutto quello che visto in questi anni...” e “tutto quello che sia il progetto Farfalla”. E dove l’ha visto se non in TV? E si comprende che non conosce la vicenda. Lo chiama “progetto Farfalla”, mentre in realtà si chiama “protocollo farfalla” e non c’entra nulla con il periodo delle stragi visto che fu una operazione dei primi anni 2000 tra l’intelligence e il Dap per cercare una presunta regia mafiosa dietro le proteste contro il 41 bis. Operazione fallimentare, perché non si scoprì alcun grande vecchio dietro. Un po’ come le rivolte carcerarie durante la pandemia. Sempre alla ricerca, fallimentare, delle regie occulte. Interessante che il magistrato Donadio insista sulla presenza delle donne. Lo fa anche con Spatuzza. “Lei ha mai percepito il problema dell’esistenza di una donna in questo scenario stragista?”. Ebbene sì. Chiede al collaboratore della giustizia se ha avuto una “percezione” di qualche donna. Spatuzza risponde di no. Ma il magistrato non si arrende. Insiste. “In tutto lo scenario stragista ha avuto mai un sintomo?”. Spatuzza risponde: “Non ho avuto mai né direttamente né indirettamente che ci fosse una donna un po’ in secondo o terzo piano in quello che era il gruppo operativo”. Niente da fare. Nessuna percezione, nessun sintomo. Il prossimo passo sarà lo studio delle entità asintomatiche. Già qualcosa si intravvede con la riedizione del nero Stefano Delle Chiaie. Nessuna prova che sia stato a Capaci o a Firenze, per quest’ultimo all’epoca le indagini della Digos accertarono che il giorno dell’attentato era a Bolzano. Però poco importa. Bisogna insistere, evocare nuove suggestioni e perdere altri anni di tempo prezioso. Ora aspettiamoci le supposizioni dei pentiti dopo aver visto l’ennesima trasmissione di Report. Violenza di genere: al via il sistema per alimentare la banca dati di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2023 Dall’età della vittima alla relazione con l’autore del reato. Dall’1 gennaio 2023 gli uffici giudiziari sono nella condizione di tramettere le notizie che riguardano il fenomeno della violenza sulle donne. Un passo avanti importante nella prevenzione per il presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia. Età delle vittime, relazione con l’autore del reato, tipo di crimine commesso e modalità per realizzarlo. Sono queste le informazioni che gli uffici giudiziari sono in grado di trasmettere per alimentare la banca sulla violenza di genere. È, infatti, operativa dal 1 gennaio 2023 la rilevazione delle notizie relative ai procedimenti giudiziari che riguardano un fenomeno che non conosce inversioni di tendenza. Lo strumento, previsto dalla legge 53/2022, ha l’obiettivo di realizzare costanti analisi statistiche da pubblicare periodicamente per far emergere caratteristiche ed evoluzioni delle condotte criminali. Le informazioni degli uffici giudiziari - Attraverso un intervento sui sistemi informativi dell’area penale - informa con un comunicato il ministero della Giustizia - tutti gli uffici giudiziari italiani sono ora nelle condizioni di registrare dati importanti, come il collegamento tra vittima e autore del reato, il tipo di reato commesso e il modo per metterlo in atto. Una specifica nota è stata diramata agli uffici, per illustrare le finalità dell’intervento e le modalità operative per l’inserimento dei dati da parte degli operatori giudiziari. Una via, imboccata da via Arenula, per rilevare “le informazioni utili a formulare le risposte più efficaci nella prospettiva della prevenzione dei reati e dell’innalzamento degli standard di tutela delle vittime”. Centri anti-violenza e case rifugio - L’aggiornamento dei sistemi informativi degli uffici giudiziari - per monitorare in modo costante il fenomeno - è in linea con gli obiettivi del tavolo tecnico istituito nell’ambito della collaborazione tra il ministero della Giustizia e Istituto Nazionale di Statistica, per alimentare la banca dati sulla violenza di genere con i flussi informativi giudiziari. Iniziative che si muovono sul solco delle misure preventive, secondo le indicazioni della Convenzione del Consiglio d’Europa e le ultime norme in tema di rilevazioni statistiche sulla violenza di genere previste dalla legge n. 53 del 5 maggio 2022. La norma, che ha avuto l’ok definitivo il 27 aprile del 2022, ha, infatti, introdotto l’obbligo per gli uffici, gli enti, gli organismi e i soggetti pubblici e privati che partecipano all’informazione statistica ufficiale di fornire i dati e le notizie per le rilevazioni previste dal programma statistico nazionale, oltre che di rilevare, elaborare e diffondere i dati relativi alle persone disaggregati per uomini e donne. Ad essere coinvolte sono tutte le strutture sanitarie pubbliche e, in particolare, le unità operative di pronto soccorso, tenute a fornire i dati e le informazioni che riguardano la violenza contro le donne. Oltre al sistema informativo integrato, operativo dal 1 gennaio, la legge valorizza le rilevazioni annuali condotte da Istat sulle prestazioni e i servizi offerti rispettivamente dai Centri antiviolenza e dalle case rifugio. Il presidente del Tribunale di Milano - Per il presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia, con la trasmissione si è messo in atto un ulteriore passaggio nella rilevazione dei reati orientati al genere. “È uno strumento molto importante - dice Roia - perché consente di analizzare l’evoluzione della violenza di genere che ha molte sfaccettature e molte declinazioni”. Un valore aggiunto è dato anche dal tipo dei dati trasmessi “Parliamo di procedimenti giudiziari - afferma il presidente Roia - quindi di emerso, elemento che ci consente di capire molte cose, ad iniziare dalle caratteristiche sociali della vittima come dell’imputato”. Ed è proprio il sommerso il grande problema sul quale c’è da lavorare. “Dalle rilevazioni del 2021-2022 - conclude il presidente del tribunale di Milano - risulta che il 70% delle vittime di violenza di genere sono italiane. Un dato, evidenziato sempre nelle rilevazioni che facciamo ogni anno: per le donne straniere c’è un sommerso che si fa fatica a registrare. Diverse le ragioni delle difficoltà ad essere agganciate dalla rete territoriale: dall’intimidazione da parte dei “clan” familiari, alla lingua che limita la capacità di esprimersi. Questo strumento è comunque un’occasione per avere una “fotografia” a livello nazionale del fenomeno e non a macchia di leopardo”. Emilia-Romagna. La Regione interviene per aiutare le madri detenute con minori di Gianluca Stanzani cartabiancanews.com, 3 gennaio 2023 In Emilia-Romagna i minori che finiscono, seppure per brevi periodi, all’interno degli Istituti penitenziari al seguito dei genitori, sono pochissimi e limitati a quelle situazioni familiari in cui non vi sono altre alternative. Ma la situazione detentiva, sia pure attenuata dalla sezione nido della Casa Circondariale di Bologna, rimane incompatibile con il corretto sviluppo psico-fisico di un minore e con i diritti sanciti da ogni documento internazionale. Per questo motivo, e grazie ad un finanziamento di 135.000 euro messo a disposizione dal ministero della Giustizia, la Giunta regionale ha approvato il progetto di rilievo regionale del Comune di Bologna che prevede la sperimentazione, almeno fino al 31 dicembre 2023, di un servizio a favore di madri detenute con minori al seguito (ed eccezionalmente, qualora si verifichi la casistica, di padri) e di donne in stato di gravidanza. L’intervento valorizza i servizi che il Comune, in collaborazione con ASP, è in grado di mettere a disposizione. Tra questi, la Centrale Operativa Telefonica del Pronto intervento sociale, che avrà funzione di punto unico di accesso, e l’attivazione di strutture di accoglienza, riconosciute dalla Regione, in grado anche di garantire l’osservazione delle dinamiche relazionali del nucleo accolto. Per rendere possibili questi percorsi di accoglienza, vista la molteplicità di soggetti coinvolti, è stato messo a punto un protocollo operativo, che verrà a breve sottoscritto - oltre che dalla Regione, dal Comune e da ASP Bologna - anche dal Tribunale di Sorveglianza, dalla Corte d’Appello, dal Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria Emilia-Romagna e Marche e dall’Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna Emilia-Romagna e Marche. Inoltre nei prossimi mesi, si vedrà l’approvazione di una programmazione triennale di interventi per il reinserimento nella società e nel mondo del lavoro, del valore