Prigionieri del detenuto di Francesco Bei La Repubblica, 31 gennaio 2023 Far dipendere la sorte del detenuto dall’atteggiamento dei suoi “compagni” fuori dal carcere non lega le mani a loro, bensì allo Stato. E gli impedisce di fare la cosa giusta, quale che essa sia. Il trasferimento del detenuto Alfredo Cospito, in regime perdurante di 41 bis, dal carcere di Sassari a quello di Opera, è una buona notizia ma non rappresenta una svolta. Tiene ferma la situazione di stallo, allontanando per un po’ la possibilità di un esito tragico, eppure resta al di sotto di quanto sarebbe necessario. Quello del governo è un prendere tempo, in attesa che qualcuno - ovvero la Cassazione - arrivi a togliere le castagne del fuoco, quando ai primi di marzo si terrà l’udienza per rivalutare il 41 bis per Cospito. È una non-decisione che evidenzia il vicolo cieco in cui si sta cacciando l’esecutivo mentre fuori, nelle strade, sale il livello di violenza degli insurrezionalisti anarchici. L’errore infatti è nel tenere insieme cose che insieme non devono stare: il caso Cospito e la repressione della guerriglia urbana. Dice bene il ministro Antonio Tajani che “dobbiamo separare la vicenda personale e la vicenda che riguarda gli attacchi”, eppure quello che sta facendo il governo è esattamente questo, mescolare pericolosamente i due piani. Un azzardo che gioca soltanto a favore di chi incendia le auto e tira sassi e molotov ai “lavoratori in divisa”, come li chiamava Pasolini. La nota a petto in fuori di palazzo Chigi, con quel muscolare “lo Stato non fa patti con chi ci minaccia”, è proprio quello che i violenti amici di Cospito si aspettavano e speravano nei loro sogni più segreti. Il governo di destra che li indica come nemici e, facendolo, li eleva al rango di interlocutori politici. Legittimando e ingigantendo una lotta che, in questo modo, trova il combustibile più propizio per allargarsi, mobilitare, creare reti di solidarietà. Il contrario di quanto andava fatto. Far dipendere la sorte di Cospito dall’atteggiamento dei suoi “compagni” fuori dal carcere non lega le mani a loro bensì allo Stato. E gli impedisce di fare la cosa giusta, quale che essa sia. Se si pensa che sia opportuno allentare il regime carcerario per il detenuto Cospito, lo si faccia e basta. Senza calcoli politici su come questo atto amministrativo potrà essere interpretato dalla galassia anarchica. L’amministrazione della giustizia dovrebbe essere cieca e sorda rispetto alla piazza e scrutare con il microscopio il singolo caso, non alzare lo sguardo con il cannocchiale a caccia di improbabili nemici. A meno che, ed è legittima a questo punto una dose di malizia, il caso Cospito e la postura di ferro del governo, non abbiano anche un altro scopo. Nei giorni scorsi, a fronte di un successo incredibile sulla lotta alla mafia (benché l’arresto di Messina Denaro non sia merito di questo governo, ma di una macchina investigativa-giudiziaria che da decenni prova ad acciuffarlo), nella maggioranza si è generato infatti un cortocircuito da dilettanti allo sbaraglio, che ha impedito alla destra di capitalizzare politicamente la cattura del boss. Colpa di Nordio e delle sue “gaffe” contro i pm antimafia e i mafiosi che non parlano al telefono. Colpa dello scontro tra le varie anime della maggioranza, quella securitaria e quella garantista. Sta di fatto che, pochi giorni dopo, la vicenda Cospito arriva magicamente a coprire tutte queste smagliature, uniformando sotto la maschera feroce dello Stato-che-non-si piega le divisioni interne al governo. Se il gioco è questo è un gioco pericoloso, perché potrebbe anche andare a finire male, sia perché eccita i più violenti e li sprona a una contrapposizione sempre più frontale, sia perché rischia di ritorcersi contro Cospito. Un condannato per fatti gravissimi, un uomo violento che non ha esitato a sparare a un essere umano, ha messo due bombe con bulloni e biglie di ferro davanti a una caserma che avrebbero potuto uccidere, ma non merita la vendetta di Stato. Perché non la merita nessuno. Lo dice la Costituzione italiana, non qualche fanzine anarchica. Poi, con calma, si potrà eventualmente discutere del 41 bis in generale e dei limiti della sua applicazione. E sarà utile, quel giorno, rileggere le parole di Marco Pannella su quelle “inutili, meramente afflittive soverchierie, che provocano soltanto durezza di comportamenti, irriducibilità, autolegittimazione, rifiuto di ogni dialogo o, peggio, a fronte di gravi maltrattamenti, l’imbarbarimento generale”. Il libro si chiamava “Tortura democratica”. È del 2001. Cospito può attendere di Eleonora Martini Il Manifesto, 31 gennaio 2023 L’anarchico trasferito nel carcere di Opera. Il Consiglio dei ministri affronta il caso ma se ne lava le mani e rinvia ogni decisione alle “sedi opportune”. Nordio: “Non intendo revocare il 41bis”. Meloni: “Lo Stato non si fa intimidire da chi pensa di minacciare i suoi funzionari”. Orlando: “Così si fa diventare l’anarchico al 41bis un elemento di coesione per quella rete che si cerca di combattere”. L’anarchico Alfredo Cospito è stato finalmente trasferito ieri in un carcere dotato di un centro di cura più adeguato alle sue ormai cattive condizioni di salute, dopo oltre tre mesi di sciopero della fame. Lo chiedevano numerosi appelli umanitari che da più parti si sono levati negli ultimi giorni affinché lo Stato dimostri di avere salde radici e lo sottragga alla morte. Purtroppo però il solo trasferimento non servirà a salvargli la vita perché non potrà essere sottoposto - per suo esplicita disposizione - ad alimentazione forzata. E “il Ministro della giustizia ritiene di non revocare il regime di cui all’articolo 41 bis”, come ha fatto sapere Nordio a tarda sera. Per alcuni siti anarchici la notizia è subito diventata che Cospito “è stato trasferito dal carcere di Bancali al Sai (Servizio di Assistenza Intensificata) interno al lager di Opera, a Milano”. Secondo il suo legale, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, l’anarchico che dal 20 ottobre rifiuta il cibo per protestare contro il regime di 41 bis cui è sottoposto dall’aprile scorso “proseguirà lo sciopero della fame, su questo non c’è alcun dubbio, è determinatissimo. L’unica novità di questo trasferimento è che nella struttura di Opera hanno specialisti in grado di intervenire tempestivamente in caso di emergenza. Se vogliono il martire, lo avranno”. A decidere il trasferimento “a fronte di un quadro clinico in evoluzione, affinché il detenuto - che resta sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’articolo 41bis - sia ospitato in una struttura detentiva più idonea a garantire tutti gli eventuali interventi sanitari necessari” sono stati i medici dell’Asl di Sassari, come ha comunicato ieri il Guardasigilli Nordio poco prima di entrare nel Consiglio dei ministri dedicato in parte al caso. “La tutela della salute di ogni detenuto - ha affermato Nordio - costituisce un’assoluta priorità”. Attorno al tavolo di Palazzo Chigi i ministri di Giustizia, dell’Interno e degli Esteri hanno informato la presidente Meloni, ciascuno per la sua parte, sia sul caso specifico del detenuto che riguardo le proteste e le azioni di sabotaggio che si sono moltiplicate negli ultimi giorni in Italia, in Europa e non solo, in suo nome (ma non in suo supporto). Giorgia Meloni un’idea se l’era già fatta prima di incontrare i suoi ministri: “Credo che lo Stato non debba farsi intimidire da chi pensa di minacciare i suoi funzionari”, aveva detto poco prima. Da Nordio probabilmente ha ascoltato anche le novità contenute nell’istanza depositata in Via Arenula dall’avvocato Rossi Albertini per chiedere al Guardasigilli di revocare il 41 bis: una sentenza che scagiona Cospito dall’accusa di essere stato l’ispiratore di una supposta cellula insurrezionalista a Roma (v. il manifesto del 14 gennaio 2023). Il ministro ha tempo fino al 12 febbraio per pronunciarsi, ma per respingere l’istanza basta non rispondere. Da Tajani la premier ha ricevuto l’informativa sulle iniziative adottate dalla Farnesina per “rafforzare la sicurezza delle sedi diplomatiche italiane all’estero”. Perché, come ha sottolineato il ministro degli Esteri, “dobbiamo separare la vicenda personale, su cui è competenza del ministro di Giustizia intervenire, e la vicenda che riguarda gli attacchi”. La stessa Farnesina sarà sottoposta a misure di sicurezza rafforzate, e sono stati disposti “maggiori controlli per quanto riguarda la protezione delle nostre sedi diplomatiche e consolari in tutto il mondo, soprattutto dove si temono di più rischi”. “Certamente gli attentati di Atene e quello di Berlino e l’assalto al consolato di Barcellona ci preoccupano, ma con chi usa violenza il governo non è disposto a trattare, perché - sottolinea Tajani, strizzando il solito occhiolino ai sindacati di polizia - insieme alle violenze contro le sedi diplomatiche ci sono state quelle contro le forze dell’ordine a Roma, e questo è assolutamente inaccettabile. Non si può usare violenza contro le istituzioni e le forze dell’ordine”. Infine, per il titolare del Viminale il 41 bis in questo caso “è stato applicato ad un personaggio di discreta pericolosità, valutata tale dagli organismi competenti. Si tratta di una persona condannata in via definitiva per gravissimi reati”, ha detto Matteo Piantedosi riferendosi però probabilmente solo alla condanna per la gambizzazione dell’Ad di Ansaldo nucleare, Roberto Adinolfi, avvenuta nel 2012 (la cui pena a 10 anni circa è stata già scontata da Cospito). L’anarchico si trova però ancora in carcere perché è stato condannato dalla Corte d’appello di Torino a 20 anni per i due ordigni scoppiati, nel 2006, a mezz’ora di distanza l’uno dall’altro di fronte alla caserma allievi carabinieri di Fossano. Per questo crimine la Cassazione ha riformulato l’accusa in strage contro lo Stato, reato che prevede l’ergastolo, e rinviato gli atti alla Corte d’Appello, la quale a sua volta ha sollevato la questione di costituzionalità sull’ergastolo - ostativo, in questo caso - comminato per un attentato che avrebbe potuto ma non ha prodotto vittime, né feriti. Alla Consulta però gli atti non sono ancora mai arrivati. Dunque il processo è fermo. Il regime di 41 bis invece è stato firmato otto mesi fa circa dall’allora ministra Cartabia per evitare che i continui proclami rivoluzionari pubblici di Cospito venissero veicolati attraverso riviste e siti dell’area anarchica. Dopo il no del Tribunale di Sorveglianza, l’avvocato Rossi Albertini ha presentato ricorso in Cassazione contro il carcere duro cui è sottoposto il suo cliente: la decisione è attesa per il 7 marzo. I ministri riuniti ieri sera hanno rinviato “ogni decisione nelle sedi opportune”. “Resta ferma la linea del governo - è quanto emerso dal Cdm - che non si farà condizionare dagli eventi esterni di questi giorni”. Un rigore che tralascia - o forse la consapevolezza c’è - il fatto che il “martirio” di Cospito sarebbe esso stesso un “pizzino”, per così dire, e questa volta rivolto a chiunque sia disposto a riceverlo e a tramutarlo in azione violenta. Oltre al rischio che, come sostiene l’ex Guardasigilli Andrea Orlando, “la vicenda finisca per diventare un elemento di coesione per quella rete anarchica che si cerca di combattere”. Alfredo Cospito, una catena di errori e ritardi: così lo Stato l’ha reso un simbolo di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 31 gennaio 2023 La storia della detenzione del 55enne pescarese, anarchico e pluricondannato con l’aggravante del terrorismo, è prima di tutto una sequela di valutazioni opinabili e scaricabarile tra amministrazioni che l’hanno resa, agli occhi di molti, un caso di malagiustizia. C’è stato un momento, in questi giorni di tensione, macchine incendiate e molotov, in cui tra palazzo Chigi e il ministero della Giustizia qualcuno ha avuto davvero paura: dal carcere di Sassari avevano appena comunicato che Alfredo Cospito, con tre maglioni e tre paia di pantaloni addosso per compensare lo sbalzo di temperatura provocato dalla perdita di peso, era crollato a terra. Un abbassamento della pressione, mentre era sotto il getto d’acqua calda della doccia, vestito. Aveva il naso rotto ma il cuore batteva. “Non sappiamo però quanto potrà durare così, in questo stato e in regime di 41 bis”, hanno riferito gli operatori del penitenziario di Bancali. È stato allora che a Roma si sono chiesti come si sia potuti arrivare sull’orlo del punto di non ritorno. Ecco: la storia della detenzione del 55enne pescarese, anarchico e pluricondannato con l’aggravante del terrorismo, è prima di tutto una sequela di valutazioni opinabili e scaricabarile tra amministrazioni che l’hanno resa, agli occhi di molti, un caso di malagiustizia. E, agli occhi di tutti, una storia dall’esito potenzialmente disastroso. Il trasferimento mancato - La scelta di trasferirlo a Opera è stata presa solo ieri, ma già un mese fa era apparso chiaro che Cospito avesse deciso di andare fino in fondo con lo sciopero della fame e che, dunque, le sue condizioni si sarebbero aggravate. Il carcere di massima sicurezza di Sassari non può trattare questo tipo di pazienti: nel 2020 il giudice di sorveglianza si è trovato costretto a concedere i domiciliari a Pasquale Zagaria, il fratello di Michele re dei Casalesi, perché “le strutture sanitarie presenti non sono in grado di garantire al detenuto la prosecuzione dell’iter diagnostico”. Nessuno si è posto il problema di pensare a una sistemazione alternativa quando Cospito ha cominciato a non mangiare. Era ottobre, mancavano poche ore al giuramento del governo Meloni. “Non dipende da noi”, hanno fatto sapere, da subito, i dirigenti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), dando il là al grande gioco dello scaricabarile. È vero infatti che la competenza sanitaria sulle carceri è passata alle Asl, e quindi alle Regioni, ma è altrettanto vero che in casi straordinari, come sicuramente quello di Cospito è, il Dap ha il compito di intervenire per tutelare la salute del detenuto. Negli ultimi giorni qualcosa si era mosso, perché nel penitenziario di Cagliari erano pronti ad attrezzare due stanze per ospitarlo. Eppure niente è accaduto: il weekend è scivolato via senza che Cospito si muovesse da Bancali. Il nodo del 41 bis - Più complessa la questione del 41 bis. Dal 12 gennaio il Guardasigilli Carlo Nordio ha sulla scrivania la richiesta dell’avvocato Flavio Rossi Albertini per revocare il carcere duro, considerati i nuovi elementi emersi da una sentenza della Corte d’assise di Roma che, nell’assolvere alcuni anarchici dal reato di associazione terroristica, ha ridimensionato il ruolo di Cospito all’interno della Federazione anarchica informale (Fai). Sono passati 18 giorni ma a quella richiesta non è stato dato seguito. Serve il parere della Direzione nazionale antiterrorismo e della procura di Torino che il 4 maggio scorso hanno chiesto all’allora ministra Marta Cartabia di applicare il 41 bis. “Ma è come se nessuno percepisse l’urgenza”, ragiona una fonte che conosce il dossier. “Al di là delle accertate responsabilità penali di Cospito, c’è un uomo che rischia di morire sotto la custodia dello Stato”. Trattato come “il capo” - Non è chiaro quando il pescarese trapiantato a Torino si sia votato all’anarchia, ma si sa che nel 2003, quando quattro sigle - Cooperativa artigiana fuoco e affini (occasionalmente spettacolare), Brigata 20 luglio, Cellule contro il capitale, Solidarietà internazionale - danno vita alla Fai, lui c’è. Dopo una serie di pacchi bomba e ordigni contro le istituzioni, nel 2006 la Fai fa un bilancio, col documento “4 anni”, sunto di un incontro tra otto delegati dei gruppi fondatori. Che viene così interpretato dagli inquirenti: “Il documento individua una sorta di comitato direttivo centrale che svolge funzioni di programmazione e direzione strategica rispetto alle singole cellule”. Nel comitato ci sarebbe anche Cospito. Tale impostazione, però, cozza con quell’orizzontalità senza vertici e leader che l’aggettivo “informale” sottende. Eppure sarà uno dei motivi alla base del decreto firmato da Cartabia che ha costretto Cospito al 41 bis. Un capolavoro italiano in sette errori di Mattia Feltri huffingtonpost.it, 31 gennaio 2023 Riuscire a trasformare in emergenza il caso dell’anarchico Alfredo Cospito è un capolavoro italiano costruito in sette errori. Dal 41bis alla nerboruta dichiarazione di ieri del governo: come siamo riusciti a trasformare un caso in una emergenza dalla quale uscire indenni è ormai quasi impossibile. Primo errore. Il 41bis, il regime del carcere duro, da provvedimento emergenziale - ai limiti della costituzionalità e forse oltre - è diventato provvedimento ordinario, ormai dalla vita ultratrentennale e applicato con qualche disinvoltura. Infatti oggi i detenuti al 41bis sono molti, circa settecentocinquanta, in gran parte mafiosi, alcuni terroristi e poi Cospito, primo anarchico per il quale si è ritenuto necessario il provvedimento, congiunto all’ergastolo ostativo, pena che, per un attentato senza vittime, appare di sproporzionata severità. Secondo errore. Cospito è finito al 41bis per la corrispondenza dal carcere con giovani compagni di anarchia. Nelle lettere si parlava anche del ricorso alla violenza ma non è che Cospito indicasse obiettivi e fornisse istruzioni: era un dibattito filosofico, diciamo così, e infatti le lettere sono state pubblicate su alcune riviste anarchiche. Non erano i pizzini di Bernardo Provenzano. È stupefacente che il ministro della Giustizia del governo Draghi, Marta Cartabia, una apertamente critica col sistema penitenziario italiano, abbia autorizzato il carcere duro. Terzo errore. Da mesi sui giornali si susseguono appelli con cui si invitava il governo precedente e si invita l’attuale a riconsiderare l’abnormità del 41bis per Cospito, ma né il governo precedente né l’attuale l’hanno mai ritenuta una questione degna di riflessione, e lo diventa soltanto ora che rischia di evolvere in un problema di ordine pubblico. Quarto errore. La presa di posizione di ieri del governo di Giorgia Meloni è inutilmente drastica e bellicosa (“lo Stato non fa patti con chi ci minaccia”), politicamente una sventatezza perché riconosce un ruolo agli anarchici più esagitati, perché non risolve ma accentua le preoccupazioni di ordine pubblico e perché qualsiasi decisione più favorevole per Cospito fosse presa dalla Cassazione o dall’amministrazione penitenziaria (compreso il trasferimento a Opera di cui abbiamo dato notizia) verrebbe visto come un cedimento dello Stato. Quinto errore. Dalla nota di Palazzo Chigi alle interviste ai sottosegretari alla Giustizia alle dichiarazioni di titolari di altri ministeri e di leader e semi leader politici, tutti stanno parlando tranne il titolare a parlarne: il ministro Carlo Nordio. Il quale può parlarne o non può parlarne, è sua facoltà, ma un caso serissimo si è tramutato nella solita palestra per body builder della propaganda. Sesto errore. Dopo i body builder arriva la burocrazia. La Cassazione decide di anticipare ai primi di marzo, dai primi di aprile, l’udienza per rivalutare il 41bis per Cospito. Ma in questa situazione, quasi quaranta giorni di attesa continuano a essere un’enormità. Settimo errore. È quello non ancora commesso. Ma se per disgrazia a Cospito cedesse il cuore, cioè morisse in carcere in seguito allo sciopero della fame, sarebbe il disastro per tutto il sistema, perché gli oppositori muoiono in carcere nella Russia di Vladimir Putin o nell’Iran di Alì Khamenei, non nelle democrazie liberali occidentali. Meloni è pronta a lasciar morire in carcere l’anarchico Cospito di Giulia Merlo Il Domani, 31 gennaio 2023 Nel Cdm di ieri sono intervenuti in informativa i ministri della Giustizia, Carlo Nordio, degli Esteri, Antonio Tajani e dell’Interno, Matteo Piantedosi. Il 41bis rimane, ma la sua salute sarà tutelata: rimane la posizione di palazzo Chigi. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, non arretra dalla linea dura sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito e porta con sé il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Durante il Consiglio dei ministri si è svolta una informativa sullo stato della situazione da parte di Nordio, del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e dell’Interno, Matteo Piantedosi, che hanno aggiornato sulla situazione detentiva e sui vari profili di sicurezza. Il 41 bis rimane, ma la sua salute sarà tutelata: rimane la posizione di palazzo Chigi. L’unica novità sul caso arriva dalla decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che ha disposto il trasferimento di Cospito nel carcere di Milano Opera, su espressa indicazione dei medici dell’Asl di Sassari. Il carcere di Sassari dove Cospito era detenuto, infatti, non aveva strutture in grado di garantirgli la sopravvivenza. Il comunicato del ministero ha parlato di “un quadro clinico in evoluzione” per cui era necessario spostarlo in una struttura detentiva idonea, ma ha confermato che il detenuto “resta sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’articolo 41bis”. Il trasferimento, infatti, non incide sul regime del 41 bis sotto cui Cospito continua a scontare la pena. Nel caso in cui il quadro clinico cambiasse, però, a Milano ci sono le strutture sanitarie per l’alimentazione artificiale. Tuttavia, questo trattamento è possibile solo nel caso in cui Cospito perda conoscenza, perché se è cosciente e non presta il consenso non può essere sottoposto a trattamenti sanitari. Cospito è in sciopero della fame da 104 giorni contro il 41 bis, che ritiene essere stato scorrettamente applicato nei suoi confronti, e non intende interromperlo fino a quando la misura non sarà sospesa. Ha perso 45 chili, si muove in sedia a rotelle e presto i suoi organi vitali potrebbero essere compromessi. La via più veloce per modificare la condizione di Cospito e far sì che interrompa lo sciopero della fame è quella di revocare almeno temporaneamente la misura del 41 bis, come chiede un appello di giuristi e intellettuali. Per farlo esiste una strada giudiziaria e una legata all’esecutivo con un intervento del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Quella ministeriale è più veloce: sulla sua scrivania è ferma dal 12 gennaio l’istanza di revoca presentata dall’avvocato di Cospito, Flavio Rossi Albertini. L’istanza contiene un elemento nuovo per chiedere a Nordio la revoca della misura, che era già stata rifiutata dalla Cassazione perché si riteneva che i messaggi di Cospito dal carcere istigassero a nuovi atti terroristici. Invece, una sentenza della Corte d’assise di Roma ha escluso che le lettere di Cospito abbiano spinto alcuni imputati anarchici a commettere l’azione armata. Questo, secondo il difensore, farebbe venire meno i presupposti sui quali il 41bis è stato disposto. Il ministero ha tempo fino al 12 febbraio per accogliere l’istanza, mentre il silenzio si considera un rigetto. Nordio, che in gennaio ha detto che la situazione è “monitorata con la massima attenzione” ed è in contatto con i magistrati antiterrorismo, dovrà decidere il da farsi. Tuttavia, la questione è diventata sempre meno tecnico-giuridica e sempre più politica. La dura nota di palazzo Chigi di domenica ha chiarito che, a fronte delle violenze di questi giorni per chiedere la liberazione di Cospito, “lo stato non scende a patti con chi minaccia”. A fronte del silenzio del ministro, storicamente su posizioni garantiste e contro il carcere come strumento punitivo, sono seguite invece un profluvio di dichiarazioni contro la revoca della misura da parte in particolare di Fratelli d’Italia, ma anche della Lega. Per questo lo spazio di azione autonoma da parte di Nordio è sempre più ristretto, anche se ogni conseguenza negativa del caso ricadrà comunque su via Arenula: la decisione, infatti, spetta a lui ma difficilmente potrà prenderla senza un nuovo passaggio politico con la maggioranza. Nel caso in cui il ministero non agisca entro il 12 febbraio, toccherà ai giudici. La Cassazione ha fissato udienza per il 7 marzo per pronunciarsi sul ricorso contro l’ordinanza del tribunale di sorveglianza che, in dicembre, ha confermato il decreto ministeriale del 41 bis. Il problema di questa via è la sua durata, non compatibile con lo stato di Cospito: se anche la Cassazione annullasse l’ordinanza, poi questa tornerebbe alla Sorveglianza per una nuova valutazione e dunque il 7 marzo non è comunque una data risolutiva. Un’altra strada sempre giudiziaria, invece, riguarda il tribunale di sorveglianza in via autonoma: il codice penale, infatti, prevede che i magistrati debbano differire l’esecuzione di una pena detentiva, nel caso in cui il detenuto si trovi “in condizioni di salute incompatibili con lo stato di detenzione” e che il differimento possa essere deciso anche nel caso di “condizioni di grave infermità fisica”. Per farlo, però, serve un provvedimento del tribunale. Cospito, una perizia salva il governo, ma Nordio non cambia linea: “Dovrà rimanere al 41 bis” di Francesco Grignetti e Francesco Olivo La Stampa, 31 gennaio 2023 Come già accaduto per la vicenda migranti arriva l’assist dei dottori a sbloccare la situazione. Polizia e servizi segreti avrebbero preferito uno spostamento qualche settimana fa. Ancora una volta sono i medici a togliere le castagne dal fuoco al governo. Tre mesi fa furono i camici bianchi a ordinare lo sbarco dei migranti dalle navi delle Ong, risolvendo un’impasse politico giuridica che stava causando incidenti diplomatici. Ieri è stata una perizia a sbloccare, temporaneamente, la vicenda Cospito. Il trasferimento dell’anarchico nel carcere di Opera, deciso dal Dap a seguito di un accertamento dei dottori che lo hanno visitato dietro le sbarre a Sassari, non risolve di certo la questione, ma ne alleggerisce, almeno per qualche ora, i contorni più foschi. Un gesto che i vertici della polizia auspicavano da tempo. Gli atti violenti dei gruppi anarchici, però, non si arrestano e così occorre dare una risposta politica. Per evitare che passasse l’immagine di un governo immobile o, peggio, diviso, Giorgia Meloni ha preteso che la vicenda arrivasse in Consiglio dei ministri. Nella riunione serale di Palazzo Chigi non si annunciano misure particolari, l’obiettivo semmai è ribadire la linea della fermezza. E il segno che la preoccupazione è molto alta è la convocazione d’urgenza del Comitato di analisi strategica dell’antiterrorismo, un organismo del ministero dell’Interno. Prima delle informative dei ministri di Esteri, Giustizia e Interno, Meloni ripete ai presenti che “lo Stato non scende a trattativa con i violenti”. Un modo per blindare la linea decisa nei giorni scorsi e mai messa in discussione, almeno apertamente, all’interno della maggioranza. Alla fine della sua spiegazione ai colleghi, Carlo Nordio dice: “Non voglio revocare il 41bis”. Il Guardasigilli si intesta così una decisione che poi, al termine della riunune, tutto il Consiglio dei ministri fa sua. Nordio aveva tempo fino al 12 febbraio, per dare il suo parere sulla misura di detenzione per l’attivista pescarese, ma ha voluto accelerare, deludendo chi pensava di poter contare sulla sua cultura garantista. Il governo, come emerso nel Consiglio dei ministri, è ben al corrente della preoccupazione degli apparati. Ma la maggioranza di destra-centro ha voluto mostrare la faccia feroce, salvo dover correre ora ai ripari e aggiustare il tiro nella comunicazione. “Il 41 bis - diceva ieri mattina in televisione il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi - in questo caso è stato applicato a un personaggio di discreta pericolosità”. È un fatto che gli attentati si stanno moltiplicando. Antonio Tajani annuncia un rafforzamento della sicurezza dei diplomatici all’estero, “reso necessario dalle ostilità manifestate nei confronti di sedi di ambasciate e consolati, oltre che nei confronti di beni appartenenti a personale diplomatico”. La galassia anarchica e antagonista, tradizionalmente magmatica e senza una linea gerarchica, si sta saldando, come lo stesso Piantedosi ha spiegato nel corso del Cdm. La lotta di Cospito è diventata una bandiera sotto cui si possono riconoscere in tanti. Anche un ex ministro della Giustizia, come Andrea Orlando, vede questo pericolo: “Dire che lo Stato non si fa intimidire non ha nulla a che vedere con la riconsiderazione del 41 bis. Non vorrei che questa vicenda diventasse un elemento di coesione per quella rete che si cerca di combattere”. Sono ora al lavoro molte procure, la Superprocura, le diverse polizie antiterrorismo. In verità le strutture di polizia e d’intelligence avrebbero visto volentieri un trasferimento di Cospito già qualche settimana fa, quando la sua situazione sanitaria era meno grave e gli animi non così accesi. Ieri ne ha parlato anche il capo della Polizia, Lamberto Giannini: “Sono già state segnalate all’autorità giudiziaria oltre 40 persone per i fatti di sabato (a Roma, ndr)”. È perfino troppo evidente che gli attentati stanno aumentando e crescendo di intensità. “Questa protesta - dice Giannini - vede diverse manifestazioni in tante città e presso le carceri. Ci sono stati alcuni episodi all’estero: è un fenomeno che è seguito con grande attenzione anche in Italia”. Cospito trasferito a Opera ma continuerà a rifiutare il cibo. Nordio: “Priorità tutela della salute” di Virginia Piccolillo e Claudio Del Frate Corriere della Sera, 31 gennaio 2023 Mentre si moltiplicano gli appelli pro e contro il mantenimento del 41 bis, le condizioni del detenuto sono in rapido peggioramento, come confermato dai bollettini dei medici Cospito trasferito a Opera ma continuerà a rifiutare il cibo. Nordio: “Priorità tutela della salute”. Le condizioni di salute di Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame contro il regime di carcere duro, stanno peggiorando. Tanto che il detenuto è stato trasferito da Sassari al carcere milanese di Opera dove c’è un centro clinico attrezzato che potrebbe far fronte ad eventuali emergenze che dovessero sopravvenire per il prolungato digiuno. Lo spostamento è stato confermato dall’avvocato del detenuto. La decisione si basa sull’ultimo bollettino dei sanitari. Cospito viene visitato tre volte al giorno. E nell’ultima visita è stato suggerito dai medici di avvalersi di una struttura clinica. Il suo caso sarà all’attenzione del consiglio dei Ministri di oggi. Anche il Pd chiede la revoca delle misure più restrittive. Alle 18 è stato convocato il consiglio dei ministri per esaminare il caso. Il ministro Nordio avrebbe la facoltà di intervenire revocando il 41 bis ed è questo l’appello che arriva da più parti. “La tutela della salute è la nostra priorità assoluta” fanno sapere fonti del ministero di grazia e giustizia. Ma il ministro Matteo Piantedosi non arretra: “Cospito è un personaggio di discreta pericolosità”. Da parte sua il legale dell’anarchico, Flavio Rossi Albertini, ha ufficialmente sottoposto a Nordio la domanda di revoca del carcere duro. Il legale cita una recente sentenza della Corte di Assise di Roma che assolveva alcuni appartenenti ad associazioni anarchiche dall’accusa di terrorismo: un elemento nuovo di valutazione che potrebbe fare da “base” al cambio di regime carcerario. Il Guardasigilli ha tempo fino al 12 febbraio per rispondere alla richiesta; in caso di silenzio la domanda deve ritenersi respinta. Anche il legale di Roberto Adinolfi, il dirigente dell’Ansaldo che venne gambizzato da Cospito, ha chiesto che lo Stato si renda protagonista di un atto di clemenza: “Il 41 bis è un istituto da abolire”. L’associazione Antigone ha pubblicato una foto del detenuto su Twitter: Cospito appare fortemente dimagrito dopo oltre cento giorni di digiuno, durante i quali è passato da oltre 100 chili di peso a 72. In tutto questo periodo l’anarchico si è nutrito esclusivamente di acqua e integratori. A Opera il detenuto sarà ricoverato nel “servizio di assistenza intensificata”, struttura che ha un collegamento diretto con l’ospedale, nel caso le condizioni dovessero aggravarsi, ma che mantiene la stretta sorveglianza propria del carcere duro. L’avvocato ha specificato che il trasferimento è stato deciso “a scopo prudenziale”: “Le condizioni sono stabili. Io l’ho visto sabato e all’apparenza non stava così male per come può stare un uomo che è passato da 120 chili a 70 chili. È comunque riuscito a sostenere un colloquio di un paio d’ore”. Il legale ha d’altra parte confermato che il suo assistito “continuerà a rifiutare il cibo”. Resta da stabilire quale sarà l’atteggiamento del governo. Nelle ultime ore anche la premier Meloni aveva chiarito che nessun arretramento è possibile (“Lo Stato non si fa intimidire”), anche alla luce degli atti di violenza contro sedi diplomatiche italiane, fatte risalire a formazioni anarchiche. Il ministro degli esteri Antonio Tajani, pur annunciando un rafforzamento delle misure di sicurezza dichiara: “Dobbiamo separare la vicenda personale (di Cospito, ndr), su cui è competenza del ministro di Giustizia intervenire, e la vicenda che riguarda gli attacchi”. Alfredo Cospito insiste col digiuno. “Mi batto per abolire il carcere duro, non per uscirne io” di Lirio Abbate La Repubblica, 31 gennaio 2023 Il detenuto ha rifiutato i farmaci. Ai medici ha svelato che assume zuccheri e integratori e che ha studiato le mosse per poter resistere a lungo. La “battaglia” che ha intrapreso Alfredo Cospito non è per uscire dal 41 bis a cui è sottoposto, ma per scardinare questo regime carcerario che rende impermeabili i contatti con l’esterno dei detenuti per mafia e terrorismo. È quanto emerso durante la visita medica a cui l’uomo è stato sottoposto due giorni fa nel carcere di Bancali a Sassari, per poter decidere sul suo trasferimento. I sanitari dell’amministrazione penitenziaria lo hanno controllato a lungo nell’infermeria dell’istituto di pena. Un incontro durante il quale Cospito ha sottolineato di non voler assumere la terapia che gli era stata prescritta, perché attraverso la “battaglia” che lui ha intrapreso, dice di sentirsi bene e “non ha bisogno dei farmaci” che gli sono stati imposti per le sue condizioni di salute. Ai medici ha svelato che fa uso di integratori che gli permettono di proseguire lo sciopero della fame, “il più a lungo possibile”. Ha le idee chiare Cospito sull’obiettivo che vuole raggiungere. E pure i metodi come provare ad ottenerli. “Eccessive attenzioni” - La mattinata trascorsa in infermeria è tranquilla per l’anarchico, che discute con i medici e spiega che cosa rappresentano le sue ragioni. E non è solo un ragionamento sui farmaci, quello che Alfredo Cospito rivolge ai medici, perché lamenta il clamore mediatico e “le eccessive attenzioni” nei suoi riguardi che arrivano dall’esterno. Gli arrivano attraverso la televisione che segue dalla cella di Bancali. Ritiene che questa sua protesta venga cavalcata anche “da uomini della sinistra”, e prosegue affermando che la sua manifestazione è stata travisata, dal momento che non è sua intenzione “uscire dal regime del 41 bis”, perché secondo lui, insiste con i medici, “questi politici non conoscono la realtà del carcere”, e quindi “non sanno che una cella singola è da privilegiati”. Lui, Cospito, non vuole essere un privilegiato. I detenuti al 41bis, infatti, sono uno in ogni cella. Per loro c’è un trattamento penitenziario diverso rispetto a chi è rinchiuso in “alta sicurezza” o quelli definiti “comuni”. Nei reparti di questi ultimi, in alcuni istituti di pena, si arriva a contare fino a dieci detenuti che devono dividersi piccoli spazi e alti letti a castello. Isolamento dai familiari - Cospito condivide la sua ora di socialità con un camorrista e due mafiosi di Cosa nostra, in particolare un boss palermitano che anche lui è contro il 41 bis, e con loro passeggia nel cortile, parla, e condivide idee e analisi. E adesso spiega ai medici che vorrebbe che il regime di detenzione impermeabile riservato a mafiosi e terroristi fosse “completamente abolito”. Perché secondo Cospito non consente alcun contatto fisico con i familiari e “soprattutto impedisce una manifestazione del pensiero”. Sta tutta qui la protesta del leader degli anarchici che da oltre cento giorni fa lo sciopero della fame, contro il 41 bis, provocando una fusione tra pezzi eterogenei dell’antagonismo: un fenomeno che “non può essere delimitato alla sola galassia anarchica”, spiegano gli investigatori, e per questo porta ad alzare l’allerta delle forze dell’ordine. “È una situazione che dovrà essere esaminata con la massima attenzione. Fenomeno seguito molto attentamente su tutto il territorio nazionale”, afferma il capo della Polizia, Lamberto Giannini. Una protesta ben studiata - Nel colloquio con i medici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, diretto da Giovanni Russo, l’esposizione di Alfredo Cospito è chiara e precisa. E spiega in particolare di non essere preoccupato per lo sciopero che ha intrapreso, perché dice di saperlo gestire attraverso l’assunzione di integratori e zuccheri. In questo modo ritiene di poterlo portare avanti. Non fa mistero ai sanitari di essersi documentato su questi punti, prima di intraprendere la protesta. E aggiunge che avrà invece bisogno di aiuto nel momento in cui riprenderà ad alimentarsi regolarmente. Nella sua testa il piano di dissenso è ben congegnato. E ai medici non nasconde il fatto di essersi preparato per tempo allo sciopero della fame, ingrassando, in modo che la sua protesta potesse durare il più a lungo possibile. E così, viste le sue condizioni di salute, i medici del Dap hanno dato il proprio parere al trasferimento dell’anarchico. E ieri sera è arrivato nel carcere di Opera a Milano, una struttura dotata anche di un padiglione Sai, Servizio assistenza intensificata. “L’unico elemento di novità con questo trasferimento è che nella struttura carceraria di Opera hanno specialisti in grado di intervenire tempestivamente in caso di emergenza”, dice il difensore di Cospito. E per il momento non cambia la linea sul 41 bis. Tutti i motivi per mettere in discussione il 41 bis (anche prima del caso Cospito) di Stefano Anastasìa huffingtonpost.it, 31 gennaio 2023 Persone sottoposte a un regime di sostanziale isolamento per dieci, venti, trenta o più anni; l’immiserimento di ogni possibilità di relazione affettiva; le innumerevoli vessazioni cui coloro che ne sono destinatari sono costretti in virtù di leggi, circolari e prassi su cui le Corti superiori sono interpellate, mancando la fonte legislativa da impugnare. L’aggravarsi delle condizioni di salute di Alfredo Cospito ha finalmente richiamato l’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica. Si intrecciano, in questa vicenda, almeno tre questioni distinte, e ciascuna merita di essere adeguatamente affrontata. Innanzitutto, soprattutto ora, quando la forma di protesta consapevolmente scelta da Cospito lo ha portato alla soglia di conseguenze irreversibili, c’è la questione della tutela della sua vita e della sua salute. Subito dopo c’è la legittimità del provvedimento di applicazione del regime di 41bis e della sua perdurante attualità. Infine, c’è la questione dello stesso regime del 41bis, che è la motivazione originaria della protesta di Cospito. Tutte questioni che meritano risposte adeguate nel merito e nei tempi. E preliminarmente va detto che azioni violente contro cose o persone che a qualsiasi titolo rappresentino l’autorità pubblica non solo sono condannabili in se stesse, in quanto riproducono quella violenza che vorrebbero contestare, ma non aiutano a risolvere nessuno dei tre problemi in cui si sostanzia il caso Cospito e anzi sono palesemente controproducenti, come dimostra la chiusura a riccio del governo dopo i fatti di sabato a Roma e davanti alle sedi diplomatiche all’estero. Chi intende sostenere la causa della salute di Cospito, la sua liberazione dal regime cui è sottoposto o la sua battaglia contro il 41bis dovrebbe quindi evitare di dare argomenti contrari a ogni soluzione di ciascuna delle tre questioni poste dallo sciopero della fame di Alfredo Cospito. Innanzitutto bisogna ricordare che lo Stato, e specificamente l’Amministrazione penitenziaria, è responsabile delle condizioni di vita e di salute di Alfredo Cospito. Non certo della sua volontà di condurre il suo sciopero della fame anche fino alle estreme conseguenze (volontà che non può essere coartata o negata), ma della necessaria assistenza quali che siano le sue condizioni di salute. Come ripete da giorni il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, Cospito va immediatamente trasferito dove può essere adeguatamente assistito nell’aggravamento progressivo delle sue condizioni. E forse ormai il semplice trasferimento in un altro carcere più attrezzato di quello di Sassari (per mezzi interni e per collegamento con strutture esterne) potrebbe non essere più sufficiente. L’Amministrazione penitenziaria, dunque, deve valutare anche la possibilità di trasferire Cospito in un luogo di cura adeguato: non sarebbe la prima volta per un detenuto in 41bis, se è necessario si faccia subito. Distinta dalle sue condizioni di salute, c’è la questione della legittimità dell’applicazione del 41bis a Cospito. È pendente il giudizio della Cassazione sulla decisione con cui il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto legittimo il decreto ministeriale di disposizione del regime speciale al militante anarchico. La difesa di Cospito ha peraltro portato nuovi argomenti contro l’applicazione del 41bis nel caso specifico, alcuni di essi anche desunti dalla stessa sentenza di condanna, che riconosce la struttura acefala dei movimenti anarchici e dunque l’impossibilità di riconoscere in Cospito il capo di un’organizzazione criminale, presupposto dell’applicazione del 41bis che, ricordiamolo, non riguarda gli associati alle organizzazioni