Carceri minorili in Italia, luoghi di transito o di rieducazione? di Giorgio Colombo Il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2023 Gli istituti penali per minorenni sono 17 e ospitano 400 persone: 206 hanno meno di 18 anni. Molti ingressi sono per l’aggravamento del comportamento di ragazzi che si trovano in comunità. Marietti (Associazione Antigone): “Punizione molto repressiva, dannosa anche per gli istituti”. “La reintegrazione sociale non si fa dentro il carcere. Soprattutto per chi ha meno di 18 anni, si dovrebbe seguire un modello più ampio, che coinvolga anche la società esterna”. Susanna Marietti, responsabile dell’Osservatorio minori di Associazione Antigone, chiarisce subito: “Gli Istituti penali per minorenni fanno quello che possono”, ma spesso non basta per garantire la funzione rieducativa della pena prevista dalla Costituzione. “Se non si mettono in atto politiche del lavoro, economiche e sanitarie per la presa in carico di questi ragazzi al momento del fine pena, il lavoro che si fa all’interno viene vanificato”. Sul territorio italiano sono 17 gli Ipm: secondo gli ultimi dati diffusi dal Ministero della Giustizia, aggiornati al 15 dicembre 2022, ci sono 400 ragazzi e ragazze ospitati in queste strutture. Chi sono i detenuti - All’interno degli Ipm ci sono 206 minorenni e 194 persone tra i 18 e i 24 anni. La legge stabilisce che dentro possono stare anche maggiorenni fino a 25 anni, se i reati in questione sono stati compiuti durante la minore età. Che non ci siano solo ragazzi sotti i 18 anni, spiega Marietti, è un dato positivo: “Più il ragazzo è giovane ed è considerato una personalità in evoluzione - e di conseguenza da educare al massimo - più il sistema si adopera per trovare sistemi alternativi al carcere”. Ma in cosa si differenzia un Istituto penale per minorenni da un carcere per adulti? “Per quanto riguarda la vita dentro la struttura, bisogna ricordare la possibilità di visite prolungate e soprattutto l’idea di custodia attenuata”, argomenta Marietti. Si tratta di due strumenti per evitare la totale segregazione dal mondo esterno. Tuttavia, “pochi istituti hanno fatto la sezione a custodia attenuata, dicendo che non c’era spazio a sufficienza”. Le due tipologie di delitti più frequenti tra chi è detenuto in un Ipm sono quelli contro il patrimonio e contro la persona. Ad esempio: furto, rapina, lesioni personali e omicidio. La rieducazione, quindi, è cruciale e passa anche attraverso la scuola, che - evidenzia Marietti - dovrebbe essere il più possibile all’esterno della struttura. “Se si può, senza troppo rischio per la sicurezza, lasciare un ragazzo in un contesto relazionale ordinario è meglio - ragiona - Metterli in un contesto di normalità e non di segregazione significa infatti non fare il doppio passaggio: isolare e poi integrare”. Prima e dopo gli Ipm - La maggior parte di minori negli Ipm è in attesa del primo grado di giudizio. Una fotografia opposta a quella della posizione giuridica dei giovani adulti (18-24 anni) che si trovano nelle stesse strutture: i più hanno subito una condanna, anche definitiva, per un reato commesso durante la minore età. Un dato da leggere con attenzione: “In realtà è una buona notizia. Significa che quando un ragazzo o una ragazza ha una condanna da gestire, il sistema giudiziario è attrezzato per fare eseguire la pena in modo alternativo al carcere e agli Ipm”, chiarisce Marietti. Una volta che la condanna diventa definitiva, invece, “si riesce a mandarlo in comunità o ricorrere ad altre alternative”. Così, però, gli Istituti penali per minorenni diventano un luogo di transito. Il principale motivo di ingresso è l’aggravamento del comportamento di una persona che già si trovava in comunità: “Una delle sanzioni disciplinari è ricorrere all’Ipm per un massimo di un mese”, spiega Marietti. È un meccanismo previsto dal Codice di procedura penale, che però non è funzionale nemmeno per la corretta operatività degli Ipm: “È un danno per il carcere, perché deve gestire continui arrivi e inserimenti nel tessuto relazionale dell’istituto, senza nemmeno il tempo per i ragazzi di fare attività”. Inoltre, in questo modo - sottolinea Marietti - “si crea un danno anche al detenuto perché è una punizione disciplinare molto repressiva: noi di Antigone continuiamo a pensare che il sistema della giustizia minorile debba essere improntato alla rieducazione”. Il mondo fuori - “Sulla carta il modello della giustizia minorile è buono, ma se si vuole davvero parlare di integrazione sociale si deve coinvolgere