di circa 6 milioni di euro, di cui il 70% a carico di Cassa delle Ammende e il restante 30% quale cofinanziamento regionale. Milano. Tenta di togliersi la vita in carcere: gravissimo milanotoday.it, 3 gennaio 2023 È successo nel pomeriggio di lunedì 2 gennaio, gravissimo un uomo di 34 anni. Un detenuto di 34 anni del carcere di Bollate è stato trasportato in codice rosso al pronto soccorso del Niguarda dopo aver tentato il suicidio nel pomeriggio di lunedì 2 gennaio. Tutto è accaduto intorno alle 15, come appreso da Milano Today. Secondo quanto finora trapelato pare che il 34enne abbia cercato di impiccarsi all’interno dell’istituto penitenziario di via Belgioioso, sono stati gli agenti della polizia penitenziaria a lanciare l’allarme e a far intervenire il 118. Il 34enne, soccorso da un’ambulanza, è stato trasportato con la massima urgenza in ospedale. Le sue condizioni sarebbero critiche. Non ci sono mai stati così tanti suicidi nelle carceri lombarde - Nella serata di mercoledì 29 dicembre un 20enne un episodio simile era avvenuto nel carcere Torre del Gallo di Pavia, dove nel 2022 si erano registrati altri 5 suicidi. In quel caso, tuttavia, soccorritori e medici non sono riusciti a salvare la vita del 20enne: soccorso dal personale del 118 era stato trasportato in codice rosso al Policlinico del Sn Matteo di Pavia dove è morto poco dopo. Pavia. Morire d’indifferenza in carcere, un sistema che non funziona di Emanuele Bottiroli paviaunotv.it, 3 gennaio 2023 Si è soffocato con un lenzuolo nella sua cella del carcere di Torre del Gallo. Aldo Latifaj, un detenuto che aveva 20 anni ed era italo-albanese, si è tolto la vita in questo modo il 28 dicembre nonostante l’intervento dei medici. Un decesso per soffocamento avvenuto al pronto soccorso dell’ospedale San Matteo dove i sanitari del 118 lo avevano portato ancora vivo. È il sesto suicidio avvenuto all’interno del carcere di Torre del Gallo nel 2022 appena conclusosi. Un numero decisamente alto considerato il fatto alla fine di luglio a livello nazionale i suicidi in carcere erano stati in tutto 37. Don Dario Crotti, cappellano del carcere di Torre del Gallo, ha spiegato: “Lo conoscevo, gli avevo parlato più di una volta. Era un detenuto molto fragile, mi spiace moltissimo per questa tragedia. Me lo avevano segnalato gli agenti di Polizia penitenziaria e gli avevo parlato. Purtroppo non è stato sufficiente. Ricordo che era un ragazzo molto educato, che non aveva mai dato problemi al personale. C’è un disagio notevole che vale anche per il personale purtroppo abituato a lavorare in condizioni non facili. Guardiamo a quello che è successo, in questi giorni, all’istituto Beccaria di Milano con la fuga dei 7 ragazzi. Da anni in un istituto così importante non c’è un direttore stabile e sempre da diversi anni ci sono lavori in corso. Non è possibile portare avanti un lavoro importante a favore dei detenuti in quelle condizioni”. Ma a cosa serve un regime carcerario in cui i detenuti si tolgono la vita o accrescono il loro disagio? Che senso hanno carceri stracolme? Perché non optare per pene correttive e di segno diverso? Perché non fare tesoro delle tante virtuose esperienze attuate dal volontariato sociale per favorire un pieno recupero di chi ha perso la strada? Verona. Donatella suicida in carcere, aveva scritto a Maria De Filippi: “Aiutami a cambiare vita” di Laura Tedesco Corriere della Sera, 3 gennaio 2023 La lettera della 27enne detenuta per spaccio è stata trovata dal papà quattro mesi dopo il tragico gesto. “Montorio, Verona. Ciao Maria, ti scrivo questa lettera per raccontarti la mia storia e per chiederti aiuto. Mi chiamo Donatella Hodo, ho appena compiuto 26 anni, sono di origini albanesi ma sono cresciuta in Italia. Ora purtroppo mi trovo nel carcere di Montorio, sono finita qui perché ho avuto un’infanzia e un’adolescenza difficili con tanti problemi, non ho avuto la forza di reagire e mi sono buttata nella droga...”. Iniziava così la lettera a Maria De Filippi inviata dal carcere veronese di Montorio da Donatella Hodo, la 27enne morta suicida esattamente 4 mesi fa. Era la notte tra l’1 e il 2 agosto 2022 e la giovane detenuta non trovò la forza di reagire a una crisi di sconforto: si tolse la vita inalando gas dal fornelletto in cella, dopo aver scritto un’ultima lettera d’amore disperato al suo fidanzato. “Leo scusami, ti amo ma non ce la faccio più ad andare avanti...”. Parole che hanno lasciato il segno e scosso le coscienze, frasi che hanno indotto un magistrato della Sorveglianza, il giudice Vincenzo Semeraro del Tribunale di Verona, a chiederle “scusa per non averti capita”. Quella lettera mai partita - Donatella voleva disperatamente uscire dal tunnel della dipendenza e dalla cella in cui era rinchiusa nel penitenziario di Verona per qualche furto e rapina di modica entità: il suo sogno era “ricominciare e cambiare vita” ma da sola non era in grado di farcela. Per questo, alla ricerca di aiuto, aveva deciso di appellarsi a Maria De Filippi, scrivendole una lettera con la speranza di essere chiamata alla trasmissione di Canale 5 “C’è posta per te”. Sognava di poter partecipare a una puntata del noto programma condotto dalla sua presentatrice preferita, purtroppo però la De Filippi non ha mai ricevuto la lettera dal carcere di Donatella: probabilmente la 27enne ha sbagliato l’indirizzo e la missiva è tornata senza mai essere stata aperta al suo indirizzo di casa a Verona, dove l’ha ritrovata papà Nevruz riordinando le cose della figlia dopo la sua tragica scomparsa. Leggere adesso quello scritto di Donatella è un pugno allo stomaco ma anche, al tempo stesso, una conferma delle sue migliori intenzioni che purtroppo, da sola, non è stata in grado di mettere in pratica. “Ho bisogno di una possibilità” - “Maria - si rivolgeva infatti alla conduttrice di Mediaset - ti prego, ti chiedo di aiutarmi, voglio uscire fuori da tutta questa situazione, voglio smettere con la droga, voglio finire con il carcere, ma ho bisogno di qualcuno che mi dia una possibilità... Ho 26 anni, ho ancora una vita davanti, voglio sistemarmi, avere un futuro, riprendere i rapporti con la mia meravigliosa famiglia... Oggi ho la voglia, il coraggio di voler cambiare, voglio ricominciare e lasciarmi tutto alle spalle, ho bisogno di un aiuto, di trovare un lavoro... voglio vedere gli occhi di mia madre piangere nel vedermi realizzata e non perché sta soffrendo per colpa mia...”. Il pensiero al figlio piccolo - Donatella non nasconde i “miei errori” ma neppure il suo strazio per essersi vista togliere a 21 anni il figlioletto Adam: “Nessuno mi stava aiutando, così mi hanno rimessa in carcere e portato via il piccolo. Volevo morire... perché non mi hanno mandata in comunità con il mio piccolo angelo, perché invece mi hanno spezzato il cuore così? Ogni giorno, ora, mi chiedo dov’è, come sta, di che colore sono i suoi occhi e mi sento in colpa per non aver potuto fare niente per lui... non potrò mai dimenticare, mai”. È un’autentica preghiera, quella rivolta da Donatella alla sua conduttrice tanto amata: “Maria, te lo chiedo con il cuore in mano, se hai qualche possibilità di aiutarmi a scontare fuori dal carcere, poi starà a me dimostrare che ce la voglio fare... io ti chiedo di aiutarmi, di darmi una possibilità, so fare tante cose e soprattutto ho ritrovato la voglia di vivere, di recuperare gli anni persi, voglio smetterla di distruggermi con le mie mani. Ora ti saluto, ti mando un abbraccio e aspetto la tua risposta con tutto il cuore”. Il gruppo “Sbarre di Zucchero” e il podcast - Così scriveva Donatella il 10 ottobre del 2020 dalla casa circondariale di Montorio, la stessa dove avrebbe poi deciso di farla finita un anno e 11 mesi dopo quella lettera mai arrivata alla sua “presentatrice preferita”. E ora che quello scritto è stato recuperato dal papà della 27enne, il commento di “Sbarre di Zucchero” -il gruppo nato nel giorno dell’addio a Donatella - è che “siamo tutti Dona, nessuno ci può negare una seconda possibilità. Lei chiedeva aiuto, consapevole dei suoi errori e delle difficoltà. Continueremo a testimoniarvelo, mettendoci la faccia, perché abbiamo pagato, stiamo pagando e la nostra seconda chance ce la andiamo a prendere”. Intanto, realizzato da Carlotta Toschi, è appena uscito anche un podcast: “La storia di Donatella Hodo”. Una vicenda tragica, su cui in questi giorni avrebbe dovuto pronunciarsi anche la Cassazione, a cui l’ultimo ricorso di Dona, purtroppo, è giunto tardi, troppo tardi