criminali, ma solo coloro che si ritiene possano dare ordini a gruppi attivi all’esterno. L’emergere di nuovi argomenti contro l’applicazione del regime di 41bis a Cospito giustifica anche il riesame del provvedimento da parte del Ministro in carica che può sempre revocare atti di propria disposizione, e questo - giustamente - ci si aspetta ora dal Ministro Nordio: che non si trinceri dietro formalismi interpretativi e si prenda le sue responsabilità nel caso concreto. Infine c’è la questione del regime previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, dalle sue circolari applicative e dalle prassi in cui si sostanzia che, ricordiamolo, è la motivazione originaria della protesta di Cospito, non per sé, ma per tutti. Avendo esperienza di visite nelle sezioni di 41bis e di interlocuzioni con le persone che vi sono detenute, con i loro familiari e avvocati, posso dire che si tratta di un regime terribile, ma la Corte costituzionale, la Corte europea dei diritti umani e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura lo hanno più volte giudicato legittimo, e dunque compatibile con il divieto di trattamenti degradanti o contrari al senso di umanità. Ma ciascuno di questi pronunciamenti ha posto o ha chiesto dei limiti al 41bis, invocandone la provvisorietà, la rivedibilità, la limitazione alle misure strettamente necessarie all’interruzione dei rapporti con l’esterno, la garanzia dei diritti umani fondamentali che vanno riconosciuti a ciascuna persona, anche in stato di detenzione, anche per fatti gravissimi, anche se costituiscono un pericolo per la società esterna. Questo prevede un ordinamento fondato sulla universalità dei diritti umani e sulla sottoposizione di ogni potere alla legge, alla Costituzione e alle Convenzioni internazionali. Dunque, non è del 41bis in astratto che si può discutere, ma della sua attuazione concreta: delle persone sottoposte a un regime di sostanziale isolamento per dieci, venti, trenta o più anni; dell’immiserimento di ogni possibilità di relazione affettiva; delle innumerevoli e inutili vessazioni cui coloro che ne sono destinatari sono costretti in virtù di leggi, circolari e prassi su cui le Corti superiori sono interpellate, spesso senza poter dare risposte, mancando la fonte legislativa da impugnare. Addirittura il giudicato dei magistrati di sorveglianza viene sistematicamente disatteso, se non obbligato da un successivo giudizio contro l’inazione dell’Amministrazione penitenziaria. Di tutto questo si può e di deve discutere. Non per cedere a ricatti, come qualcuno dice per sottrarsi alle proprie responsabilità, ma perché lo hanno chiesto nelle loro deliberazioni il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, il Garante nazionale delle persone private della libertà, la Commissione diritti umani del Senato e finanche la Corte costituzionale, quando ha legittimato il 41bis nella misura in cui anche i detenuti a esso sottoposto siano destinatari dell’offerta trattamentale per il reinserimento che spetta a tutte le persone detenute in virtù dell’articolo 27 della Costituzione. Di questo, dunque, si discuta, anche nelle sedi deputate, sulla base della copiosa documentazione istituzionale sulle storture e i limiti dell’applicazione concreta del 41bis. “Prima la vita umana, poi il 41 bis: lo Stato non lasci morire Cospito in cella” di Simona Musco Il Dubbio, 31 gennaio 2023 Parla Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta: via Arenula eviti l’ennesimo suicidio. Nessuna trattativa è possibile con chi usa la violenza, spiega Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale e ministro della Giustizia del governo Prodi. Che condanna fermamente i disordini delle scorse ore, dopo le azioni dimostrative degli anarchici in Italia e in Europa finalizzate ad attirare l’attenzione sul caso di Alfredo Cospito, il detenuto anarchico che dal 19 ottobre è in sciopero della fame contro il regime detentivo del 41 bis. “Non si possono mercanteggiare i provvedimenti giudiziari attraverso azioni di questo genere: lo Stato può e deve rispondere con gli strumenti che ha a disposizione”, spiega Flick. Ma ciò ricordando la ratio del cosiddetto “carcere duro”: “Serve a interrompere la comunicazione con le organizzazioni criminali all’esterno - sottolinea -. Non è possibile utilizzare questo strumento per aggravare la pena facendola diventare più dura” Gli anarchici sono scesi in piazza, in Italia e all’estero, per protestare contro la scelta di sottoporre e mantenere Cospito al 41 bis. Come giudica queste manifestazioni? Complicano la sua posizione? Innanzitutto è necessario chiarire che non posso dare un giudizio sulla decisione di sottoporre Cospito al 41 bis, non conoscendo la situazione e non avendo alcun titolo per intervenire su casi concreti. Su questo tema ci sono tre problemi distinti. Il primo è che sono assolutamente da rifiutare situazioni di violenza in vista di una “trattativa” per indurre a modificare una legge o una decisione dell’autorità giudiziaria. Non è una strada percorribile. Non si possono mercanteggiare i provvedimenti giudiziari attraverso manifestazioni di questo genere e non è certo la violenza di piazza che può far cambiare idea alla magistratura. Voglio sottolineare con forza che le violenze vanno represse con il rigore e la fermezza degli strumenti di legalità che lo Stato ha a disposizione. Violenze di quel genere possono addirittura influire negativamente sulla situazione del detenuto, perché possono, in qualche modo, diventare argomento per sottolineare la necessità dell’applicazione di un certo provvedimento - in questo caso del 41 bis - per evitare contatti con l’esterno. Inoltre rischiano di perseguire obiettivi politici, come il far apparire questa persona come un martire, soprattutto se dovesse completare il suo proposito e questo non è accettabile, a mio avviso. E non credo che sia nell’interesse di Cospito, ma non spetta a me giudicarlo. Qual è il secondo problema? Riguarda la legittimità del provvedimento adottato. La via è quella del ricorso al giudice, come prevede l’articolo 41 bis, il reclamo al giudice di sorveglianza e il ricorso per Cassazione affinché valuti se c’è una violazione di legge nel rigetto del reclamo da parte del giudice di sorveglianza. I tempi tecnici non possono che essere stabiliti dalla Suprema Corte e mi auguro che la decisione arrivi il più presto possibile. Per il resto non voglio addentrarmi nel merito: non solo non conosco gli atti, ma il rispetto che ho per la magistratura mi impone di astenermi da qualsiasi tipo di valutazione. In termini generali, c’è il rischio di trasformare il 41 bis in uno strumento diverso a quello per cui è stato pensato? Il 41 bis è un istituto che, come ha più volte sottolineato la Corte costituzionale, è finalizzato esclusivamente ad impedire comunicazioni della persona condannata per reati di particolare gravità - e che sono indicati dalla legge - con l’organizzazione criminale all’esterno. Non è possibile, alla luce della giurisprudenza della Corte, utilizzare il 41 bis per aggravare la pena facendola diventare più dura. La pena è la limitazione della libertà personale. In questa limitazione, la pena non può essere ulteriormente aggravata con un particolare trattamento di rigore. Né il trattamento di rigore può essere utilizzato per indurre il detenuto a confessare, ammettere fatti o stimolare una collaborazione con l’autorità. Aggiungo, ma è chiarissimo nella legge, che l’applicazione di una misura di questo genere dev’essere temporanea ed ha carattere di eccezionalità, rispetto a quello che è il diritto del detenuto al trattamento. Questo in generale, a prescindere dal caso specifico. E il terzo problema? Credo che la responsabilità di evitare che un detenuto ponga in essere un suicidio spetti all’amministrazione penitenziaria ed al suo vertice, che sale fino al ministro. Tra l’altro il ministro è colui che prende il provvedimento di sottoposizione al 41 bis. È vero che non è esplicitamente prevista una possibilità di revoca da parte del Guardasigilli, ma sono convinto che pur nel silenzio della legge sia ovvio il principio liberale per cui l’autorità che ha emanato un provvedimento amministrativo possa revocarlo, quando ne vengano meno i presupposti. Comunque, il problema qui non sono la revoca del provvedimento e la sua legittimità, ma ciò che riguarda le condizioni sanitarie del detenuto. Indipendentemente dal dotto dibattito su ciò che può fare il ministro, non credo sia il caso di entrare in dispute di carattere tecnico-giuridico. E credo che sia dovere dell’autorità che gestisce le carceri verificare se tuttora sussistono le condizioni che hanno giustificato l’adozione di tale provvedimento. Se vi è una situazione di emergenza o di rischio di emergenza, l’amministrazione penitenziaria dovrà valutare se il carcere in cui la persona è sottoposta al 41 bis abbia gli strumenti per reagire. Non conoscendo le condizioni sanitarie di Cospito prendo atto di ciò che ha detto il Garante delle persone private della libertà Mauro Palma, che ha parlato di una situazione di pericolosità che potrebbe aggravarsi e diventare addirittura irreversibile. Se le cose stanno in questi termini è giusto quello che sottolinea il Garante, cioè che sia necessario trasferire il detenuto in un istituto dotato di risorse cliniche sufficienti a fronteggiare un’eventuale emergenza. Ed è quello che è stato fatto, data la notizia del trasferimento nel carcere di Milano Opera. Non vedo come si possa anteporre un discorso di carattere tecnico-giuridico alla necessità di evitare che un proposito di suicidio venga portato a termine. Anche perché di suicidi in carcere ne abbiamo avuti fin troppi. Cospito, Gherardo Colombo: “La linea dura porta altra violenza. E così lo Stato rischia di creare un martire” di Conchita Sannino La Repubblica, 31 gennaio 2023 Intervista all’ex pm. Dottor Gherardo Colombo, lei ha lasciato toga di pm e inchieste scottanti da 18 anni: per impegno sociale si dedica anche alle carceri. Il fatto che Alfredo Cospito sia da ieri a Milano Opera è motivo di sollievo? “Verrebbe da dire: finalmente. Credo fosse evidente che le sue condizioni stessero aggravandosi di giorno in giorno”. È stato fatto tardi? “Secondo me, si sarebbe dovuto fare prima, il digiuno si protrae da oltre cento giorni. Ma è fondamentale che sia stata assunta questa decisione per provvedere alle cure necessarie”. Un passo indietro. Lei aveva sottoscritto l’appello per la revoca del 41bis a Cospito: lo ha fatto per la sua nota posizione contro l’applicazione del “carcere duro” o in relazione alla storia processuale di quel detenuto? “No, io parto dalla convinzione, che ho ripetuto in varie sedi, che l’articolo 41 bis sia incostituzionale. Sia per come è strutturato, sia per come è applicato. La misura, che non a caso viene chiamata dai media carcere ‘duro’, si trova in contrasto con il dettato della Carta. La quale, all’articolo 27, sancisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e all’articolo 13 punisce ogni forma di violenza fisica e psicologica nei confronti delle persone, la cui libertà sia limitata”. Il caso Cospito ha dato vita a un’escalation di attentati e minacce, compreso il proiettile recapitato al Pg di Torino. Non è questo a spingere lo Stato alla tolleranza zero? “La forza dello Stato sta nell’osservare le sue regole, la prima delle quali è il rispetto della dignità, e quindi dei diritti fondamentali delle persone. Ancora una volta dobbiamo ricordare che la salute è tutelata dalla Costituzione: senza limiti o condizioni”. Sta dicendo che alla violenza non si può rispondere con la violenza. “Certo. Anche perché, in questo modo, si rischierebbe di creare un martire”. Ma quando il governo ricorda ‘Lo Stato non può piegarsi ai ricatti’, non afferma un principio condivisible? “Vorrei ricordare che la linea della fermezza ha portato all’assassinio di Aldo Moro. E dopo la sua uccisione, tante altre vittime ha fatto il terrorismo. Abbiamo il dovere di prendere dal passato quel che ci aiuta ad assumere decisioni nel presente”. Poi c’è il tema del collegamento. Il sottosegretario Delmastro dice che “la scia di attacchi testimonia” come Cospito “riesca a dare segnali esterni con assalti e violenza nei confronti delle istituzioni”. L’ipotesi di una correlazione è arbitraria? “Se fosse vero, vorrebbe dire che l’articolo 41bis non è in grado, nonostante tutta la sua durezza, di svolgere la sua funzione: cioè di impedire i contatti con l’esterno”. Un bel capovolgimento. “Credo che il nodo principale risieda nell’ostinazione, da parte delle istituzioni, ad evitare finora di preoccuparsi della salute di Cospito. Ovviamente i media hanno dato alla vicenda il risalto dovuto e questo ha contribuito alla commissione di violenze comunque inaccettabili”. E quindi, sempre dando per buona l’ipotesi del collegamento perverso, come si interviene? “Le persone non possono essere lasciate morire. Lo Stato deve avere questo principio come fondamento di ogni azione”. Ma il tema della sicurezza resta. Il 41bis era nato per rispondere a quella esigenza. “Gli strumenti per evitare gli aspetti incostituzionali dell’articolo 41 bis, tutelando comunque la sicurezza della collettività, ci sono: vale per Cospito e per qualsiasi altra persona detenuta considerata pericolosa”. Si fa strada un altro rischio, grave. La lotta di Cospito non è solo per la revoca del 41bis per sé, ma anche per i boss mafiosi. Non si rischiano saldature micidiali? “Lo ripeto. Bisogna ricorrere agli altri strumenti. Vuole un paio di esempi? Non sarebbe meglio, invece di vietare fotografie oltre certe dimensioni appese ai muri della cella, incrementare l’uso di determinati dispositivi? Ad esempio: la tecnologia che aiuta ad interpretare le conversazioni in sede di colloquio. Magari con la collaborazione di tecnici del linguaggio, appositamente formati; oppure attraverso l’interpretazione delle espressioni e dei gesti da parte di esperti di questo tipo di comunicazione”. Cospito, la dottoressa: “Emaciato e in sedia a rotelle, con il carcere duro Alfredo morirà” di Luigi Manconi La Stampa, 31 gennaio 2023 Parlano il medico e l’avvocato dell’anarchico: “Comunque vada, per Cospito sarà una vittoria”. Pensa che Alfredo Cospito abbia ormai pochi giorni di vita? “Penso di sì. Non do la sua morte come imminente, ma se il digiuno non viene interrotto è fatale che sia così”. Parlo al telefono con la dottoressa Angelica Milia, 64 anni, medico di fiducia dell’anarchico Cospito, sottoposto al regime speciale di 41-bis nel carcere di Bancali, a pochi chilometri da Sassari. Qual è la attuale condizione clinica di Cospito? “Quanto siano compromesse le sue condizioni cliniche appare già al primo sguardo. È il complessivo aspetto fisico che va osservato, prima di qualsiasi esame clinico e di laboratorio: una persona emaciata, consunta, pallida, dalla postura incerta, costretta alla sedia a rotelle”. A tutto ciò si è aggiunta la caduta nella doccia qualche giorno fa... “Sì, quel fatto è la conseguenza inevitabile di un quadro generale di drammatica debolezza”. Cosa teme di più? “Ogni organismo risponde in maniera differente, dunque qualsiasi previsione può essere fallace. Ciò che temo è lo squilibrio ionico del plasma, che riguarda il potassio, il sodio, il cloro e altro e che può generare aritmie cardiache gravi suscettibili di portare alla morte. Un altro pericolo molto grave sono le infezioni, esterne o interne all’organismo, dovute alla riduzione delle gamma-globuline e dei globuli bianchi. Anche perché ha una pelle ormai assai sottile e questo costituisce uno schermo fragile rispetto alle possibili infezioni: sia quelle da contatto sia quelle legate al decadimento fisico, come una atrofia mucosa gastrica o la micosi alla bocca, che ho già dovuto curare”. La dottoressa Milia si esprime con grande sobrietà e precisione scientifica, come si deve davanti a un quadro clinico estremamente complesso. E non mostra particolari emozioni. Quando le chiedo: prima di quattro mesi fa, chi era per lei un anarchico?... la sua risposta è riottosamente imbarazzata: “mah, non saprei”. Ha mai conosciuto un anarchico in vita sua? “No, tranne alcuni amici di mia figlia che si dicono anarchici, ma lo sono all’acqua di rose”. Nessuna particolare simpatia da parte sua verso l’anarchia? “Nessuna simpatia”. E così, incalzata, dice di aver votato per Carlo Calenda alle elezioni del 25 settembre scorso; e che la sua sola esperienza di carcere è quella dell’infanzia, quando abitava in Via Enrico Costa, una traversa più giù dell’antica e dismessa prigione sassarese di San Sebastiano; e sentiva le voci delle donne che, dalla strada, si rivolgevano ai mariti detenuti. E come è il suo rapporto con Cospito? “Molto cordiale. Ogni volta che vado a visitarlo ci salutiamo con un bacio sulla guancia: e la cosa è sembrata non piacere ai poliziotti penitenziari”. Qual è oggi lo stato psicologico del detenuto? “Ho notato che la sua capacità, come dire?, di risata sta venendo meno. È un uomo che non è incline a esternare i suoi sentimenti. E negli ultimi tempi si è fatto ancora più introverso: lo sguardo spazia meno all’interno dell’ambulatorio. E sembra intento a ripetere tra sé e sé parole che, immagino, siano quelle che tante volte gli ho sentito dire, ovvero la sua dichiarazione di fedeltà ai propri ideali e la sua determinazione a proseguire una lotta che ritiene profondamente giusta”. E ora, che cosa si deve fare? “Si deve sollecitare ancora il Ministro affinché assuma l’unica decisione oggi utile e non più rinviabile: la revoca del 41-bis. Per fare questo, il tempo si riduce sempre più, perché, se non ci sarà, entro il 12 febbraio, una risposta alla nostra richiesta di revoca del regime speciale, il silenzio del Ministro andrà considerato come un rifiuto. A quel punto, potrò appellarmi solo al Tribunale di sorveglianza, ma questo richiederebbe comunque tempi non compatibili con la sopravvivenza di Cospito. In ogni caso, è chiaro che l’unico che può intervenire è il Ministro della Giustizia. È lui che ha il potere di revocare la misura del 41-bis, perché risulta immotivata o, più semplicemente, sproporzionata rispetto alla situazione giudiziaria del detenuto”. Se oggi, lei, dopo tanto logoramento fisico e psicologico, dovesse definire la fisionomia del suo assistito, quali parole utilizzerebbe? “Cospito, prima del digiuno, pesava 118 chili, ora ne ha persi circa 45. Dopo questo lungo sciopero della fame, ribadisce che vivere così è un inferno, che questa non è vita e che è meglio morire prima. Vuole continuare la protesta fino a quando potrà e fino a quando sarà necessario. Oggi appare emaciato, con le guance scavate, prosciugato - sì, proprio così, prosciugato - ma non ripiegato su se stesso: e tantomeno, sconfitto”. Secondo lei, continua ancora a sperare in una soluzione positiva? “Ciò che sempre ha affermato è che comunque vada sarà una vittoria, perché ha messo sotto gli occhi di tutti quell’orrore che è il 41-bis. E questo per lui è un successo morale e politico”. La conversazione finisce e la dottoressa Milia torna al suo ambulatorio dove, dice, la situazione è tale che “non ho più le lenzuola di carta per il lettino” e per ripulire il corpo dei pazienti dopo gli esami “utilizzo la carta igienica”. Nel frattempo, il legale di Cospito, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, è all’aeroporto di Alghero e attende l’imbarco per Roma, da dove oggi raggiungerà l’istituto penitenziario di Opera, nei pressi di Milano. Qui, nel corso della serata di ieri, è stato trasferito Alfredo Cospito. “E finalmente. Lo chiedevamo da molti giorni”. Nonostante che in una grottesca nota, un dirigente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dio lo perdoni) avesse dichiarato che le condizioni di Cospito “sono stabili” e che lo stesso riferirebbe uno stato di “benessere psico-fisico”. “Dunque, ora la situazione sarebbe cambiata, probabilmente per ragioni di opportunità politica”. Qui, in queste righe, non si è parlato dei reati di Cospito né della sua ideologia (i primi molto gravi e la seconda del tutto estranea a chi scrive), in quanto è mia convinzione profonda che il garantismo valga a prescindere. A prescindere dal curriculum criminale dell’interessato, dal suo grado di adesione alle regole della democrazia, dalle sue posizioni politiche e tanto più dalle sciagurate esercitazioni simil-terroristiche dei suoi fan. So per certo, cioè, che lo Stato di diritto e il sistema democratico si dimostrano tanto più forti quanto meno corrispondono alla rappresentazione caricaturale che ne fanno i loro nemici; e quanto più sono capaci di affrontare e sconfiggere questi ultimi senza mai deflettere dai propri irrinunciabili principi. Tra questi, il fatto che il corpo di chi si trovi nella custodia dello Stato e dei suoi apparati è, per lo Stato stesso, il bene più prezioso. Cospito, è urgente un provvedimento del ministro di