la società a un altro livello. Non si può pensare faccia tutto il carcere”. Secondo l’Associazione Antigone, è necessario intervenire su due piani: uno culturale e uno normativo. “In Italia il carcere è usato, anche per i minori, come strumento di neutralizzazione e di occultamento delle situazioni difficili da gestire altrimenti”. Risultato: la criminalizzazione della marginalità sociale ed economica. Per questo in carcere “si trovano anche i grandi criminali, ma la maggior parte sono persone disperate che il sistema non è capace di gestire all’esterno”. A partire dal 2018 esistono norme specifiche sugli Ipm, mentre prima le disposizioni generali sulle carceri venivano applicate anche a quelle minorili. “Ora che abbiamo un ordinamento penitenziario specifico per gli Istituti penali per minorenni, sarebbe bene metterci accanto un regolamento che spieghi come applicarlo”, conclude Marietti. Il teatro in carcere: atto politico che avvicina la pena alla Costituzione di Andrea Pugiotto Il Riformista, 2 gennaio 2023 1.Tanto vale riconoscerlo subito: il teatro non è più percepito come un’esperienza necessaria. L’immediato e prolungato arresto cardiaco delle attività teatrali imposto dalla pandemia, al pari di altre ritenute inessenziali per la comunità e la persona, lo ha certificato ufficialmente. Del teatro, dunque, si può fare a meno. Tranne che in un luogo, dove conserva intatta la sua originaria e autentica funzione catartica: il carcere. Quando il teatro entra in un istituto di pena, infatti, si assiste al capovolgimento di quella fissità che zavorra la condizione detentiva. Una fissità temporale, dovuta alla ruminazione incessante e parassitaria di un eterno presente sempre eguale. Ma anche una fissità esistenziale che inchioda il reo alla sua colpa, facendone la sineddoche della sua biografia. In questa duplice fissità il detenuto è costretto in uno stato che in psichiatria si definirebbe di para-noia: l’esatto opposto della meta-noia, che in greco antico indica la trasformazione interiore. A scanso di equivoci: l’esperienza teatrale dietro le sbarre è tutt’altro che facile, tanto per chi la propone quanto per chi accetta di viverla. Eppure, è una cruna attraverso la quale riescono a passare i più impensabili cammelli: il detenuto riottoso, quello ribelle, perfino l’irredimibile. Com’è possibile? 2. La risposta trabocca da un volume prezioso, curato dall’attore-regista Horacio Czertok, Libertà vo’ cercando (Edizioni SEB 27), da poco nelle librerie: racconta a più voci, in maniche arrotolate di camicia, il lavoro del Teatro Nucleo nel carcere di Ferrara. Pagina dopo pagina, il lettore apprende il perché di maturazioni personali altrimenti inspiegabili. Nell’interpretazione dell’altro da sé, infatti, il teatro offre al reo “la possibilità di percepirsi in modo diverso rispetto alla propria condizione e al proprio futuro”. Nell’immedesimazione del personaggio, gli rivela che “è possibile cambiare ed è anche piacevole farlo”. Attraverso la rigida autodisciplina del lavoro teatrale, addestra al rispetto delle regole di comportamento. Educando all’uso della parola recitata, chiama il detenuto-attore a un’esperienza terapeutica, perché nominare le cose in maniera precisa riduce il caos interiore. In quanto impresa collettiva, abitua “alla socializzazione e all’assunzione di responsabilità”. E poiché l’assegnazione delle parti in copione prescinde dalla fedina penale di ciascuno, “da quel momento si è tutti eguali” e diventa possibile ricominciare tutto dal principio. Il detenuto-attore vive così un’esperienza destabilizzante. Vacilla fino a franare. Scopre che l’autentica forza umana non è nella volontà di potenza, ma nel sapersi mettere in discussione: tornare indietro, guardarsi con occhi diversi, cambiare direzione. 3. La catarsi provocata dal teatro in carcere è possibile anche perché il carcere è un teatro. I detenuti e gli agenti penitenziari (cioè i diversamente ristretti) “svolgono una rappresentazione permanente, dove nessuno è chi dice di essere e tutti sono qualcos’altro”. Lo spazio della detenzione costruisce una dimensione prettamente teatrale, fatta di deprivazioni sensoriali, situazioni immaginarie, regole imposte e spesso non scritte, in cui tutti “vivono il paradosso dell’attore, che è due persone allo stesso tempo”. Chi propone il teatro in carcere lo sa, mentre per il detenuto è sempre una scoperta. Del resto, le cose più vere della vita non si insegnano né si imparano, ma si incontrano, e i detenuti-attori sono “persone che, in un preciso momento della loro vita, incontrano il teatro e lo riconoscono, magari non razionalmente, come strumento di libertà e intima rivoluzione”. Di più. È esperienza comune che, mentre qualcosa ci sta cambiando, a cambiare è anche lo spazio in cui siamo immersi, perché è sempre la relazione che fa di uno spazio anonimo un luogo vivo e vitale. Il miracolo laico può allora manifestarsi: il carcere, da luogo dove ci si può perdere per sempre, diventa il luogo dove è possibile finalmente ritrovare sé stessi. 