per salvarle la vita e darle una speranza. Pesaro. Ilaria Cucchi, blitz nel carcere: “Detenuti in condizioni scioccanti” Il Resto del Carlino, 3 gennaio 2023 La donna che si è battuta per la verità sulla morte del fratello e ora senatrice ieri era a Villa Fastiggi. “Persone trattate come carne da macello, non per colpa degli agenti, ma di chi dirige la struttura”. Un blitz in piena regola. Ilaria Cucchi si è presentata ai cancelli del carcere di Villa Fastiggi alle 11.30 di ieri mattina senza alcun preavviso. Ne è uscita tre ore dopo. Con lo sgomento negli occhi e un report tutt’altro che positivo: “Detenuti trattati come carne da macello, costretti a vivere in una struttura fatiscente e abbandonata a se stessa dove funziona male persino il sistema di videosorveglianza. Ma - sottolinea subito la senatrice di Sinistra Italiana e Verdi e vicepresidente della Commissione giustizia - non per colpa degli agenti di polizia penitenziaria e di tutti gli altri operatori i quali si trovano a lavorare senza che gli siano dati i mezzi adeguati. La responsabilità è di chi dirige che ha i fondi e non li usa. Approfondirò questa situazione”. Ma intanto alza il tiro: “E il ministro Salvini ha anche l’idea geniale di tagliare i fondi alle carceri, addirittura ai pasti degli agenti. Lo invito a venire a Pesaro per capire come mettere questo istituto immediatamente in sicurezza”. Quello di Villa Fastiggi è il terzo carcere che la Cucchi visita a sorpresa per sollevare il velo sulle criticità del mondo oltre le sbarre. “Il primo che ho ispezionato - continua la parlamentare - è stato l’istituto di Santa Maria Capua Vetere. Lì addirittura manca l’acqua potabile, esce di colore marrone dai rubinetti. Il secondo è stato quello per minorenni di Casal del Marmo a Roma. E ora sono venuta a Pesaro”. Non a caso. Con la città ha un legame “familiare”. “Il mio compagno (l’avvocato Fabio Anselmo ndr) ha una casa da queste parti - spiega - ero al corrente che qui ci fosse una situazione delicata, ma ho visto una realtà, al pari di altre, davvero disarmante. Sono avvilita”. Una realtà come “tubature vecchie e rotte - elenca - che devono essere riparate da anni, ma chi deve occuparsene non lo ha mai fatto, un’area per bimbi nella quale possono incontrare i genitori in carcere mai realizzata, un campo da calcio in totale disuso e malridotto e sappiamo quanto lo sport sia fondamentale nell’ottica di una rieducazione del detenuto, più tantissime altre aree dell’istituto degradate. Per non dire di come sono trattati certi detenuti. Ad esempio, quelli con problemi psichiatrici, che non dovrebbero stare in questo carcere o almeno non nel modo in cui vengono tenuti, sia a tutela loro che degli agenti. Ho percepito lo scoramento dei poliziotti, la loro volontà di fare il proprio lavoro al meglio, ma senza poterci riuscire perché non hanno mezzi e neppure uomini, visto che la carenza di organico è un’altra criticità costante. Cercherò di fare luce sulle responsabilità di chi dirige questo carcere, del perché abbia fondi stanziati e non li usi o li faccia scadere”. E aggiunge: “Stiamo parlando di persone che dovremmo recuperare e reinserire in società, ma in queste condizioni è impossibile”. Mentre Cucchi fa il resoconto della sua ispezione, la mamma di un detenuto la riconosce e l’avvicina. E la mette al corrente di altri dettagli da girone infernale: “Mio figlio è nel braccio dell’isolamento, una zona di degrado assoluto, c’è un detenuto che spalma i suoi escrementi sul pavimento e sulle pareti, c’è una puzza insopportabile. Nessuno poi cambia le lenzuola. A volte sono gli stessi detenuti a pulire. E non c’è neppure assistenza sanitaria nel carcere”. La senatrice apre il quaderno che stringe tra le mani, diario del suo tour a Villa Fastiggi, si appunta nome e numero della donna e le assicura: “Ci sentiremo presto”. Brescia. Gelmini e Benzoni (Azione) nel carcere: “Con nuove dipendenze cresce la violenza” di Eugenio Barboglio bresciaoggi.it, 3 gennaio 2023 I due parlamentari erano in visita alla struttura fatiscente poco prima dell’aggressione al Comandante di reparto da parte di un detenuto. “L’assunzione dei farmaci in modo anomalo è un grave problema Sovraffollamento? Da cestinare il progetto su Verziano, serve un vero ampliamento”. È una coincidenza, ma rafforza la tesi della “grave emergenza” lanciata da Azione con la visita al carcere di Brescia Nerio Fischione ieri mattina. Poco prima che Mariastella Gelmini e Fabrizio Benzoni superassero il portone e i successivi sbarramenti di ingresso al carcere cittadino per verificare di persona le condizioni di detenzione e di lavoro, il comandante della Penitenziaria veniva aggredito. Una prova in più, insomma, se ce ne fosse stato bisogno, per confermare che “la qualità della vita a Canton Mombello è abbondantemente al di sotto degli standard europei”. “Potendo gli operatori rifiutano la destinazione Brescia”, sottolineano Gelmini e Benzoni. Il sovraffollamento resta un problema - Anche se meno evidente di qualche anno fa, un centinaio di detenuti più del corretto rapporto con gli spazi non lo si può certo chiamare in altro modo: sovraffollamento. “La qualità della vita è infatti molto diversa tra Verziano e Canton Mombello. Ma se a Verziano fosse andato in porto il progetto di ristrutturazione ancora fermo a Roma avremmo assistito alla riproposizione degli stessi problemi nella nuova struttura”. Ampliamento di Verziano, progetto in stallo - Se è grave comunque che l’ampliamento di Verziano sia tuttora sulla carta dopo anni e anni, in questa inerzia Gelmini e Benzoni vedono un aspetto positivo: “Il progetto non va bene ed è da rifare; va fatto un vero ampliamento espropriando i terreni circostanti per ingrandire la struttura secondo criteri di moderna edilizia carceraria. Altrimenti avremo un secondo Canton Mombello con gli stessi problemi di Canton Mombello”. I 16 milioni di euro che erano stati stanziati per il nuovo carcere “ci sono ancora, ma sono già insufficienti per un carcere di diversa concezione. Serve dunque stanziarne di altri, anche appoggiandosi al Pnrr”. Carenza d’organico - Gelmini precisa comunque che nuovi investimenti sono necessari anche a prescindere dal tema del nuovo carcere: “C’è la questione dei numeri insufficienti del personale penitenziario”, ricorda la senatrice bresciana. Che ieri a Bresciaoggi aveva espresso la sua delusione per l’insufficienza dei fondi in manovra per la Sanità. “Due miliardi di euro non bastano, ce ne vogliono almeno 6”, ha ribadito. Non si tratta di un richiamo fuori tema, quello di Gelmini, “perché anche l’universo carcerario soffre dell’emergenza sanitaria sulla quale vanno messe risorse”. Aggressività dei detenuti - Una delle più gravi e attuali è quella delle dipendenze, non tanto dalle tradizionali sostanze stupefacenti, che non sono proprio merce corrente tra bracci e celle, ma “dell’uso anomalo dei farmaci, che accentua molto l’aggressività dei detenuti, tra loro e nei confronti delle guardie”. Un fenomeno, questo dei farmaci, che Gelmini e Benzoni hanno discusso durante la visita a Canton Mombello con la direttrice, Francesca Paola Lucrezi, alla guida anche di Verziano. I numeri sono preoccupanti: “Circa la metà dei detenuti è in cura al Sert, e circa un centinaio è seguito per disagi di natura psicologica”, hanno ricordato i parlamentari di Calenda. “Della dipendenza dai farmaci, non essendo droghe, il Sert non si può occupare”, dice Gelmini. Le condizioni della struttura di via Spalto San Marco rendono anche più complicato avviare lì programmi di lavoro, che hanno grande peso nel processo di reinserimento nella società al termine della pena. “Tutti i progetti infatti - fa sapere Benzoni - vengono portati avanti a Verziano, penso al packaging per prodotti alimentari o al servizio di riscossione delle multe”. Gelmini e Benzoni si sentono comunque di lanciare un appello al sistema delle aziende bresciane, “spesso ancora diffidente nei confronti del lavoro carcerario”. I temi caldi al Nerio Fischione - Nuove dipendenze, sovraffollamento, qualità della vita dei detenuti e delle guardie penitenziarie, aggressioni, ma soprattutto ampliamento di Verziano: “Su questi e altri temi - concludono Benzoni e Gelmini - chiederemo un confronto con il Dipartimento dell’amministrazione carceraria e con il nuovo ministro della Giustizia, Nordio”. Ed auspicano convergenze di altre forze politiche “sia di centrosinistra che di centrodestra”. Avellino. Il Garante dei detenuti Ciambriello