Livio Pepino Il Manifesto, 31 gennaio 2023 Il copione è noto e sperimentato: l’aggravarsi delle condizioni di salute di Alfredo Cospito sollecita un intervento per salvarne la vita (revoca, quantomeno interlocutoria, del regime di 41 bis); intervengono in parallelo manifestazioni di anarchici caratterizzate da scontri con la polizia e attentati di matrice analoga (così, almeno presentati); il Governo e la maggioranza parlamentare fanno quadrato affermando che lo Stato non può cedere al ricatto e cercando così di chiudere con una pietra tombale (nel senso letterale del termine) la vicenda. La sequenza degli argomenti è suggestiva ma del tutto infondata. Primo. I protagonisti della vicenda sono un anarchico detenuto e il Governo. Gli altri sono attori di sostegno (o di disturbo) oppure comparse. Cospito è, da oltre cento giorni, in sciopero della fame, ha perso 42 kg, è fortemente debilitato e in difficoltà a reggersi in piedi, deve - secondo i medici - astenersi dal camminare e si muove su una sedia a rotelle. A questo punto non è dato sapere fino a quando il suo fisico reggerà. La sua protesta è contro la sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis e, più in generale, contro tale regime e l’ergastolo ostativo. Il secondo obiettivo è complesso e, in ogni caso, richiede tempi medi o lunghi. Il primo va affrontato subito con un semplice atto del ministro guardasigilli. Non sono qui in discussione i delitti commessi (e la loro gravità) e, del resto, la richiesta di Cospito non è la libertà ma un trattamento carcerario più umano, conforme a quello ricevuto fino a un anno fa, per ben nove anni (a dimostrazione che il regime cui è attualmente sottoposto ha alternative). Non c’è nessun ricatto, di cui è elemento essenziale una violenza o una minaccia costituenti “coazione morale” nei confronti di altri (nella specie lo Stato); Cospito non minaccia nessuno ma mette in gioco la propria vita con un lungo suicidio. Lo Stato (e, per esso, il Governo) lo ha in custodia ma anche in cura e deve decidere se - ferma la custodia - deve farlo vivere o morire. Questo è il dilemma: il resto è solo ricerca di un alibi. E il trasferimento nel carcere di Opera, di cui giunge notizia mentre scrivo, è un primo passo ma ancora insufficiente (posto che aiuta a tenere sotto controllo gli effetti dello sciopero della fame ma non ne rimuove le cause). Secondo. Ci sono manifestazioni di sostegno a Cospito e al suo sciopero. Esse dimostrano che il suo gesto non è isolato. Sarebbe strano che non ci fossero e ce ne saranno ancor più se la vicenda non troverà in tempi rapidi una soluzione. A volte esse hanno visto scontri con la polizia. Accade, talora, in manifestazioni di segno diverso e se ci sono dei reati vanno puniti. Ma questo non c’entra nulla con lo sciopero della fame di Cospito e con la necessità di affrontare, con intelligenza e umanità, i problemi che esso pone. È vero anche che ci sono stati attentati e lettere di minacce contrassegnati con la “A” dell’anarchia. Probabilmente provengono da aree della galassia anarchica (anche se qualche dubbio è lecito in un Paese in cui le provocazioni e i depistaggi si sono susseguiti in grandi e piccole vicende). Essi vanno stigmatizzati e perseguiti. Ma, ancora una volta, cosa c’entrano con le condizioni di salute di Cospito? E ciò a tacere del fatto che le buone ragioni restano tali anche se sostenute (da terzi) con metodi inaccettabili e/o penalmente illeciti. Terzo. C’è, infine, la questione generale del 41 bis e dell’ergastolo ostativo. Qui le strumentalizzazioni sono massime e taluno tira in ballo finanche Messina Denaro, Riina, la mafia e quant’altro. Del tutto a sproposito. Non solo perché il caso di Alfredo Cospito è tutt’altro. Ma soprattutto perché il problema aperto non sta tanto negli istituti contestati quanto nella loro applicazione ed estensione, che hanno portato al numero esorbitante di 749 sottoposti al 41 bis e di 1.280 condannati all’ergastolo ostativo, alla abolizione di fatto della discrezionalità del giudice nella fase esecutiva, a misure afflittive veicolo dell’introduzione nel sistema di un “carcere duro” non previsto dalla legge. Forse sarebbe bene cominciare a parlarne con pacatezza anziché lanciare anatemi che finiscono per nuocere anche a un’azione razionale di contrasto della mafia. Ci sono Paesi in cui morire in carcere per sciopero della fame è una scelta frequente, nell’indifferenza (o addirittura nel compiacimento) del Governo. Basti pensare alla Turchia. Non è il caso dell’Italia, almeno per ora. È auspicabile che non si cambi strada. Per gli anarchici Cospito non è un leader, ma così diventerà un martire di Giulia Merlo Il Domani, 31 gennaio 2023 Il pensiero anarchico si fonda sul rifiuto di ogni forma di autoritarismo, a partire da quello di un capo. Tuttavia ha una forte connotazione memoriale, con le cellule intitolate agli anarchici uccisi nello scontro con lo stato. A livello generale, infatti, l’obiettivo dei gruppi anarchici è quello di creare le cosiddette “zone di opacità”, ovvero di sottrarsi ad ogni riconoscimento e di sorveglianza statale. Le singole cellule agiscono in modo disgiunto le une dalle altre, senza legami organizzativi proprio perchè si tratta di un mondo che non vive di riferimenti verticali o di strutture di potere interno. Ci sono due visioni divergenti e opposte su cosa sia l’anarchismo oggi in Italia: la costruzione giuridica nella sentenza che ha condannato Alfredo Cospito e la costruzione teorico-politica di chi di questo mondo fa parte. Secondo la sentenza di condanna e il decreto che ha disposto per Cospito il regime detentivo del 41bis, infatti, l’uomo è parte di una struttura associativa e di una rete di cellule costituite, che insieme progettavano attentati con un unico disegno criminoso, simile in questo alle associazioni per delinquere di stampo mafioso. Inoltre, dal carcere, i testi inviati all’esterno alle riviste anarchiche erano strumenti per incitare a nuovi attentati. Per questo in molti titoli di giornali Cospito viene indicato come “leader anarchico”. Invece, la galassia anarchica confuta profondamente questa ricostruzione, contenuta nelle sentenze e nelle cronache giornalistiche. Nessun coordinamento - A smentire il fatto che Cospito sia un leader, inteso come capo formale di una cellula, è la matrice del pensiero anarchico. L’anarchia, infatti, rifiuta ogni forma di autoritarismo, sia teorico da parte dello stato che concreto di un singolo sugli altri. Ipotizzare che un membro diventi un leader sarebbe un doppio tradimento dell’idea di fondo, perchè rappresenta la caduta nell’autoritarismo interno proprio da parte di chi contro l’autoritarismo vuol fare la rivoluzione. Per l’anarchismo, la rivoluzione non è di classe o di struttura, ma tende all’unica struttura esistente, ovvero quella molecolare del singolo. Proprio questo è considerato il punto di rottura tra l’anarchismo e il leninismo, la cui teorizzazione si fonda sul concetto di struttura, partitica o di partito armato come nel caso delle Brigate rosse. Proprio le Br, infatti, sono considerate esempio opposto all’anarchismo, in quanto partito armato strutturato, fondato sull’autoritarismo carismatico di un leader, a partire da Renato Curcio. Non a caso, a differenza delle Br che rivendicavano gli attentati per essere riconosciuti dallo stato come nemici, i movimenti anarchici non rivendicano gli attacchi. A livello generale, infatti, l’obiettivo dei gruppi anarchici è quello di creare le cosiddette “zone di opacità”, ovvero di sottrarsi ad ogni riconoscimento e di sorveglianza statale. L’impianto filosofico che differenzia l’anarchismo da altri movimenti politici è che la rivoluzione non passa per delle istanze alternative allo stato, ma per una presa di libertà. Tradotto: l’anarchico non punta a sostituire lo stato come potere con un contropotere e dunque un modello alternativo di società, ma ad eliminare il potere in quanto tale e tutte le sue strutture. Il mondo anarchico, pur essendo una piccola parte della galassia extraparlamentare, è molto frammentato e ha più senso dividerlo sulla base della loro strategia d’azione che della sigla utilizzata. Tuttavia esistono in particolare due gruppi più noti, insieme a moltissime sigle localizzate all’interno dei centri sociali. La Fai, federazione anarchica italiana, è legata più alla dimensione teorica e culturale e da tempo ha escluso la violenza sia sulle cose che sulle persone come modo di agire. La Fai, federazione anarchica informale, invece, è quella a cui fa riferimento Cospito e ha come capisaldi la clandestinità, l’anonimato e l’informalità. L’obiettivo che persegue è quello di uno scontro diretto con lo stato e le sue sotto-strutture, come forze dell’ordine, banche o multinazionali, portato avanti con azioni di sabotaggio o di violenza. Le singole cellule anarchiche, tuttavia, agiscono in modo disgiunto le une dalle altre, senza legami organizzativi proprio perchè si tratta di un mondo che non vive di riferimenti verticali o di strutture di potere interno. Di qui il termine “informale”: ci si unisce sulla base di una affinità tra militanti che condividono una singola azione, poi però la cellula si sgretola e non diventa mai una struttura stabile. Il principio dell’anonimato anche interno, infatti, è un elemento sia teorico che pratico: più i legami si strutturano, più sono visibili anche dal punto di vista giudiziario, dunque non non si fa rete nè si crea un coordinamento. Chi frequenta il mondo anarchico colloca in questa logica anche gli attentati degli ultimi giorni: singoli anarchici o piccoli gruppi fanno un’azione dimostrativa e poi tornano nell’anonimato, senza alcuna rivendicazione specifica e senza l’esigenza del via libera di una struttura superiore, come era nel caso delle Br. Basta una rapida ricerca sul web per rendersi conto della enorme produzione di scritti anarchici: esistono moltissime testate online, alcune molto facili da trovare, altre invece più nascoste. Gli anarchici hanno una grande produzione di testi scritti e anche stampati, che circolano negli ambienti circoscritti di chi frequenta i gruppi e sono reperibili solo se si gravita in quell’area. Tuttavia, proprio perché non esistono gruppi strutturati in senso stretto, non esiste nemmeno un meccanismo coercitivo o di causa-effetto, per cui all’incitazione di violenza di uno scritto segue l’azione di uno specifico gruppo. Per questo Cospito rifiuta il 41bis nei suoi confronti, che è stato giustificato proprio con il fatto che lui inviava dal carcere scritti da pubblicare sulle riviste anarchiche e questo è stato interpretato come un modo per dare indicazioni per nuove azioni terroristiche. Il caso Cospito, visto il grande valore simbolico del suo caso, sta provocando un aumento di scritti sul tema della detenzione ma anche il risveglio di molte cellule, che si attivano nelle singole città dove i movimenti anarchici sono più radicati. Paradossalmente, il rischio di questo braccio di ferro con lo stato è quello di creare un martire: l’anarchismo, infatti, ha una forte connotazione memoriale e molti dei gruppi e delle cellule portano il nome di anarchici uccisi o riferimenti a date significative. La crisi come spartiacque - In generale, il rianimarsi dell’attivismo anche con attentati gruppi italiani ha un’origine temporale. Il 2001, con il G8 di Genova, è stato un momento distruttivo sia per la galassia anarchica che per quella antagonista. Dopo quel momento, gli anarchici hanno ritrovato spinta nella dimensione No Tav, perché hanno sostenuto in modo diretto gli scontri in val di Susa. Parallelamente, il movimento anarchico ha avuto un forte risveglio in Grecia - in particolare nel quartiere “ribelle” di Atene, Exarchia, culla del movimento attivo sin dal dopoguerra - in concomitanza con la crisi economica che ha colpito il paese nel 2008 e lo stesso effetto si è generato anche in Italia. Il dovere di uno Stato di Massimo Giannini La Stampa, 31 gennaio 2023 Di fronte all’offensiva violenta degli anarchici, agli attacchi alle ambasciate e alle molotov contro i commissariati di Polizia, fa benissimo il governo a ribadire che lo Stato non scende a patti con chi minaccia le istituzioni. Fissato questo principio, irrinunciabile per una democrazia, va detto però che sulla delicata vicenda di Alfredo Cospito c’è solo una cosa che lo Stato, nelle sue più diverse articolazioni, non deve fare: lavarsene le mani. L’uomo non ha ucciso nessuno, ma ha commesso reati gravi, per i quali sta scontando la pena dell’ergastolo ostativo, in regime di 41 bis. Contesta il regime di “carcere duro” che gli è stato assegnato, e per questo sta facendo uno sciopero della fame da 103 giorni. Non è Gesù, al contrario. Ma a prescindere da ogni valutazione sulla fondatezza e sull’asprezza della pena che gli è stata inflitta, quando ci sono di mezzo il Diritto e i diritti, chi li amministra non può fare il Ponzio Pilato. E invece è quello che sta succedendo. Fa Ponzio Pilato la Corte di Cassazione, che giovedì scorso, con un’inaccettabile scusa burocratica, ha rinviato di un mese la decisione sulla legittimità del 41 bis per Cospito e quella sulla costituzionalità o meno dell’ergastolo ostativo, dopo la pseudo-riforma approvata dal Parlamento. Fa Ponzio Pilato l’Amministrazione penitenziaria, che considerate le condizioni di salute potrebbe disporre il trasferimento di Cospito in una struttura carceraria adatta ad assicurare le cure necessarie. Fanno Ponzio Pilato la Procura di Torino e la Procura Nazionale Antimafia che, potrebbero addirittura emettere un parere favorevole alla sospensione del 41 bis, se ci fosse tuttavia un input del ministro della Giustizia. E sta facendo Ponzio Pilato proprio il Guardasigilli, al quale l’avvocato di Cospito ha inviato un’istanza di revoca del carcere duro, citando una sentenza definitiva nella quale si sancisce che quell’uomo non ha più alcun contatto con il Fai, cioè l’organizzazione anarchica che si prefiggeva di sovvertire la Repubblica (era proprio su questo presupposto che fu deciso di assegnarlo al 41 bis). Carlo Nordio, in presenza di questo “fatto nuovo”, potrebbe disporre la revisione del regime carcerario di Cospito. Dice di avere il dossier sul tavolo da mesi, ma non fa niente. Così, in questo accidioso e pericoloso “non fare”, il detenuto rischia di morire. Lo Stato deve evitare questo drammatico finale della storia. Sia perché ha il dovere di tutelare la salute di tutti i cittadini, a maggior ragione di quelli che hanno commesso reati e per questo, privati della libertà, sono affidati alla sua custodia. Sia per non trasformare Cospito morto in un martire. Forse un esito del genere fa comodo agli anarco-insurrezionalisti, che hanno bisogno di simboli per continuare a credere in una “fede” cieca, ormai fuori dal tempo e dalla legge. Non vorremmo che facesse comodo anche a chi, proprio dentro lo Stato, vuole usare questo caso esemplare per continuare ad esibire la “faccia feroce”, amministrando una giustizia “à la carte”. A nutrire la cultura della vendetta invece di quella della rieducazione, ripetendo ogni volta “chiudiamoli dentro e buttiamo la chiave”. E dunque a negare i principi e le garanzie costituzionali, che danno senso e sostanza a una vera democrazia liberale. L’errore di confondere la ragion di stato su Cospito con il caso Moro di Giuliano Ferrara Il Foglio, 31 gennaio 2023 L’anarchico al 41 bis, in sciopero della fame, merita una riflessione pietosa, cosa del tutto diversa dal cedimento al ricatto di un partito armato combattente. No alla simulazione storica che rinnova la tragedia di quasi mezzo secolo fa. La tragedia della fermezza dello stato nel caso del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro (1978) non va confusa con la questione dell’anarchico Alfredo Cospito, del suo sciopero della fame fino al rischio di morte, della richiesta dei suoi legali di sottrarlo alle regole di restrizione del 41-bis, secondo il criterio stabilito per impedire i contatti tra i grandi criminali mafiosi e le cosche di appartenenza. Tragedia è parola importante, indica uno stato di necessità, di inevitabilità del male, un dilemma storico e morale senza soluzione positiva possibile. Nella storia italiana repubblicana, e forse non solo in quella, il caso di Moro è l’unico vero caso definibile in termini tragici, che evocano il coro greco o Shakespeare. Non c’è solo, a distinguere le circostanze, il fatto che l’anarchico oggi in carcere duro ha compiuto nel 2012 un delitto grave contro la persona, colpendo alle gambe un dirigente industriale del settore nucleare, ma senza effetti mortali, mentre il rapimento di Moro era costato cinque corpi stramazzati sul selciato di via Mario Fani, gli uomini della sua scorta, e fu contrappuntato per giorni da una campagna di primavera fatta di aggressioni, omicidi e delitti di natura terroristica all’insegna di un programma del partito armato, lo smantellamento dello stato e la guerra civile contro i suoi rappresentanti, cosa diversa dal confuso e pericoloso antagonismo degli anarchici di questa epoca. Non c’è solo la questione opinabile dell’uso del 41-bis nel trattamento carcerario, come per chi e quando. Non c’è solo il fatto che la morte di Moro, alla quale il partito della fermezza era più pronto che rassegnato, era la morte di una forma della Repubblica; mentre la sorte di Cospito, che si infligge da 100 giorni un duro sciopero della fame di protesta, riguarda il destino di un individuo isolato, al massimo espressione di sentimenti sparsi di solidarietà confusi e minacciosi verso le istituzioni, come se ne conoscono in tempi di anarchismi veri e mimati (Extinction Rebellion). C’è qualcos’altro. Lo stato italiano che non trattò e subì durante lunghi e tormentosi 55 giorni la decisione di eliminare quell’uomo politico, il centro propulsore del sistema dei partiti e della democrazia, imprigionato da un gruppo terroristico comunista, era stato costruito su basi di infinita negoziabilità di ogni cosa. Proprio la classe dirigente cattolica democristiana, d’intesa con il Pci nonostante il conflitto freddo mondiale, aveva modulato nel tempo un criterio in cui tutto era sempre trattabile. Per dare radici e forza alla Repubblica e garantirne la tenuta democratica in piena Guerra fredda, dopo il conflitto mondiale devastante 1939-1945 (questa era l’idea di Moro in primo luogo, e di Togliatti e altri), bisognava che trasformazione e continuità, rigore e flessibilità, si intrecciassero in una consociazione capace di evolvere nel metodo del negoziato tra avversari, riuscendo a superare perfino l’opposizione di principio e militante tra gli amici degli americani e dell’occidente e gli amici dell’Unione sovietica, due sistemi alternativi che si escludevano mutualmente. La tragedia è nel cattolico fervente, nel politico di estrazione fucina e contiguità vaticana, che scrive al Papa e ne riceve in risposta dolorosa e ultimativa una lettera ai suoi aguzzini, “uomini delle Brigate rosse”, in cui si chiede loro di liberare il fratello Aldo “senza condizioni”. La tragedia è nella prosa chiara, emozionante sentimentale e lucida e per una volta trasparente e lineare, con cui sono scritte le lettere dal carcere del prigioniero, invocando, oltre a Dio e affetti famigliari e amicizia, circostanze di diritto e storiche utili alla sua liberazione, indirizzandosi con argomenti forti e coerenti a tutta la sua vicenda politica e umana ai suoi amici e compagni di partito e a molti altri interlocutori del sistema dei partiti, lettere destinate a rimanere senza risposta, lettere di cui veniva perfino negata l’autenticità morale e psicologica. La tragedia è nell’intreccio tra umanitarismo tradito e politica obbedita secondo i canoni più ovvi e ferrei della Ragion di stato, in un contesto di lotta tra centri di potere e di indirizzo civile che continueranno per anni a fare dell’eredità storica del caso Moro un motivo di identità contrapposta e di battaglia. La tragedia è nel consenso morboso e folle di ampie sezioni della società civile e dell’intellighenzia agli scopi distruttivi del terrorismo, opposto al dissenso organizzato, disciplinato e in certi casi rabbioso di una maggioranza che si sentiva e si proclamava fedele alle regole della democrazia e dello stato. Per tutte queste ragioni Alfredo Cospito merita una riflessione pietosa, cosa del tutto diversa dal cedimento al ricatto di un partito armato combattente, e la necessità di assumere comportamenti rigorosi di diritto nel suo caso è altro, radicalmente altro, dalla simulazione storica di un rinnovo della tragedia di quasi mezzo secolo fa. Il 41 bis non nasce per essere un “carcere duro” ma lo è diventato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 gennaio 2023 Non è volto al ravvedimento, alla collaborazione, né alla punizione oltre le garanzie costituzionali. Ha un solo e unico scopo: non permettere al capo di dare ordini alla organizzazione criminale di appartenenza. Il caso dell’anarchico Alfredo Cospito che rischia di morire da un momento all’altro al 41 bis, traferito da Sassari a Opera, apre di nuovo il dibattito sul carcere duro. Anche se, sulla carta, tale regime non dovrebbe essere definito in questi termini. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, al novembre 2021, le persone al 41 bis sono 749 (13 donne). Per avere dati di maggior dettaglio occorre analizzare quelli della Relazione annuale del ministero sull’amministrazione della Giustizia, aggiornati al novembre 2020, quando le persone al 41bis erano 748 (731 uomini e 13 donne, a cui si aggiungono 4 internati, tutti uomini), distribuite in 12 istituti penitenziari della Penisola, con una sola sezione femminile e una casa di lavoro per persone in misura di sicurezza. Si tratta di numeri in linea con quelli dell’anno precedente (2019), quando si contavano 747 persone (735 uomini e 12 donne). Come detto in premessa, il 41 bis non dovrebbe essere definito un “carcere duro”, perché questo concetto implica in sé la possibilità che alla privazione della libertà - che è di per sé il contenuto della pena detentiva - possa essere aggiunto qualcos’altro a fini maggiormente punitivi o di deterrenza o di implicito incoraggiamento alla collaborazione. Eppure, di fatto, viene percepito come se questa fosse la sua ratio. Non è così. La sua funzione viene cristallizzata dalla sentenza della Corte Costituzionale numero 376 del 1997: la misura del 41 bis è “volta a far fronte a specifiche esigenze di ordine e sicurezza, essenzialmente discendenti dalla necessità di prevenire ed impedire i collegamenti fra detenuti appartenenti a organizzazioni criminali, nonché fra questi e gli appartenenti a tali organizzazioni ancora in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi - come l’esperienza dimostra - attraverso l’utilizzo delle opportunità di contatti che l’ordinario regime carcerario consente e in certa misura favorisce (come quando si indica l’obiettivo del reinserimento sociale dei detenuti “anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno”)”. Il 41 bis non è volto al ravvedimento del soggetto, non è volto a costringerlo a farlo collaborare, non è volto a punirlo oltre le garanzie previste dalla Costituzione e non è volto a tumularlo vivo attraverso un rinnovo automatico di tale regime. Il 41 bis nasce con un solo ed unico scopo: non permettere al capo di dare ordini alla propria organizzazione criminale di appartenenza. Tutte le misure afflittive in più sono inutili. Eppure ci sono. Nel corso di questi anni, dalla Cassazione alla Consulta, qualche divieto è caduto. Pensiamo, solo per fare un esempio, alla sentenza della Corte costituzionale del 2018, nella quale si sancisce l’illegittimità della previsione dell’articolo 41-bis, comma 1-quater, lett. f) dell’ordinamento penitenziario in relazione al divieto della cottura di cibi in cella. Secondo la Consulta, tale divieto esula dalla finalità di prevenzione e difesa sociale, insita nel regime detentivo speciale: la considerazione per cui la previsione era stata concepita per impedire che tramite il cibo (come altri elementi di vita quotidiana, quei pochi che sono autorizzati a fare ingresso) il detenuto esercitasse il proprio “carisma criminale” sugli altri, non regge sul piano del bilanciamento dei principi, tra ragionevolezza e diritti soggettivi. Ricordiamo anche la sentenza della Cassazione del 2019 che ha sancito il diritto del detenuto al 41 bis di usufruire due ore di permanenza all’aria aperta. C’è poi la questione del diritto alla salute. Per chi è al 41 bis, tale diritto risulta deficitario. Il problema dell’assistenza sanitaria in carcere riguarda tutti i detenuti, ma chi è nel regime differenziato la questione si complica. Ci viene in aiuto il rapporto tematico sul 41 bis del Garante nazionale reso pubblico il 5 febbraio del 2019, dove si osserva che “la qualità primaria della tutela della salute è tale da non ammettere deroghe di nessun genere, anche ricordando che la Costituzione, nel suo chiaro e stringato lessico utilizza l’aggettivo “fondamentale” solo per connotare tale diritto al suo articolo 32. La questione, peraltro, investe non soltanto la garanzia di una adeguata assistenza sanitaria ma anche la realizzazione di condizioni generali di salubrità della vita detentiva”; evidenziando, per vero, un quadro quantomeno preoccupante, rappresentato dalla prassi di taluni Istituti, di non dare luogo alla traduzione del detenuto recluso al 41 bis presso luoghi di cura esterni, o di ritardarlo, per indisponibilità di personale da applicare al servizio di vigilanza. Il 41 bis fu istituito come misura emergenziale, perché la mafia corleonese era stragista. Il nostro Paese era sotto attacco e ha reagito annientando l’ala militare. Siamo nel 2023, ma ancora si ragiona in termini emergenziali rimasti fermi ai primi anni 90. Ogni passo costituzionalmente orientato, viene visto con sospetto. Eppure si tratta di affermare lo Stato di Diritto. Il caso dell’anarchico Cospito è un esempio estremo di questa degenerazione: raggiunto dal 41 bis, nonostante non sia capo di nessuna organizzazione. Parliamo di un anarchico individualista, come potrebbe mai dare ordini a qualcuno? Il grave errore di criticare il 41-bis solo quando conviene di Luciano Capone Il Foglio, 31 gennaio 2023 Dal caso Cospito a Bernardo Provenzano e in prospettiva Matteo Messina Denaro, ipocrisie e convenienze di chi sul carcere duro evoca princìpi assoluti come diritti umani e stato di diritto, ma a corrente alternata. Il moto di solidarietà da parte di politici e intellettuali nei confronti di Alfredo Cospito pone il tema di una riflessione seria e non estemporanea sul 41-bis e i suoi limiti. Ci sono tre piani di discussione. Il primo è politico: l’abolizione tout court del cosiddetto “carcere duro”, che è esattamente l’obiettivo per cui Cospito è in sciopero della fame da circa 100 giorni: “Non è una battaglia per la mia liberazione ma contro il regime del carcere duro”, ha detto l’anarchico condannato per la gambizzazione di un dirigente di Ansaldo e per un attentato esplosivo a una caserma. Ma nessuno, a parte le sigle anarchiche, sembra voler perseguire questo obiettivo. Il secondo piano è di tipo giudiziario, di chi cioè ritiene sbagliata la decisione dei tribunali italiani di aver messo Cospito al 41-bis. Su questo le opinioni sono più differenziate. Ma il piano su cui il consenso è più largo è il terzo, quello umanitario: a prescindere da cosa Cospito pensi del 41-bis, indipendentemente dal fatto che sia stato giusta o meno la decisione dei giudici, quel regime è ora incompatibile con il suo stato di salute. Questo tema, quello del rispetto dei diritti umani e di un bene supremo come quello della vita, coinvolge il governo al di là della sua linea “dura” sul 41-bis e della volontà di non voler “scendere a patti” i protagonisti delle manifestazioni violente e degli attentati dei giorni scorsi. Interroga la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che nel suo discorso d’insediamento alla Camera aveva definito l’elevato numero di suicidi in carcere come “non degno di una nazione civile”. E interroga il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che negli anni ha sempre espresso posizioni garantiste e rispettose della dignità umana dei detenuti. Ma è questo un tema che dovrebbe interrogare più a fondo anche le opposizioni e chi, con più facilità che in passato, ha sposato la battaglia del caso Cospito contro l’inutile crudeltà del 41-bis. Un caso emblematico è quello di Andrea Orlando del Pd, che è andato a Sassari a visitare in carcere il detenuto in sciopero della fame e che ha rilasciato dichiarazioni nette sul tema: “Lo stato non deve avere né la linea dura né la linea morbida. Deve applicare le leggi e salvare la vita di una persona a rischio” ha detto. E ancora: “Legare il 41-bis a una sorta di ritorsione significa fare il gioco di chi nega alla radice l’esistenza dello stato di diritto”. Il ragionamento è pienamente condivisibile, se non per il fatto che da ministro della Giustizia Orlando si è comportato all’esatto opposto. Nel 2016, quando Bernardo Provenzano era un vecchio malato, ormai totalmente demente e incapace a farsi comprendere, l’allora guardasigilli Orlando prorogò il 41-bis per il boss. Nonostante il parere contrario di tre procure, secondo cui il carcere duro non era più necessario. Alla fine Provenzano crepò al 41-bis e, dopo la sua morte, l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art. 3 (divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti). Quella violazione dello stato di diritto fu una scelta consapevolmente perseguita, perché la preoccupazione principale del ministro e del governo Renzi era tutelarsi dagli attacchi che sarebbero piovuti per un “favore” alla mafia, magari evocando chissà quale misteriosa “trattativa”. Ora per Orlando è molto più semplice prendere le parti di Cospito, sia perché lui non è più ministro sia perché il detenuto è un anarchico e non un mafioso. Ma se come sostiene un altro esponente dem, il vicesegretario uscente Peppe Provenzano, “la revoca del 41-bis a Cospito è invocata non in nome delle sue idee, o delle proteste degli anarchici. Ma in nome dello Stato di diritto, della Costituzione”, il Pd dovrebbe prepararsi a essere più conseguente e meno ipocrita nell’evocazione di principi assoluti. Non solo rispetto al passato, come nel caso di Bernardo Provenzano, ma anche rispetto al futuro. Perché presto potrebbe porsi lo stesso problema di incompatibilità con il carcere duro, se è vero che è gravemente malato, anche per Matteo Messina Denaro. Sarà chi oggi si batte per Cospito in grado di sostenere la stessa posizione per il boss di Cosa nostra? Chi sono le donne che scontano la pena al 41bis di Francesca Sabella Il Riformista, 31 gennaio 2023 Sono tredici le detenute italiane in regime di carcere duro. Vivono in celle di cemento di pochi metri quadrati. Passano giorno e notte in una stanza gelida, singola, con un letto, un tavolo e una sedia inchiodata al pavimento. Private della privacy perché sorvegliate a vista dalla Polizia penitenziaria h24. Private anche della parola e condannate al silenzio quasi totale. I contatti con le guardie carcerarie sono ridotti al minimo indispensabile e l’ora d’aria si fa in compagnia solo di un’altra detenuta. Sono le donne condannate al 41bis. Vivono così le tredici detenute considerate pericolosissime e quindi da tenere isolate, da rinchiudere in una tomba seppure ancora vive. Ma chi sono le donne italiane detenute al 41bis? La prima a essere condannata al carcere duro fu Nella Serpa, conosciuta anche come “Nella la bionda”, è stata arrestata il 30 marzo del 2012 ed è stata per tempo il capo cosca della ‘ndrangheta di Paola. Sorella di Pietro Serpa, assassinato nel maggio del 2003 con una raffica di colpi di pistola nel parcheggio di un hotel sulla Statale 18. Nella Serpa sta scontando l’ergastolo nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila “Le Costarelle”, lo stesso nel quale dal 16 gennaio 2023 è detenuto il padrino di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. Tra le donne che scontano la pena al 41bis l’anarchica Nadia Desdemona Lioce, esponente di spicco delle Nuove Brigate Rosse, accusata di essere tra i membri del commando che uccise i giuristi Massimo D’Antona nel 1999 e Marco Biagi nel 2002. Manette ai polsi nel 2003 e condannata all’ergastolo, ora sconta la pena all’Aquila in regime di carcere duro. Insieme con Nadia Desdemona Lioce furono spedite al carcere duro anche Laura Proietti e Diana Blefari, brigatiste coinvolte nei delitti Biagi e D’An-tona. C’è anche una napoletana tra le donne che stanno scontando una pena ai limiti dell’umano. Maria Licciardi, chiamata “Lady Camorra” membro dell’associazione camorristica “Alleanza di Secondigliano”, è Chanel nella serie di Roberto Saviano “Gomorra”. “A piccerella” altro soprannome della donna boss del clan Licciardi fu arrestata dai carabinieri del Ros all’alba del 7 agosto 2021 nell’aeroporto di Ciampino mentre stava per imbarcarsi su un volo diretto a Malaga (Spagna) dove vive la figlia. Lady Camorra fu poi trasferita dal carcere di Lecce a quello di Rebibbia dove è sottoposta al regime detentivo del 41 bis. Ma la prima donna della camorra a sedersi dietro le sbarre del 41bis è stata Teresa De Luca Bossa, “Donna Teresa” per i suoi fedelissimi. Pare che anche lei abbia ispirato il personaggio di Chanel in Gomorra. Moglie di Umberto De Luca Bossa e madre di Antonio prende le redini del sodalizio camorristico operante nella periferia est di Napoli quando il figlio finisce in manette. La stessa sorte toccherà anche a lei. Donna Teresa finisce in carcere nel giugno del 2000 insieme con altri 79 camorristi arrestati, accusati a vario titolo di aver partecipato all’omicidio di Luigi Amitrano, ucciso con un’autobomba due anni prima e nipote di un altro boss, Vincenzo Sarno. Tredici donne che oggi vivono in regime di 41bis. Una tortura. Senza dubbio. Tortura che vìola i diritti umani ma che ora molti difendono e raccontano come unica arma contro le organizzazioni criminali. Ma la lotta del detenuto è per togliere il 41 bis anche ai boss: inaccettabile di Luca Fazzo Il Giornale, 31 gennaio 2023 Cospito non sta facendo lo sciopero della fame solo perché vuole che gli sia revocato il 41 bis, chiede che sia totalmente rimosso dal nostro ordinamento penitenziario quell’articolo. Nel caso di Alfredo Cospito ci sono due temi che vanno affrontati e valutati separatamente se si vuole approdare a una soluzione della vicenda che tenga insieme valori irrinunciabili quali sono da una parte il rispetto della dignità e della salute umana e dall’altro la sicurezza dello Stato. Elementi che Cospito ha deliberatamente posto in conflitto, e che sono invece pienamente compatibili tra loro. Cospito, questo è il nocciolo della questione, non sta facendo lo sciopero della fame solo perché vuole che gli sia revocato il 41 bis, il trattamento di carcere duro inflittogli dal ministero della Giustizia. Cospito per tornare a mangiare chiede che sia totalmente rimosso dal nostro ordinamento penitenziario quell’articolo. Chiede che né lui né nessun altro detenuto, qualunque sia il reato per cui si trova in carcere, possa essere sottoposto alle dure restrizioni previste dal 41 bis: una norma certamente di natura emergenziale ma passata ripetutamente al vaglio della Corte Costituzionale. Non è importante capire perché Cospito (nobiltà d’animo, strategia politica, fanatismo) abbia scelto di accomunare le due battaglie, quella sua particolare e quella generale sulla legittimità stessa del carcere duro. Importa che per disinnescare la sua operazione (purtroppo autorevolmente sostenuta) si risponda scindendo nettamente i due temi. Il 41 bis a Cospito può essere revocato subito per il semplice motivo che non è necessario. Quest’uomo ha dimostrato di essere un sanguinario pericoloso e bisogna senz’altro impedirgli di continuare a dare ordini all’esterno. Ma non siamo negli anni 80 e a ricevere le direttive di Cospito possono essere al più cerchie ristrette di esaltati (e il modesto livello militare delle azioni dei suoi sodali lo conferma). Per impedire di comunicare con i nuclei attivi all’esterno possono bastare misure tradizionali come la censura della corrispondenza e la registrazione dei colloqui. Si può revocare il 41 bis a Cospito non perché lui ricatta lo Stato ma perché non ne sussistono i presupposti. Certo, è possibile che anche dopo la revoca l’anarchico scelga di continuare la sua protesta chiedendo che il 41bis sia spazzato via. Che anche Matteo Messina Denaro, tanto per fare un nome, sia messo insieme ai detenuti comuni, in modo tale da continuare a esercitare la leadership che gli ha consentito trent’anni di confortevole latitanza. Ma a quel punto lo Stato avrà già fatto la sua parte, e alle pretese di Cospito si potrà rispondere con chiarezza e fermezza di no. Se Cospito vorrà morire per rivendicare il diritto dei padrini di Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e quant’altro di tornare a fare in carcere il bello e il cattivo tempo in carcere, come accadeva prima, questa sarà una sua scelta. Drammatica, rispettabile. Ma a quel punto tutta sua. “Gli anarchici non hanno capi, non sono terroristi né mafiosi. Cospito è al 41 bis per errore” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 31 gennaio 2023 Intervista al prof. Gianfranco Ragona, esperto di anarchismo: “Alfredo non interromperà lo sciopero della fame. Il governo? Manca l’onestà intellettuale di riconoscere il 41 bis come un vero problema, anche per l’uso politico a cui si presta”. “Cospito è stato messo al 41 bis partendo da una concezione errata: che sia un capo, un dirigente di una qualche formazione anarchica verticistica, che mandi ordini dal carcere. Cospito non è questo, e l’anarchismo, per sua natura, è un fenomeno molto diversificato, pluralista, che non ammette capi, né strutture rigide. Poi il detenuto in questione ha compiuto atti discutibili e in effetti molto discussi nello stesso mondo anarchico, che in gran parte non condivide quelle linee. Che, attenzione, comunque non sono ascrivibili al terrorismo, almeno per come lo abbiamo conosciuto”, Gianfranco Ragona è uno storico esperto di anarchismo. Insegna Storia del pensiero politico a Torino e ha scritto vari libri sul tema. Gli abbiamo chiesto di spiegarci il mondo dell’anarchia. Partendo dal caso dell’anarchico in sciopero della fame da 103 giorni contro il 41 bis e andando oltre. L’attività anarchica di Cospito non può essere paragonata al terrorismo, dunque. Perché? Se non in pochi casi, e per brevi periodi, l’attività degli anarchici non è mai stata di natura violenta e in particolare terroristica. Prendiamo il caso di Cospito: il reato che gli viene contestato nell’ultimo processo (l’apposizione di un ordigno, di notte, davanti a una caserma di allievi Carabinieri, ndr) non ha prodotto vittime, né feriti. Soprattutto, non si tratta di un reato commesso nell’ambito di un’organizzazione strutturata, verticistica, o con una strategia unitaria di sovvertimento. Gli anarchici, è vero, lottano, si aggregano, e pagano per questo. Ma non hanno nulla a che spartire con forme di terrorismo. Lottando, però, alle volte commettono reati. E Cospito ne ha commessi. Al di là della vicenda umana, del fatto che la Corte d’Appello ha chiesto alla Consulta di valutare se sia proprio necessario un ergastolo per una strage che non produce vittime, né feriti, né danni, e dell’eccessiva durezza del 41 bis, questo elemento va tenuto a mente... Certo. Chi commette reati viene indagato e poi processato per questo. Ma qui abbiamo un problema diverso. Quale? Il problema è come vengono qualificati questi reati. Sempre più spesso, quando si tratta di azioni commesse dagli anarchici, vengono contestati reati associativi. Quel reato, cioè, si considera commesso all’interno di un’associazione che ha come scopo quello di attentare alla sicurezza dello Stato. Ci sono stati tanti casi di anarchici condannati a pene fino a 20 anni, perché l’impianto contestato era quello di un reato associativo. Ma se l’associazione in questione non esiste, allora abbiamo un problema. Ecco, non c’è dubbio sul fatto che i magistrati debbano perseguire i reati, ma se si aggrava il tutto rendendolo un reato associativo, come se si trattasse di un’associazione mafiosa o terroristica, si va fuori strada. Perché è un modo di procedere così errato? Se riduciamo una corrente politica come l’anarchismo a un fatto di criminalità organizzata commettiamo un errore gravissimo. Se non riconosciamo la legittimità dell’esistenza delle forme di dissenso, anche delle più critiche, ne va della nostra coscienza democratica. A me sembra che, soprattutto attraverso alcuni tribunali, si stia procedendo a una subdola criminalizzazione del dissenso. Ma senza il riconoscimento dell’altro cosa rimane della nostra democrazia? Si tratta, però, di un “altro” che fa paura a chi associa l’anarchia solo ed esclusivamente a un problema di ordine pubblico. Alcuni giornali ieri parlavano di “ritorno degli anarchici”. La domanda è: se ne sono mai andati? I movimenti anarchici non sono mai scomparsi, per il semplice motivo che la nostra modernità è fatta di tre principali correnti di pensiero: il pensiero liberale, il pensiero socialista e il pensiero libertario. Ecco, l’anarchia fa parte della nostra modernità. C’è stato un momento di cesura, molto risalente nel tempo: la guerra di Spagna. Prima di quel conflitto, gli anarchici avevano un’organizzazione e il loro pensiero politico era egemone in alcune zone della Spagna. Dopo aver subito una grave sconfitta - che è stata la sconfitta di tutto il mondo democratico - l’anarchismo ha cambiato volto, è diventato un modo di vivere, una dimensione esistenziale, che non ha una organizzazione vera e