4. Anche chi non ha mai assistito ad una rappresentazione teatrale messa in scena da una compagnia di detenuti può egualmente comprenderne l’incantesimo, attraverso un film d’antan di rara potenza: Cesare deve morire. Più che parafrasare, saccheggio piratescamente dalle sue recensioni quanto necessario per spiegare il senso delle scelte registiche di Paolo e Vittorio Taviani. La loro opera, infatti, si distingue per originalità strutturale. Non è un film (perché mostra la vita vera di persone reali). Non è un film sul carcere (perché mostra le prove per una rappresentazione teatrale). Non è un film sul teatro in carcere (perché non vediamo mai lo spettacolo realizzato, se non per le brevi sequenze che aprono e chiudono il film). Che cos’è, allora? I fratelli Taviani entrano nel carcere romano di Rebibbia per raccontarci la possibilità di una pena che rieduca. Le storie passate dei detenuti-attori sono deliberatamente taciute: ciò che interessa ai registi è narrarci non l’accaduto, ma una possibilità di riscatto. Di ciascun personaggio si racconta - a un tempo - il sé reale, la parte in commedia, l’attore cinematografico. E poiché sono livelli che si sovrappongono continuamente fino a confondersi, lo spettatore non è portato a giudicare, semmai ad osservare il cambiamento in atto. Assistiamo così ad una metamorfosi attraverso l’interpretazione scenica: l’uomo della pena si mostra capace di essere diverso dall’uomo del reato. È una presa di coscienza espressa nella frase del capocomico, pronunciata dopo l’applaudita rappresentazione della tragedia scespiriana, una volta richiuso il blindato alle sue spalle: “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione”. Attende, quel detenuto, una seconda opportunità. Quella che la Costituzione impone di non negare a nessuno. 5. Il teatro in carcere, dunque, non è consolazione, né balsamo, né intervallo ricreativo. È un processo creativo di natura politica, cioè una grande operazione culturale: per “teatro-carcere” “si intende infatti un’attività artistica che non solo realizza spettacoli, ma porta avanti laboratori e percorsi formativi con effetti risocializzanti sui partecipanti”. Il libro ce ne restituisce tutta la complessità, mostrandoci come un caos inizialmente privo di senso si fa via via messa in scena, grazie a un lavoro che rifugge ogni pressapochismo. Da molti anni esperienze simili si sono moltiplicate in Italia. Un dossier del Servizio Studi della Camera (n. 495, XVIII Legislatura) squaderna le dimensioni di una realtà ampiamente diffusa nell’area penale, sia degli adulti che minorile. Prima della pandemia da Covid-19 (dicembre 2019), risultano 321 le attività teatrali all’interno dei 190 istituti penitenziari. I detenuti che vi aderiscono sono complessivamente 5.021. Di questi, 4.632 uomini (pari al 7,97% dei complessivi 58.106 detenuti) e 389 donne (pari al 14,60% delle complessive 2.663 detenute). Sono cifre tutt’altro che velleitarie. Molte di queste esperienze hanno raggiunto una ragguardevole notorietà artistica. Tutte e ciascuna costituiscono avamposti concreti di civiltà. Aprono corridoi umanitari in mezzo a una realtà per lo più condannata a contenere vite di scarto. È un lavorìo di lunga lena che sanno fare bene anche dentro la casa circondariale di Ferrara, dov’è attiva dal 2005 la cooperativa Teatro Nucleo. Due volte alla settimana si svolgono laboratori teatrali della durata complessiva di quattro ore, incrementate in prossimità degli spettacoli realizzati nel carcere e, poi, nel Teatro Comunale della città, le cui prove sono “aperte” agli studenti medi delle scuole ferraresi. Gli attori-detenuti, retribuiti per il loro impegno professionale, possono proseguire la prassi scenica anche fuori dal carcere - quando in permesso o perché dimessi - presso la sede della cooperativa, il Teatro Cortazar a Pontelagoscuro. 