in visita al carcere di Sant’Angelo dei Lombardi avellinotoday.it, 3 gennaio 2023 Nell’istituto penitenziario irpino è andato in scena uno spettacolo musicale: repertorio napoletano e canzoni d’autore hanno creato un clima di gioia tra tutti i presenti. Piacevoli evasioni oggi nel carcere di Sant’Angelo dei Lombardi, una festa canora ricca di emozioni per iniziare con gioia l’anno nuovo. Il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, ha promosso oggi uno spettacolo musicale al carcere di Sant’Angelo dei Lombardi, che attualmente ospita 103 ristretti, tutti lavoranti. Nicola Turco, Enzo Fucito e Lino Calone accolti dalla Direttrice Marianna Adanti, sono stati i protagonisti canori: repertorio napoletano e canzoni d’autore hanno creato un clima di gioia tra tutti i presenti. La festa è stata deliziata dai “fiocchi di neve” offerti dalla pasticceria Poppella di Napoli. “Questo carcere funziona come luogo di responsabilizzazione e di accudimento, di reinserimento sociale e non di punizione. A Sant’Angelo dei Lombardi si sperimenta la funzione rieducativa della pena, qui i detenuti si dedicano al lavoro della tipografia, lavanderia, sartoria e officina meccanica. C’è inoltre un tenimento agricolo con produzione di vini, miele, pomodori, marmellata. L’indirizzo scolastico alberghiero e quello di ragioneria, consentono poi di proiettare uno sguardo verso il futuro. Qui anche le relazioni tra personale penitenziario e detenuti, detenuti e direzione del carcere, hanno un qualcosa di empatico. L’unica nota dolente è il non utilizzo dei dieci posti disponibili dell’articolazione psichiatrica per detenuti con sofferenza psichica, non essendoci uno psichiatra, così come mi dicono i responsabili dell’Asl di Avellino. Eppure nelle carceri campane sono centinaia i detenuti con patologie psichiatriche che avrebbero bisogno di queste sezioni particolari, con professionisti specifici”, così il Garante Regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, all’uscita del carcere di Sant’Angelo dei Lombardi. Foggia. La domanda di giustizia è frustrata. Come si può sperare che credano nelle istituzioni? di Andrea Leccese Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2023 Sono passati due anni dalla storica manifestazione antimafia del 10 gennaio 2020, quando ventimila foggiani scesero in piazza per dire “no” alla violenza e al potere dei clan. Al loro fianco, insieme a Libera e alle altre associazioni, sfilarono anche i sindacati di polizia. Quel corteo, così carico di impegno civico e di speranza, avrebbe potuto essere davvero la premessa per una “primavera dauna”. Bisogna constatare che da allora qualcosa si è mosso - penso all’istituzione della Direzione Investigativa Antimafia di Foggia - ma siamo ancora lontani da una svolta soddisfacente in termini di attenzione della politica per un territorio troppo a lungo trascurato. Il 2022 si è concluso del resto con l’ennesimo grido d’allarme del Procuratore della Repubblica, Ludovico Vaccaro, che in un’intervista rilasciata a il Fatto Quotidiano è tornato sul problema della inadeguatezza della macchina giudiziaria e sui danni prodotti dalla soppressione del Tribunale di Lucera e delle sei sezioni distaccate. Nel 2013, nella Capitanata si passò da otto uffici giudiziari a uno solo, con la naturale conseguenza che la Procura e il Tribunale di Foggia sono da allora costantemente in affanno. “Sono arrivato come Procuratore a Foggia nel 2018 - racconta Vaccaro - e c’erano ben 9mila processi pendenti, oggi siamo addirittura a 13mila”. È facile comprendere che questo ‘ingolfamento’ ha avuto gravissime ripercussioni. Subiamo oggi il risultato della “desertificazione giudiziaria” di un’area geografica - con più di 700mila abitanti - che, oltre a essere caratterizzata dalla presenza della mafia più feroce d’Italia, è da sempre teatro di odiosi delitti predatori (furti di autovetture, assalti ai portavalori, ecc.). Come si può pensare allora che ci possa essere una risposta adeguata alla domanda di giustizia dei cittadini? La frequente mancata punizione dei reati è senza dubbio tossica, perché genera nella popolazione sconforto, rassegnazione, paura e quindi sfiducia nello Stato. Come si può poi pretendere collaborazione con la giustizia da chi non crede più nella giustizia? In condizioni di questo tipo, i foggiani non possono che percepire la lontananza delle istituzioni e sentirsi abbandonati. Davide Mattiello sostiene, a ragione, che la situazione della provincia di Foggia mostra uno Stato che ha fallito la missione ‘giustizia’. La “promessa costituzionale” della ‘legge uguale per tutti’ è infatti sideralmente distante da una realtà nella quale vengono troppo spesso frustrate le aspettative di giustizia delle persone offese. Siamo così di fronte a un problema di qualità della nostra democrazia, che appare sì proceduralmente impeccabile, ma si rivela sempre più debole dal punto di vista del legame emotivo tra potere pubblico e cittadini. Alla marcia di Foggia c’era anche Luciano Silvestri, responsabile nazionale Legalità e Sicurezza della Cgil. Lo sento per telefono e non mi nasconde la sua insoddisfazione: “Ha ragione il Procuratore Vaccaro - mi dice - nella sua analisi dei fatti. I presidi di legalità sul territorio vanno rafforzati e non smantellati. Lo Stato deve comprendere che le mafie esercitano il loro potere attraverso il controllo sociale ed economico del territorio e che a quel potere occorre contrapporre un controllo sociale democratico e legale. E tutto questo - conclude Silvestri - si realizza solo con una unità fra i presidi di legalità istituzionali e i cittadini con le loro associazioni. Solo attraverso questo sodalizio virtuoso si può vincere questa sfida”. Pisa. Progetto di Pet Therapy alla Casa circondariale Don Bosco Ristretti Orizzonti, 3 gennaio 2023 Nel mese di dicembre dell’anno che abbiamo appena salutato si è concluso il secondo ciclo di incontri di Educazione Assistita con gli Animali (Pet Therapy) presso la Casa Circondariale Don Bosco di Pisa. Fortemente voluto dall’amministrazione, che ha dedicato fondi interni per la realizzazione del progetto, il corso ha costituito per i partecipanti della sezione maschile e della sezione femminile un’occasione per formarsi nell’ambito della Gestione Ordinaria del cane ed Educazione Cinofila di base. Al termine del percorso è stato rilasciato un attestato di partecipazione che rappresenta il riconoscimento di un impegno speso al fine di migliorare la propria relazione con i cani e di acquisire competenze spendibili all’esterno, una volta concluso il periodo di reclusione.  L’iniziativa è stata affidata all’associazione Do Re Miao, attiva da molti anni nel campo degli Interventi Assistiti e condotta da personale altamente specializzato e riconosciuto dal Ministero della Salute e dal Centro di Referenza Nazionale per la Pet Therapy.  La finalità del progetto è stata quella di favorire l’attivazione di risorse personali nell’ambito della cura e della relazione con l’eterospecifico, puntando sulle competenze già presenti: è stato infatti rilevato che chi decide di aderire alla proposta è stato o è attualmente proprietario di cani che al momento sono presi in carico da familiari.  Il progetto si è articolato in appuntamenti settimanali di due ore, con la presenza degli operatori e dei cani dell’associazione; ogni incontro ha previsto parti teoriche e parti pratiche, ma non sono mancati momenti di libera interazione che hanno permesso alle persone ristrette di ricontattare la propria parte affettiva. L’effetto dell’entrata dei cani in Istituto si diffonde pervasivamente anche su tutto il personale presente, creando un’occasione distensiva e di scambio.  