Alfredo Cospito al 41 bis, ora tocca a Nordio la decisione: le possibili soluzioni per l’anarchico di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 30 gennaio 2023 Il ministro della Giustizia in attesa del parere dei magistrati anti terrorismo. Sul tavolo del ministro della Giustizia Carlo Nordio è ferma, dal 12 gennaio, un’istanza di revoca del “carcere duro” nei confronti del detenuto Alfredo Cospito, presentata dal suo avvocato Flavio Rossi Albertini. Il Guardasigilli è in attesa del parere della Procura antiterrorismo di Torino e della Direzione nazionale antiterrorismo per poi prendere una decisione: l’unica eventuale via d’uscita dal “41 bis” che lui può imboccare sull’anarchico che ha superato il centesimo giorno di sciopero della fame. Le altre, quella giudiziaria e quella sanitaria, riguardano rispettivamente la Corte di cassazione e i medici che vigilano sulla salute sempre più deteriorata dalle modalità della protesta. Il 10 gennaio scorso Nordio, oltre a confermare che la situazione dell’anarchico è costantemente “monitorata con la massima attenzione”, aveva comunicato di non aver ricevuto alcuna richiesta di revoca del “regime speciale” applicato il 4 maggio 2022 dalla ex ministra Marta Cartabia, su richiesta dei magistrati di Torino e della Procura nazionale. Tempo due giorni e l’avvocato Rossi Albertini ha “colto la sollecitazione”, presentando la sua istanza sulla base di un “elemento nuovo”, sopraggiunto dopo verdetti e ricorsi. La nuova sentenza - Si tratta della motivazione di una sentenza della Corte d’assise di Roma che ha assolto alcuni imputati anarchici dal reato di “associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico”. In quel processo l’accusa aveva evidenziato il ruolo di Cospito che, dal carcere, forniva indicazioni ai compagni in libertà per compiere attentati; il suo “disegno strategico avrebbe costituito spirito propulsore nell’affermazione del metodo di lotta violenta perseguita dalla casa madre anarco-insurrezionalista Fai (Federazione anarchica informale)”. Il “41 bis”, applicato per la prima volta a un detenuto non mafioso o terrorista conclamato (come 3 brigatisti di ultima generazione, tornati in azione tra il 1999 e il 2002), è fondato anche su queste considerazioni. Insieme alla corrispondenza tra Cospito e un coimputato sulla necessità di reagire con azioni violente “ai colpi che la repressione ci infligge”. Ora però la sentenza prodotta dal legale dell’anarchico ha stabilito che quello scambio epistolare “non evidenzia alcuna pretesa del Cospito di imporre all’esterno un pensiero unico sul concetto di azione armata e distruttrice, né sono obiettivamente rintracciabili direttive che in tal senso egli fornisca dal carcere”. Tantomeno, aggiungono i giudici ci sono “risposte adesive e di concreta attuazione di un tale metodo di lotta comunicato dal Cospito ai compagni all’esterno”. La stessa sentenza smentisce pure - nella lettura del difensore - l’idea di un’organizzazione che risponde a un capo o a un gruppo dirigente. Scrivono infatti i giudici: “È rimasto assolutamente indimostrato che gli imputati abbiano “sposato” il metodo di lotta violenta, armata, distruttiva, che ispira le azioni della Fai, operando quale “cellula” o gruppo criminale assai vicino all’organizzazione terroristica”. Gli attentati commessi sarebbero piuttosto “espressione del pensiero politico ideologico più vicino al fenomeno “dell’antagonismo sociale”, sicuramente privo di qualunque connotazione e valenza terroristica”. Valutazioni che, secondo l’avvocato Rossi Albertini, fanno venir meno il presupposto del “carcere duro” inflitto al suo assistito. E con le quali dovrà confrontarsi il ministro dopo aver ricevuto i pareri dei magistrati antiterrorismo. La Cassazione - L’altra strada aperta è quella giudiziaria. Giunta all’ultimo gradino: il prossimo 7 marzo la Corte di Cassazione dovrà pronunciarsi sul ricorso presentato dal legale di Cospito contro il verdetto del tribunale di sorveglianza che a dicembre ha confermato il decreto ministeriale. L’avvocato lamenta che i giudici non sono entrati nel merito del reclamo da lui proposto, limitandosi a “riprodurre ed ampliare le argomentazioni del decreto ministeriale”. È un iter comunque lungo, perché se pure dovesse annullare l’ordinanza, la Cassazione rimanderebbe probabilmente gli atti alla Sorveglianza per una nuova decisione. Sul fronte sanitario, invece, spetta ai medici del carcere stabilire se le strutture del penitenziario di Sassari sono in grado di garantire la sopravvivenza del detenuto, le cui condizioni si fanno di giorno in giorno più critiche. Indipendentemente dal “regime speciale”. Se la situazione dovesse peggiorare, il trattamento sanitario obbligatorio, con l’alimentazione forzata o altri trattamenti, sarebbe possibile solo nel caso in cui il detenuto dovesse perdere conoscenza. Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha già chiesto il trasferimento in una struttura in grado di garantire eventuali interventi urgenti, che a Sassari non sarebbero possibili. La decisione tocca all’Amministrazione penitenziaria, che però si affida a sua volta al giudizio dei medici. Il ricorso o l’intervento di Nordio: così il carcere duro è revocabile di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 30 gennaio 2023 Cartabia l’ha disposto nel 2022, la Cassazione si esprime il 7 marzo. Il ministro può agire prima. Il regime detentivo speciale chiamato 41 bis (la norma dell’ordinamento penitenziario che lo prevede) riguarda i detenuti anche in fase cautelare per reati di mafia a terrorismo. Il rigido isolamento - cella singola, poca socialità con altri detenuti, video sorveglianza, azzeramento dei contatti con l’esterno, un solo colloquio mensile ma dietro al vetro - serve a evitare che continuino ad avere contatti con l’associazione criminale. Il 41 bis viene disposto dal ministero della Giustizia, sia di propria iniziativa che su sollecitazione di altre istituzioni (Procure, Viminale). Il decreto è revocabile dal ministro in ogni momento, anche di propria iniziativa. Il decreto vale quattro anni, salvo proroghe. Il detenuto può fare ricorso al tribunale di sorveglianza e poi alla Cassazione per l’annullamento del decreto, nonché chiedere allo stesso ministro di revocarlo. Se il ministro non decide entro trenta giorni, il suo silenzio vale come conferma del 41 bis. Alfredo Cospito è un esponente della Fai-Fri (Federazione anarchica informale-Fronte rivoluzionario internazionale), ritenuta dai giudici di Torino un’associazione terroristica. Ha già una condanna definitiva a dieci anni e otto mesi per aver sparato alle gambe a Roberto Adinolfi, dirigente della Ansaldo Nucleare, il 7 maggio 2012; un altro processo è in corso per l’attentato esplosivo alla scuola Allievi Carabinieri di Fossano, il 3 giugno 2006. Dopo l’iniziale condanna a 20 anni, la Cassazione ha aggravato l’imputazione in strage politica e la Procura generale di Torino ha chiesto l’ergastolo, ma il processo è sospeso in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale. Nel frattempo il 4 maggio 2022 l’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia ha disposto il 41 bis. Per corroborare l’attualità e la pericolosità dei suoi contatti con l’esterno, il decreto richiama cinque attentati compiuti tra il 2016 e il 2022 e rivendicati come Fai da 5 sigle diverse; nonché le indagini delle Procure di Roma e Perugia, “nelle quali sarebbero emerse due realtà associative in stretta connessione con Cospito (il centro sociale Bencivenga Occupato di Roma e il Circolaccio Anarchico di Spoleto, ndr)”. Nei mesi scorsi il tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato un primo ricorso di Cospito, confermando il 41 bis. Flavio Rossi Albertini, avvocato di Cospito, si è rivolto sia alla Cassazione (per l’annullamento giudiziario) sia al ministro Nordio (per la revoca amministrativa). Obietta “l’inattualità dell’associazione in relazione alla quale Cospito ha riportato la condanna, ossia la non perdurante vitalità della stessa”, nonché la “sproporzionata attivazione del 41 bis”. E si fa forza “come elemento di novità” delle motivazioni della Corte di Assise di Roma “che ha assolto gli imputati escludendo categoricamente l’esistenza presso il centro sociale Bencivenga di una cellula ritenuta affiliata alla Fai”. Dunque, ragiona l’avvocato, se la cellula terroristica non esiste, come dicono i giudici, come si può sostenere che Cospito ne sia “l’ideologo propugnatore” e “ispiratore strategico” dal carcere? A proposito del carteggio tra un imputato e Cospito, “esponenti anarchici di generazioni diverse”, la Corte romana scrive che “un esame complessivo del lungo confronto ideologico non evidenzia alcuna pretesa di Cospito di imporre all’esterno un pensiero unico sul concetto di “azione” quale azione armata e distruttrice, né sono obiettivamente rintracciabili direttive che in tal senso egli fornisca dal carcere al giovane anarchico, tantomeno risposte adesive e di concreta attuazione di un tale metodo di lotta che vengano comunicate dal Cospito ai compagni all’esterno”. Anche a Perugia il gip “ha rigettato il teorema accusatorio della Procura circa l’esistenza di un’associazione terroristica affiliata alla Fai al Circolaccio Anarchico di Spoleto, respingendo anche la presunta intima connessione, dal punto di vista ideologico, con la figura di Cospito”. Secondo l’avvocato di Cospito, queste novità hanno “valenza scardinante del decreto ministeriale” perché gli anarchici con cui Cospito è in contatto “non solo non fanno parte della medesima associazione di Cospito, ma non fanno parte di alcuna associazione”. Inoltre i cinque recenti attentati valorizzati ai fini del 41 bis utilizzano “il metodo Fai” come un marchio a licenza libera, ma non sono riconducibili “all’associazione Fai che ha smesso di operare nel 2012”. La Cassazione deciderà il 7 marzo. Nel frattempo la palla è nelle mani di Nordio. Che potrebbe chiedere pareri agli organi investigativi, nonché alla Procura nazionale antiterrorismo. Cosa che non risulta abbia fatto. Cospito è inoltre in condizioni di salute infragilite dallo sciopero della fame per protesta contro il 41 bis avviato il 20 ottobre. A oggi ha perso 40 chili. Di per sé, le condizioni di salute non c’entrano con il 41 bis. Ma possono costituire un argomento di tipo umanitario, e infatti vengono evocate nell’istanza al ministro. Tema assai delicato perché non esistono precedenti. Sulla compatibilità della salute di Cospito con il carcere (e non solo con il 41 bis) potrebbe pronunciarsi anche il tribunale di sorveglianza Sassari, dov’è detenuto, disponendo la sospensione della pena. Ma la questione è ugualmente controversa, perché non esiste una regola specifica se il peggioramento della salute è dovuto a una condotta volontaria del detenuto. Faccenda delicata. Tanto più per il contesto politico. Quale giudice si assumerebbe la responsabilità di una forzatura senza una “copertura” politica? Alfredo Cospito, molotov e minacce. Palazzo Chigi avverte: no a patti con chi agisce così di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 30 gennaio 2023 Due bottiglie incendiarie contro un commissariato di polizia a Roma Lettera con proiettili al Tirreno e al procuratore generale Saluzzo. Un corteo non autorizzato a Trastevere, intorno a mezzanotte e mezza, contenuto dalla polizia con due cariche di alleggerimento, finito con un agente ferito con una bottiglia alla testa (prognosi di 10 giorni) e 41 denunciati. Un secondo round alle 2, con due molotov lanciate nel parcheggio di un commissariato al Prenestino. Un’altra lettera con un proiettile, dopo quella recapitata al Pd di Torino Saluzzo, inviata al direttore del Tirreno, Luciano Tancredi, con su scritto: “Se Cospito muore i giudici sono tutti obiettivi, 2 mesi senza cibo fuoco alle galere”. Sale di livello la protesta contro il regime di 41 bis per l’anarchico - condannato per la gambizzazione del dirigente Ansaldo Roberto Adinolfi e il fallito attentato con due bombe alla Scuola Allievi Carabinieri di Fossano - che da 102 giorni rifiuta il cibo e si nutre solo di integratori. Visitato tre volte al giorno da medici differenti, nessuno ne ha riscontrato finora condizioni incompatibili con il carcere. Anche ieri ha partecipato alla socialità con altri tre detenuti e i sanitari non individuano la necessità di trasferirlo nel vicino ospedale. Ma il suo medico di fiducia Angela Milia denuncia un ulteriore calo di peso (da 117 chili è sceso a 74) e “valori di potassio molto bassi: abbiamo aumentato la terapia per evitare aritmia e fibrillazione. Va trasferito”. “Lo Stato non scende a patti con chi minaccia” scrive il governo in una nota. E aggiunge: “Azioni del genere non intimidiranno le istituzioni. Tanto meno se l’obiettivo è quello di far allentare il regime detentivo più duro per i responsabili di atti terroristici”. “L’esecutivo sembra fermo al sequestro Moro. Qui non si discute se cedere alle pressioni ma se ricorrono le condizioni per mantenerlo al 41 bis”, ribatte il legale Flavio Rossi Albertini. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma, sulla base dei pareri medici, ha ritenuto di sì. Il reclamo presentato in Cassazione è stato anticipato al 7 marzo. Il Guardasigilli Carlo Nordio fa sapere di seguire con “la massima attenzione” il caso, sul quale martedì riferirà in commissione Giustizia alla Camera. E ricorda che spetta all’autorità giudiziaria disporre una sospensione della pena o chiedere al ministro una revoca del regime speciale mirato a interrompere i rapporti fra il detenuto e il gruppo di appartenenza. “Lo Stato non si lascerà mai intimidire e condizionare da queste azioni del tutto inaccettabili”, rincara il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, convinto che “nessuna rivendicazione o proposta possa essere presa in considerazione se portata avanti con questi metodi, ancor più se rivolti contro le forze dell’ordine”. Rivendica la “massima fermezza a respingere ogni tentativo di intimidazione e violenza, e attenzione a non sottovalutare alcun episodio violento” il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro rimarca: gli attentati di questi giorni “sono la prova più evidente della necessità di mantenere il 41 bis”. Chiede invece di trasferire Cospito in un centro clinico il verde Angelo Bonelli. E il dem Walter Verini avverte: “Bisogna evitare che un carcerato come Cospito muoia in carcere”. Il Governo decide di colpire Cospito per educarne cento di Gabriella Cerami huffingtonpost.it, 30 gennaio 2023 “Lo Stato non scende a patti con chi minaccia”. La reazione dell’esecutivo all’escalation della minaccia anarchica avviene alzando il livello di sicurezza delle sedi diplomatiche e affermando la linea dura: “Non ci faremo intimidire, tanto meno se l’obiettivo è allentare il carcere duro ai terroristi”. Il medico lancia un nuovo allarme per la salute del detenuto. “Lo Stato non scende a patti con chi minaccia”. Palazzo Chigi dirama una nota per assicurare agli anarchici che se attraverso gesti intimidatori pensano di aprire uno spiraglio affinché venga rivisto il regime carcerario di Alfredo Cospito troveranno un muro. Il Governo sta innalzando il livello di sicurezza delle sedi diplomatiche e terrà la linea dura contro gli autori di gesti violenti. Prima Palazzo Chigi, poi il Viminale, condannano l’escalation di violenze e assicurano che non si faranno intimidire. “Tanto meno se l’obiettivo è quello di far allentare il regime detentivo più duro per i responsabili di atti terroristici” afferma la presidenza del Consiglio. Non c’è spazio per la revoca del 41 bis per Alfredo Cospito, nonostante le gravi condizioni di salute a seguito di un prolungato sciopero della fame richiederebbero il trasferimento in una struttura idonea, richiesta avanzata con urgenza anche dal Garante dei detenuti. Cospito è detenuto in regime di carcere duro a Sassari per avere gambizzato nel 2012 Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare. In carcere è stato accusato anche di aver piazzato due ordigni a basso potenziale vicino la Scuola allievi carabinieri di Fossano (Cuneo), nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006, che non ha provocato vittime o feriti. Il medico di Alfredo Cospito lancia un ulteriore allarme sulle condizioni di salute del detenuto, che “ ha valori di potassio molto bassi e ha perso un ulteriore chilo, ora pesa 73 kg. Abbiamo aumentato la terapia per evitare aritmia e fibrillazione cardiaca che potrebbero essergli fatali. Va trasferito in una struttura adeguata”. Una nuova visita medica è prevista per il 2 febbraio. Il legale che difende l’anarchico, Flavio Rossi Albertini, afferma inoltre che il governo “sembra fermo a marzo del 1978, qui non si discute se cedere alle pressioni ma se ricorrono le condizioni per sottoporre e mantenere Alfredo Cospito al 41 bis. Non è una questione di muscoli, ma di diritto”. Dentro e fuori i confini italiani l’escalation di matrice anarchica si arricchisce giorno dopo giorno di atti dimostrativi e violenti. Prima ad Atene quando il 2 dicembre scorso fu data alle fiamme l’auto della diplomatica Susanna Schlein, sorella della candidata alla segreteria del Pd Elly Schlein. A fine dicembre poi era stata inviata una lettera contenente un proiettile al procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, colui che ha chiesto l’ergastolo per Cospito. Il clima si è fatto sempre più incandescente finché nella notte tra venerdì e sabato sono stati portati altri due attacchi contro la diplomazia italiana a Barcellona e a Berlino. Tutti di chiara matrice anarchica. Altre azioni si sono segnalate in questi mesi a Bari, Cagliari, Napoli, Milano, Bologna e Torino, dove sabato è stato bruciato un ripetitore sulla collina. Le manifestazioni sono arrivate anche nella Capitale. Una molotov è stata lanciata nella notte contro il distretto di polizia Prenestino a Roma, mentre scontri tra forze dell’ordine e manifestanti si sono verificati durante un corteo a Trastevere, con 41 persone denunciate. Di oggi la notizia di una busta con un proiettile indirizzata al direttore del quotidiano Il Tirreno, Luciano Tancredi, che contiene anche minacce ai magistrati: “Se Alfredo Cospito muore i giudici sono tutti obiettivi. Due mesi senza cibo. Fuoco alle galere”. Il messaggio firmato con una A maiuscola. La risposta di Palazzo Chigi fa il paio con il comunicato del Viminale, in cui si afferma che “lo Stato non si lascerà mai intimidire e condizionare da queste azioni del tutto inaccettabili, nella convinzione che nessuna rivendicazione o proposta possa essere presa in considerazione se viene portata avanti col ricorso a questi metodi, ancor più se rivolti contro le forze dell’ordine”, scrive il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi esprimendo “solidarietà” alle forze di polizia che “fronteggiano” chi “immagina di utilizzare la minaccia e la violenza come metodo di condizionamento delle istituzioni”. Piantedosi, spiega il Viminale, è in costante contatto con il capo della Polizia Lamberto Giannini e in settimana terrà un incontro con i vertici e gli esperti dell’intelligence per analizzare quanto accaduto negli ultimi giorni. L’obiettivo è studiare quali possono essere gli obiettivi sensibili e decidere come agire. Intanto, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, intervistato su Raitre nel corso di “Mezz’ora in più” segnala che la Farnesina ha “reagito sin dall’inizio, elevando la sicurezza in tutte le ambasciate italiane nel mondo”. Al tempo stesso, “polizia e elementi della Guardia di finanza impegnate nel contrasto alla criminalità internazionale collaborano con le polizie dei Paesi ospitanti per un adeguato scambio di informazioni”. Il ministro si dice “convinto che la rete sia stata messa in sicurezza, ma che è bene comunque non abbassare la guardia”, perché, pur senza “esagerare nell’allarme”, è importante tutelare la sicurezza delle persone che lavorano nelle sedi diplomatiche senza cedere alle richieste degli anarchici. Democrazia e media, le altre tragedie del “caso Cospito” di Christian Raimo Il Domani, 30 gennaio 2023 Il “caso Cospito” come da qualche giorno viene raccontato sui media è un prisma di tragedie diverse. La prima è quella che riguarda il suo stato di salute, di cui sappiamo quello che ha riferito la dottoressa Angelica Melia, l’unica che lo può visitare, giovedì scorso: le condizioni sono sempre più critiche, non riesce più a termoregolare il suo corpo, per riscaldarsi ha provato a fare una doccia ma è scivolato e si rotto il naso perdendo sangue. Ci sarà una nuova visita. Il carcere di Bancali non ha un centro medico, e dovrebbe quantomeno essere trasferito. La seconda tragedia riguarda la reazione della politica: le due battaglie radicali che Alfredo Cospito sta portando avanti contro il regime del 41 bis e l’ergastolo ostativo ricevono nel migliore dei casi parole di solidarietà per le implicazioni umane. Il largo mondo dei liberali e garantisti, tra i quali sembrava essere assoldato anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio, si è incaponito in uno scontro sulla diffusione delle intercettazioni dopo aver discusso confusamente per settimane di antimafia a partire dall’arresto di Matteo Messina Denaro. La reazione della politica - La terza tragedia riguarda la reazione della politica alle mobilitazioni non solo degli anarchici a sostegno di Cospito: una repressione preventiva che sabato è culminata con l’intervento durissimo da parte della polizia - centinaia di agenti - contro un innocuo gruppetto di manifestanti disarmati che ha finito per rifugiarsi in un garage per aver testimoni, e con una nota di palazzo Chigi che sembra uscita da un’altra epoca: “Gli attentati compiuti contro la nostra diplomazia ad Atene, Barcellona e Berlino, come pure quello di Torino, le violenze di piazza a Roma e Trento, i proiettili indirizzati al direttore del Tirreno e al procuratore generale Francesco Saluzzo, la molotov contro un commissariato di polizia: azioni del genere non intimidiranno le istituzioni. Tanto meno se l’obiettivo è quello di far allentare il regime detentivo più duro per i responsabili di atti terroristici. Lo stato non scende a patti con chi minaccia”. Quelli che vengono definiti attentati sono atti che si possono considerare deplorevoli, ma che si fatica davvero a definire attentati: contro le cose, hanno prodotto danni lievi. La polvere pirica per fare questi “attentati” è quella usata nei raudi che si lanciano a Capodanno. Come dimostrato in un’infinità di recenti processi finiti, per gli anarchici gli “attentati” decadono in sede giudiziaria o vengono derubricati a “danneggiamenti”; il reato di devastazione e saccheggio e strage è stato attribuito solo a Cospito (e tra l’altro rimodulato dalla Cassazione, non dalla corte d’Appello). Salviamo Cospito e cambiamo il carcere duro - La quarta tragedia riguarda la reazione della stampa: l’indifferenza plateale dei mesi scorsi si è trasformata in questi giorni in un allarme completamente inventato. La notizia prima è stata ridotta a un caso di cronaca locale, nonostante per ritrovare uno sciopero della fame in carcere così lungo e radicale in un paese occidentale dobbiamo riandare al militante dell’Ira Bobby Sands, ossia al 1981, sperando che non sia identico anche l’epilogo - Bobby Sands e altri suoi compagni morirono in carcere - oppure riconoscendo che chi sosteneva quella lotta, come il Sinn Fein, oggi è al governo in Irlanda. Poi è diventato un allarme internazionale, mentre i report sulle “organizzazioni anarchiche” sono molto datati e contraddittori, come può capire chiunque sappia un minimo di anarchismo: le organizzazioni anarchiche non possono essere definite tali, o al massimo possiamo concepirle con il quasi ossimoro di “organizzazioni informali”. Opinione pubblica intossicata - Chiunque abbia visto i presìdi per Cospito a Roma si è fatto un’idea sia della non minacciosità dei manifestanti sia dei tentativi di provocazione da parte delle forze di polizia che spesso consistono nel ridurre o nell’eliminare la possibilità di manifestare. Sabato, a cinquanta metri dall’operazione di polizia in grande stile che ha tenuto per tre ore poche decine di anarchici asserragliati in un garage per identificarli e portarli in questura, c’erano centinaia di ragazzi che come in una qualunque serata a Trastevere faceva risse, spaccava bottiglie; e nella stessa città avvenivano tentati omicidi ai negozi di bengalesi. I ragazzi fermati sono tra l’altro tutti già a piede libero, come era prevedibile vista l’insussistenza delle accuse. La polizia, a cui abbiamo chiesto conto dell’intervento sproporzionato, inutile, e aggressivo, ci ha rimandato a un ufficio stampa, che non risponde mai. L’opinione pubblica si trova intossicata da questo allarmismo inventato: Repubblica, per fare un esempio maiuscolo, titolava in prima pagina a nove colonne in sprezzo a qualunque principio di realtà “Il ritorno degli anarchici”, alla notizia data evidentemente dalla polizia di “un agente ferito” che però non si capisce da chi sia stato ferito - alcuni testimoni parlano addirittura di un agente in borghese della Digos aggredito per sbaglio dalle stesse forze dell’ordine. Educazione alla democrazia - La sesta tragedia le contiene tutte: ed è quella di un’educazione alla democrazia. La confusione evidente che in questi giorni si fa tra stato di diritto e stato di polizia o tra terrorismo e protesta è sicuramente il frutto di anni di adulterazione del dibattito pubblico, ma è anche in sé un ulteriore veleno per chi si sta formando alla politica. È indicativo come una parte consistente di chi sostiene le lotte di Cospito sia composta da studenti, delle superiori o dell’università, che ritengono surreale prima ancora che mefitica questo tipo di narrazione. La sensazione purtroppo è questo quadro diventerà più plumbeo nei prossimi giorni, se non ci saranno altre voci a prendere parola. Cospito, la Cassazione anticipata e l’allarme di Manconi: “A rischio di suicidio” di Frank Cimini Il Riformista, 30 gennaio 2023 La Cassazione ha anticipato al 7 marzo l’udienza originariamente prevista per il 20 aprile in cui si discuterà il ricorso contro l’applicazione del 41 bis al detenuto Alfredo Cospito in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso. È stata accolta solo parzialmente la richiesta presentata dall’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini perché le condizioni di salute dell’anarchico peggiorano in continuazione. Il legale spiega di non voler dire niente “perché ogni commento sarebbe superfluo”. La cardiologa Angelica Milia che come medico di fiducia visita Cospito ogni settimana fa osservare che fino al 7 marzo può succedere di tutto. Il Garante dei detenuti Mauro Palma dice che è urgente il trasferimento di Cospito in una struttura adatta dotata di un centro clinico. Il carcere di Sassari Bancali non ha centro clinico e nei dintorni non vi sono strutture sanitarie in grado di assicurare interventi urgenti. Palma ricorda che la tutela della salute di chi è nella disponibilità dello Stato in quanto privato della libertà personale è nella responsabilità dell’Amministrazione che lo ha in carico. Il Garante auspica che si giunga in tempi rapidi a una soluzione che permetta la fine dello sciopero della fame dopo ormai cento giorni. Il sociologo Luigi Manconi chiede al Papa di intervenire “perché con lui Alfredo Cospito morirebbe la nostra dignità. Se morisse ciò significherebbe confermare una concezione del sistema penale che contraddice i principi fondamentali della nostra civiltà giuridica”. Manconi aggiunge che una parola del Pontefice potrebbe essere utile. “La depressione e la perdita di peso incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio” secondo il sociologo. Ieri a Roma siccome la mobilitazione non si ferma si è tenuto un nuovo presidio di attivisti davanti al ministero della Giustizia. “L’articolo 41bis e l’ergastolo ostativo sono torture di Stato” recita il volantino per organizzare l’appuntamento nel cuore della capitale. Insomma nelle condizioni di salute in cui si trova Alfredo Cospito appare impossibilitato ad arrivare vivo al 7 di marzo. Si tratta di un mese e mezzo, un tempo lunghissimo. Servono interventi rapidi e risolutivi di chi può farli per evitare una tragedia che si può evitare. Ci vuole la volontà politica perché il problema è politico non solo umanitario. “Reprimere le violenze. Ma la detenzione deve essere compatibile con la tutela della vita” di Claudio Bozza Corriere della Sera, 30 gennaio 2023 Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta e ministro della Giustizia nel governo Prodi, siamo davanti a una pericolosa escalation degli anarchici. Che fare? “Queste violenze vanno affrontate e represse, nella legalità e con tutti i mezzi che lo Stato riterrà necessari per fermare questi atti inammissibili. Vorrei risponderle con le parole di Aharon Barak, già presidente della Corte suprema israeliana: “Lo Stato può e deve difendersi con una mano legata dietro la schiena, ma, nel più rigoroso rispetto e fermezza della legalità, con l’altra mano deve usare tutti gli strumenti a sua disposizione”. Gli anarchici della Fai-Fri, la frangia più violenta che fa riferimento a Cospito, chiedono che al loro leader sia revocato il 41 bis. Crede sia possibile una trattativa? “Nessuna trattativa è possibile in queste condizioni. Con la violenza non si tratta, specie in materia di giustizia”. Lei è uno dei firmatari dell’appello “salviamo la vita di Cospito”. Che però si è macchiato di crimini gravissimi. Perché lo ha