propria, unica e unitaria (ma in effetti non ne ha mai sentito il bisogno). Anche per questo credo che non si debba parlare di galassia anarchica: è un’espressione confusa. Segnalo, peraltro, che molti anarchici sono pacifisti, anche per questo prima ho detto che non tutti condividono azioni violente. Ci parla dell’organizzazione, o presunta tale, di cui farebbe parte Cospito? Anche qui, la premessa è doverosa. Una cosa è la Fai, intesa come la federazione anarchica italiana. Si tratta di un soggetto che ha centri di aggregazione, socialità, case editrici, giornali, ecc. Un movimento politico e culturale. Altra cosa è la Fai intesa come federazione anarchica informale, in nome della quale sono state compiute azioni come il rilascio di pacchi bomba, e alla quale farebbe capo Cospito. Bene: questa federazione non esiste come organizzazione in sé. Si tratta di una sigla a cui può richiamarsi chiunque. E questo rende le cose più complicate, anche per quanto riguarda l’applicazione del 41 bis. Perché, lo voglio ripetere, parliamo di forme di organizzazione informale, di gruppi di affinità non istituzionalizzati. Ritenerle organizzazioni criminali, con un vertice e dei sottoposti, ci porta fuori strada. Prima ha fatto un cenno storico a un modo di intendere l’anarchia che non esiste più. Chi sono, invece, gli anarchici oggi? Non esiste un prototipo. In passato erano stati fatti degli studi secondo cui la maggior parte degli anarchici appartenevano alla classe degli artigiani,i cosiddetti produttori. Andando ad approfondire, però, abbiamo capito che l’anarchismo italiano si è diffuso anche e forse soprattutto tra i ceti popolari. In alcuni casi si parla di anarchismo istintivo, dettato da una disaffezione alla politica che a ben guardare non è un semplice rifiuto, ma una forma di dislocamento del politico. Ecco, gli anarchici stanno là. Li vediamo in prima fila, ad esempio, nelle proteste contro il modo in cui il nostro Paese tratta i migranti. Certo, lo fanno con delle bandiere, delle parole d’ordine cui non siamo abituati, ma che colgono nel segno. Peraltro, quello dei migranti è un problema che ci riguarda, non dimentichiamo mai che siamo sotto la lente di vari organismi internazionali. Ancora, troviamo gli anarchici - non da soli - nelle lotte contro l’emergenza abitativa. Storicamente, poi, gli anarchici hanno un’avversione contro il carcere in generale. Anche qui, parliamo di un problema reale: sarà normale che ancora esistano le carceri minorili? Si tratta di una crisi che va affrontata. Dall’avversità per il carcere in genere nasce la protesta di Cospito contro il 41 bis. Una lotta che lui dice di sostenere non solo per se stesso ma per tutti i detenuti... L’esempio del 41 bis è eclatante. Nel nostro Paese succede che una misura di carattere eccezionale diventi la normalità. Così è stato con il 41 bis, che è stato implementato in un momento di crisi, in cui la mafia rappresentava un pericolo notevole. Via via, è stato applicato in maniera sempre meno eccezionale. In tutto questo ci si è dimenticati, però, che la mafia non si combatte solo con la repressione. Il 41 bis può essere applicato anche ai terroristi. Cospito è il primo anarchico cui viene assegnato il carcere duro. La sua storia servirà, se non altro, a fare un ragionamento sul modo in cui si utilizza il 41 bis? In un momento in cui questo istituto dovrebbe essere comunque messo in discussione, gli anarchici ci hanno messo di fronte a un problema reale. Io credo che, comunque la si pensi, il caso Cospito ha messo un dito nella piaga. E deve farci riflettere sul tema del 41 bis, ma anche sul tema della repressione più in generale. Io vivo a Torino e ho visto una mia studentessa, che istintivamente aveva provato a difendere un’amica che la polizia stava portando via dopo alcuni scontri, condannata a 6 mesi di carcere. Queste cose devono farci riflettere. A proposito di repressione, il governo, dopo gli atti dimostrativi davanti alle ambasciate e contro le stazioni di Polizia, ha annunciato la linea dura. Si parla dell’ordine pubblico, si dimentica la vicenda umana di Cospito, che rischia di morire. Come se lo spiega? Provando a guardare le cose dal punto di vista dell’esecutivo, sicuramente al governo può essere utile trovare un nemico ideale. Perché così può confermare delle scelte già fatte o uscire da qualche impasse. Come immagina evolverà la vicenda di Cospito? Non credo che lui retrocederà dal suo proposito di non alimentarsi più e, umanamente, non posso non notare quanto enorme e straordinario sia il coraggio di rinunciare alla propria vita per un principio. Quanto al governo, non credo sarà in grado di intervenire: qui manca il coraggio di un intervento. E, forse, manca anche l’onestà intellettuale di riconoscere il 41 bis come un vero problema, anche per l’uso politico a cui si presta. Emergenza carceri: 43 Istituti di pena non hanno un direttore di Fiammetta Cupellaro La Repubblica, 31 gennaio 2023 Le ultime assunzioni risalgono al 1996. Così ora c’è chi è responsabile del minorile di Torino e poi deve volare a Bari e chi ha un triplo incarico in Sardegna. Inchiesta. “Ma io lei l’ho già vista”. Quando l’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia entra nel carcere di Tempio Pausania, Sardegna, resta di sasso: ad accoglierla è lo stesso direttore che ha incontrato qualche settimana prima all’istituto di pena a Busto Arsizio, Lombardia. Non un sosia, era proprio Orazio Sorrentini. Perfetta incarnazione dell’ultima emergenza nel pianeta dietro le sbarre: la carenza di personale che trasforma i dirigenti in pendolari, costretti a occuparsi di più sedi. Anche tre. Una nuova figura di direttore-viaggiatore, che vola sugli aerei e sfreccia sui treni ogni settimana, o macina chilometri in auto, spostandosi da una regione all’altra, dalla terraferma a un’isola, dal Piemonte alla Puglia. Per occuparsi di ragazzini e di adulti, di reclusi comuni e di quelli che vivono nei penitenziari ad alta sicurezza. Dalla Toscana al Piemonte - Come Elisa Milanesi, direttrice del carcere di Alghero ma responsabile, anche, di quello di Oristano e della colonia penale di Is Arenas. O come Domenica Belrosso: due giorni alla settimana è all’istituto penitenziario per minorenni di Pontremoli, Toscana, per poi partire subito perché è anche responsabile dell’area amministrativa contabile di Piemonte e Liguria. Doppie sedi, tripli incarichi. Marco Porcu da sei anni dirige l’istituto di pena di Cagliari, ma è responsabile pure del carcere di Lanusei, provincia di Nuoro, e della colonia penale di Isili, Sud Sardegna. “Vivo al telefono e al computer 12 ore al giorno” racconta Porcu, 52 anni, padre di due bambini. “Ogni giorno stabilisco priorità ed emergenze in ogni struttura, decido cosa delegare agli altri dirigenti e quando e dove è, invece, fondamentale la mia presenza. Coinvolgo il più possibile gli educatori e i collaboratori, ma alla fine sono io a prendere le decisioni”. Un cambio di passo che ha mutato profondamente anche la sua, di vita. “Quando dirigevo solo l’istituto del capoluogo” spiega il direttore, “mi occupavo di circa 500 detenuti. Riuscivo ad ascoltarli, a dialogare. Ora sono mille. Il raddoppio dei reclusi da seguire ha moltiplicato i problemi. E anche il bisogno di energie da parte mia. Faccio quasi sempre due cose insieme: mi capita, contemporaneamente, di firmare documenti che arrivano dagli uffici giudiziari, dalle Asl e dal ministero, e di parlare al telefono con il magistrato di sorveglianza o con l’ufficio matricola per gestire il più rapidamente possibile le uscite e gli accessi dei detenuti. Poi ci sono le riunioni con i gruppi interdisciplinari, con il personale del carcere, con le cooperative e i volontari che gestiscono le attività, una parte fondamentale: qui siamo riusciti a portare avanti progetti di lavoro importanti. Spesso, per non rinviare decisioni che possono alleggerire la vita dei detenuti, facciamo le riunioni in videochiamata. Poi ci sono le emergenze, i ricoveri, gli incontri con le strutture esterne. Insomma, un carcere è una cittadella con tanti problemi. Se poi di cittadelle ne hai altre due, la giornata lavorativa non finisce mai”. Con le dovute differenze, i direttori delle carceri oggi sono come i presidi che, volenti o nolenti, devono gestire più scuole, diverse e distanti. “Il tempo libero? Me lo ritaglio all’alba. Mi alzo alle 5 per andare in palestra o in bicicletta. Altrimenti vivrei recluso anch’io”. Le vacanze sono un gioco a incastri con le sostituzioni, visto che quando uno dei colleghi che lavorano in Sardegna si assenta, tocca coprire anche i “suoi” istituti. E così le prigioni da sovrintendere possono diventare quattro. I chilometri in auto ogni settimana, centinaia. Per contro, lo stipendio non è male: circa 3.500 euro netti al mese. Ma per ogni giorno di trasferta il guadagno è minimo: solo 10 euro. “Non si possono lasciare le carceri senza un direttore a tempo pieno” ha detto il nuovo ministro della Giustizia Carlo Nordio, che come primo atto ha annunciato cambi al vertice del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (da due settimane lo guida il magistrato partenopeo Giovanni Russo). Del resto, il direttore è la figura centrale di ciò che accade dentro e fuori dalle celle. Dall’istituto più piccolo e periferico fino al penitenziario di massima sicurezza è il direttore a creare le opportunità di reintegrazione, ad attivare le possibilità di lavoro. Eppure 43 istituti di pena italiani (su 190) sono rimasti senza guida, o ne hanno avuta una part-time. Il problema si trascina da oltre vent’anni: era il 1996 quando sono stati assunti gli ultimi dirigenti penitenziari. Nel 2020 è stato annunciato il nuovo concorso. Per tutto questo tempo, affrontando emergenze come l’affollamento delle celle, il lavoro sociale, il problema della tossicodipendenza, il disagio psichiatrico e la pandemia, i direttori sono stati uni e trini. Inoltre, occorrerà tempo prima che i vincitori del concorso diventino operativi. Ultimata la formazione, infatti, ci sarà un periodo di affiancamento con i più anziani, poi verrà assegnata la sede. Forse a settembre. Il volo sullo Stivale - Un altro caso eclatante di doppi e tripli incarichi è la Sicilia, che ha il maggior numero di istituti di pena in Italia: ben 23. Perfino il direttore dell’Ucciardone, Fabio Prestopino, deve occuparsi di un altro istituto (il circondariale di Trapani). Oltre mille detenuti in sedi ad alta tensione dovuta anche alla presenza di mafiosi. E Giovanna Re, vice direttrice di Maria Luisa Malato che dirige il carcere di massima sicurezza Pagliarelli di Palermo (con 1.800 detenuti), si divide con la casa circondariale di Sciacca. Non che nel Centro Italia o al Nord vada meglio. Giuseppe Renna, direttore del carcere di San Gimignano, per esempio, è il reggente della casa circondariale di Arezzo. Clamorosa la situazione in Piemonte. “Le carceri sono 13 e sotto la nostra responsabilità c’è anche quella della Val d’Aosta. I direttori? Solo sette” spiega Bruno Mellano, garante dei detenuti piemontesi e valdostani, “e peggiorerà. Diversi dirigenti hanno chiesto il trasferimento, le nostre sedi sono considerate difficili”. Nel dettaglio: Novara e Biella, due sedi un direttore, Rosalia Marino. Così come Asti e Vercelli, con Francesca Dacquino. I quattro istituti a breve potrebbero trovarsi senza nemmeno le due direttrici: entrambe hanno chiesto un’altra sede. A Ivrea, Antonella Giordano si fa in tre: dirige sia il carcere della cittadina piemontese, sia quello di Aosta ed è pure al comando dell’ufficio risorse e personale del Provveditorato a Torino. “Ma il caso più eclatante” racconta Mellano “è quello di Simona Vernaglione, che sovrintende il minorile torinese, Ferrante Aporti, struttura delicata, e guida l’ufficio trattamento detenuti di Bari. Ogni settimana questa dirigente capace e preparata sale su un aereo per trasferirsi in Puglia, dove rimane per almeno due giorni”. L’evasione del Beccaria - Da una settimana l’istituto più grande, le Vallette di Torino, 1.400 reclusi, è senza guida: Cosima Buccoliero è infatti in aspettativa perché candidata come capolista per il Pd alle prossime regionali in Lombardia. Non è nuova ai doppi incarichi. Dirigeva il carcere di Bollate (un esempio di apertura verso l’esterno e di reinserimento dei detenuti attraverso il lavoro) e, insieme, il minorile milanese Beccaria. Trasferita a Torino, al Beccaria non l’hanno sostituita: che sia questo vuoto una delle spiegazioni della clamorosa evasione di Natale? “Il Beccaria mi ha segnato molto” dice Buccoliero. “Ci andavo ogni settimana. E ogni volta dovevo cambiare modo di ragionare, perché i detenuti sotto i 18 anni sono completamente diversi dagli altri. I ragazzi hanno bisogno di muoversi e di stare più tempo possibile fuori dalle celle. Purtroppo, al Beccaria la ristrutturazione continua dal 2006 e gli spazi per la socialità sono ridotti. Alcuni giovani reclusi vengono trasferiti in sedi distanti, e così sono ancora più lontani dalla famiglia. Le evasioni sono dovute anche a questo: quando un ragazzo scappa, anche dalle comunità, lo ritroviamo quasi sempre dai nonni o dagli zii. Il direttore è il punto di riferimento adulto per i ragazzi. Serve la sua presenza costante, non part time e su fronti multipli”. Finale di partita - Sono le 20 quando Marco Porcu rientra a casa, dopo aver chiuso, mentre è al volante, l’ultima telefonata con le carceri di Lanusei e Isidi. La giornata tipo del direttore-pendolare, iniziata all’alba, sembra finita. Fino a quando nella notte c’è un’emergenza in uno dei “suoi” tre istituti. “Il mio incubo sono i suicidi in cella. Occuparsi di detenuti significa mettersi in relazione con le fragilità delle loro vite. Vorrei avere il tempo di incontrarli più a lungo, non solo di occuparmi delle incombenze e delle necessità quotidiane. Ma nonostante tutto non cambierò lavoro, non ci penso proprio. Questo triplo incarico mi ha fatto scoprire capacità di resistenza che non pensavo di avere”. Storie di riconciliazione e di perdono dietro la strage di Bologna di Ugo Maria Tassinari Il Dubbio, 31 gennaio 2023 È morto Gian Carlo Calidori, impegnato con la compagna Anna Di Vittorio a rendere giustizia al fratello di lei Mauro. Uno degli 86 morti, indegnamente sospettato e accusato di essere il corriere dell’esplosivo. È morto di cancro Gian Carlo Calidori, un eroe civile, stremato da una sofferenza superiore anche alle sue straordinarie forze. Al suo fianco c’era Anna Di Vittorio, compagna di una vita. Insieme, più di vent’anni fa, avevano iniziato un lungo percorso per liberarsi della condizione di vittime del terrorismo: lei sorella di Mauro, lui amico di Sergio Secci, due degli 86 morti alla stazione di Bologna, la mattina del 2 agosto 1980. Nasce da un loro lungo lavorio ai fianchi dei vertici della Repubblica l’istituzione della “giornata della memoria” del 9 maggio. La successiva tappa avrebbe dovuto essere un “tavolo della riconciliazione” alla sudafricana. Intanto si erano spinti avanti, dandone testimonianza in prima persona, giungendo a offrirla ai reprobi per eccellenza: Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, condannati per quella strage. Gli sviluppi della vicenda sono noti a una ristretta cerchia di lettori dei miei blog o di pagine social dedicate agli anni di piombo: i due terroristi neri traducono l’offerta nel linguaggio penale e accettano un perdono che non era stato ancora offerto. Una successiva lettera ad hoc di Anna è allegata alla domanda di liberazione condizionale di Mambro e concorre al suo accoglimento. Perdono vs riconciliazione - Le due cose non sono intercambiabili: la riconciliazione è una relazione tra pari, il perdono crea un vincolo di potere e di dipendenza. Ne ha scritto approfonditamente Maria Rita Parsi, in “Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficato”. Un concetto già noto, alla vigilia della guerra, a Eduardo De Filippo, che vi dedica uno dei testi della sua stagione “pirandelliana”, Io, l’erede, in cui il beneficato, appunto, rivendica il diritto di tartassare il benefattore. In quel caso come risarcimento per quella che oggi chiamiamo “una perdita di chance”. Un libro per fare chiarezza - La storia è ricostruita mirabilmente nel libro, uscito a metà gennaio, di Paolo Morando ‘ La strage di Bologna. Bellini, i Nar, i mandanti, un perdono tradito’. Un’intera sezione è infatti dedicata al “caso Di Vittorio” ed è assai generosa nel riconoscimento dei crediti a chi in perfetta solitudine aveva condotto la campagna per difendere la memoria e l’onore di Mauro, indegnamente sospettato e accusato da un deputato di estrema destra di essere il corriere dell’esplosivo che provocò la strage. Un “bravo giornalista” da decenni al margine della professione e due ex brigatisti, nel silenzio totale della stampa democratica mainstream, che si erge, strumentalmente, a vestale della purezza antifascista. Evidentemente l’enormità del gesto dei coniugi Di Vittorio- Calidori era ritenuta degna della condanna all’oblio… Due inchieste militanti - Ho sempre respinto quell’insulso enunciato di “un compagno non può averlo fatto”. E così, quando mi segnalarono la prima uscita di Enzo Raisi, in cui mancava il nome ma era chiaro (e sbagliato) l’identikit del “militante dell’autonomia romana”, prima di impegnarmi nella campagna difensiva, ho fatto una mia mini inchiesta. Ho contattato sette compagni, sette quadri intermedi o dirigenti autonomi, espressione di diversi contesti organizzativi e territoriali romani, con cui ero stato in contatto ai tempi della mia militanza nell’autonomia. Nessuno conosceva Mauro. Verifica rafforzata da un più poderoso lavoro a Tor Pignattara svolto da Paolo Persichetti e Sandro Padula. Solo allora, continuando a garantire la più ampia libertà di espressione a tutti i soggetti interessati alla discussione, che ovviamente si intrecciava con la pista palestinese, ho dichiarato la mia posizione partigiana circoscritta a un unico punto: Mauro Di Vittorio non poteva essere il corriere dell’esplosivo. Un’amicizia straordinaria - È nata così, nel fuoco di un’aspra battaglia di verità, e si è cementata una straordinaria amicizia con Anna e Gian Carlo, che hanno eletto i miei blog a rampa di lancio dei loro messaggi nella bottiglia. Decisi comunque a mantenere, anche nello strazio di dover difendere Mauro da un’accusa folle e allucinante in disperante solitudine, il valore esemplare della loro battaglia generale di civiltà giuridica e culturale, per lo Stato di diritto, per la riconciliazione. Un errore di omissione - C’è una cosa che mi ha colpito del libro perché coglie un mio errore di omissione. Ho letto la prima lettera di Anna e Gian Carlo soltanto nel libro. All’epoca, per quel che mi riguardava, era del tutto insignificante che fossero stati gli uni a chiederlo o gli altri a offrirlo. Il fatto era che il perdono era stato dato e che come tutta risposta qualche anno dopo Anna e Gian Carlo erano stati ripagati con la campagna diffamatoria contro Mauro. In un Paese avvelenato della cultura cospirativa, non mi era sembrato strano che qualcuno coltivasse il dubbio che un gesto talmente sovraumano potesse aver generato il sospetto di nascondere un senso di colpa. Ad ogni modo resta un fatto: la lettera non fa riferimento al perdono ma ricostruisce la loro esperienza umana per liberarsi della condizione vittimaria, parlando appunto di riconciliazione. Un perdono controproducente? - È un perdono, come dire, a 360° che, aggirando la dichiarazione di innocenza dei due condannati per la strage, ricorda con grande garbo le loro responsabilità riconosciute (hanno confessato la partecipazione a una dozzina di omicidi). Ad ogni modo, il perdono favorirà la concessione della libertà condizionale a Mambro. Circostanza contestata da Fioravanti. L’episodio è così ricostruito da Morando. “Era il 18 settembre 2014, quando Tassinari ricevette una lettera di Valerio Fioravanti. La pubblicò su “L’alter- Ugo” con un titolo che più sobrio non sarebbe potuto essere: Strage di Bologna. Valerio Fioravanti racconta il suo rapporto con Anna Di Vittorio. È lunghissima, quindi non se ne riporterà qui la seconda parte, se non per dire che si tratta di una convinta difesa del comportamento di Raisi in ogni suo svolgersi. La prima, invece, è quella che ha suggerito il titolo a Tassinari. E va letta integralmente”. La mia replica stringata - In realtà - sulla carta stampata lo spazio è importante - bastano le tre righe essenziali: Non so se hai capito, ma Francesca NON ha preso la condizionale grazie ad Anna Di Vittorio, si potrebbe anzi quasi dire il contrario, ha preso la condizionale NONOSTANTE Anna Di Vittorio, che voleva perdonarla per qualcosa che lei non aveva fatto. le conclusioni di Morando - E anche qui restituiamo la parola a Paolo Morando, che ricostruisce nel dettaglio i tempi e i modi degli incontri e della lettera che precedono la discussione