Si ringraziano il direttore Francesco Ruello per aver creduto nella potenzialità del percorso, il personale dell’Area Educativa e gli agenti della di Polizia Penitenziaria per aver favorito in tutti i modi possibili il sereno svolgimento delle attività. Per info e approfondimenti: Dott.ssa Barbara Bellettini, 3803289556. Pallucchi: “Nella manovra di governo “dimenticato” un piano per il Terzo settore” Corriere della Sera, 3 gennaio 2023 Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum del Terzo settore: “È molto preoccupante che il governo non abbia ascoltato l’appello delle realtà non profit”. Alla fine l’allarme lanciato dal Terzo settore è finito nel vuoto. E l’appello per un piano del non profit, rivolto al governo alla vigilia della manovra economica approvata alcuni giorni fa, è rimasto inascoltato. A denunciarlo è Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Terzo Settore: “È molto preoccupante che in un periodo di crisi socio-economica come quello che stiamo attraversando, siano “dimenticate” proprio quelle realtà non profit attive nel ridurne le conseguenze negative, ricucire le ferite del tessuto sociale, produrre ricchezza e coesione. Non sostenere il Terzo settore finisce per penalizzare doppiamente chi nella nostra società è più fragile, ha meno opportunità o vive ai margini”. In questo modo, spiega la portavoce in una nota a firma di tutte le associazioni del Forum, si penalizzano pesantemente - come già volte segnalato - tutte le attività sociali di volontariato. “L’allarme contro il caro-bollette, in particolare - aggiunge Pallucchi - è stato lanciato diverso tempo fa, ma è rimasto inascoltato: senza gli aiuti necessari, che sono stati previsti per tutti tranne che per il Terzo settore, migliaia di associazioni e organizzazioni di volontariato rischieranno di chiudere i battenti o di lasciare privi di servizi fondamentali giovani, anziani o persone con disabilità a rischio esclusione sociale, così come tutti i cittadini che trovano nelle attività svolte dalle realtà sociali la principale alternativa alla solitudine o alla povertà”. Per questo, conclude la portavoce del Forum del Terzo Settore, “ci auguriamo vivamente che la grave mancanza in questa manovra sia colmata nel primo provvedimento utile, e che l’attenzione dichiarata da questo governo verso il Terzo settore venga presto dimostrata nei fatti”. Migranti. Mattarella firma il decreto. E un’Ong già rischia la sanzione di Adriana Logroscino  Corriere della Sera, 3 gennaio 2023 La nave di Msf verso Taranto dopo 3 interventi. La nuova norma non prevede soccorsi multipli. Il decreto legge che detta nuove regole sul salvataggio in mare da parte delle Ong, voluto dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, è in vigore: ieri il presidente della Repubblica l’ha firmato. E immediatamente è iniziato il suo percorso di conversione alla Camera. Anche su questo dossier “l’Italia farà la sua parte”, ha scritto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in un tweet in cui augurava buon lavoro al premier svedese Ulf Kristersson, che ha assunto la presidenza di turno del Consiglio europeo. La Geo Barents, nave di Medici senza frontiere, che sta facendo rotta verso il porto assegnato di Taranto, è la prima imbarcazione di un’organizzazione umanitaria a confrontarsi con le nuove regole di condotta. E a rischiare la sanzione. Nel decreto, infatti, è previsto che le Ong chiedano subito un porto sicuro, che non sostino ulteriormente in mare dopo un soccorso, e che informino gli stranieri sulla possibilità di chiedere asilo. Pena multe fino a 50 mila euro e confisca dell’imbarcazione.  La Geo Barents, però, dopo aver soccorso 85 migranti in due differenti operazioni, e aver ricevuto l’indicazione del “porto sicuro” di Taranto dalle autorità, ha raggiunto un terzo punto dal quale proveniva un sos di “Alarm phone”, una linea di emergenza per migranti in difficoltà, per la presenza di 170 naufraghi, senza però rintracciarli. Questa ultima deviazione dalla rotta configurerebbe una violazione delle nuove regole che vietano i soccorsi multipli. “Su richiesta del Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo - spiegano dall’equipe di Medici senza frontiere - il nostro team a bordo della Geo Barents ha prima soccorso 41 persone in difficoltà in acque internazionali al largo della Libia, poi ha effettuato un trasbordo da una nave mercantile di 44 persone, anche in questo caso su richiesta delle autorità italiane, che ci hanno poi assegnato il porto di Taranto, dove ci stiamo dirigendo”.  Ma dall’ufficio stampa di Msf, in serata, è arrivata la conferma di una nuova deviazione, verso le acque al largo della Libia per soccorrere 45-50 persone a bordo di un barcone in difficoltà. “Ci stiamo dirigendo verso un’imbarcazione in pericolo, per aiutare - ha riferito all’Afp l’addetto stampa di Msf Maurizio Debanne - ma temiamo problemi con le autorità italiane per la nuova legge”. Cambi di rotta che il Viminale non ha autorizzato. L’arrivo della Geo Barents in Puglia è previsto per domani. Anche rispetto alla richiesta d’asilo da Msf prendono tempo: “Riguardo alla necessità di chiedere di formalizzare la domanda di asilo alle persone a bordo della nave, preferiamo vedere il testo finale del decreto per poterci esprimere e valutare il da farsi”. L’ultimo sbarco, prima dell’approvazione del decreto, è stato quello di sabato, a Ravenna, della Ocean Viking con 113 migranti. Tra loro una donna con un bambino di 17 giorni, ricoverati, e altri che necessiterebbero cure mediche per via delle violenze subite.  L’imbarcazione, di Sos Mediterranée, è ferma a Ravenna, la Rise Above di Mission Lifeline, che ha raccolto i 170 dell’sos lanciato da “Alarm phone”, è ad Augusta e la Life Support di Emergency a Livorno. La Humanity 1 di Sos Humanity, la Louise Michel dell’omonima Ong, la Open Arms, la Astral e la Sea Eye 4 di Sea Eye sono in porti spagnoli. “I nostri propositi per il 2023 - twitta quest’ultima Ong - sono di salvare vite ancora più vite. Migliaia di persone fuggiranno dalla Libia, saremo lì per aiutare”. A Roccella Ionica erano sbarcati in 90, tutti iraniani e afghani, che sono stati soccorsi dalla guardia di finanza. Altri 162, in tre diversi sbarchi, sono arrivati a Lampedusa. I dati del Viminale, aggiornati a ieri, riferiscono di 105.140 migranti sbarcati in Italia nel 2022, 12 mila dei quali minori non accompagnati. Nei primi due giorni del 2023 in 616 sono giunti via mare. Durante tutto gennaio del 2022 erano stati tremila. Migranti. Il decreto contro le Ong è incostituzionale di Salvatore Curreri Il Riformista, 3 gennaio 2023 Il diritto d’asilo è intangibile. Inutile tentare di aggirarlo. Io me li immagino politici e funzionari del Governo affannarsi in questi giorni intorno a un tavolo per cercare di trovare soluzioni normative che ostacolino il più possibile l’attività di soccorso in mare svolta dalle navi delle Ong. Ebbene sappiatelo: è tutto inutile; per quanti sforzi facciate, ci sarà sempre la Costituzione sopra di voi. Quella Costituzione che, all’articolo 10, riconosce il diritto d’asilo allo straniero “al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”. Quella Costituzione secondo cui il legislatore, nel regolare la condizione giuridica dello straniero, non è libero di approvare ciò che vuole ma deve rispettare, oltreché la Costituzione stessa, le consuetudini ed i trattati internazionali. Consuetudini e trattati che riconoscono allo straniero il diritto di rifugio politico se perseguitato; oppure, in alternativa, la protezione sussidiaria se vi sono fondati motivi per ritenere che, tornato nel Paese d’origine, egli correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno, come la condanna a morte, la tortura o la minaccia alla vita derivante da situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Consuetudini e trattati che impongono l’obbligo di prestare soccorso alle persone in pericolo o in difficoltà in mare (v. le Convenzioni Solas del 1914, Sar del 1979, Unclos del 1982 e Salvage del 1989, tutte ratificate), sulla base delle quali lo straniero rintracciato “a seguito di operazione di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi” (art. 10-ter.1 Testo Unico sull’Immigrazione). Per questo gli Stati responsabili della zona di ricerca e soccorso (search and rescue: la cosiddetta Sar) in cui viene prestata assistenza devono adoperarsi perché le persone salvate in mare siano nel più breve tempo ragionevolmente possibile sbarcate e condotte in un luogo sicuro - il cosiddetto place of safety (Pos) - cioè in un luogo “dove le operazioni di soccorso si considerano concluse”; in cui “la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata e dove le loro necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte”; “in cui possono essere presi accordi per il trasporto dei sopravvissuti verso la loro destinazione successiva o finale” (§ 6.12 Linee guida sul trattamento delle persone soccorse Risoluzione MSC.167-78/2004 allegato 34 alla Convenzione SAR). Ciò anche con la collaborazione dell’Unione europea che, nel controllare le frontiere esterne marittime, deve “assistere gli Stati membri nello svolgimento delle operazioni di ricerca e soccorso al fine di proteggere e salvare vite, ogniqualvolta e ovunque ciò