fatto? “Non conosco, né intendo occuparmi specificamente di questo caso. Non mi interessa discutere sulla legittimità del 41 bis: la sede giudiziaria è quella opportuna. Mi interessa invece la motivazione dell’appello, che condivido, sulla necessità di non assistere passivamente a un suicidio annunciato, in un contesto carcerario che presenta un numero già abnorme e inaccettabile di detenuti che si tolgono la vita. Cospito è in sciopero della fame da oltre 100 giorni e le sue condizioni di salute sono gravi, alla luce di quanto reso noto dal garante dei detenuti. Condivido quindi la motivazione di questo appello: l’imperativo di salvare una vita umana. L’isolamento carcerario deve essere compatibile con la salvaguardia della vita umana, se essa è davvero in pericolo”. Quindi crede che questo principio dovrebbe essere applicato anche per Messina Denaro? Anche il capomafia arrestato dopo 30 anni di latitanza versa in gravi condizioni di salute… “Una istituzione non può arrivare a compromettere la vita di una persona. Si tratta di espiare una pena in un ambiente sanitario carcerario che consenta di fare fronte alle emergenze di salute”. Nel maggio scorso la Guardasigilli Cartabia aveva firmato un decreto ad hoc per inasprire il carcere per Cospito, dopo che i giudici di sorveglianza avevano provato che il leader anarchico continuava a diramare ordini. Lei è stato ministro della Giustizia con il governo Prodi, cosa dovrebbe fare secondo lei l’attuale Guardasigilli Nordio? “Non mi permetto di dare consigli a nessuno. Ricordo solo che l’amministrazione penitenziaria e il suo vertice, a mio avviso, devono intervenire per assicurare, eventualmente attraverso il trasferimento in un altro carcere attrezzato dal punto di vista sanitario, la salute di un detenuto, continuando a evitare i suoi contatti con l’esterno”. E se fosse ancora presidente della Consulta cosa penserebbe fosse giusto fare? “La Corte Costituzionale non si occupa di casi specifici, ma della costituzionalità delle leggi. E la Consulta ha già ripetuto più volte che il 41 bis non può essere uno strumento per rendere più dura la reclusione e tantomeno per indurre a una sorta di confessione. Il 41 bis è legittimato solo per impedire i contatti tra il carcerato e il mondo esterno. E mi consenta di aggiungere che le violenze esterne sono un pessimo intervento, che, paradossalmente, potrebbe essere inteso come prova di un collegamento ancora diretto tra il detenuto e gli ambienti anarchici”. Mauro Palma: “Prima viene la salute. Trasferite Cospito in un carcere dove possa essere salvato” di Liana Milella La Repubblica, 30 gennaio 2023 Il Garante dei detenuti: “La situazione mi preoccupa molto. Non è vero che la revoca del 41 bis sia giuridicamente impossibile”. “Per un Garante dei diritti il primo punto è la salute. E la situazione di Cospito mi preoccupa molto”. Parte da qui Mauro Palma, Garante delle persone private della libertà, che ha visitato Alfredo Cospito tre volte. Da Palazzo Chigi nessun cedimento sul suo 41bis. Decisione eccessiva? “È una posizione anche ovvia. Di per sé gli attentati, oltre alla loro gravità, giocano sempre al contrario rispetto all’obiettivo. Perché è ovvio che uno Stato non può cedere. Altra cosa è valutare con serenità la posizione di Cospito”. Lei glielo toglierebbe? “Io non entro nel merito, se non per l’aspetto sanitario. Però non è vero che la revoca sia giuridicamente impossibile. Per gli atti amministrativi la possibilità esiste sempre, al di là della legge sul 41bis”. Come i molti giuristi autori di un appello per lui ritiene che Nordio possa sospendere ora il 41bis come ha chiesto l’avvocato? “Per me esiste la possibilità di esaminare nel merito la richiesta. Ma non spetta a me interferire sulla decisione che verrebbe assunta sulla base di un quadro giuridico che vedo mutato rispetto al passato”. Per il legale di Cospito lui non ha fatto propaganda per nuovi attentati... “Credo che siano sempre stati scritti non occulti, ma pubblicati su giornaletti vari, quindi sarebbe stato, e sarebbe adesso, sufficiente l’impiego della censura”. La linea dura del governo esclude che lui possa essere trasferito per ragioni sanitarie? “Non lo esclude affatto perché la tutela della salute preme certamente anche al governo. Da giorni dico che Cospito deve andare in un carcere dove sia possibile un immediato intervento ospedaliero qualora fosse disgraziatamente necessario”. Ma lei che posizione ha sul 41bis? Deve colpire tutti i mafiosi e i terroristi o solo chi, pur in carcere, è ancora operativo? “Il 41bis nasce e si giustifica per interrompere la comunicazione con le organizzazioni criminali all’interno e all’esterno del carcere. Per questo è tuttora una necessità per il nostro Paese. Ogni misura però, come chiedono la Consulta e la Cedu, è giustificata se previene un flusso informativo. È ingiustificata se mira solo ad aggiungere afflizione”. Cospito, Delmastro: “Giusto isolarlo. È lui che ha ispirato le violenze delle ultime ore” di Conchita Sannino La Repubblica, 30 gennaio 2023 Il sottosegretario alla Giustizia: “Questi gravissimi fatti dimostrano che chi ha deciso di infliggere il carcere duro all’anarchico aveva visto giusto nel ritenerlo ancora un leader, un riferimento forte per una vasta compagine ritenuta pericolosa”. “La serie di violenze di queste ore, così come già la busta con proiettile al Pg di Torino, confermano che c’era un fondamento nell’adozione del 41 bis su Cospito”. Sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro: gravi gli attentati. Ma così non sembra che lo Stato si “vendichi”? “Idee simili non appartengono a chi crede nello Stato di diritto. Ma scusi: questo clima aiuta o danneggia la posizione di Cospito? Cosa racconta questa violenza?”. La Cassazione, il 7 marzo, deciderà però su Cospito in base alla sua storia. Non su altro... “Difatti. Sono piani diversi. C’è l’umana difficoltà di Cospito, che come tutti i detenuti è una persona, la cui salute va tutelata con ogni mezzo, mentre lo si deve giudicare in autonomia. E poi l’altro piano: l’azione di contrasto alla rete di attentati eversivi, minacce, legata agli atteggiamenti di Cospito”. Cospito per lei ne è ispiratore? “Dico che quella rete è influenzata, che esiste un collegamento: non è solo la mia lettura”. E cos’è? “Un ragionamento. Questi gravissimi fatti dimostrano che chi ha deciso di infliggere il carcere duro a Cospito aveva visto giusto nel ritenerlo ancora un leader, un riferimento forte per una vasta compagine anarchica ritenuta pericolosa”. Da cosa lo evince? “Il 41 bis a Cospito non è stato applicato subito per i delitti commessi, ma dopo la verifica del fatto che lanciava segnali esterni e chiedeva azioni rivoluzionarie e distruttive, criticando persino gli anarchici che non sposavano la linea del terrore. Ecco, rispetto a tutto questo, dico: lo Stato non si può piegare ai ricatti. Anche perché c ‘è un altro elemento inquietante da non sottovalutare”. Quale? “La richiesta di revocare il 41 bis non solo a se stesso: ma anche a carico dei boss di mafia. Quasi si volessero cercare saldature”. Lo Stato non si piega, ma neanche può fare ritorsioni. “Concordo. Ma non aderisco a obiezioni ridicole che arrivano da una sinistra dei salotti, datata. I cittadini comuni sono preoccupati di un attacco insensato portato alle istituzioni”. Ostellari: “Non si è pentito, resti al 41 bis: sbagliato cedere ai loro ricatti” di Grazia Longo La Stampa, 30 gennaio 2023 Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, avvocato, senatore della Lega, si oppone con fermezza alla fine del 41 bis per Alfredo Cospito. Che cosa la spinge verso questa convinzione? “Cospito è monitorato 24 ore al giorno. Nonostante il suo prolungato sciopero della fame, la decisione sulle sue condizioni spetta ai medici. E se loro sostengono che la sua situazione è sotto controllo ci dobbiamo fidare. Inoltre la Cassazione, che ha anticipato il suo pronunciamento, si esprimerà sulla fine del carcere duro, in modo autonomo e sereno. E poi, comunque, le decisioni si prendono conoscendo tutti gli elementi”. In che senso? “Eventuali atti di clemenza sono concessi quando c’è un ravvedimento, una buona condotta. Non mi pare che Cospito si sia ravveduto e inoltre lo Stato non sta compiendo alcun illecito contro di lui. Si è dichiarato apertamente terrorista ed è stato condannato, non è in una fase di misura cautelare. Senza dimenticare poi che il proliferare di attentati da parte della galassia anarchica in difesa di Cospito alimenta un clima di violenza che non lo aiuta e va condannato da tutto il mondo politico. Sia a destra, sia a sinistra non si possono tollerare atti di aggressione nei confronti delle istituzioni. È sbagliato cedere al ricatto di atti di come quelli a cui stiamo assistendo”. Ritiene quindi che le rivendicazioni anarchiche nelle varie città non aiutino la causa di Cospito? “Certo che no. Soprattutto non aiutano l’affermazione della giustizia. Tutto il mondo politico deve condannare chi con la minaccia prova a condizionare la scelta delle istituzioni. Ribadisco peraltro la mia solidarietà ai poliziotti di Roma presi di mira dagli anarchici e al direttore de Il Tirreno che ha ricevuto una busta con un proiettile”. Il 41 bis viene inflitto anche per evitare contatti con l’esterno: se gli venisse tolto, Cospito potrebbe intensificare rapporti con la galassia anarchica e quindi potrebbe aumentare il rischio di attentati? “Questo non lo so. Ma so che chi deve decidere nel merito non deve farlo sulla base di minacce e attentati”. E se nel frattempo dovesse morire? Fa lo sciopero della fame da oltre 100 giorni… “Il suo stato di salute è monitorato. E al momento le strutture sanitarie non ci parlano di imminente pericolo”. La preoccupazione però è tanta: c’è una larga schiera di intellettuali e giuristi che chiede lo stop al suo 41 bis… “Ma come fanno a saperne più dei medici che lo hanno in cura? Parlino gli atti e chi ne ha competenza. Tutto il resto è pretestuoso e alimenta sentimenti che non sono di lealtà e di verità”. A parte la questione del 41 bis, la reclusione non dovrebbe essere finalizzata alla rieducazione? “Sicuramente. In particolare per i minorenni bisognerebbe privilegiare le strutture alternative come le comunità. Ai ragazzini va concessa una chance di rieducazione. Sia per loro, sia per gli adulti bisogna investire di più e aiutarli a imparare un lavoro”. Le mille anime dell’anarchia riunite in piazza per Alfredo di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 30 gennaio 2023 Studenti, operai, centri sociali e sovversivi, una galassia senza leader che ha trovato una causa comune: “Con Cospito anche se non la penso come lui”. “Hanno spaccato la capoccia a uno della Digos...i poliziotti, dico! Si sono menati da soli, tanto era il livello del marasma. Io gravito tra la Fai, la Federazione anarchica italiana, e i compagni. Conosco Alfredo Cospito personalmente ma le nostre posizioni sono totalmente all’opposto... Sono qui solo perché mi interessa salvare la vita di Alfredo e dei compagni in carcere. Stanno accusando di devastazione gente perché mentre scappava si tirava dietro le fioriere e per due scritte di ragazzini. Se ci facevano fare il corteo non succedeva niente! Non c’erano minorenni, c’erano gli studenti. E c’era anche qualcuno che tirava sassi così, senza motivo... non mi piace quella gente...”. Ruggero sabato sera era in piazza Trilussa, a Roma, per chiedere la revoca del 41 bis all’anarchico pescarese in carcere a Sassari, dove da 103 giorni porta avanti uno sciopero della fame. Il quartiere, Trastevere, era pieno di agenti del reparto mobile. “Un dispiegamento di forze insensato per i quattro gatti che eravamo”, dice chi vi ha partecipato. Ciò che Ruggero (nome di fantasia) racconta è interessante non solo perché, da testimone oculare, offre una versione plausibile sulla vicenda del ferimento del poliziotto, ma anche perché fa capire quanto sia articolato e complicato da sondare, il movimento anarchico. Che ha molteplici anime. Capaci di calamitare, di volta in volta, fazioni degli studenti, dei collettivi universitari, dei centri sociali, dell’operaismo. Per dire: Ruggero si professa della Fai-Federazione anarchica italiana, che è cosa ben diversa dalla Fai-Federazione anarchica informale, il gruppo anarco-insurrezionalista a cui Cospito appartiene. “Le nostre posizioni sono totalmente all’opposto”, dice infatti lui. La bussola per orientarsi nel movimento anarchico, evitando di scivolare in semplificazioni e dunque frettolose criminalizzazioni, sta proprio qui: nella distinzione tra chi si professa anarchico perché crede nell’antifascismo, nell’antimilitarismo, nell’ambientalismo militante, nell’abolizione del carcere e nel rifiuto della “dittatura della scienza e della tecnologia”, e chi, invece, in nome di quegli stessi ideali, è disposto ad azioni violente e di natura terroristica: gambizzazioni, attentati dinamitardi, pacchi bomba, sabotaggi, minacce. L’ultima al direttore del Tirreno Luciano Tancredi, cui è stato spedito per posta un proiettile poco prima della fine dell’anno. La Federazione anarchica informale, dunque. Più che un’organizzazione reale priva di comandanti (informale proprio perché orizzontale: Cospito, che è uno dei promotori, da nessuno viene definito “leader”) è una sigla, sotto cui nel nostro Paese si riconoscono - stando ai report delle forze dell’ordine - meno di un centinaio di persone. La sua nascita si fa risalire al 21 dicembre 2003, quando con un volantino rivendicò l’esplosione vicino alla casa di Romano Prodi, allora presidente della Commissione europea. La Fai nel tempo ha risposto all’appello lanciato dai greci delle Cellule di cospirazione del fuoco (Ccf) per dar vita a un fronte internazionale di solidarietà anarchica, che si attiva su determinate battaglie. La sorte di Cospito è una di queste: da sei mesi la mobilitazione in suo nome va avanti, in Europa e in America. Quando a muoversi però sono gli anarco-insurrezionalisti, categoria in cui al ministero dell’Interno fanno rientrare la Fai di Cospito e chiunque agisca con propositi di natura eversiva, diventa materia di sicurezza nazionale. Anche perché gli anarco-insurrezionalisti hanno dimostrato di saper colpire tramite cyberattacchi. Si sono mischiati ai No Vax, rivendicando su un sito creato ad hoc di aver appiccato il fuoco al portone dell’Istituto superiore di sanità durante il lockdown. “Si è rilevata la propensione di tali realtà a mobilitarsi su un doppio livello - si legge nell’ultima relazione delle agenzie di intelligence al Parlamento - che prevede un attivismo tanto di caratura movimentista inteso a infiltrare le manifestazioni per promuovere più veementi pratiche di protesta, quanto di più marcata valenza terroristica con il compimento della tipica azione