della libertà condizionale di Mambro, per poi concludere: “Anche il secondo tradimento si era dunque compiuto: dopo l’esplicito sostegno alle ipotesi di Raisi su un presunto ruolo di attentatore di Mauro Di Vittorio nella strage alla stazione di Bologna (ricordate la lettera di Fioravanti al Giornale?), era arrivato anche il momento di gettare definitivamente a mare il perdono di Anna e Gian Carlo che era servito per riportare la moglie in libertà, definendolo inutile, anzi, quasi d’ostacolo alla condizionale. Ma era troppo anche per lo spirito libertario e garantista di Tassinari, che ai 13.564 caratteri dell’intervento di Fioravanti aveva risposto con una stringata chiosa. Chiosa che vi risparmio, sulla base del principio tipografico già enunciato”. Un libro benedetto - A lungo abbiamo ragionato con Anna e Gian Carlo sulla necessità di raccontare in maniera organica questa storia ignobile ma ci mancava decisamente il distacco emotivo necessario. Il fatto che il libro di Morando sia uscito appena in tempo perché Gian Carlo sapesse che della loro straordinaria e terribile vicenda sarebbe restata una traccia “terza” è per me la prova che ogni tanto i pianeti si allineano e danno vita a un ordine retto del mondo. Gian Carlo, molto più laico di me, parlerebbe invece di “superiore intelligenza delle cose”. E questo è. Contumacia, le notificazioni al difensore di fiducia fanno presumere conoscenza del processo e della condanna di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2023 Va dimostrata la negligenza del professionista nel dare comunicazioni al cliente. Se l’avvocato domiciliatario ha ricevuto regolare notifica tanto dell’atto di citazione quanto dell’estratto contumaciale di condanna l’imputato - rimasto contumace - non può chiedere la rimessione del termine per appellare la sentenza di merito, asserendo de plano di non averne avuto conoscenza. Andava, infatti, provato che vi fosse stata una perdurante negligenza del difensore di fiducia e anche a fronte di un comportamento attivo dell’imputato, fatto di periodiche richieste di informazioni sul processo, ma rimaste inevase dal legale. Con la sentenza n. 3911/2023 la Cassazione penale non ha accolto - per difetto di allegazione delle circostanze di fatto - il ricorso del condannato che chiedeva di poter essere rimesso nei termini per poter appellare la sentenza di condanna. Condanna ora divenuta irrimediabilmente definitiva. La Cassazione, nel confermare l’istanza di rigetto della Corte di appello alla richiesta di rimessione nel termine per impugnare, ha bocciato il ricorso perché privo delle specifiche allegazioni di prova della mancata conoscenza del processo e della condanna a suo carico. Il ricorrente non aveva fornito prova alla Corte di appello che le comunicazioni del suo legale di fiducia non fossero in realtà mai state da lui ricevute. Circostanze che invece, potevano sostenere il diritto a essere rimesso in termine per appellare la condanna. Infatti, dalla decisione di legittimità, emerge che l’avvocato avesse in qualche modo comunicato al cliente notizie sul processo. Il ricorrente avrebbe dovuto, invece, dimostrare la mancata ricezione di tali comunicazioni e di essersi anche adoperato per avere notizie dell’andamento e della conclusione del processo attraverso periodiche richieste al legale di fiducia. Questo al fine di poter fare ascrivere alla perdurante negligenza del professionista la propria incolpevole contumacia e ottenere il riconoscimento del corrispondente diritto alla rimessione del termine. No a raccolta “sistematica” di dati biometrici di persone accusate di un reato doloso perseguibile d’ufficio di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2023 Anche in caso di coercizione va rispettato il requisito di garantire una maggiore protezione nel trattamento di dati personali sensibili. La raccolta sistematica dei dati biometrici e genetici, prevista dalla direttiva 2016/680, deve garantire la proporzionalità dei dati raccolti sulla persona fisica e la tutela maggiore possibile per dati che sono definiti sensibili. In caso di accusa per un reato doloso perseguibile d’ufficio è ammessa la registrazione di dati biometrici e genetici della persona da parte della polizia. Ma solo se la legge nazionale prevede specifiche garanzie contro illeciti accessi ai dati raccolti e un valido controllo giurisdizionale sulla richiesta di procedere in via coercitiva alla raccolta di tali dati. La direttiva 2016/680 non osta infatti a una normativa nazionale che prevede la raccolta coercitiva dei dati biometrici e genetici delle persone per le quali sussistono sufficienti elementi di prova della colpevolezza per un reato doloso perseguibile d’ufficio e che siano state formalmente accusate. Caso a quo - Nel caso concreto, a seguito della messa in stato di accusa formale, la polizia bulgara aveva invitato l’indagato a sottoporsi alla raccolta dei suoi dati dattiloscopici e fotografici, ai fini della loro registrazione, e a un prelievo di campioni per l’elaborazione del suo profilo del Dna. A seguito dell’opposizione della persona richiesta, la polizia ha domandato al tribunale speciale investito della materia di poter agire coercitivamente. Tale giudice, nutrendo dubbi sulla compatibilità della normativa bulgara applicabile a tale “registrazione da parte della polizia” con la direttiva 2016/680, letta alla luce della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ha adito la Corte in via pregiudiziale. Interpretazione fornita - La Corte Ue con la sentenza sulla causa C-205/21 precisa in primis a quali condizioni il trattamento dei dati biometrici e genetici da parte delle autorità di polizia può essere ritenuto autorizzato dal diritto nazionale, ai sensi della direttiva 2016/680. In particolare la Cgue chiarisce il requisito richiesto dalla direttiva- relativo al trattamento di dati di una categoria di persone nei cui confronti vi sono fondati motivi di ritenere che siano implicate in un reato e sul rispetto del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva nonché del principio della presunzione di innocenza - nel caso in cui la normativa nazionale consenta al giudice nazionale competente di autorizzare la raccolta coercitiva di tali dati, ritenuti “sensibili” dal Legislatore dell’Unione. Quindi la direttiva 2016/680 va interpretata nel senso che il trattamento dei dati biometrici e genetici da parte delle autorità di polizia per le loro attività di ricerca, a fini di lotta contro la criminalità e di tutela dell’ordine pubblico, è autorizzato dal diritto nazionale se quest’ultimo contiene una base giuridica sufficientemente chiara e precisa per autorizzare detto trattamento. Le norme di recepimento - Nel caso esaminato la legge nazionale faceva formale riferimento al regolamento che disciplina il trattamento dei dati sensibili anche se incentrata correttamente sul contenuto della direttiva che regola la raccolta degli stessi dati da parte della polizia. Le due normative per la Cgue non sono equivalenti: se un trattamento di dati sensibili da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione e accertamento dei reati di cui alla direttiva 2016/680 può essere autorizzato solo se strettamente necessario e soggetto a garanzie adeguate in base alle norme Ue e al diritto nazionale, al contrario il RGPD enuncia un divieto di principio del trattamento di tali dati e lo correda di un elenco di eccezioni. Sebbene il legislatore nazionale possa prevedere, nello stesso strumento legislativo, il trattamento di dati personali a fini rientranti nell’ambito della direttiva 2016/680 nonché ad altri fini rientranti nell’ambito del RGPD, esso è tenuto ad accertarsi che non vi sia ambiguità quanto all’applicabilità dell’uno o dell’altro di questi due atti dell’Unione alla raccolta dei dati sensibili. Conclude la Cgue affermando che in caso di un’apparente contraddizione tra le disposizioni nazionali che autorizzano il trattamento di dati in questione e quelle che sembrano escluderlo, il giudice nazionale deve dare a tali disposizioni un’interpretazione che salvaguardi l’effetto utile perseguito dalla direttiva 2016/680. Il controllo giurisdizionale - Quando il giudice penale competente è tenuto ad autorizzare una misura di esecuzione coercitiva della raccolta è possibile che in base al diritto nazionale non goda del potere di valutare se sussistano fondati motivi per ritenere colpevole la persona oggetto della richiesta della polizia. Va però garantito che successivamente vi sia un controllo giurisdizionale effettivo sulle condizioni della messa in stato di accusa formale, da cui risulta l’autorizzazione a procedere alla raccolta. Categorie prestabilite - La Corte ricorda che, in forza della direttiva 2016/680, gli Stati membri devono provvedere a una chiara distinzione tra i dati delle diverse categorie di interessati, in modo che non sia loro imposta indistintamente un’ingerenza della medesima intensità nel loro diritto fondamentale alla protezione dei propri dati personali a prescindere dalla categoria a cui appartengono. Tuttavia, tale obbligo non è assoluto. Del resto, nei limiti in cui tale direttiva riguarda la categoria di persone nei cui confronti sussistono fondati motivi di credere che abbiano commesso un reato, la Corte precisa che l’esistenza di un numero sufficiente di elementi di prova della colpevolezza di una persona costituisce, in linea di principio, un fondato motivo di ritenere che quest’ultima abbia commesso il reato di cui trattasi. Pertanto la direttiva 2016/680 non osta a una normativa nazionale che prevede la raccolta coercitiva dei dati biometrici e genetici delle persone per le quali sussistono sufficienti elementi di prova del fatto che sono colpevoli di aver commesso un reato doloso perseguibile d’ufficio e che sono state formalmente accusate per tale motivo. Tutela giurisdizionale effettiva - Per quanto riguarda il rispetto del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva, dal momento che il giudice nazionale competente, al fine di autorizzare una misura di esecuzione coercitiva della raccolta di dati sensibili di una persona formalmente accusata, non può controllare nel merito le condizioni della sua accusa formale, la Corte sottolinea, in particolare, che il fatto di sottrarre temporaneamente al controllo del giudice la valutazione delle prove sulle quali si basa l’accusa formale dell’interessato può rivelarsi giustificato durante la fase preliminare del procedimento penale. Sardegna. Irene Testa è la nuova Garante regionale dei detenuti sardegnalive.net, 31 gennaio 2023 Irene Testa è la nuova Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale in Sardegna. È stata nominata ieri dal presidente del Consiglio regionale Michele Pais. Originaria di Sorgono, giornalista e autrice, Testa è tesoriera del Partito Radicale, col quale è impegnata sul fronte del riconoscimento dei Diritti umani e per la promozione e il rispetto dello Stato di diritto. ?Per la prima volta dopo 12 anni, dalla sua istituzione con legge regionale, la Sardegna ha un garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Testa, da sempre impegnata sul fronte dei diritti dei detenuti, è attualmente tesoriera del Partito Radicale e conduce su Radio Radicale il programma “Lo stato del Diritto”. “Le conoscenze e l’esperienza di Irene Testa sul fronte dei diritti e dello Stato di diritto sono la migliore garanzia per l’espletamento di questa nuova responsabilità”, ha scritto il Partito Radicale annunciando la sua nomina sui social. Sulla nomina del Garante dei detenuti, oltre che su quello dell’infanzia e sul difensore civico ancora vacanti, si erano battuti i consiglieri regionali dell’opposizione che da tempo sollecitavano il presidente Pais perché provvedesse alla nomina. Ai primi di dicembre alcuni avevano anche cominciato lo sciopero della fame a staffetta, tra loro Piero Comandini del Pd, Laura Caddeo (Demos), Desirè Manca (M5s) e Antonio Piu (Progressisti).? Torino. Antonio Raddi, detenuto morto nelle mani di uno Stato indifferente infoaut.org, 31 gennaio 2023 Questa mattina, al Centro Sereno Regis di Torino, si è tenuta, a due anni dalla sua scomparsa, la conferenza stampa della famiglia Raddi sulla drammatica vicenda occorsa ad Antonio, che nel carcere di Torino ha continuato a perdere peso fino alla morte. Visibilmente toccata, la Garante delle persone private della libertà personale, Monica Gallo, ha riassunto la vicenda gravissima e del tutto sconcertante: “È da quando ricopro questo ruolo che provo una grande rabbia. Ho fatto tutto quello che era nelle mie possibilità”. Incontra per la prima volta Antonio a giugno del 2019, stava bene. A luglio inizia a dimagrire. Il 7 agosto la Garante invia una nota all’ASL penitenziaria la quale il 20 agosto risponde che non è stata individuata alcuna criticità nel quadro clinico. Il 23 settembre la Gallo lo rincontra e nota un visibile peggioramento. Contatta i legali è scrive un’altra nota all’ASL, alla quale rispondono il 20 novembre dichiarando che “è strumentale”, ma che verrà disposto un ricovero. Il 3 dicembre Antonio non è ancora ricoverato, a quel punto la Garante scrive un’ennesima nota all’ASL per chiedere un ricovero urgente in “repartino” (reparto psichiatrico ospedaliero), dopo essersi preventivamente informata della diponibilità di posti in reparto. Il 4 dicembre lo vede personalmente, è in sedia a rotelle, Antonio le dice che ha vomitato sangue. A quel punto la Gallo si reca personalmente dal direttore del carcere per chiedere un ricovero urgente. Il 5 dicembre invia un’ulteriore nota all’ASL, al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, al Garante Nazionale e al Garante Regionale. Il 9 dicembre non riceve risposta dal carcere e invia un altro sollecito. Scopre poi che il 10 dicembre Antonio è stato ricoverato, ma per pochissime ore, all’ospedale Maria Vittoria perché aveva perso i sensi. Viene poi ricoverato in repartino, ma: “Antonio non ha più la forza e la consapevolezza di capire che quello poteva essere un percorso che probabilmente lo avrebbe aiutato. Non è stato supportato psicologicamente in questa scelta: ha firmato e dopo un’ora era di nuovo in carcere”. L’11 dicembre la Garante riceve una nota congiunta dall’ASL penitenziaria e dalla Direzione del carcere nella quale viene dichiarato che la situazione è sotto controllo. La Garante a quel punto fa intervenire l’Ufficio del Garante Nazionale, si recano in carcere per vedere Antonio: ha difficoltà ad esprimersi e sta sempre peggio. Il giorno successivo, 12 dicembre, interviene il Garante Nazionale chiedendo il ricovero: le condizioni di salute di Antonio sono incompatibili con la detenzione. Il 13 dicembre viene ricoverato ed entra in coma farmacologico. La diagnosi è chiara: è gravissimo, gli organi vitali sono compromessi. Morirà il 30 dicembre. Roma. Detenuto suicida in cella, agente sospeso per sei mesi Il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2023 Avrebbe dovuto vigilare un detenuto poi suicidatosi: un agente della polizia penitenziaria in servizio a Regina Coeli è stato raggiunto da una misura interdittiva di sospensione dal lavoro per sei mesi emessa dal Gip di Roma. Il 29 giugno un cittadino eritreo di 28 anni detenuto dal novembre del 2021, si è tolto la vita impiccandosi in cella. Le accuse sono di rifiuto di atti d’ufficio, morte in conseguenza di altro reato e falso. Il detenuto era in regime di ‘grandissima sorveglianza’ con obbligo di controlli ogni 15 minuti. Le verifiche hanno accertato che “il personale della polizia penitenziaria aveva omesso i dovuti controlli di sicurezza” e dopo il ritrovamento del cadavere “aveva cercato di coprire le omissioni falsificando il registro dei controlli”. Teramo. Carcere troppo affollato, detenuto risarcito con 11mila euro di Teodora Poeta Il Mattino, 31 gennaio 2023 Il grave sovraffollamento del carcere di Teramo è ormai da anni una delle doglianze più frequentemente sollevate dai sindacati della Polizia penitenziaria, ma a quanto pare lo è anche da parte di detenuti che contestano la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo. L’ultimo caso arriva da un ex detenuto nel carcere di Castrogno che lì, recluso, ha trascorso 1.376 giorni, dal 25 settembre 2017 al primo luglio 2021, al quale i giudici della sezione civile della Cassazione hanno riconosciuto la sua richiesta di risarcimento del danno subito, pari a 11mila euro, a causa delle condizioni di detenzione precarie e non dignitose, dichiarando inammissibile il ricorso del ministero della Giustizia. Reggio Calabria. Detenuti senz’acqua al carcere di Arghillà strill.it, 31 gennaio 2023 Il Garante Russo, Il direttore degli Istituti Penitenziari Carrà e il responsabile Sorical Berna, alla presenza dell’Ass. Capo Coord e Coord. Un. OP MOF Roberto Costantino e dell’Avv. Carmelo Lazzaro (uff. del Garante) si sono incontrati la scorsa settimana presso la sede istituzionale di Palazzo San Giorgio al fine di interloquire circa alcune problematiche idriche riscontrabili sin dall’apertura della Casa circondariale di Reggio Calabria, plesso Arghillà. Nel periodo natalizio per un guasto tecnico, la popolazione detenuta si era ritrovata senz’acqua. Il problema veniva risolto nell’arco delle 48h, ma si sa che un disservizio imprevedibile genera comunque all’interno di un istituto penitenziario tensioni maggiori per i ristretti. Le parti, esaminata la problematica ormai risolta, hanno anche valutato maggiore disponibilità di acqua potabile per singolo detenuto al fine di prevenire possibili criticità che si sono sempre presentate maggiormente nei mesi estivi. Il coordinatore MOF ed il geometra Berna hanno relazionato con specificità tecnica le necessità e le peculiarità del sistema idrico e le condotte, nonché di riserva dei pozzi che servono l’istituto di Arghillà. Il Direttore Carrà e la Garante Russo, nel merito delle loro competenze istituzionali si sono dichiarati soddisfatti del pronto intervento Sorical e soprattutto della disponibilità, competenze e umanità dimostrate per il futuro. Il direttore Carrà è sempre molto attento a che i possibili ed imprevedibili disagi che si manifestano, non comprimano i diritti fondamentali delle persone recluse. L’acqua è un bene primario fondamentale e l’assenza della stessa crea disagi rilevanti in termini di igiene e salubrità per la persona e per i luoghi, riscontrare attenzione e disponibilità concrete per la risoluzione del problema e per una attenta programmazione futura è un segno di grande civiltà a tutela dei diritti fondamentali di ogni singola persona. Chiosa la Garante. Milano. Il nuovo sportello “Detenuti e futuro”. Ecco la strada che porta a un lavoro di Massimiliano Saggese Il Giorno, 31 gennaio 2023 Carcere di Opera: presentato il servizio di Galdus, Afol e Regione per introdurre le persone recluse a un percorso di accompagnamento. Diego Montrone: “Recuperiamo professionalità utili alle imprese”. Presentato il nuovo sportello dedicato ai servizi del lavoro per i detenuti della casa circondariale. Una realtà nata dalla collaborazione di Galdus, scuola di formazione, con Afol Metropolitana e Regione Lombardia. Lo sportello rappresenta un nuovo modello integrato realizzato in linea con il programma Gol (Garanzia Occupabilità dei Lavoratori). “Nasce per introdurre le persone recluse all’interno della struttura di Opera in un percorso di accompagnamento volto al reinserimento lavorativo - spiega il presidente di Galdus, Diego Montrone -. Un servizio di cui gode già tutta la cittadinanza che grazie al Gol abbiamo garantito ai cittadini detenuti. Si tratta di un percorso che contribuisce alla ricostruzione della persona da inserire nel mondo del lavoro laddove c’è carenza di personale e forte richiesta di lavoratori. E quindi recuperiamo professionalità utili alle imprese da chi sta scontando una pena. Con questi partner si può avviare un servizio che in maniera continuativa possa promuovere azioni per il reinserimento lavorativo. “Questo servizio nella casa di reclusione di Opera - spiega Simone Cerlini, dirigente Divisione Lavoro di Afol Metropolitana - rientra a pieno titolo nel ruolo pubblico di Afolmet di accompagnare le persone in condizioni di svantaggio sociale al reinserimento lavorativo, e quindi anche le persone che sono sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria. La collaborazione con gli operatori privati che già hanno esperienza all’interno degli istituti penitenziari in area trattamentale è necessaria per garantire l’efficacia del servizio”. Roma. Lezioni di trucco per le detenute transgender di Rebibbia di Silvia Perdichizzi La Repubblica, 31 gennaio 2023 Tatiana, Melany, Daniela. Cronaca di un giorno di make-up nel carcere romano, insieme a una truccatrice professionista. “Oggi ci siamo sentite donne”. “Come in tutte le cose della vita, anche nel make-up si parte dalla base. E vi assicuro che una buona base fa un ottimo