sia richiesto” (47° considerando reg. (UE) 2016/1624). Luogo sicuro non è la nave che presta assistenza che, anche se ha accolto temporaneamente le persone soccorse, non è per sua natura in grado di prendersi adeguatamente cura di loro e di garantire il pieno rispetto dei loro diritti fondamentali. Per questo tali navi possono essere sottoposte a controlli e a eventuale fermo da parte dello Stato di approdo in caso di evidente pericolo per la sicurezza, la salute e l’ambiente ma solo dopo lo sbarco dei migranti (Corte di giustizia UE 1.8.2022 Sea Watch). Per questo è illegittimo negare l’attracco e lo sbarco da tali navi (anche della marina militare) cariche di migranti soccorsi in mare al fine di indurre gli altri Stati dell’Ue a farsi carico del loro ricollocamento. Tali dinieghi, infatti, mettono in secondo piano i diritti fondamentali dei migranti e si pongono in contrasto con l’obbligo di prestare loro soccorso e di sbarcarli in un luogo sicuro” (Cassazione, sentenza n. 6626/2020 che diede ragione alla Rackete). Alla luce di tale ordinamento giuridico, il decreto legge approvato dal Governo lo scorso 28 dicembre solleva palesi dubbi d’incostituzionalità. Si vieta alle navi delle Ong che abbiano già effettuato un’operazione di soccorso di poterne effettuare altre se non autorizzate per cui - incredibile a dirsi - in presenza di altri naufraghi in zona la nave dovrebbe tirare dritto (senza neppure effettuare trasbordi), dato che altrimenti violerebbe l’obbligo di raggiungere senza ritardo il porto di sbarco, oppure restare in attesa dell’autorizzazione ministeriale. In secondo luogo i migranti dovrebbero essere subito identificati e informati della possibilità di chiedere la protezione internazionale nell’Unione europea. Obbligo solo apparentemente rispettoso dei diritti dei migranti dato che dietro di esso si cela l’intento di obbligare lo Stato di bandiera della nave, quale Stato di “primo ingresso”, a farsi carico dell’accoglienza dei migranti come previsto dalla convenzione di Dublino. In ogni caso non può certo addossarsi al comandante della nave - anziché ai centri di prima accoglienza, come oggi previsto - un compito amministrativo così complesso e gravoso, come la presentazione della domanda di protezione internazionale (lo ha scritto la Cassazione nella citata sentenza sul caso Rackete); per questo egli dovrebbe appena possibile essere sollevato da tali responsabilità (§ 6.13 Linee guida cit.). Inoltre non viene appositamente prevista alcuna garanzia che il porto di sbarco assegnato alle navi delle ONG sia quello più vicino. Lo scopo è evidente: allontanarle di fatto dalle zone di soccorso e costringere i migranti a bordo a lunghe traversate, navigando per giorni per rotte magari improvvisamente cambiate, come accaduto alla Ocean Viking prima indirizzata a La Spezia (!) e poi costretta a circumnavigare la penisola per raggiungere Ravenna (e dunque da una regione governata dal centrodestra ad una governata dal centrosinistra: un caso?). Infine, la reintroduzione di pesanti sanzioni amministrative - da 10 a 50mila euro più il fermo amministrativo per due mesi della nave e, in caso di reiterazione, la sua confisca - irrogate discrezionalmente non dal giudice, terzo e imparziale, ma dal Prefetto, autorità amministrativa dipendente dal Ministero dell’Interno. Certo, contro tali sanzioni l’armatore potrebbe pur sempre fare ricorso, sopportandone però i costi, a partire da quelli di mantenimento della nave sottoposta a fermo. Al riguardo, non può non ricordarsi l’attuale Presidente della Repubblica che nel promulgare l’8 agosto 2019 il suddetto decreto sicurezza bis, pur astenendosi da valutazioni di merito, ebbe ad osservare in riferimento alle analoghe sanzioni amministrative pecuniarie previste dal d.l. sicurezza-bis n. 53/2019 (abrogate nel 2020) che non era stato “introdotto alcun criterio che distingua quanto alla tipologia delle navi, alla condotta concretamente posta in essere, alle ragioni della presenza di persone accolte a bordo e trasportate” aggiungendo che non appariva “ragionevole - ai fini della sicurezza dei nostri cittadini e della certezza del diritto - fare a meno di queste indicazioni e affidare alla discrezionalità di un atto amministrativo la valutazione di un comportamento che conduce a sanzioni di tale gravità”, alla luce della necessaria proporzionalità tra sanzioni e comportamenti ribadita dalla sentenza n. 112/2019 della Corte costituzionale. In forza di quanto sopra, dichiarare, come riportato nel comunicato stampa, che “le disposizioni mirano a contemperare l’esigenza di assicurare l’incolumità delle persone recuperate in mare, nel rispetto delle norme di diritto internazionale e nazionale in materia, con quella di tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica” è l’omaggio che il vizio rende alla virtù. È evidente e prevedibile che le Ong non rispetteranno tali disposizioni volte ad impedire loro quell’attività di salvataggio per cui sono sorte. Così come è evidente e prevedibile che ciò innescherà l’ennesimo contenzioso dinnanzi al giudice - ordinario, amministrativo ed infine costituzionale - fin quando non si capirà, o si farà finta di non capire, che il problema epocale dell’immigrazione va affrontato con soluzioni politiche condivise a livello europeo ispirate a quel rispetto della dignità della persona umana su cui la nostra Costituzione si fonda e dinanzi a cui ogni approccio burocratico da legulei è destinato inevitabilmente ad infrangersi. Dal lavoro ai migranti: le risposte sbagliate dei democratici di Filippo Miraglia* La Repubblica, 3 gennaio 2023 Dove finisce la responsabilità e comincia l’attaccamento al potere è difficile dirlo. Il mantra della governabilità ha rappresentato la stella polare di gran parte delle forze politiche di centro sinistra nel nostro Paese, a partire dal Pd. Se si partecipa alla competizione per governare e dirigere un Paese, è corretto voler vincere. Ma per fare cosa? Se arrivare al governo è il fine ultimo, spesso diventa determinante come ci si arriva, soprattutto se non si ha una identità chiara. Sapere che c’è differenza tra governi di diverso orientamento non distoglie il nostro sguardo dalle ingiustizie e dal perseguire l’interesse di chi è vittima di quelle ingiustizie. Se fai politica, se sei impegnato nello spazio pubblico a qualsiasi livello, hai l’ambizione non solo di stare dalla parte giusta, ma di influire sulle scelte collettive modificandole. Ci sono domande ineludibili cui chi fa politica e si candida a governare ha il dovere di rispondere chiaramente. Domande che danno senso alla parola sinistra e che obbligano a scegliere tra una via liberal democratica fedele al turbocapitalismo, che ha dimostrato essere un modello sbagliato e ingiusto, o una social democrazia che rimuova gli ostacoli, come dice l’art. 3 della Costituzione, usando ogni leva possibile, a partire da quella fiscale, per promuovere uguaglianza. Pensate che la precarietà lavorativa e lo sfruttamento siano accettabili in funzione della ricerca di uno sviluppo che ha prodotto in questi anni uno spostamento enorme di ricchezza dai più poveri verso i più ricchi, aumentando la povertà? I nostri giovani preferiscono andare all’estero a fare lo stesso lavoro che potrebbero fare in Italia perché le condizioni di lavoro sono migliori negli altri Paesi. Che proposte ci sono? Salario minimo? Fisco più equo? Il riscaldamento del pianeta che preoccupa milioni di ragazzi e ragazze in tutto il mondo è una vostra preoccupazione o come sempre proponete la politica dei due tempi: in attesa di invertire la marcia, andiamo avanti con l’energia da fonti fossili? Per fare fronte all’emergenza determinata dalla guerra, sempre rincorrendola senza guardare al futuro, siete ancora disposti a fare accordi con qualsiasi regime che calpesti ogni giorno i diritti umani? Il razzismo dilagante lo si affronta con la dottrina Minniti, che ha inventato il Codice per le ONG, inaugurando la stagione della criminalizzazione del salvataggio in mare e prodotto la legge Orlando Minniti, che riduce il diritto ad un equo processo solo per i richiedenti asilo, cioè rincorrendo le argomentazioni e i metodi della destra xenofoba, per “rispondere alle paure delle persone”, alimentandole, o si punta ai diritti e all’uguaglianza, promuovendo regole giuste ed efficaci? Dal 2002 ad oggi nessuno dei governi di centro sinistra ha abolito la Bossi Fini; al contrario si è teso a consolidare l’idea che, riducendo lo spazio