diretta distruttiva contro diversi target”. I sobillatori che si infilano in cortei pacifici per cercare lo scontro con la polizia sono quel “qualcuno che tirava i sassi senza motivo”, di cui parlava Ruggero. Anche lui anarchico, ma contrario a ogni forma di violenza. Come smontare con i fatti l’antimafia della chiacchiera di Claudio Cerasa Il Foglio, 30 gennaio 2023 Arrestato Messina Denaro, riecco le speculazioni sulla trattativa. Ma lo stato teoricamente colluso è lo stesso che ha vinto negli ultimi trent’anni la guerra alla mafia. Manuale di conversazione per sopravvivere alle insinuazioni maliziose dei retroscenisti. Sono passate due settimane dalla cattura di Matteo Messina Denaro e per uno strano gioco di prestigio più ci si allontana da quella data e più la domanda maggiormente gettonata nei talk-show, rispetto a quell’arresto, tende a essere questa: che cosa c’è dietro? Chiedersi come sia stato possibile che un boss come Matteo Messina Denaro sia riuscito a sfuggire alla giustizia per trent’anni è lecito e forse persino doveroso e non stupisce che il circo mediatico si sia molto appassionato al tema sollevato dal procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia. De Lucia, lo sapete, ha detto che in questi trent’anni c’è stata una fetta di borghesia che ha aiutato Messina Denaro a nascondersi ed è bastata questa frase per spingere i cronisti d’assalto a occuparsi di un tema divenuto un classico del nostro sistema informativo: la trattativa. Ogni volta che in un talk-show televisivo o in un articolo di giornale ci si interroga, con passione, su che cosa c’è dietro l’arresto di Messina Denaro la tentazione, ormai ricorrente, è di occuparsi di ciò che non si vede, e intorno a cui si può dire quel che si vuole, e meno di ciò che si vede, che costringerebbe a spostarsi, traumaticamente, dal piano della fiction a quello della realtà. Abbiamo scelto, con vivo eroismo, di sottrarci alla prima tentazione e di dedicarci, con solida tenacia, alla seconda strada e abbiamo pensato potesse essere utile offrirvi un piccolo ma solido manuale di conversazione per sopravvivere alle chiacchiere maliziose sponsorizzate da quella che Giuseppe Sottile ha definito l’antimafia dei retroscena. Primo punto: che fare quando qualche interlocutore evoca la famosa trattativa stato-mafia? Molto semplice: ricordare che in Italia ci sono stati quattro processi sulla trattativa stato-mafia, che ciascuno di questi processi si è concluso con un’assoluzione e che le sentenze in uno stato di diritto dovrebbero valere più dei sospetti. Nel dettaglio. Nel 2006 sono stati assolti i carabinieri del Ros accusati di favoreggiamento per la ritardata perquisizione del covo di Riina (la procura di Palermo, in quel caso, non fece neppure ricorso). Nel 2016 sono stati assolti i Carabinieri del Ros accusati di aver mancato più volte la cattura di Bernardo Provenzano (erano Mori e Obinu). Nel 2020 è stato assolto l’ex ministro Calogero Mannino, dopo una gogna infinita durata venticinque anni, venticinque anni di processo: Mannino era accusato di aver intavolato una trattativa tra lo stato e la mafia. Nel 2022, infine, la Corte d’assise d’appello di Palermo ha assolto Mario Mori, insieme agli ufficiali del Ros Subranni e De Donno, dalle accuse di “violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”. La loro azione - hanno scritto i giudici - è stata esclusivamente “un’operazione investigativa di polizia giudiziaria” tesa a infiltrare Ciancimino all’interno della cosca e a catturare i boss corleonesi, primo fra tutti Totò Riina, divenuto nel frattempo il “capo dei capi”. Dunque, ripetete forte. Non è vero che Provenzano non è stato arrestato quando poteva essere arrestato. Non è vero che si è scelto dolosamente di traccheggiare sul covo di Riina. Non è vero che coloro che sono stati individuati come i due canali di collegamento tra mafia e stato hanno commesso reati. Potrebbe bastare questo per far crollare, d’un tratto, il castello di carte costruito dai professionisti del retroscenismo antimafioso, e sarebbe forse anche utile chiedersi cosa sarebbe successo se la magistratura avesse dedicato più tempo, più energia, più risorse, più investigatori alla lotta contro la mafia piuttosto che alla lotta contro chi ha combattuto la mafia, e se per caso l’essersi occupati per molti anni di fuffa abbia contribuito a sottrarre tempo prezioso alla lotta contro la mafia (ci sarebbe quasi quasi da fare un’inchiesta, no? Scherziamo). Potrebbe bastare questo ma vogliamo essere precisi e allora - oltre a ricordare, come sempre, che mentre l’antimafia della chiacchiera cercava di acchiappare farfalle l’antimafia dei fatti faceva arrestare Bagarella, Brusca, Provenzano, Riina, Lo Piccolo, Nicchi e Messina Denaro, dimostrando che non è vero che la mafia ha fatto patti con lo stato e non è vero che in questi trent’anni lo stato si è indebolito nei confronti della mafia - potrebbe essere utile partire da un dato poco valorizzato negli ultimi giorni dalle cronache dei giornali. Il dato lo ha offerto giovedì scorso il presidente della Cassazione quando ha notato che negli anni Novanta, in Italia, morivano circa 1.900 persone all’anno, a causa di omicidi, e morivano per lo più a causa di omicidi organizzati dalla criminalità organizzata, mentre oggi gli omicidi sono circa 300 all’anno. Significa che la criminalità organizzata è stata messa nelle condizioni di non essere più pericolosa per le nostre vite, com’era un tempo, e la ragione, che i retroscenisti dell’antimafia non vogliono vedere, è legata a un fatto semplice, che poi è l’essenza vera dell’arresto di Messina Denaro: lo stato potrà fare anche errori, ovvio, ma più passa il tempo e più si rafforza mentre la mafia si indebolisce. E così, come racconta Maurizio Catino, nel saggio del Mulino che trovate pubblicato oggi sul Foglio, la forza dello stato non si vede solo nel numero degli arresti ma anche nei risultati della consistente e continua attività repressiva portata avanti contro la mafia. Sono 17.391 le persone arrestate per reati connessi alla mafia in Italia dal 1982 al 2017. Sono più di 450 le condanne all’ergastolo per omicidi di mafia comminate nel solo distretto di Palermo dal 1992 al 2006 (mentre erano state soltanto 19 nel primo grado del maxi processo e circa una decina nei 100 anni precedenti). Sono 200 i consigli comunali e provinciali che sono stati sciolti nello stesso periodo per infiltrazioni mafiose avvenute negli ultimi decenni. Ed è un fatto che le mafie siano state e continuino a essere colpite finanziariamente dalla costante attività delle forze dell’ordine. I fatti dicono questo. Dicono che l’antimafia della chiacchiera ha passato molti anni a rincorrere farfalle. Dicono che l’antimafia dei fatti da anni ottiene risultati nonostante l’antimafia della chiacchiera cerchi da anni di demolire la reputazione di chi lotta contro la mafia. E dicono che alimentare dubbi sullo stato colluso con la mafia, cedendo alla spirale di “tribunalizzazione della storia” che spinge i magistrati a usare le tendenze per storicizzare i fatti piuttosto che per perseguire chi commette i reati, non è solo una perdita di tempo ma è anche qualcosa di più grave: una mancanza di rispetto nei confronti di chi lotta contro la mafia e di chi da trent’anni cerca di dimostrare con la forza dei fatti che lo stato teoricamente colluso con la mafia è lo stesso che ogni giorno fa del suo meglio per fare quello che in questi trent’anni è riuscito a fare bene: arrestare la mafia. Imputati assolti, raddoppia il fondo per il rimborso delle spese legali Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2023 Convenzione Giustizia-Equitalia a gestire l’istruttoria delle istanze di rimborso presentate dagli imputati nei processi penali in cui sono intervenute sentenze irrevocabili di assoluzione. Quasi raddoppiato il fondo per il rimborso delle spese legali agli imputati assolti in via definitiva con formula piena. Con la legge di bilancio 2023 (art. 1, comma 862/b, L. 29 dicembre 2022, n. 197), la dotazione passa da 8 a 15 milioni di euro. Sarà Equitalia Giustizia Spa a gestire l’istruttoria delle istanze di rimborso presentate dagli imputati nei processi penali in cui sono intervenute sentenze irrevocabili di assoluzione perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso o perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. Lo comunica Via Arenula ricordano che a prevederlo è una convenzione silgata dal Decreto Interministeriale Giustizia-Mef del 20 dicembre 2021 e firmata per il Ministero dal Capo di Gabinetto, Alberto Rizzo, e per Equitalia Giustizia dall’Amministratore Delegato, Paolo Bernardini. Equitalia Giustizia, dunque, procederà all’istruttoria delle istanze individuate dal Ministero e visualizzate nella Sezione “Gestione istanze imputati assolti” del portale LGS-Liquidazione Spese di Giustizia, per verificare la correttezza e la regolarità della documentazione. La convenzione, precisa la nota, ha carattere sperimentale, con facoltà di rinegoziazione nel secondo semestre del 2024, alla luce della consistenza delle istanze pervenute nel biennio 2022-2023. Un’altra convenzione tra Ministero della Giustizia ed Equitalia, invece, regola il primo popolamento dell’Albo dei gestori della crisi d’impresa, soggetti incaricati dall’autorità giudiziaria delle funzioni di controllo delle procedure previste dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Ad Equitalia Giustizia Spa sarà affidata la valutazione delle domande di iscrizione, processando le istanze pervenute tramite il portale “Albo dei gestori della crisi d’impresa”. La scadenza della convenzione è fissata al 30 settembre 2023. L’intelligenza artificiale che condanna. Negli Usa è realtà, l’Italia la usa solo per il riconoscimento facciale di Federica Olivo huffingtonpost.it, 30 gennaio 2023 Gli strumenti tecnologici di ultima generazione possono essere d’aiuto nel processo penale, ma se la macchina sostituisse l’uomo? L’avv Biligotti: “La macchina non è etica, si rischiano distorsioni giuridiche”. Padua (Tor Vergata): “Scongiurare il rischio di dipendenza dall’algoritmo”. Negli Stati Uniti non è fantascienza, ma una storia vera: la pena inflitta a un imputato è stata determinata in base valutazione della sua pericolosità sociale fatta dall’intelligenza artificiale. Da una macchina. In Italia non succede, ma gli strumenti cosiddetti di AI sono già usati nelle indagini. E, nel futuro prossimo, potrebbero essere implementati. Sempre negli Stati Uniti, dal mese prossimo debutterà il primo avvocato robot al mondo. Si tratta di una sperimentazione - gli imputati saranno ricompensati per aver accettato - nel campo delle multe per eccesso di velocità. Nonostante sia solo un primo tentativo, gli avvocati hanno accolto la novità con molta perplessità. Ma prima di addentrarci nel mondo dell’intelligenza artificiale applicata alle indagini e ai processi penali, torniamo al nostro uomo americano, il signor Loomis, che si è visto infliggere una pena, dal giudice, stabilita sulla base delle valutazioni fatte dall’intelligenza artificiale. La macchina, elaborando una serie di dati, aveva stabilito che ci fosse un’alta probabilità che l’imputato commettesse altri reati. A quel punto, il giudice si era adeguato e a nulla era valso il ricorso alla Corte Suprema del Winsconsin: “È vero, non sai come la macchina è giunta a quelle conclusioni, ma sai da dove è partita”, gli ha in sostanza risposto la Corte Suprema. E l’uomo si è dovuto arrendere. Non all’evidenza, ma alla macchina. Questo caso, molto discusso negli Stati Uniti, ci aiuta a capire le potenzialità, ma anche i limiti, dell’intelligenza artificiale applicata al processo penale. “Le potenzialità dell’intelligenza artificiale sono notevoli ma i rischi che pongono sono ancora più significativi e vanno disciplinati, perché non si può correre un singolo rischio nel processo penale: il processo penale è un’area a rischio zero”, spiega ad HuffPost Nicolò Biligotti, avvocato esperto della materia. “Alcuni sistemi di AI sono già presenti nel nostro Paese, altri sono già operativi all’estero. Altri ancora sono solo futuribili e forse nemmeno auspicabili”, continua l’avvocato. Della prima categoria fanno parte i cosiddetti Remote biometric identification systems: “Sono applicativi di intelligenza artificiale che tramite reti neurali di deep learning dedite al confronto di immagini consentono l’identificazione di soggetti ripresi in video. Di un bambino scomparso, ad esempio, o dell’autore di un reato. Il caso recente più eclatante è quello del riconoscimento del giovane accusato di aver accoltellato una ragazza alla stazione Termini, identificato appunto con Sari Enterprise, un applicativo di intelligenza artificiale in grado di analizzare in pochi secondi un database di milioni di fotografie e restituire una probabilità di match con alcune identità”, spiega Biligotti. “In Italia - continua - questo strumento non è utilizzato in tempo reale a causa del parere negativo rilasciato dal Garante Privacy, ma potrebbe diventarlo in futuro, se dovesse essere licenziato l’AI Act proposto dalla Commissione europea”. Il riferimento è a una proposta dell’esecutivo comunitario che, pur classificando il riconoscimento facciale come strumento il cui rischio è intollerabile, pone una sola eccezione: dice, cioè, che questo sistema si può usare quando necessario nell’ambito di un procedimento penale, se il reato contestato è punibile con una pena che nel massimo supera i tre anni. “Se la normativa europea fosse approvata - precisa Biligotti - sarebbe auspicabile che le garanzie procedurali connesse all’utilizzo di tale strumento venissero inglobate nel codice di procedura penale”. C’è un problema, però, che ad oggi in Italia non si è mai posto, ma è dietro l’angolo: cosa succederebbe se dopo le indagini, nel processo, un avvocato contestasse l’uso del riconoscimento biometrico? “Si aprirebbe un mondo - spiega il legale - perché bisognerebbe dimostrare che si tratta di una prova scientifica, che rispetta i criteri di verificabilità, falsificabilità e generale accettazione del metodo scientifico, nonché conoscenza del suo tasso di errore. Con l’intelligenza artificiale abbiamo un problema ulteriore: conosciamo il risultato restituito dalla macchina, ma spesso non siamo in grado di sottoporre questo output ad un processo di ingegneria inversa, così da capire come si è formato. Trasferendo questo concetto sul piano del processo: abbiamo la prova, ma non è detto che riusciamo a capire come questa si è formata”. Altri sistemi di intelligenza artificiale sono già usati nel processo negli Stati Uniti: parliamo dei risk assessment tools: quei sistemi in grado di stabilire quante possibilità ci sono che un autore di un reato lo compia ancora in futuro. Il