trucco”. Morena è una truccatrice televisiva e per un giorno si è messa a disposizione di modelle insolite. Siamo a Roma, nel carcere di Rebibbia, dentro il reparto “G8 nuovo complesso” dove il Venerdì ha potuto assistere a un evento unico: un tutorial live personalizzato sul make-up dedicato alle detenute transessuali. Lo ha organizzato l’associazione Seconda Chance (Sc), nata un paio di anni fa su spinta della giornalista Flavia Filippi per aiutare i detenuti nel percorso di reinserimento lavorativo. Sono una quindicina le detenute trans in attesa del loro turno. Quasi tutte sudamericane, tra i 25 e i 40 anni, dietro le sbarre per lo più per problemi di prostituzione e droga. Certo, ognuna di loro ha alle spalle una storia diversa. Ma condividono la stessa fatica. La vita transgender in carcere è molto difficile. Le detenute vivono all’interno del reparto maschile con altri 250 carcerati e sono sottoposte allo stesso regolamento. Ma sono confinate in una “sezione dedicata” per rispettare il principio di “non promiscuità”, come da indicazioni del ministero di Giustizia. Uno spazio di pochi metri quadrati che contiene cinque stanze per dormire, una per la scuola, una polivalente e una che dovrebbe servire per la socialità ma che in realtà viene usata per stendere i panni. E ancora: non possono svolgere attività ricreative se non previste esclusivamente per loro. Ipotesi quasi surreale in un sistema carcerario, quello italiano, privo di fondi e di strutture. Ultimo, ma non meno importante: parliamo di persone la cui esigenza di mostrare la propria identità sessuale, anche tramite trucchi, vestiti e accessori è vitale per la stabilità interiore. In permesso premio - Infatti oggi Melany è felice: “Questo è il massimo, sono senza parole”. A 15 anni andò via di casa perché la sua famiglia non accettava quella che lei chiama la sua “natura”, guardata con ostilità dal vicinato che aveva iniziato a ghettizzare lei e sua madre. Melany ha dietro le spalle una storia molto aspra di prostituzione, abusi e violenze di ogni tipo. Ha fatto un lungo percorso personale per uscire da un buio profondo che la spingeva a commettere atti autolesionistici. Ma ne è venuta fuori, e oggi si sente bella come il sole e vede l’opportunità del make-up come la “ciliegina sulla torta” in vista di domani. Un domani diverso da tanti altri perché ha ottenuto il suo primo permesso premio. Ora Morena chiede silenzio. Tutte si siedono e lo stanzone riservato all’evento cade in una tensione carica di emozione. Le detenute la ascoltano mentre racconta le origini del make-up e spiega le regole base di un buon trucco. “Dalla scelta del fondotinta al tipo di pennello, dalla spugnetta all’eyeliner, i trucchi variano secondo il tipo di pelle”. Poi, si cambia ritmo. E arriva il momento tanto atteso in cui dalla teoria si passa alla pratica. Ogni detenuta fa a gara con le altre per essere truccata per prima, come se tenere quel trucco per più tempo possibile significhi essere donne pienamente e più a lungo. È il turno di Raissa, 31 anni, brasiliana dalla carnagione chiara. “Cosa significa per me questo tutorial? Una novità senza dubbio, in un posto in cui passiamo le nostre giornate tra branda e corridoio. E poi un modo per sentirmi ancora più donna perché qui vigono le regole maschili e noi non facciamo eccezione”. Questo significa niente trucchi e niente biancheria intima per esempio, anche se negli ultimi tempi con l’ispettrice di reparto Cinzia Silvano le cose sono un po’ cambiate. “Questa giornata nasce anche per questo”, spiega Alessandra Ventimiglia, vicepresidente di Seconda Chance, che sottolinea come si tratti di “un’iniziativa innovativa mai fatta prima” e non nasconde il desiderio di organizzare un corso più strutturato che possa formare le detenute trans in future truccatrici. La sfilata di Raissa - Raissa si alza, si guarda e si riguarda allo specchio illuminato dalle tante lampadine, circondata dalle sue compagne. Passeggia come in una sfilata di moda. “Questo trucco non me lo tolgo finché posso”, esulta. Tocca a Tatiana, uruguayana ribelle, che è abituata a vivere per strada da quando aveva 13 anni e proprio da allora si sente una donna. Altro viso, altra pelle. “Si cambia fondotinta: dal beige1 al dark skin3”, spiega Morena. Una dopo l’altra sfoggiano tutte una sicurezza che, forse, non hanno mai avuto. Anche se Daniela, il viso sfregiato da una cicatrice, abbandona l’apparente spavalderia e sussurra: “Io però mi imbarazzo”. Melany sogna che il suo make-up fresco fresco duri almeno fino a domani, quando varcherà per la prima volta dopo quattro anni il cancello del nuovo complesso di Rebibbia. Non sa ancora che, con il permesso della direzione, Seconda Chance ha fatto una colletta tra amici per comprare dei trucchi che rimarranno lì, nel “reparto trans”. Tutti per loro. Gli espulsi che servono alla grande città di Mariangela Mianiti Il Manifesto, 31 gennaio 2023 Povertà e crescita, il quadro italiano è disastroso. Nei quasi 40 anni di vita a Milano, non mi era mai capitato di sentire la gente parlare di soldi come negli ultimi mesi. Giri per strada e senti brandelli di conversazione sui costi dell’affitto, delle bollette, degli elettrodomestici da cambiare, degli asili nido, dei libri per i figli, delle vacanze, della spesa. Sui mezzi, più di una volta ho sentito telefonate concitate, sempre di donne, che discutevano o litigavano con qualcuno per la mancanza di denaro. Una giovane, su un autobus, chiedeva a un amico se poteva vendergli un cellulare, vecchissimo, perché le servivano dei contanti per fare la spesa. Un’altra sui 35 anni si è lamentata, a voce altissima, per venti minuti perché le persone con cui conviveva la stavano mandando via dopo averla fregata sull’affitto. Un’altra ancora, di circa 30 anni, pochi giorni fa ce l’aveva con una parente che le chiedeva 60 euro “Ma lei - continuava a ripetere all’interlocutore - vive bene, lei ha la pensione, ha un figlio che lavora, e la nipote che guadagna quasi duemila euro al mese. Che li chieda a loro quei soldi. Io non li ho, io prendo 400 euro al mese, abbiamo dei debiti da pagare e proprio non possiamo aiutarla”. Questa è la grande Milano che incontri sui filobus, sugli autobus, nelle metropolitane che portano nelle periferie. È un mondo che fatica ad arrivare non alla fine del mese, ma a metà mese. Spesso, per riconoscere questa lotta con il denaro che non basta mai, non serve nemmeno sentire una telefonata, basta prendere un metrò e osservare le persone, gli occhi cerchiati dalla stanchezza, gli abiti e le scarpe sovente troppo leggeri o usurati. Salendo sui mezzi, sono due i sensi che ti dicono come vive la gente, lo sguardo e l’olfatto. Sì, l’olfatto, perché dagli odori si possono capire un sacco di cose e non necessariamente se le persone si lavano o no, ma dove e come vivono. Nelle ore di punta di giornate piovose, non è infrequente sentire uscire da giacche a vento e scarpe sentori di muffa e di umido. È il segno che gli abiti sono molto economici, che quello è l’unico cappotto o il solo paio di scarpe in dotazione, che le case di quelle persone sono poco riscaldate e, di conseguenza, la mattina dopo devono indossare quegli stessi vestiti anche se non si sono asciugati. Sui mezzi, nelle ore di punta, non trovi persone viziate, trovi gente che va al lavoro e a cui, è evidente, quel lavoro non permette di far fronte a tutti i bisogni di base. Il blog Moneyfarm ha calcolato quanto serve, in media, a una famiglia per vivere in comfort zone nella capitale lombarda. Tenendo conto di affitto, mezzi, alimentari, bollette, spese per la scuola dei figli, spese sanitarie, intrattenimento e un ristorante ogni tanto servirebbero circa 3.300 euro netti al mese. Se non li hai, non ti resta che andare in periferia o fuori città. Se prendiamo il salario medio di un ingegnere, una delle professioni più ricercate dal mercato, si va dai 26.500 euro lordi l’anno per un neolaureato a una forcella fra i 40 e i 50mila, sempre lordi, dopo dieci anni di esperienza. Divideteli per 12, e non arriverete ai famosi 3300 euro netti di cui parla moneyfarm, a meno che gli stipendi del genere non siano due. Figuriamoci come possono cavarsela un insegnante, un cameriere o un operaio. La Milano di oggi, come ogni metropoli, rappresenta la più spietata selezione di classe della cittadinanza, i benestanti dentro, gli altri che vadano in periferia, basta che tornino in centro ogni mattina, anche se hanno le scarpe che sanno di muffa, sennò poi come fanno quelli di dentro a mandare avanti la loro esclusiva città. Biotestamento, a 5 anni dalla legge (quasi) nessuno sa come funziona di Chiara Lalli Il Dubbio, 31 gennaio 2023 Lo sapete che potete rifiutare qualsiasi cura, trattamento o diagnosi? Certo, se siete maggiorenni e in grado di capire e di esprimere le vostre volontà, se non siete un pericolo per gli altri e se c’è il tempo di esprimere e di ascoltare. È così dalla Costituzione, o almeno dovrebbe essere perché poi il passaggio dal paternalismo alla possibilità di decidere non è stato facile - non è mai facile quando ci sono il potere e la convinzione di sapere qual è il bene altrui - e siamo ancora con un piede affondato nella palude del passato. Però negli anni le norme e le abitudini si sono adattate, anche se faticosamente. E l’ultima legge che riguarda la nostra libertà compie 5 anni. Si chiama “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” ed è entrata in vigore il 31 gennaio 2018. È una legge che ha fatto il riassunto delle puntate precedenti, niente di rivoluzionario, ma quel riassunto lo ha fatto bene e ha ribadito alcuni principi ovvi ma trascurati e ne ha esplicitati altri meno ovvi (ci potevamo arrivare ma è sempre meglio rischiare di essere ripetitivi). È anche un augurio che il consenso informato non sia solo una procedura burocratica ma davvero un tempo dedicato alla premessa necessaria per esercitare la nostra libertà: avere le informazioni e capirle. A questo proposito è importante che nella legge ci sia scritto che “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”. O che si ribadisca che sono libera anche di interrompere un trattamento, mica solo nella fase iniziale per poi infilarmi in una trappola (ve lo ricordate Piergiorgio Welby, con un respiratore che era diventato una infernale condanna perché la vita è sacra?). O ancora che ho diritto di non provare dolore. E poi che le mie volontà di oggi possono essere valide anche per il futuro, in un momento in cui potrei non essere più in grado di esprimerle, ecco perché disposizioni anticipate. Posso quindi oggi scrivere che cosa voglio e che cosa non voglio (trattamenti che considero invadenti o cui non voglio essere sottoposta perché sono affari miei, nutrizione e idratazione artificiali, accertamenti diagnostici) e questa mia volontà avrà valore se e quando non sarò più autocosciente e capace di avere una preferenza. È un modo per prolungare il mio consenso informato, quel consenso che firmiamo per un intervento o per un trattamento e che in genere copre alcune ore. Insomma quella capacità di esprimere le nostre volontà sulla nostra salute viene proiettata nel futuro, proprio come facciamo con i nostri beni in un testamento (ecco perché le DAT si chiamano anche testamento biologico). Naturalmente possiamo cambiare idea in qualsiasi momento, modificare delle disposizioni specifiche o buttare l’intero testamento biologico perché non vogliamo decidere. Come ogni libertà, possiamo esercitarla oppure no. Fin qui tutto bene. Però mancano almeno due cose per fare di una buona legge sulla carta una buona legge davvero: una campagna istituzionale informativa e i dati completi, aggiornati e in formato aperto di cosa è successo in questi 5 anni. A entrambe le cose ha provato e prova a rimediare l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica - senza che questo ovviamente diminuisca la responsabilità politica del disinteresse e della sciatteria. In particolare in questa settimana il numero bianco (06 99313409), dedicato alle cure palliative, all’eutanasia e alla interruzione dei trattamenti, concentrerà gli sforzi proprio nello spiegare a cosa servono le disposizioni anticipate e a rispondere alle domande. In questi mesi, poi, l’Associazione, alcuni volontari e le cellule locali hanno mandato ai comuni una richiesta di accesso agli atti per sapere quante direttive anticipate sono state depositate e quante sono state inviate alla banca dati nazionale. Quello che sappiamo con certezza - per quanto con un po’ di approssimazione - è che sono pochissime le persone ad aver compilato un testamento biologico in questi anni. Ovviamente non possiamo inferire che è perché non sanno di poterlo fare, magari non vogliono, sono convinte che non ne avranno mai bisogno o che pensare alle malattie e alla morte porti sfortuna. Oppure hanno provato a mandare la videoregistrazione, seguendo le specifiche tecniche indicate nel sito del Ministero della salute. Tra queste ci sono le seguenti indicazioni: “Il file video deve essere codificato utilizzando uno dei seguenti codec: H264/ H265; la lunghezza minima del lato corto del frame deve essere maggiore o uguale ai 240 pixels; la lunghezza massima del lato lungo del frame non deve eccedere gli 800 pixels; il rapporto di aspetto (Ratio) del frame video deve essere compreso tra 4/3 e 21 9; il bitrate del file video deve essere compreso tra i 100 kbps e i 1000 kbps”. Ci siete riusciti? Migranti detenuti sottocoperta per facilitare i respingimenti dell’Italia verso la Grecia La Repubblica, 31 gennaio 2023 Prigioni galleggianti per adulti e bambini. Come i richiedenti asilo sono tenuti in prigioni segrete su navi-traghetto per facilitare i respingimenti illegali. La denuncia del sito d’inchieste Lighthouse Reports, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e Human Rights Watch. Mentre chi sta in vacanza sorseggia birra fresca e cocktail sul ponte di un traghetto passeggeri, una situazione molto diversa si vive sottocoperta. Nelle parti basse della nave spesso ci sono persone, compresi bambini, incatenate e rinchiuse in luoghi bui. Questa è la pratica di respingimento meno conosciuta in Europa, in cui le prigioni segrete su navi private vengono utilizzate per riportare illegalmente i richiedenti asilo da dove sono venuti. Lo si apprende da Lighthouse Reports, organizzazione senza scopo di lucro con sede nei Paesi Bassi che conduce complesse indagini transnazionali combinando metodi giornalistici tradizionali, come la libertà di richiesta di informazioni, con tecniche come l’intelligence open source. “Il giornalismo investigativo - si legge nel sito di Lighthouse Reports - aiuta le persone a navigare nella complessità”, denunciando verità e garantendo trasparenza. “Siti neri”, per vietare di chiedere asilo. La negazione sistematica del diritto di chiedere asilo alle frontiere terrestri dell’UE è stata ben documentata negli ultimi anni. L’anno scorso, Lighthouse Reports e altri suoi partner hanno rivelato l’esistenza di “siti neri” - luoghi di detenzione clandestini - dove a rifugiati e migranti viene negato il diritto di chiedere asilo e imprigionati illegalmente prima di essere respinti. Ciò che ha ricevuto meno attenzione è la negazione illegale dell’opportunità di chiedere asilo alle frontiere all’interno dell’UE e i brutali respingimenti che hanno luogo tra gli Stati membri - in particolare dall’Italia alla Grecia - in mare. I respingimenti in Italia continuano. Si è dunque scoperto che i richiedenti asilo, compresi molti bambini, sono detenuti in carceri non ufficiali - sotto forma di scatole di metallo e stanze buie - a volte per più di un giorno nelle viscere delle navi passeggeri sulle rotte Italia-Grecia, come parte dei respingimenti illegali da parte delle autorità italiane. Nel 2014, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che l’Italia aveva rimpatriato illegalmente richiedenti asilo in Grecia in questo modo, negando loro la possibilità di presentare domanda di protezione. Otto anni dopo, nonostante le autorità italiane abbiano ripetutamente affermato che questa pratica non si è fermata, abbiamo scoperto che continua a pieno regime. I metodi usati. Lighthouse Reports, in collaborazione con giornali e organizzazioni umanitarie ha ottenuto fotografie, riprese video e testimonianze che rivelano come le persone che rischiano la vita nascondendosi sui traghetti diretti ai porti adriatici italiani di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi, nella speranza di chiedere asilo, si vedono negare l’opportunità di farlo. Vengono invece trattenuti al porto prima di essere rinchiusi sulle navi su cui sono arrivati e rispediti in Grecia. Nella prima prova visiva di questo tipo, ottenuta durante numerosi viaggi di reportage tra l’Italia e la Grecia su navi commerciali di proprietà del gigante greco dei traghetti Attica Group, sono state catturate le immagini dei siti utilizzati per trattenere i richiedenti asilo su queste navi, a volte ammanettati, e deportati illegalmente. Si è in particolare scoperto che su un traghetto, chiamato Asterion II, le persone sono rinchiuse in un ex bagno con docce e servizi igienici rotti, assieme a due materassi. I nomi e le date dei detenuti sono scarabocchiati sui muri in diverse lingue. Esistono prove visive di questa stanza, ottenute con una piccola telecamera attraverso il buco della serratura, che corrispondono alle descrizioni fornite dai richiedenti asilo. Sulle navi Superfast I° e Superfast II°. Su un’altra nave commerciale, denominata Superfast I, le persone sono trattenute in una scatola di metallo con un tetto a gabbia nel locale garage su uno dei ponti inferiori. Diventa estremamente caldo qui durante i mesi estivi. E’ stata visitata la stanza e girato filmati e foto. Corrisponde alle descrizioni dei richiedenti asilo. C’è solo un pezzo di cartone sul pavimento. Un richiedente asilo afghano racconta di essere stato trattenuto in questo luogo: “È una stanza lunga 2 metri e larga 1,2 metri. È una piccola stanza […] Hai solo una bottiglietta d’acqua e niente cibo […] Dovevamo stare in quella piccola stanza all’interno della nave e accettare le difficoltà. Su un terzo traghetto, il Superfast II, i richiedenti asilo sono tenuti in una stanza dove vengono ritirati i bagagli. Un uomo afghano è riuscito a farsi un selfie mentre era ammanettato a tubi di metallo. Siamo andati nello stesso punto e abbiamo ripreso il filmato, che corrisponde all’ambiente circostante nell’immagine del selfie. Tra i detenuti ci sono bambini. Sono stati verificati tre casi in cui minori di 18 anni sono stati rimpatriati via traghetto dall’Italia alla Grecia secondo il metodo appena descritto. Un ragazzo afghano di 17 anni - il suo nome è Baloosh - ha detto: “Mi hanno rispedito in Grecia in barca, illegalmente. Non mi hanno chiesto nulla della mia richiesta di asilo o altro”. Oltre alle testimonianze e alle prove visive, c’è conferma, da parte di un certo numero di membri dell’equipaggio, del fatto che questi luoghi venivano utilizzati per trattenere i richiedenti asilo, in procinto di essere rimpatriati in Grecia. Inoltre, esperti legali e ONG hanno ulteriormente confermato i risultati, affermando di aver ascoltato un gran numero di segnalazioni di queste pratiche, che si sono verificate negli ultimi anni. La trama. In base a un accordo bilaterale di “riammissione” tra il governo italiano e quello greco - che è in vigore dal 1999 nonostante non sia stato ratificato dal Parlamento italiano - l’Italia è in grado di rimpatriare i migranti privi di documenti arrivati dalla Grecia. Tuttavia, questo non può essere applicata ai richiedenti asilo. Si è anche scoperto che i richiedenti asilo dall’Afghanistan, dalla Siria e dall’Iraq sono stati sottoposti a questo trattamento negli ultimi 12 mesi. I dati forniti dalle autorità greche mostrano che centinaia di persone sono state colpite negli ultimi due anni, con 157 persone rimpatriate dall’Italia in Grecia nel 2021 e 74 nel 2022, anche se gli esperti ritengono che non tutti i casi siano documentati. Le violazioni di tutte le regole. Dopo la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) del 2014, l’Italia ha più volte affermato che questa pratica è cessata e ha spinto affinché il monitoraggio ufficiale dei suoi processi di frontiera nel porto - che erano stati messi in atto a seguito della sentenza Cedu - venisse interrotto sulla base del fatto che le violazioni non si verificano più. L’avvocato italiano per l’immigrazione Erminia Rizzi ha detto che questi rimpatri forzati avvengono “spesso” e vedono i richiedenti asilo, compresi i minori, “impediti nell’accesso al territorio, in violazione di tutte le regole e con procedure informali”. Wenzel Michalski, direttore di Human Rights Watch Germania, ha sollevato la questione della complicità dell’UE, affermando che i risultati hanno mostrato come “l’Europa si sia permessa di tollerare tali circostanze”.