dei diritti degli stranieri, l’Italia e l’Europa sarebbero state migliori. I provvedimenti e le iniziative di governi, parlamento e spesso anche di sindaci democratici, con poche e ininfluenti eccezioni, non sono state in grado di arginare l’egemonia culturale della destra xenofoba, sulla quale, soprattutto tra le fasce della popolazione più in difficoltà e nelle tante periferie del Paese, si è sedimentato un sentimento di odio, appena attenuato dalla pandemia e dalla crisi energetica legata alla guerra, utile per costruire carriere politiche e fortune elettorali. I corpi intermedi, che quotidianamente si confrontano con le contraddizioni della società, hanno un peso nella definizione delle scelte di una forza di sinistra? Quando un partito di sinistra deve prendere decisioni importanti si confronta con chi rappresenta pezzi importanti di società o tiene conto solo di quel che si dice sui media mainstream? Se l’astensionismo è così alto e crescono coloro che votano facendosi guidare da promesse populiste, forse queste domande, e tante altre non meno importanti, non ricevono risposte credibili e alternative a quelle delle destre e il dibattito politico è in gran parte concentrato sui nomi e sui posizionamenti personali e di gruppi e non sulle proposte concrete, che diventano un corollario delle dinamiche di potere. La gara per chi vincerà le primarie del Pd ci interessa, ma è davvero un lusso in un’epoca che ha bisogno di gruppi dirigenti che si mettano al servizio dell’interesse pubblico e di un’alternativa possibile. È in gioco la cultura di questo Paese e il futuro dell’Ue. Il tempo per scegliere è oggi e non lo si può fare senza essere consapevoli degli errori commessi e cambiando decisamente direzione. *Vicepresidente Arci nazionale Stati Uniti. Prevista oggi in Missouri la prima esecuzione dell’anno di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 gennaio 2023 Se non ci saranno sospensioni e rinvii dell’ultimo minuto, nelle prossime ore negli Usa verrà eseguita la prima condanna a morte dell’anno. Già immagino i titoli: “La prima esecuzione di una transgender”, “Prima transgender messa a morte negli Usa”. “Cambiò sesso nel braccio della morte: eseguita la condanna”. Il genere di Amber McLaughlin non ha fatto la differenza in questa ennesima storia di pena capitale. A farla arrivare a un passo dalla camera della morte del Missouri sono state altre vicende. La prima è che alla giuria che si pronunciò, nel 2006, per la pena di morte vennero tenute nascoste le prove riguardo alla sindrome alcoolica fetale, alle lesioni cerebrali, alle violenze e alla depressione dell’infanzia e ai tentativi di suicidio da adulta. La seconda è che, nonostante quelle omissioni, la giuria non si pronunciò unanimemente a favore della condanna a morte. Anzi: respinse tre dei quattro argomenti pro-pena di morte che la procura aveva sottoposto ai giurati. Nella maggior parte degli stati degli Usa è richiesto che tutti i giurati si esprimano a favore della condanna alla pena capitale. In Missouri no. Quando la giuria è divisa, decide il giudice. E il giudice decise per porre fine alla vita di Amber McLaughlin. Bosnia. Guardie di un campo di detenzione accusate di abusi sui prigionieri La Repubblica, 3 gennaio 2023 “I crimini commessi - secondo l’accusa - si riferiscono a incarcerazioni illegali, percosse, detenzione di persone in condizioni disumane, abusi sessuali commessi contro decine di vittime, civili bosgnacchi e croati. L’accusa bosniaca ha accusato di crimini contro civili e prigionieri di guerra ben 15 ex guardie che erano state detenute nel carcere militare-investigativo di Banja Luka, noto come Mali Logor, dal 1992 al 1995. Lo si apprende dal sito Balcan Transitional Justice, il programma di giustizia di transizione nei Balcani, una piattaforma che mira a migliorare la comprensione da parte del pubblico delle questioni di giustizia di transizione nei Paesi dell’ex Jugoslavia: Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia. Gode del supporto della Commissione europea, del Dipartimento federale degli affari esteri della Svizzera, del Ministero degli affari esteri olandese e della Fondazione tedesca Robert Bosch Stiftung. Gli imputati e l’accusa. Il pubblico ministero ha annunciato, venerdì scorso, di aver accusato l’ex direttore, il vicedirettore e le guardie della prigione militare-investigativa nella città di Banja Luka, nota come Mali Logor, di crimini contro detenuti civili e prigionieri di guerra bosniaci e croati. Gli imputati sono: Rajko e Dusko Drljaca, Milic Bucan, Goran Jorgic, Goran Bojic, Svetislav Cvijetic, Uros Grab, Aleksandar Jankovic, Igor Kljakic, Milenko Letic, Borislav Milakovic, Drasko Radusinovic, Gojko Soldat, Mile Vuckovic e Goran Savic. “I crimini commessi - sostiene l’accusa - si riferiscono a detenzioni illegali, percosse, detenzione di persone in condizioni disumane, abusi, abusi sessuali e altri atti disumani, che sono stati commessi contro diverse decine di vittime, civili bosgnacchi e croati e prigionieri di guerra, tra cui donne e anziani, tra cui altri, e alcuni pestaggi hanno avuto anche conseguenze fatali”. Uccisioni di civili in modo crudele. In un’accusa separata dalla procura statale, annunciata sempre venerdì scorso, un ex poliziotto serbo, Elvis Djuric, è stato accusato di aver commesso crimini di guerra a Vlasenica nel 1992. L’accusa ha affermato che Djuric ha partecipato ad attacchi contro villaggi abitati da bosgnacchi, tra cui Dzamadzici, Alihodzici e Durakovici, dove i civili sono stati assassinati e le proprietà sono state saccheggiate e date alle fiamme. “L’imputato è stato accusato di aver ucciso un civile bosniaco in modo crudele usando coltelli, oltre a torture, intimidazioni, detenzione illegale di civili nel campo di detenzione di Susica e altri atti disumani”, ha affermato. È accusato, in quanto membro della forza di polizia riservista presso la stazione di pubblica sicurezza di Vlasenica, di aver commesso un crimine contro l’umanità nell’ambito di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile bosniaca nell’area di Vlasenica. Djuric ha la cittadinanza sia della Bosnia-Erzegovina che della Serbia, e attualmente vive in Serbia, ha detto l’accusa. Entrambe le accuse sono state inviate al tribunale statale per la conferma. Iran. L’orrore non si ferma, altri due ragazzi condannati a morte di Fabiana Magri La Stampa, 3 gennaio 2023 Sono accusati di “guerra contro Dio” per aver partecipato alle rivolte. Nuova stretta di Teheran sul velo. E gli esuli si coordinano sui social. Mentre Bologna resta incredula dopo la morte di Mehdi Zare Ashkzar, la repressione delle manifestazioni in Iran non si ferma. Il pugno di ferro del regime questa volta colpisce un diciottenne, Mehdi Mohammadi, arrestato durante le proteste a Nowshahr e contro il quale la magistratura ha emesso una doppia sentenza di condanna a morte. Al giovane, accusato di “guerra contro Dio”, sarebbe anche stata negata la possibilità di essere difeso da un avvocato. Il caso viene messo in evidenza dall’agenzia degli attivisti per i diritti umani Hrana che spiega che, oltre alla pena capitale, il tribunale rivoluzionario di Sari ha condannato il 18enne a sei mesi di reclusione per il reato di “propaganda contro il regime”, ad altri due anni per “incitamento a turbare la sicurezza del Paese e all’omicidio”, quindi un altro anno per “offese al leader Supremo dell’Iran”. Sul giovane, arrestato lo scorso 30 settembre, pesa anche l’accusa di “moharebeh”, delitto previsto dalla Sharia iraniana che punisce chiunque offenda l’Islam o lo Stato: letteralmente il termine viene tradotto con “lotta”, perché esprime il concetto di “guerra contro Dio”. Ed è una delle accuse che di solito fa scattare le punizioni più severe del regime, fino appunto alla pena di morte. Nuova stretta sul velo - Intanto, dopo oltre cento giorni di proteste scatenate dalla morte della 22enne Mahsa Amini, dai media iraniani giungono indicazioni di una nuova stretta sull’obbligo di indossare l’hijab in maniera appropriata, con la polizia iraniana che ha ripreso a monitorarne l’uso da parte delle donne in auto. “La polizia ha iniziato la nuova fase del programma Nazer-1 (sorveglianza in lingua farsi) in tutto il Paese”, ha dichiarato un “alto funzionario di polizia” all’agenzia di stampa Fars. “Il Nazer-1 riguarda l’assenza di hijab nelle auto”, con la polizia che “invia un sms a chi trasgredisce”, ha spiegato. Secondo l’agenzia, il messaggio reciterà: “L’assenza