problema è come questo processo avviene: “La macchina non è etica. E finora l’uomo è ben lontano dal poter immaginare di istruire l’AI ad agire secondo coscienza - spiega Biligotti - rischiamo, quindi, che l’intelligenza artificiale introduca nel processo penale profili di discriminazione molto significativi, poiché la macchina potrebbe tracciare fedelmente le distorsioni insite, a livello più o meno inconscio, nei giudizi umani, che non avrebbe remore a ripoporre, essendo stata addestrata ad agire sulla scorta di informazioni che incorporano distorsioni etiche ancor prima che giuridiche”. Un esempio? L’avvocato chiama in causa gli Stati Uniti: “Amazon ha sospeso l’utilizzo del proprio applicativo di identificazione biometrica, in uso ai corpi di polizia statunitensi, a seguito di studi da cui è emerso un basso tasso di precisione del sistema nel riconoscere i volti degli appartenenti alla comunità afro-americana, in particolar modo di sesso femminile: questo perchè la macchina era stata addestrata su un database etnicamente orientato e composto principalmente da uomini bianchi. Dobbiamo tenere a mente che la distribuzione della massa dati è un fattore determinante per buon funzionamento del meccanismo di apprendimento automatico della macchina, la quale performa ove vi è maggiore densità statistica e degrada progressivamente la sua capacità di analisi a fronte della scarsità di dati”. Lo stesso discorso si può fare per i sistemi che, partendo da una mappa di una città, individuano un quartiere ad alto rischio reati: “In Italia c’è stata solo qualche sperimentazione in questo senso - premette Biligotti - ma anche qui si rischiano notevoli distorsioni, poiché una iper-sorveglianza di determinate aree condurrebbe di per sé alla contestazione di un maggior numero di reati nell’area in analisi e il meccanismo potrebbe alimentare profezie autoavveranti, mentre la concentrazione delle Forze dell’Ordine in determinati luoghi potrebbe lasciarne non adeguatamente sorvegliati altri”. Certo, c’è sempre il filtro del giudice. Il problema, spiega l’esperto, è evitare che una superficiale comprensione del funzionamento dell’intelligenza artificiale porti a pensare che la macchina compia i nostri stessi processi cognitivi in modo più rapido ed efficiente: “Tutt’altro, la macchina opera all’interno del dominio ristretto di dati in cui è confinata, escludendo qualsiasi logica di causa-effetto o qualsiasi variabile esterna la cui computazione esula dalla possibilità artificiali. È necessario che l’essere umano deputato alla ponderazione del risultato restituito dalla macchina non si avvicini a questo con una venerazione fideistica, bensì che diffidi e ponga in discussione la soluzione indicata dalla macchina”. C’è, infine, un ultimo genere di strumenti, chiamato automatic decision system. Simili a quello descritto nel caso Loomis, se portati allo stremo potrebbero arrivare a determinare se è più probabile che un uomo sia colpevole o no. Una macchina che possa arrivare a ciò non è mai stata sperimentata nel mondo, ma è astrattamente realizzabile. Con tutto ciò che ne consegue. “Non solo tali sistemi non sono realtà, ma credo non siano nemmeno futuribili. Le ragioni sono molteplici. Questi sistemi si porrebbero in contrasto con la stessa essenza di giusto ed equo processo tutelata, tra gli altri, dall’art. 111 della Costituzione italiana e dall’articolo 6 della Cedu. Data la naturale opacità della macchina, l’imputato verrebbe condannato senza potersi confrontare in regime di contraddittorio con gli elementi addotti a suo carico, i quali peraltro, stanti i limiti cognitivi della macchina, non potrebbero essere sintetizzati in una congrua motivazione che ripercorra i singoli passaggi logici che hanno condotto alla sentenza di condanna. Personalmente, credo che il rischio sia già abbastanza significativo quando la macchina viene usata come semplice ausilio alla decisione del giudice”, spiega ancora l’avvocato. La questione, insomma, è molto delicata. E il confine tra ciò che è un aiuto alle indagini e ciò che, invece, è un rischio per i diritti di chi è sotto processo è ben tracciato. Almeno per ora. Ma è possibile introdurre nel nostro ordinamento sistemi altamente sofisticati di intelligenza artificiale senza distorcere il sistema delle garanzie per chi è imputato o indagato? Lo abbiamo chiesto a Giorgia Padua, dottore di ricerca in diritto pubblico all’Università di Roma Tor Vergata: “Il nostro sistema processualpenalistico non è impermeabile alle nuove tecnologie. L’impatto con l’intelligenza artificiale si presenta, però, inedito e lascia intravedere un cambio di paradigma che appare radicale e del tutto incompatibile con la struttura fortemente antropocentrica del processo penale”. Per l’esperta occorre distinguere “in base al contesto in cui vengono adoperati gli strumenti di intelligenza artificiale e alla finalità perseguita per mezzo del loro utilizzo. In chiave preventiva, cioè allo scopo di evitare in radice la commissione di futuri reati, la cornice normativa non è ostile all’utilizzo di software basati su un approccio statistico-probabilistico che siano in grado di potenziare le attività di polizia predittiva e favorire, così, un tempestivo e fruttuoso intervento delle forze dell’ordine”. Nelle indagini strumenti che in giuridichese si definirebbero “non tipizzati” sono accettati, “purché - spiega Padua -vengano rispettate le garanzie costituzionali e i risultati conoscitivi acquisiti servano ai fini dell’esercizio dell’azione penale”. Il problema, come accennavamo in precedenza, si pone quando prove assunte con l’intelligenza artificiale finiscono nel processo penale: “Qui, infatti, - aggiunge la studiosa - entrano in gioco valori e principi indefettibili che riguardano non solo la tutela dei diritti individuali della persona ma anche al versante dell’accertamento, governato da invalicabili criteri di valutazione razionale delle prove e stringenti regole di giudizio. Non c’è spazio, allora, per elementi che si rivelino antitetici rispetto al modello di riferimento e che finiscano per compromettere canoni come il libero convincimento del giudice e il contraddittorio nella formazione della prova”. L’utilizzo di risultati ottenuti con l’intelligenza artificiale in giudizio, prosegue Padua, “imprime una forte tensione ai canoni del giusto processo. Per un verso, sul piano dell’imparzialità e dell’indipendenza del giudice, c’è il rischio che l’attività decisionale si appiattisca sul risultato computazionale, producendo una vera e propria “dipendenza dall’algoritmo” (c.d. automation bias). Per altro verso, risulta messa a repentaglio anche la piena realizzazione del contraddittorio, inteso sia come partecipazione dialettica delle parti al processo, sia come contributo alla formazione della prova”. Infatti, continua, “a fronte di sistemi di elaborazione poco trasparenti e inaccessibili ai più, aumenta la distanza che esiste non solo tra accusa e difesa, ma anche tra le parti e la prova. Infine, c’è il pericolo che un approccio prettamente statistico svilisca il tratto individualizzante della valutazione giudiziale e della risposta punitiva”. Ma allora, come si fa a scongiurare questo rischio? “Il primo e indispensabile passo da compiere - risponde Padua - è quello di considerare l’intelligenza artificiale come semplice veicolo di dati da valutare alla luce di un più completo quadro dimostrativo e il cui peso dimostrativo è rimesso al vaglio della ragione umana”. A tale scopo, secondo la studiosa, si possono adottare alcune “cautele metodologiche”. Tra queste, conclude, “ci sono quelle che riguardano il rafforzamento del libero convincimento del giudice come presidio contro l’autorevolezza dell’esito statistico, l’anticipazione del contraddittorio, l’irrobustimento dell’obbligo di motivazione” della decisione del giudice. Criminologia, specializzazione sempre più preziosa in campo penale di Massimiliano Di Pace Il Dubbio, 30 gennaio 2023 Paola Rubini, vicepresidente dell’Ucpi e responsabile della formazione: “Le specifiche conoscenze del criminologo sono utili al difensore sia per individuare lacune nelle indagini sia per interagire con i consulenti di parte”. La vicenda dell’arresto di Mattia Messina Denaro, dopo 30 anni di latitanza, ha riportato alla ribalta anche il tema dell’importanza della criminologia, come tecnica per interagire con successo con soggetti sospettati di atti efferati. Si tratta, a tutti gli effetti, di una competenza professionale specialistica, di natura multidisciplinare, che è perfino oggetto di una norma dell’Uni (l’Ente Italiano di Normazione), identificata con la sigla UNI 11783: Attività professionali non regolamentate - Criminologo. Questa norma definisce i requisiti relativi all’attività professionale del Criminologo, a partire dalla descrizione dei compiti e delle attività da svolgere, in conformità al Quadro europeo delle qualifiche (European Qualifications Framework- EQF), in modo tale da rendere omogenei, per quanto possibile, i processi di valutazione e convalida dei risultati dell’apprendimento delle relative tecniche. La norma parte dalla definizione di criminologo, che è colui il quale studia il delitto nella sua realtà oggettiva e nelle sue cause, per cui il suo campo di azione investe lo studio del fenomeno criminale e dei mezzi atti a reprimerlo. La norma UNI 11783 prevede 3 livelli professionali: Criminologo, Criminologo expert, Criminologo senior. Negli ultimi 2 livelli sono previste 2 aree di specializzazione: Criminologo specialista in criminologia generale, e Criminologo specialista in scienze forensi. Sono previsti 24 compiti, doveri e responsabilità per il professionista criminologo, tra cui quelli di agire nell’interesse pubblico, e con integrità, onestà e correttezza, senza fare discriminazioni; non fornire informazioni fuorvianti; adempiere regolarmente alle obbligazioni assunte; evitare qualsiasi relazione che possa influenza indebitamente il proprio giudizio; dedicare a ciascuna questione esaminata la cura e il tempo necessari, e svolgere la propria attività con coscienza e diligenza, nonché dotarsi di un’organizzazione coerente con le necessità imposte dalla tipologia di prestazioni professionali rese. Nel caso della specializzazione in criminologia generale, le tecniche e le tematiche da conoscere sono Criminalità nel suo generale impatto, Criminalità organizzata e mafiosa, Criminalità urbana, Devianza giovanile, Criminalità informatica, Sicurezza Urbana, Sicurezza e ordine pubblico, Urbanistica per la sicurezza. Invece, se si sceglie la specializzazione nelle scienze forensi, bisogna acquisire competenze in materia di Genetica forense, Archeologia forense, Digital forensics, Sopralluogo forense, Botanica forense, Dattiloscopia forense, Balistica forense, Grafologia e grafologia forense. Per acquisire la specializzazione di Criminologo occorre, oltre al possesso di un adeguato cv, superare un esame scritto e uno orale svolto da un ente di certificazione, che a sua volta deve essere accreditato. Assumono quindi interesse, per coloro che sono intenzionati ad acquisire le competenze tipiche del criminologo, i corsi universitari, come quello previsto dall’Università Link e dalla Fondazione Icsa, che stanno organizzando un master in criminologia e criminalistica, basato su 200 ore di docenza e 400 di case studies, esercitazioni, project work, test, in cui si trattano 6 argomenti (Fenomenologia criminale, Area giuridica, Criminalistica, Psicologia e Psicodiagnostica forense, Cybercrime e Cybersecurity, Ordine pubblico e sicurezza urbana), a loro volta suddivisi in molte tematiche specifiche (es. l’analisi della scena del crimine, l’interrogatorio dell’indiziato). Ma quanto sono utili queste competenze per gli avvocati penalisti? “Fermo restando che il nucleo delle competenze di un buon penalista sono la conoscenza approfondita del diritto penale e della procedura penale, indipendentemente dalla tipologia di reato - sottolinea Paola Rubini, vicepresidente dell’Unione Camere Penali Italiane e responsabile nazionale della formazione dell’avvocato penalista - è innegabile che le specifiche conoscenze del criminologo, come le modalità di indagine, l’individuazione del profilo dei responsabili di specifici reati (si pensi alla pedo-pornografia o ai delitti seriali) hanno un duplice profilo di utilità per il difensore: da una parte maggiori possibilità di individuare lacune ed errori nella conduzione delle indagini, che potrebbero risultare di vantaggio per il proprio assistito, e dall’altra, interagire con più efficacia e competenza con i consulenti di parte, esperti nelle materie criminologiche, al fine di raccogliere prove favorevoli per la difesa”. Dunque le tecniche della criminologia potrebbero essere un buon investimento formativo per un avvocato penalista, che avrebbe così la possibilità di valutare concretamente se le indagini siano state condotte correttamente o meno. Ma quali sono, quindi, gli errori più significativi? “Nella mia esperienza personale - continua Rubini - fermo restando la buona qualità media degli investigatori italiani, che sono a volte chiamati anche dall’estero, effettivamente vi possono essere criticità, in particolare, in due momenti: quello del “congelamento” della scena del crimine, che deve essere il più possibile tempestivo e completo nell’estensione, e la perquisizione, ad esempio nel domicilio o nel luogo di lavoro del presunto colpevole, che a volte può essere superficiale, o comunque non ben organizzata, e in altre perfino sovrabbondante, nel senso che si apprendono in gran quantità cose non proprio pertinenti all’ipotesi di reato contestata”. Vita da carcerato, l’amore è un divieto di Luigi Barnaba Frigoli L’Unione Sarda, 30 gennaio 2023 L’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario proibisce gli incontri intimi con i partner. Il caso di un detenuto in Umbria davanti alla Corte Costituzionale. Ai detenuti e alle detenute deve essere concessa la possibilità di avere momenti “privati” con le proprie mogli, i propri mariti o i propri fidanzati? Ed è giusto prevedere nei penitenziari luoghi appartatati per i rendez-vous amorosi tra chi è ristretto e il partner che arriva in visita? In Italia il dibattito si è (ri)aperto in questi giorni, dopo che un uomo, detenuto in Umbria, si è visto respingere la richiesta, rivolta all’amministrazione carceraria, di colloqui “intimi” con la sua compagna. Il caso - L’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, infatti, proibisce a chi è ristretto in carcere (anche se non sottoposto al regime duro del 41 bis) di restare solo con il partner, lontano da occhi indiscreti. Ma la vicenda ha portato il giudice di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, a rivolgersi addirittura alla Corte Costituzionale, sollevando la questione di legittimità. “L’interessato si duole del divieto impostogli dall’amministrazione di svolgere colloqui intimi con i propri familiari e in particolare con la compagna”, scrive il magistrato ai giudici costituzionali, con il dubbio che il divieto di cui sopra possa essere contrario ai diritti sanciti dalla Carta, in quanto, prosegue Gianfilippi, “un’amputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità quale la dimensione sessuale dell’affettività finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sulla persona detenuta”. Nel mondo - In attesa del responso, il Garante per i detenuti del Lazio Stefano Anastasìa è intervenuto sul caso, dicendosi convinto che “il riconoscimento del diritto alla sessualità dei detenuti non solo favorirebbe la loro crescita personale, ma andrebbe a beneficio dell’intera istituzione carceraria perché migliorerebbe i rapporti con gli agenti di polizia penitenziaria e aiuterebbe il clima generale della vita in carcere”. Lo stesso Anastasìa ricorda che “quel che è permesso ai detenuti di Francia, Svizzera, Austria, Slovenia o Spagna, e complessivamente in 31 Paesi europei (ma anche in India, Messico, Israele, Canada) agli italiani è negato”. Non solo: “Ci sarebbero pure in questo senso le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa o del Parlamento europeo che auspicano le visite coniugali ai detenuti. E c’è anche la Corte europea dei diritti dell’Uomo, il tribunale internazionale di Strasburgo, a manifestare apprezzamento per gli Stati che prevedono i colloqui intimi e l’esercizio dell’affettività anche di tipo sessuale. Infine, c’è una recente sentenza del 2021 che ribadisce questo orientamento”. Manca la legge - Per quanto riguarda il nostro Paese, invece, “già nel 1999”, ricorda Anastasìa, “l’allora capo del Dap Alessandro Margara propose la revisione dell’ordinamento carcerario con la previsione di aree ad hoc per incontri non a vista: il Consiglio di Stato rispose che non si poteva cambiare il regolamento, ma si doveva emanare una legge. Dopo oltre vent’anni siamo ancora qua a discuterne”. Ancora: “Due proposte di legge, avanzate dai Consigli regionali di Toscana e Lazio, in discussione in Senato nella passata legislatura, non hanno concluso l’iter. La proposta di legge approvata con una mozione del Consiglio regionale del Lazio, in particolare, è partita dalla ricerca dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale ed è stata realizzata con la condivisione e il supporto del Garante dei detenuti e della Presidenza del Consiglio regionale”. Pubblico e privato - Insomma, “sono anni che si parla di concedere pause di intimità ai detenuti italiani. Ma la legge lo vieta, perché il regolamento carcerario impone che i colloqui del detenuto con il partner o la partner, anche se concesso in sale separate, dev’essere sempre sottoposto alla vigilanza degli agenti. Il carcere - di conseguenza - non è mai considerato un luogo privato, ma pubblico per definizione. E di conseguenza il sesso in un luogo pubblico non si può fare perché, a rigore, è un reato in sé”. Sul caso si è espresso, anche il Garante dei detenuti dell’Umbria, nonché giurista, Giuseppe Caforio, secondo cui sarebbero tante, in Italia, le persone pronte a chiedere di avere rapporti con il proprio compagno o la propria compagna. “I tempi”, dice Caforio, “sono maturi per impugnare la normativa. I rapporti affettivi sono da intendere come diritti inviolabili dell’uomo e, perciò, da rendere possibili anche in carcere”. Serve però “una legge organica e meditata, che permetta la creazione di spazi appositi”. La proposta di legge - Sesso vietato per i detenuti in Italia, ma una proposta di legge esiste: è il ddl, adottato dal Consiglio regionale del Lazio e presentato alle Camere a febbraio 2022 e finalizzato alla “Tutela delle relazioni affettive e della genitorialità delle persone ristrette”. Nel provvedimento si propone l’allestimento di una sorta di stanze dell’amore per gli incontri intimi tra i ristretti e i loro partner, come già avviene, ad esempio, in Norvegia, Danimarca, Germania, Olanda, Belgio, Francia, Spagna, per citare solo i Paesi Ue. “Aree dedicate nelle carceri”, si legge nel testo della proposta, “in cui i detenuti possano esercitare, nel rispetto della riservatezza, il loro diritto all’affettività e alla sessualità”. Da 6 a 24 ore - Tali aree, viene specificato, dovranno essere “luoghi adatti alla relazione personale e familiare e non solo all’incontro fisico: un tempo troppo breve, infatti, rischia di tramutare la visita in esperienza umiliante e artificiale. Per tale ragione si è inteso prevedere che la visita possa svolgersi all’interno di un lasso di tempo sufficientemente ampio da 6 a 24 ore”. Inoltre, la possibilità di accedervi potrebbe essere negata in caso di “comportamenti prevaricatori o violenti ovvero quando sussistono elementi concreti per ritenere che la richiesta abbia finalità diversa da quella di esercitare la relazione affettiva”. Per la realizzazione delle “casette dell’amore” nelle carceri era stato anche ipotizzato un primo stanziamento: circa 28 milioni di euro. Ma la proposta è rimasta lettera morta. Campania. Carceri, fuga degli infermieri: pochi e concorsi deserti, il ministero schiera gli Oss di Gianni Molinari Il Mattino, 30 gennaio 2023 Aggressioni, minacce, disagi psicologici, dipendenze, carenza di servizi sanitari e perfino di farmaci, ma a preoccupare è il numero di suicidi, sette in un anno. Il report Infermieri-Carceri di Nursing Up in Campania descrive una situazione difficile e anche dal punto di vista del personale le cose vanno piuttosto male. E il presidente Nursing Up Antonio De Palma lancia l’allarme. In Campania, seconda regione per numero di popolazione carceraria dopo la Lombardia, si contano 6.471 detenuti tra uomini e donne, mentre il numero di infermieri è inferiore a 200 unità. Un rapporto in disequilibrio che aggrava ancora di più le condizioni drammatiche in cui vivono i reclusi. “La popolazione carceraria è decisamente in sovrannumero rispetto agli spazi e soprattutto agli strumenti disponibili, per non parlare del forte clima di disagio psicologico che sta sfociando, sul territorio, nella più grave delle piaghe, ovvero i suicidi” spiega De Palma. In un anno ci sono stati sette decessi per suicidio “ma sono 64 i tentativi di suicidio sventati solo nel 2022” insiste il presidente Nursing Up. Quello dei suicidi è un vero e proprio campanello di allarme per le carceri campane, laddove i disagi psicologici sono tra le problematiche all’ordine del giorno che gli infermieri devono affrontare, alle prese con dipendenze, aggressività, minacce. “Una situazione triste, desolante, che va denunciata a gran voce, che penalizza gli infermieri ma soprattutto i detenuti a cui non vengono garantite tutte le condizioni per una corretta tutela della propria salute”. Ma quali sono i numeri degli infermieri rispetto ai detenuti? “Si contano 189 professionisti in Campania, corroborati negli ultimi mesi ma solo in alcune strutture dalla presenza degli Oss (operatori socio sanitari), la cui figura in termini assistenziali è stata riconosciuta e approvata nello scorso luglio da un provvedimento del Ministero della Salute”. “La decisione ministeriale - prosegue De Palma - potrebbe sembrare un passo in avanti ma andrebbe analizzato caso per caso, e opportunamente verificato quanti Oss sui 1.500 inseriti in tutta Italia (1.000 di fatto erano già operativi) stanno dando il proprio supporto in Campania. E soprattutto quanti e quali di questi Operatori Socio Sanitari possiedono percorsi di specializzazione che consentono loro di coadiuvare gli infermieri in termini di interventi delicati, come potrebbe essere la necessità di un’iniezione per una reazione allergica o shock da avvelenamento, oppure per una crisi epilettica”. Se gli infermieri sono solo 189 e numericamente diminuiti rispetto agli anni precedenti, il numero dei medici è anche inferiore: appena 108. La questione delle assunzioni resta la problematica principale. “I concorsi, se ci sono, vanno deserti e sono pochissimi i colleghi che accettano un incarico nelle carceri, rispetto a qualche dimissione che di fatto è avvenuta per situazioni realisticamente difficili per i nostri colleghi. Ricorrere al personale della sanità pubblica per rimpolpare gli organici, visto che gli infermieri delle carceri dipendono dalle Asl, è complicato poiché già mancano nelle corsie degli ospedali dove si conta una carenza di quasi quattromila unità”. Tra le denunce arrivate dagli infermieri nelle carceri campane a Nursing Up “c’è la mancanza di farmaci, segnalata al carcere di Bellizzi Irpino e ritardi nelle consegne e carenze di alcuni medicinali ovunque”. Terni. La rissa in cella e la chiamata: “Suo marito si è impiccato” di Sandra Figliuolo alermotoday.it, 30 gennaio 2023 La storia di Fabio Gloria, 47 anni, già coinvolto in alcune inchieste antimafia e detenuto a Terni. Ieri pomeriggio ha telefonato alla moglie e avrebbe avuto un occhio nero, rimediato nello scontro con altri reclusi. Alle 23 la tragica notizia: “Si è ucciso”. I parenti non credono a questa versione e chiedono giustizia. Intorno alle 15 di ieri, sabato 28, avrebbe fatto una videochiamata alla moglie dal carcere di Terni e, secondo il racconto dei suoi famigliari, avrebbe avuto un occhio nero e avrebbe raccontato di aver avuto uno scontro con altri detenuti. Poi, verso le 23, la chiamata che informava la donna che suo marito si era tolto la vita impiccandosi. I parenti di Fabio Gloria, 47 anni, già coinvolto nell’operazione “Apocalisse” e condannato recentemente a 12 anni nel processo nato dalle inchieste “Bivio” e “Bivio 2” contro i clan di Tommaso Natale e San Lorenzo, non credono tuttavia che possa essersi ucciso. L’autopsia, che si svolgerà nelle prossime ore, potrà probabilmente chiarire l’accaduto. La famiglia di Gloria si è affidata all’avvocato Rosamaria Salemi per essere tutelata e chiede giustizia. Secondo quanto riferito a PalermoToday, Gloria avrebbe spiegato alla moglie di essersi scontrato con quattro detenuti napoletani e che la discussione sarebbe degenerata, culminando poi in una rissa. Ecco perché - così avrebbe riferito la vittima - avrebbe avuto un occhio nero, ma avrebbe avuto anche un fasciacollo, che non avrebbe voluto togliere durante la chiamata, e avrebbe perso anche sangue da un orecchio. Poi sarebbe stato messo in isolamento. Gloria era recluso da alcuni anni a Terni e non era alla sua prima esperienza in carcere. I suoi parenti non ritengono plausibile la tesi del suicidio perché l’uomo sarebbe stato troppo attaccato alla famiglia per compiere un gesto del genere. “Non è mai stato intenzionato ad un suicidio e anche lui si meravigliava dei tanti morti in questo carcere - dice un famigliare del detenuto a Palermo Today - era stato picchiato pesantemente nella rissa e avrebbe avuto bisogno di una visita”. E aggiunge: “Ci chiediamo come sia potuto succedere, soprattutto in alta sorveglianza, dove ci sono telecamere! Com’è possibile? Perché proprio oggi voleva contattare l’avvocato per chiedere il trasferimento e diceva che in quel carcere c’era qualcosa che non andava? Adesso vogliamo la verità perché la versione del suicidio non ci convince, siamo sicuri che le cose non sono andate così”. Milano. Dal Comune direttive in materia di identificazione e iscrizione anagrafica dei detenuti comune.milano.it, 30 gennaio 2023 Il Comune di Milano, primo a farlo in Italia, emana direttive in materia di identificazione e iscrizione anagrafica di detenuti ed ex detenuti, fondamentali per impedire la privazione di molti diritti fondamentali e una condizione di sostanziale estraneità e isolamento nei confronti del territorio in cui si vive. Si tratta di un risultato ottenuto a valle di un tavolo di lavoro che si è svolto tra agosto e dicembre dell’anno scorso, promosso dall’Assessorato ai Servizi civici e che ha visto il coinvolgimento dei quattro istituti penitenziari milanesi, San Vittore, Opera, Bollate e Beccaria, e di Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano. Questo incontro ha portato alla stesura, da parte dell’Amministrazione, di un documento che risponde in modo puntuale ad alcune problematiche connesse all’iscrizione anagrafica, finora sottoposte a un quadro frammentato e quindi poco certo. Le direttive fissate dal Comune intervengono su quattro aspetti. La prima e più importante casistica risolta è quella che riguarda tutti i detenuti, compresi gli stranieri, che non sono in possesso di un documento di riconoscimento del proprio Paese. Viene infatti stabilito che in questi casi si può procedere al riconoscimento e quindi al rilascio di una carta d’identità sulla base di un documento chiamato IP3, desunto dal sistema informatizzato in uso all’Amministrazione Penitenziaria, purché riporti nome, cognome, luogo, data di nascita, cittadinanza e foto della persona. La mancata iscrizione anagrafica, nei fatti, finisce per precludere ai detenuti stranieri privi di permesso di soggiorno la possibilità di elaborare e realizzare progetti di vita fuori dalla realtà penitenziaria. Si tratta, come riconosciuto dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, di una grave disparità di trattamento lesiva della dignità della persona che può essere sanata soltanto garantendo al detenuto straniero privo di permesso di soggiorno il diritto all’iscrizione anagrafica presso il Comune in cui sta scontando la pena. Senza iscrizione anagrafica, infatti, non è possibile accedere a misure non detentive e programmi di reinserimento sociale, procedere con percorsi di continuità terapeutica già intrapresi in custodia una volta scontata la pena, fruire di programmi residenziali di accompagnamento e supporto, avviare percorsi di regolarizzazione chiedendo, per esempio, il riconoscimento della protezione speciale. Un’altra problematica risolta è quella che riguarda tutti quei soggetti senza fissa dimora che sono stati cancellati dall’Anagrafe del proprio comune per irreperibilità. Viene precisato e stabilito che questi detenuti possono richiedere l’iscrizione anagrafica presso l’istituto penitenziario per potersi rivolgere ai servizi del territorio e che, al momento della scarcerazione, hanno diritto ad acquisire una nuova residenza, anche in “convivenza” (presso strutture che temporaneamente li ospitano) affinché non perdano l’accesso ai servizi in attesa di reperire una nuova abitazione. Ulteriore procedura chiarificata riguarda i soggetti richiedenti asilo e titolari di protezione: per coloro che non posseggono documenti di riconoscimento, viene stabilito che ai fini della richiesta di residenza è sufficiente il titolo di soggiorno in qualità di richiedente “asilo” oppure la ricevuta attestante la richiesta di protezione