del velo è stata osservata nella vostra auto. È necessario rispettare le norme della società e non ripetere questo atto”. La minaccia contenuta in una versione precedente del messaggio, secondo cui “se questa azione si ripete, vi saranno applicate conseguenze legali e giudiziarie”, è stata rimossa. Il programma Nazer è stato lanciato dalla polizia nel 2020. Dopo le manifestazioni seguite alla morte della 22enne curda, la polizia morale ha smesso di arrestare le donne che camminavano a capo scoperto per strada e di portarle alla stazione di polizia. Iran. Mehdi Zare Ashkzari, gli amici: “Un ragazzo così buono che lo chiamavamo canarino” di Micaela Romagnoli Corriere della Sera, 3 gennaio 2023 L’ex studente dell’Alma mater morto dopo le torture, i ricordi di chi lo conosceva: le chiacchierate, le partite alla Play, la pizzeria. “Noi non torniamo nel nostro Paese”. “Aveva il cuore delicato, un ragazzo così buono che lo chiamavo canarino”. Benjamin Aalami, 31 anni, originario di Teheran, amico di Mehdi Zara Ashkzari, ricorda così il ragazzo morto dopo le torture subite in un carcere del suo Paese. Anche Benjamin ha frequentato l’Università di Bologna, dove vive dal 2016, e si è laureato al Dams; Mehdi era stata tra le prime persone conosciute dopo il suo arrivo in città: “Era uno del gruppo di iraniani con i quali sono entrato subito in contatto, che mi hanno dato informazioni per inserirmi all’università e trovare casa”. Mehdi alla facoltà di Farmacia, Benjamin appassionato di arte e di cinema: “Ma ci si vedeva quasi tutti i giorni, soprattutto a casa, per due chiacchiere, mangiare qualcosa, giocare alla Playstation - racconta -. Una persona simpatica e buona, sapeva essere un uomo forte contro le cose non ragionevoli del mondo”. “Mehdiciao” e gli studi a Bologna - Era uno studente lavoratore, Mehdi; divideva le sue giornate tra lo studio e la pizzeria Ciao Vip, dove il responsabile, Yaman, commosso non riesce a capacitarsi del destino atroce del ragazzo: “Non riesco ancora a crederci - confida - ogni secondo mi tornano in mente ricordi di lui. Era un ragazzo pieno di energia, si era fatto benvolere da tutti. La sera, dopo il lavoro, quando poteva usciva con gli amici”. “Non parlava spesso di politica - aggiunge Yaman - ma quando lo faceva si mostrava molto critico, come praticamente tutti gli iraniani che abitano qui, anche se molti non lo dicono”. Proprio per il suo impegno alla pizzeria Ciao alcuni amici, simpaticamente, lo avevano soprannominato “Mehdiciao”, dice Roozbeh, 33 anni, iraniano di Borujerd, anche lui bolognese d’adozione, ex-studente dell’Alma Mater: “Sono venuto a Bologna nel 2014 e mi sono laureato alla magistrale di Statistica, economia e impresa. L’ho conosciuto ancora prima del suo arrivo qui”. La perdita della mamma - Roozbeh, infatti, in quel periodo era tra gli amministratori di un gruppo Telegram che dava supporto agli iraniani che avevano il desiderio di studiare in Italia e a quel gruppo si era iscritto anche Mehdi: “Era arrivato a Bologna nel 2015 con la sua ragazza, dalla quale poi si era lasciato. Era un tipo tranquillo, simpatico, molto legato alla famiglia, in particolare al fratello minore - ricorda -, sognava un futuro migliore anche per lui”. Mehdi, da un anno e mezzo, era rientrato in Iran per la morte della madre: “Aveva deciso di fermarsi un po’ di più per stare vicino al padre e al fratello, poi sarebbe voluto tornare a Bologna ma sono sopraggiunti problemi con il permesso di soggiorno”, ricostruisce Roozbeh. Non si sentivano da diversi mesi, ma l’ultima volta Mehdi era molto giù: “Era provato, molto triste per la perdita della mamma”. “Falsi studenti che informano il governo iraniano” - I suoi amici oggi sono scioccati, non stupiti: “Non mi meraviglia - ammette Benjamin - visto che ogni giorno leggiamo notizie tremende dal nostro Paese. È incredibile che tutto questo sia capitato proprio a lui, che lui sia l’ennesima vittima”. E in Iran adesso non hanno intenzione di fare ritorno: “Abbiamo partecipato a tante manifestazioni contro quello che sta succedendo e se tornassimo, appena sbarcati, verremmo arrestati e magari ci sarebbe un altro dramma come quello di Mehdi - dice Roozbeh -. Anche qui ci sono falsi studenti che informano il governo iraniano. L’unica consolazione è che da fuori posso fare qualcosa per dare voce al nostro popolo”. Vede un barlume Sohyla Arjmand, iraniana, attivista per i diritti umani e impegnata nell’associazione DonneperNasrin, che con la famiglia gestisce il ristorante Pars in Bolognina: “Per tanto tempo il mondo ha taciuto sui massacri che hanno compiuto in Iran: io voglio urlare il blocco della pena di morte per i manifestanti. Adesso almeno si parla dell’Iran, qualcosa deve succedere”. Iran. Il corpo delle donne al centro di una rivoluzione di Mariangela Mianiti Il Manifesto, 3 gennaio 2023 Il movimento iraniano è l’unico evento che ci fa sperare in un anno migliore del precedente. Il movimento iraniano “Donne, vita e libertà” è l’unico evento del presente che ci fa sperare nel futuro e in un anno migliore del precedente. Da mesi le notizie che arrivano con fatica dall’Iran mi accompagnano come un sottofondo persistente. Sono sempre lì, nei pensieri e nei desideri, a scatenare rabbia per la repressione violenta e mortifera, senso di impotenza perché l’unica cosa che possiamo fare da qui è parlarne e parlarne e parlarne, ammirazione per l’inesauribile forza di questa rivoluzione iniziata dalle donne e che, giorno dopo giorno, manifestazione dopo manifestazione, ha contagiato un’intera società e la sua moltitudine fatta anche di uomini e di giovani, giovanissimi, anziani, madri, padri, insegnanti, studenti, artisti, intellettuali, commercianti, operai. Le crepe sono arrivate anche dentro le famiglie degli ayatollah, con figlie e nipoti che hanno dichiarato pubblicamente il loro dissenso, e per questo sono state zittite. Quando un regime sente di essere arrivato alla fine, perché non sa e non vuole cambiare, tira fuori il peggio di sé, la repressione che tortura, uccide, impicca i propri figli. Si consuma così il gioco perverso del dare la morte illudendosi che in quel modo si allungherà la propria vita, per quanto e a che prezzo poco conta. Questa ottusa autodifesa, e il suo contraltare che è la lotta, trova un simbolico anche nelle immagini e nei corpi. Basta guardarli, gli ayatollah intransigenti, per capire il loro odio per il vivente. Le facce barbute, inespressive, le teste chiuse dentro i turbanti, le guance cascanti, i gesti ingessati, i corpi bardati dentro paramenti che vorrebbero dare ieraticità, le parole che scelgono, gli ordini che danno, tutto parla di un mondo in putrefazione e che, proprio per questo, non sopporta le istanze del desiderio. E infatti, tra le mille nefandezze, come le forze iraniane hanno scelto di punire le ribelli? Hanno sparato puntando agli occhi, al petto, ai genitali per marcarle nelle parti del corpo che, per loro, rappresentano l’essenza del femminile. Il danno di quel regime stava già nell’origine, in quell’idea di società che, per assoggettare e controllare metà della popolazione, le donne, si è inventato una “polizia” della moralità e dei costumi che doveva controllare e punire ogni forma di libera espressione del sé. Il corpo femminile è al centro di questa rivoluzione perché è il centro di ogni democrazia, di ogni liberazione sociale. Non è un caso se la rivolta è nata dalla morte di Masha Amini, arrestata perché portava male il velo. Non è un caso se il gesto simbolico di quelle proteste, che stanno diventando rivoluzione, è quello di donne, ragazze e bambine che si tolgono il velo, lo bruciano, e manifestano, e camminano per le strade con i capelli al vento, e ballano e gridano “Donna, vita, libertà”, sostenute e accompagnate da mariti, fratelli, amici, figli, padri. Controllare e reprimere, vietare e punire, coprire, stabilire che cosa una donna può indossare o non indossare, fare, frequentare, studiare è un esercizio che piace a chi delle donne ha paura. Di conseguenza, è un segno di debolezza di chi, per credersi forte e dominare, usa la hybris del potere. Triste e infelice è la società che reprime, ancor più triste e infelice se reprime e pretende di controllare le donne. Chi fa quella scelta dovrebbe mettere in conto che, prima o poi, perderà perché le donne zitte non stanno, anche se la lotta è lunga e difficile. Oggi, in Iran, il corpo delle donne è diventato il corpo di una moltitudine che sta facendo la storia.