internazionale, purché quest’ultima ne riporti sia la foto sia i dati anagrafici minimi. L’ultima casistica risolta è quella delle donne detenute presso l’Istituto a Custodia Attenuata per Detenute Madri che, prive di documenti, incontrano difficoltà per il riconoscimento del figlio nato in ospedale e per il rilascio dei documenti al figlio stesso. Anche in questo caso, l’identificazione della madre avviene con le stesse modalità indicate nel caso precedente. “Per quanto in passato si siano fatti degli sforzi come Comune di Milano - afferma il Garante Francesco Maisto - il quadro è rimasto sempre frammentato. Oggi, finalmente, grazie al tavolo promosso dall’Assessorato ai Servizi civici con gli istituti penitenziari milanesi, si risponde a bisogni e a specifiche domande in modo univoco e si fissano precise condizioni affinché ad ogni persona venga garantita la possibilità di accedere a servizi essenziali. Ci auguriamo che quanto stabilito da questa Amministrazione faccia da volano e porti altri comuni a chiarire modalità analoghe”. Pozzuoli (Na). Caffè “Lazzarelle”, dal carcere all’e-commerce di Vera Viola Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2023 Aprire una torrefazione nel carcere femminile di Pozzuoli per offrire una nuova occasione di lavoro e di riscatto alle detenute. Dapprincipio l’idea sembrò folle, ma a dodici anni dall’avvio, l’operazione si può dire che sia riuscita. Se oggi la cooperativa “Le Lazzarelle” produce 10 quintali di caffè in un anno (venduto per lo più via web)?e un fatturato nel 2021 di 90mila euro. E soprattutto se ha coinvolto in dodici anni 72 detenute. Questa è la storia. Imma Carpiniello è una giovane donna napoletana di 37 anni, laureata in scienze politiche con un curriculum arricchito da un master in politiche di genere e diritti umani. “Ho lavorato con associazioni del terzo settore impegnate in istituti di pena - racconta Imma Carpiniello - e quindi ero già entrata in contatto con la realtà detentiva. Dove era chiaro che un problema molto sentito fosse il lavoro. Le detenute avevano bisogno di soldi per alcune spese personali. Perciò ho pensato di offrire loro lavoro regolare e un guadagno continuativo”. L’idea è un fatto, la realtà tutt’altro. “Non c’erano fondi per progetti da realizzare in carcere, quindi all’inizio è stato tutto molto difficile”, continua Carpiniello. Ma si va avanti. Nasce l’impresa sociale e coinvolge esperti, artigiani. Si sceglie il caffè e parte la formazione. Seguono numerose prove. “Ne abbiamo bruciato di caffè!”. Finalmente parte la produzione, grazie anche a un finanziamento di 200mila euro della Regione Campania dedicato alle start up. “Non abbiamo trovato terreno fertile - ricorda Carpiniello - le donne non erano interessate anche perché a bassa scolarizzazione. Hanno poca fiducia nel futuro. Perciò abbiamo adottato un sistema partecipato, sin dalla progettazione e poi nella gestione”. Le prime dieci detenute hanno seguito tutto il processo, sono loro che hanno scelto il nome della cooperativa e il marchio:?Lazzarelle, utilizzando il nomignolo napoletano. A fine pena le detenute lasciano e vengono sostituite da altre. Dall’inizio ad oggi sono 70 le donne coinvolte. Negli anni il livello di interesse cresce, la produzione va a pieno regime. La cooperativa apre un bar nella Galleria Principe di Napoli. “Il progetto si rivela efficace - osserva Imma Carpiniello -?perché avvia ad un percorso di legalità:?lavoro regolare con contratto regolare. Per molte donne è la strada verso il recupero di autostima”. Oggi Lazzarelle è una cooperativa che produce caffè con miscela arabica (100% biologica) e miscela classica (50% arabica e 50% robusta). Vi lavorano in media dieci donne. Le vendite crescono, soprattutto via web, ma anche in piccole botteghe e nel bar della cooperativa. L’antimafia sia in linea con la costituzione di Giovanni Maria Flick Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2023 Diritto e attualità. La cattura di Matteo Messina Denaro ripropone un interrogativo di fondo sulla giustizia penale e sui confini entro i quali deve concentrare la propria azione. I rischi e le tentazioni di strumentalizzare la cattura di Matteo Messina Denaro sono forti e ricalcano in parte i toni e i contenuti di un recente dibattito tra il giornalista Alessandro Barbano e il Procuratore Nazionale Antimafia Giovanni Melillo in occasione della presentazione del libro scritto dal primo, “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”. In sintesi Barbano ha analizzato quelle che definisce le contraddizioni del c.d. Codice Antimafia, motivandole attraverso il richiamo a una minuziosa e clamorosa serie di errori (effettivi o presunti) nella sua applicazione. È arrivato a una conclusione da lui stesso definita “impegnativa (...) l’Antimafia, intesa nella sua complessa realtà istituzionale e simbolica, nella sua operatività e nel suo racconto, è un inganno... in senso politico e non morale... al netto della buona fede e dell’impegno” di quanti combattono il crimine. Barbano ha concluso che l’Antimafia è una macchina fuori controllo, dotata di mezzi letali; che essa ha superato i confini della legalità, con il ricorso alle misure emergenziali, alla cultura del sospetto; alla compressione delle garanzie, alla delazione, alla ricerca di un consenso fondato sull’allarmismo e sul degrado della cultura giuridica e sulla perdita del principio di legalità e di tassatività delle norme giuridiche, con il sostegno di un processo mediatico e di un “moralismo intransigente” delle organizzazioni di volontariato come Libera, sconfinate nella politica. Melillo ha replicato ricordando la particolare ed elevata pericolosità della criminalità organizzata nel nostro Paese e la conseguente necessità di strumenti penetranti di indagine per fronteggiarla specificamente anche nel campo dell’economia; una pericolosità che si manifesta altresì a livello internazionale con ricchezza economica ed espansione speculativa non sempre avvertite dalla opinione politica e da quella pubblica. Tuttavia Melillo ha riconosciuto il pericolo dei “cori mediatici”; quello di dilatare l’area di specialità della azione di contrasto a mafia e terrorismo; l’impossibilità per il giudice di “amministrare” patrimoni illeciti; la necessità di una prevenzione della criminalità in sede politica e sociale, prima e al di là del compito della magistratura e della polizia. Infine ha contestato l’esattezza di taluni fra gli episodi descritti nel libro come errori ed eccessi. Al di là dei fatti specifici, che non conosco, la valutazione severa di ordine generale di Barbano mi sembra condizionata dalla sua premessa: l’elenco di una serie di situazioni di fatto specifiche, fra loro non omogenee e diverse. Esse sembrano idonee piuttosto a denunziare eccessi ed errori nella applicazione della legge; ambiguità nella formulazione di quest’ultima che ne consente dilatazioni interpretative; indifferenza se non insofferenza rispetto a taluni principi costituzionali nella loro interpretazione tradizionale. Peraltro destano una forte perplessità sotto il profilo della coerenza con i principi costituzionali del sistema penale: il passaggio dalla cultura della “prova” e della “condanna alla pena definitiva” per un delitto alla cultura del “sospetto” e dell’”indizio” per la misura di prevenzione; la dilatazione di quest’ultima dalla “pericolosità” della persona a quella del denaro in sé o degli eredi di quella persona; la applicazione delle misure interdittive all’impresa, per il sospetto di un suo condizionamento mafioso, rischiando di trasformare il magistrato o il prefetto - tramite i loro ausiliari - in “super controllori” dell’impresa. Lasciano altrettanto perplessi il ricorso consolidato al c.d. “doppio binario” nelle indagini, nel processo e nell’esecuzione della pena; l’estensione delle misure di “diritto antimafia o antiterrorismo” alle ipotesi di corruzione sul presupposto di una eguale gravità dei reati in ciascuna di queste materie; l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che, per impedire giustamente la comunicazione tra un detenuto e l’organizzazione criminale all’esterno, trasforma la reclusione in un “carcere duro”; il divieto di accesso alle misure alternative al carcere per chi “non collabora” e il c.d. ergastolo ostativo. Sono tutte soluzioni che - soprattutto in momenti come questo - trovano entusiastica ed enfatica adesione: sia da parte di chi non conosce la tecnicalità, la complessità e spesso la tortuosità di tutti questi strumenti; sia da parte di chi, per professione, deve applicare quelle misure e teme che esse vengano ridimensionate. I contrasti riemersi fra politica e giustizia e le accuse reciproche, dopo un primo momento di doveroso entusiasmo di tutti, ripropongono un interrogativo più di fondo, rispetto a quelli che si riferiscono più specificamente alla lotta alla mafia. Nell’assetto costituzionale la giustizia penale è chiaramente strutturata in una prospettiva individuale: una responsabilità personale; una tassatività del fatto previsto e punito; un trattamento personale nell’esecuzione della pena; una serie di garanzie calibrate sulla persona. La trasformazione dell’apparato giudiziario in una struttura per affrontare un “fenomeno sociale” anziché “un fatto e una persona” evoca problemi legati alla discussione sulla funzione sussidiaria della magistratura. Essa propone una domanda di fondo, che ritorna anche in queste vicende: se le garanzie riconosciute dalla Costituzione alla persona in sede penale (sostanziale, processuale, di esecuzione della pena) siano ancora valide e rispettate; o se si diluiscano sino a sparire quando la persona è vista non in sé, ma come espressione di un fenomeno e di un sistema criminale da contrastare con ogni mezzo, per la sua pericolosità. Tornando alla concretezza di questi giorni, mi sembra che la cattura di un pericoloso latitante non possa essere l’occasione per legittimare o al contrario per contestare il ricorso alla “panpenalizzazione” e in essa alla “pancarcerizzazione”. In uno Stato costituzionale di diritto dovrebbe prevalere il criterio della extrema ratio per la prima e soprattutto per la seconda; dovrebbero rigorosamente evitarsi eccessi ed errori nella applicazione di legge che incidono sulla dignità e sulla libertà delle persone e che pertanto non possono prestarsi a dilatazione e ad interpretazioni creative. Posso infine augurarmi che la vittoria della legalità con la cattura di Matteo Messina Denaro, realizzata grazie all’impegno e alla capacità di magistrati e carabinieri, non diventi l’ennesima occasione per una strumentalizzazione - sia di adesione, sia al contrario di opposizione - delle risposte agli interrogativi ricorrenti sulla efficacia e prima ancora sull’ammissibilità e sui limiti degli strumenti legislativi acquisiti con l’esperienza in quella lotta. Sono la ricerca del denaro, come segnalato con intuizione e intelligenza da Giovanni Falcone (per la mafia); la genialità investigativa di Carlo Alberto Dalla Chiesa (per il terrorismo); l’utilizzo nelle indagini di strumenti tecnologici sempre più progrediti per vincere l’omertà fra cui le intercettazioni, con un loro rigoroso controllo giudiziario; le tecniche finanziarie sempre più sofisticate per svelare le tecniche di riciclaggio del “denaro sporco” e della sua infiltrazione nell’economia sana. Lo dobbiamo alle vittime incolpevoli della criminalità organizzata, ai magistrati e a tutti gli altri “caduti nell’adempimento del dovere” della lotta ad essa. I giornalisti veri fanno paura a tutti di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 30 gennaio 2023 Raccontare, diffondere e testimoniare la verità costa molto. Arduo in Turchia, impossibile in Russia, ma anche in Occidente, Usa compresi, i colleghi rischiano grosso. In questo titolo, “I giornalisti veri fanno paura a tutti”, c’è la tremenda realtà sui pericoli che si corrono nella nostra professione. Parliamoci chiaro: giornalisti veri sono i colleghi che cercano la verità e lottano per diffonderla e difenderla, anche a costo della vita, rinunciando a ruffianerie e ascensori sociali. Sono trascorsi sette anni dal rapimento del ricercatore Giulio Regeni, dottorando italiano all’Università di Cambridge, catturato al Cairo, seviziato dai servizi segreti egiziani, e fatto ritrovare pochi giorni dopo senza vita lungo una strada della capitale. Ogni anno si riapre la ferita per l’orrenda fine di questo ragazzo limpido, onesto, appassionato e brillante. Non c’è voluto molto a scoprire che l’ordine di ammazzarlo giunse dal vertice del Paese, con il totale beneplacito del presidente Al-Sisi. Fare il giornalista, rivolgere domande scomode (per il potere del momento) è quasi sempre un azzardo. Bene farebbero le autorità del nostro Paese a intervenire pesantemente sugli autori di queste infamie, anche se può costare qualche sacrificio politico o finanziario. Il caso di Zaki, studente all’Università di Bologna, che sempre in Egitto vive libero ma sospeso in attesa di un processo che conosce solo rinvii, è un altro cinico messaggio delle porcherie di questo nostro povero mondo, ammorbato dall’ egoismo e dalle dilaganti violenze. Fare il giornalista vero, e spesso deriso dai calcoli di molti colleghi “quaquaraqua”, è durissimo. In Turchia i giornalisti scomodi sono quasi tutti, senza distinzioni, e rischiano la galera. In Russia e’ molto peggio: tanti nostri colleghi sono in prigione, sottoposti a torture quotidiane umilianti. Ma anche negli Stati Uniti per i giornalisti è dura. In Italia si va dal disinteresse di tanti, che non vogliono sapere e vedere (Esempio: i camion carichi ebrei che attraversavano il silenzioso e silente centro di Milano per arrivare alla Stazione Centrale, da dove partivano i treni destinati allo sterminio) al valzer di fake news, diffuse a man bassa. Avendo seguito e vissuto sul campo 10 guerre per il Corriere della Sera, so bene cosa significa documentare e testimoniare la verità. Non conosco per carattere e per la mia vita fortunata ne’ l’invidia ne’ la gelosia. Sostengo e parteggio sempre, con entusiasmo, per i miei colleghi e colleghe che rischiano sul campo, in Ucraina, nel Vicino Oriente, in Africa, e in mezzo mondo, dove i conflitti non si spengono. Devo confessarvi, amici che mi seguite, un importante retroscena. Essendo ancora vispo, nonostante l’età ormai veneranda (i prossimi sono 77), sono ben protetto da carabinieri, polizia, finanza e servizi di sicurezza europei. Ero amico fraterno del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, e nessuno mi dimentica. Mi telefonano anche per dirmi: “Dottore, eviti quel bar e quel ritrovo. E soprattutto non esca di sera”. Loro sanno sempre tutto e li ringrazio. Ma ringrazio anche i colleghi coraggiosi della televisione, a cominciare dalla bravissima Stefania Battistini, che racconta in diretta coraggiosamente scomode verità, anticipandone gli sviluppi. Ringrazio soprattutto il Papa, che sa molto bene, viste le situazioni imbarazzanti all’interno della Chiesa, quanto i giornalisti stiano rischiando in tutto il mondo. Chiudo questo racconto con la vocina della bimba che, incontrando giorni fa il pontefice, gli porge un bigliettino ed esclama: “Posso chiamarti Nonno Francesco?”. Il sorriso e la carezza del Papa dicono tutto. Premio “Buone Notizie” all’Associazione Lorenzo Guarnieri, Monica Maggioni e Nello Scavo di Walter Medolla Corriere della Sera, 30 gennaio 2023 I riconoscimenti della XIV edizione consegnati a Caserta. L’associazione premiata per il suo impegno di educazione e sensibilizzazione contro la violenza stradale. I promotori: “Cambiare il corso dell’informazione mainstream, un buon esempio vale più di mille discorsi”. È l’attività dell’associazione Lorenzo Guarnieri la “Buona Notizia dell’anno” scelta dal Premio Buone Notizie in collaborazione con il “Corriere Buone Notizie” del Corriere della Sera. Il Premio, arrivato alla XIV edizione, è stato consegnato a Caserta. Un riconoscimento all’impegno della Onlus nata per ricordare Lorenzo Guarnieri, un giovane di appena 17 anni, ucciso nel 2010 da un uomo che guidava sotto effetto di alcol e di droga. L’associazione si occupa, infatti, di combattere la violenza stradale, che non è frutto del caso o del destino. “Non si tratta di “incidenti” - spiega Stefano Guarnieri, papà di Lorenzo e presidente dell’associazione - perché dietro ogni scontro grave ci sono sempre delle scelte e dei comportamenti sbagliati da parte degli individui: la velocità, la distrazione, l’alcol o la droga”. Tra le attività portate avanti dalla Onlus anche quella di sensibilizzazione tra i giovani e di educazione stradale, oltre che il supporto psicologico ai familiari delle vittime. La “Buona Notizia” è stata scelta perché è un esempio, divenuto ancora più fondamentale in questo 2022 appena trascorso in cui gli allarmi sui giovani morti per scontri stradali sono aumentati a dismisura. Al fianco dell’associazione c’è anche l’impegno del giornalista del Corriere della Sera Luca Valdiserri, colpito nei mesi scorsi dalla tragica morte di suo figlio Francesco a seguito di un investimento stradale. “L’obiettivo della Buona Notizia - spiegano Michele De Simone e Luigi Ferraiuolo, animatori del Premio - è rendere notizia chi o cosa ha fatto del bene in maniera straordinaria, nel silenzio collettivo. Aprire spiragli, seminare nuovi punti di vista, fornire semafori e segnali per cambiare il percorso dell’informazione main stream. Perché un buon esempio vale più di mille pur impegnati discorsi”. Durante la serata sono stati premiati anche i giornalisti vincitori del “Premio Buone Notizie”: Monica Maggioni, Direttore del Tg1, assente alla premiazione per motivi personali e sostituita dalla collega Giorgia Cardinaletti; Nello Scavo, inviato di guerra di “Avvenire”; e “L’Osservatore di strada”, il supplemento mensile de “L’Osservatore Romano”. Migranti. Delrio: “Questi accordi con Tripoli sono un patto col diavolo” di Niccolò Carratelli La Stampa, 30 gennaio 2023 L’ex ministro Pd: “Oggi abbiamo le prove dei crimini contro i migranti durante il nostro governo sono iniziate le accuse alle Ong, è stato un errore”. Per Graziano Delrio la nuova intesa sottoscritta dal governo con le autorità libiche in tema di immigrazione è “un accordo con il diavolo, con chi i migranti li fa morire, e ormai ci sono le prove che sia così”. L’ex ministro, ora senatore del Pd, non è mai stato un sostenitore del memorandum tra Italia e Libia, sottoscritto esattamente 6 anni fa (era il 2 febbraio 2017) dal governo Gentiloni, con Marco Minniti ministro dell’Interno. “Ma c’è una differenza fondamentale rispetto a oggi - precisa - all’epoca le azioni criminali della guardia costiera libica non erano ancora state documentate dalle agenzie Onu e dalle organizzazioni internazionali”. Una responsabilità, però, quella stagione di governo l’ha avuta: “Alla fine di quell’esperienza sono cominciati i sospetti e le accuse alle Ong - ricorda Delrio - un’analisi sbagliata, che negli anni successivi è divenuta criminalizzazione da parte del Conte I e della destra”. A prescindere dal colore del governo e da chi sia il premier, da Tripoli si torna sempre con un rafforzamento della loro guardia costiera, se possiamo definirla così… “È quanto di peggio si possa fare in questo momento, un grave errore di debolezza, visto che la guardia costiera di Tripoli è protagonista di una sistematica violazione dei diritti umani. E sappiamo che alcuni ufficiali sono in combutta con i trafficanti di esseri umani, in pratica sono i controllori di loro stessi, e spesso gestiscono direttamente i disumani centri di detenzione per i migranti”. Prima non era così? Intendo quando governavate voi... “Questa intesa è più colpevole, perché violenze e abusi ormai sono sotto gli occhi di tutti e si preferisce far finta di non vedere. Il senso è: basta che non lasciate partire i migranti, fate quello che volete. Inoltre, non è stato richiesto alcun impegno formale sulla verifica delle operazioni della guardia costiera, né sulla possibilità di far svolgere attività di vigilanza sul territorio libico da parte delle agenzie Onu”. Sono critiche che, in buona parte, potrebbero essere rivolte anche a voi. O no? “Mi tocca fare il difensore di una cosa di cui non ero entusiasta. Ma va detto che le condizioni, al momento della firma del primo memorandum, erano diverse. Innanzitutto, c’era una vera emergenza sui flussi migratori, non l’attuale propaganda sui numeri. Poi in Libia stava nascendo un governo, dovevano formare la guardia costiera, assisterli era legittimo e necessario. Non potevamo sapere che l’avrebbero messa in mano ai trafficanti, dimostrandosi inaffidabili e non rispettando nemmeno l’impegno, allora previsto, di far entrare le agenzie Onu nei centri di detenzione. E poi noi, ancora prima, avevamo istituito i corridoi umanitari”. Ma, anche dopo le denunce, il memorandum è stato confermato. E voi, a parte la parentesi gialloverde, siete stati sempre al governo. Quindi? “Quindi, io e molti altri, all’interno del Pd, abbiamo chiesto più volte di cancellare o rivedere quel memorandum. Poi ci sono state difficoltà oggettive a rinegoziarlo, visto che è cominciata la crisi del governo libico ed è complicato trattare con un partner delegittimato e sotto guerra civile. Del resto, è un problema che si ripropone anche con l’attuale governo di Tripoli. Se ne può uscire solo con un’iniziativa europea”. Come? “Trasformando la missione Ue Irini, nata per fermare il traffico di armi, in una missione di addestramento di un nuovo corpo della guarda costiera in Libia, sottraendolo al controllo dei trafficanti. Ma il punto è che non è con queste vetrine mediatiche, in Libia o in Egitto, che si risolve il problema in modo strutturale. Ed è ridicolo pensare a una sovranità italiana sull’immigrazione, è l’Europa che ci dà più sovranità. Discorso che vale anche per il finto piano Mattei per l’Africa”. In che senso finto? “Ho molti dubbi sul fatto che un’iniziativa solo italiana, a 60 anni di distanza, possa stimolare un processo così forte. Esiste già un piano europeo per l’Africa, che vale 150 miliardi, l’Italia si impegni a diventare leader di quel progetto, solo così potremo davvero incidere. Altrimenti, sono solo slogan”. Dunque, la politica migratoria del governo Meloni fin qui bocciata su tutta la linea? “È la dimostrazione che le parole, e le promesse elettorali, se staccate dalla realtà, non funzionano. Dal blocco navale ai porti chiusi, fino ai decreti sicurezza. Ora ci dicono che quello che è stato dimostrato, sull’operato della guardia costiera libica, non conta niente, basta che ci tengano lontani i migranti. Se la vocazione a un nostro protagonismo nel Mediterraneo, che condivido, si riduce a un voltarsi dall’altra parte, è davvero poca roba”. E il Pd al governo, invece, non ha sbagliato niente? “È un fatto che, nell’ultima fase del governo Gentiloni, siano iniziati i sospetti e le accuse contro le Ong, che io non ho mai accettato. Fino all’assurda teoria delle navi Ong come “pull factor” per i migranti, ancora di moda, ma smentita da tutti i dati ufficiali. Ecco, quello è stato un errore, certo non come la pessima distrazione di massa sulle Ong della destra, che continua ancora oggi”. Appello della moglie di Jafar Panahi in carcere in Iran La Repubblica, 30 gennaio 2023 “Doveva uscire una settimana fa, siamo delusi”. Il regista è stato arrestato 200 giorni fa mentre protestava contro l’arresto di alcuni suoi colleghi. Sono passati sei mesi da quando il regista premiato in tutti i maggiori festival internazionali Jafar Panahi è stato imprigionato a Teheran mentre protestava contro l’arresto dei suoi colleghi Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad a opera del governo iraniano che sta reprimendo le proteste popolari esplose nel Paese dopo l’assassinio della ventiduenne Mahsa Amini, massacrata di botte. Ma dall’Iran giungono notizie che possono far sperare in una imminente liberazione del regista di Il palloncino rosso e Gli orsi non esistono ora che la corte suprema iraniana ha ribaltato la condanna che ha portato all’incarcerazione. Difficile capire però i tempi di questa scarcerazione. La moglie del regista, Tahereh Saeedi, ha lanciato un appello su Instagram: “La scorsa settimana siamo stati informati che Jafar sarebbe uscito dopo una settimana. Tuttavia è passata una settimana e Jafar non è ancora con noi. Sono esattamente 200 giorni che Jafar è in prigione, siamo delusi”. Prima di quest’ultima sentenza il regista era già stato condannato a sei anni di carcere per “propaganda contro il sistema” e gli era stato impedito di lasciare il Paese e girare film. Ciò nonostante il regista è riuscito, in modo rocambolesco, a girare il suo ultimo film che è stato premiato alla Mostra del cinema di Venezia. Gli orsi non esistono è un film che intreccia realtà e finzione in una storia che racconta le vicende di un regista avverso al regime che cerca di fare un film da remoto, dopo aver preso alloggio in un paesino sul confine con la Turchia, con al centro la storia di due coppie di innamorati. Due giovani che si amano nel paesino di confine ma la cui storia d’amore è impedita dalle superstizioni e le assurde tradizione di un villaggio che assegna una ragazza a un futuro sposo nel momento della nascita quando alla famiglia di lui viene dato il suo cordone ombelicale. I protagonisti del film di Panahi cercano di emigrare a Parigi con dei passaporti falsi, ma le cose si complicano per loro mentre il film che stanno girando viene travolto dalla loro vita privata. L’avvocato di Panahi, Saleh Nikhbakht, ha dichiarato all’agenzia di stampa francese AFP che, secondo la legge iraniana, il regista “dovrebbe essere immediatamente rilasciato su cauzione e il suo caso riesaminato”. Eppure la moglie e altri membri della comunità cinematografica iraniana temono che le forze di sicurezza iraniane riescano a costringere la magistratura a tenerlo in carcere. “La liberazione di Jafar è in totale accordo con le loro stesse leggi”, ha sottolineato Saeedi nell’appello. “Ma loro (le autorità iraniane) sono al di sopra della legge e non ne hanno alcun rispetto”. L’avvocato di Panahi ha anche rivelato che il regista, durante la sua detenzione nella prigione per prigionieri politici di Evin a Teheran, ha contratto una malattia della pelle che richiede cure in un ospedale. Come segno di solidarietà il festival cinematografico di Bari Bif&st lo ha scelto come presidente onorario. Stuprata e incarcerata, resta detenuta perché nessun uomo va a prenderla. In Yemen funziona così di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2023 Una ricerca di Amnesty International, pubblicata mercoledì scorso, ha fatto luce su una prassi che la dice lunga sulla discriminazione cui sono sottoposte, nello Yemen, le donne che vivono tanto nei territori controllati dal governo riconosciuto a livello internazionale quanto nelle aree sottoposte all’amministrazione del gruppo armato huthi. Le detenute che hanno terminato di scontare la pena restano in carcere in assenza di un “guardiano” che si prenda cura di loro o, nella migliore delle ipotesi, vengono trasferite nei rifugi femminili qualora le famiglie rifiutino di riprenderle a casa. Come funziona questo sistema, lo ha raccontato un ex direttore di una prigione gestita dagli huthi nella capitale Sana’a: “Se non arriva il ‘guardiano’ le detenute non possono essere scarcerate. Una è ancora dentro da cinque anni, un’altra ha atteso due mesi fino a quando non si è fatto vivo il figlio. Nel 2019 un padre si è presentato a prendere la figlia, poi una settimana dopo l’ha ammazzata”. “La legge vieta che si rimanga in carcere dopo aver scontato la pena, a prescindere dal genere delle persone interessate. Trattenerle non ha alcuna base legale, ma qui funziona così: sono le norme sociali”, ha commentato un avvocato. “Radiya” (per ragioni di sicurezza usiamo un nome di fantasia), ha finito di scontare la pena nel 2022 ma nessun “maschio di casa” è venuto a prenderla. Perché era in carcere? Nel 2021 era stata stuprata da un vicino e la famiglia del marito l’aveva denunciata alle autorità per adulterio. Processata, era stata condannata a un anno di carcere. Il marito aveva chiesto e ottenuto il divorzio, la sua famiglia l’aveva ripudiata. La direzione della prigione centrale di Ta’iz ha trasferito “Radiya” al Centro per la protezione e la riabilitazione delle donne e delle ragazze, dove si trova da sette mesi. Ecco cos’ha raccontato ad Amnesty International: “Sono finita in carcere perché ho subito uno stupro. Mi hanno mandata al rifugio perché mio marito aveva divorziato da me e la mia famiglia non mi voleva riprendere. Mi sento oppressa e triste. Ho perso i miei figli e mio marito, la mia famiglia mi ha abbandonata. Sono depressa. Non ho un altro posto dove andare. Spero, un giorno, di andare via da qui, trovare un lavoro e iniziare una nuova vita”. Nel rifugio di Ta’iz, inaugurato nel 2020, sono transitate in tutto 23 donne che avevano terminato di scontare la loro pena. Ora, con “Radiya”, ce ne sono altre sei. Due sono nel centro di Adan e tre in quello di Sana’a. Questi centri offrono una speranza concreta di ricominciare da capo: mettono a disposizione programmi di riabilitazione e corsi di avviamento professionale e cercano, anche se spesso con scarso successo, di far riconciliare le famiglie con le ex detenute, affinché queste possano tornare a casa. Quando le ex detenute sono pronte a tornare a una vita normale, resta da superare l’ultimo ostacolo: il benestare della direzione delle carceri. *Portavoce di Amnesty International Italia