6. Così incarnato, il teatro-carcere si colloca perfettamente dentro l’orizzonte costituzionale secondo cui le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27, 3° comma): puniamo qualcuno per averlo poi indietro, possibilmente cambiato. Ebbene, “il teatro è un dispositivo che facilita questo cambiamento”. Per dirlo con le parole di un attore-detenuto: “non vedo perché quello successo su un palcoscenico di un teatro dove sono stato accolto pubblicamente non si possa riproporre su un marciapiede che è il palco della vita di tutti i giorni”. La teologia della maledizione perenne (“fine pena mai”; “deve marcire in galera”; “buttare via la chiave”) è esattamente il contrario di quanto impone la Costituzione e che la legge n. 354 del 1975 traduce concretamente attraverso un trattamento individualizzato, progressivo, scandito da misure extramurarie sempre più intense, dove a fare la differenza (anche rispetto all’entità della pena effettivamente scontata) è il percorso personale del detenuto. Definendo la cella come camera di pernottamento (art. 6, 2° comma), l’ordinamento penitenziario vuole che il tempo diurno della detenzione si svolga fuori di essa, perché il carcere non è mera contenzione, semmai occasione di reinserimento sociale. L’esperienza teatrale è un compendio di fattori trattamentali: istruzione, formazione professionale, attività sportiva, attività ricreativa, lavorio psicologico guidato, relazione con l’esterno e all’interno della struttura carceraria, rapporti con la famiglia. Così il teatro-carcere, favorendo la risocializzazione del reo, concorre a rendere più sicura l’intera società dove farà ritorno la più larga parte dei detenuti, una volta scontata la loro pena. Proporlo, diventa così un intelligente esempio di altruismo interessato, come spiega bene Horacio Czertok: “Spesso mi chiedono perché facciamo teatro nel carcere. […] Mi sono trovato a rispondere: queste persone qui, i detenuti, prima o poi usciranno. E verranno a vivere vicino a casa mia: come voglio che sia il mio vicino di casa?”. Buona lettura. I diritti dell’anarchico, i doveri dello Stato di Celestino Tabasso L’Unione Sarda, 2 gennaio 2023 Luigi Manconi e il caso Cospito: “Vedo almeno due elementi di sproporzione. E la proporzionalità è la base del diritto”. Quando si parla di Luigi Manconi viene da rubacchiare un’etichetta coniata da Piero Sansonetti per chi si batte contro la cultura forcaiola: uno dei pochi garantisti veri e non a dondolo della nostra politica. La parta più avvertita dell’opinione pubblica lo ricorda, oltre che per l’attività parlamentare, in trincea per i diritti negati nei casi Uva, Aldrovandi, Regeni e Cucchi. Oggi la sua è una delle voci che si levano in difesa delle ragioni di Alfredo Cospito, che mentre attende di scoprire se la sua condanna a vent’anni si trasformerà in ergastolo ostativo dal 19 ottobre è in sciopero della fame nel carcere di Sassari - la città di Manconi - contro il regime del 41 bis che gli è stato confermato dal Riesame. Manconi, che cosa c’è di strano nel carcere duro per chi risponde di reati gravissimi?  ”Bisogna intanto ricordare l’origine del regime speciale, che come è noto è stato istituito per combattere la grande criminalità organizzata. La sua applicazione in un caso come questo, un caso diciamo così di militanza anarchica rivoluzionaria, appare francamente improprio. Ma è tutta la vicenda che sembra all’insegna di una mancata proporzionalità tra i fatti e la loro sanzione, al punto che la stessa corte d’assise d’appello di Torino ha accolto la richiesta dei legali di Cospito di sollevare un’eccezione presso la Consulta in quanto appare una sproporzione fra l’entità del reato e la sanzione prevista”. Il reato di cui parliamo è strage... “Cospito è condannato per aver inviato due pacchi bomba alla scuola carabinieri di Fossano: un’azione che non ha causato morti né feriti e neppure danni rilevanti, eppure la fattispecie penale la configura come strage politica, cioè contro la personalità dello Stato. Quindi rischia l’ergastolo nonostante l’esito delle sue azioni nulla abbia a che vedere con eventi come Capaci e di via d’Amelio. Questo mi pare un primo elemento di sproporzione, e invece il diritto trova uno dei suoi fondamenti proprio nella proporzionalità tra il fatto e la sanzione. Un’altra sproporzione è che a seguito della condanna ci sarebbe l’ostatività, cioè l’impossibilità di usufruire dei benefici carcerari e di accedere alla libertà condizionale se non dopo 30 anni. Tutto questo appare eccessivo, direi caricato ideologicamente piuttosto che sancito dalle leggi”. In sostanza dipende dal fatto che Cospito è anarchico? “Sì. Quella dell’anarchico è una categoria che porta con sé una letteratura, un’emotività e un allarme sociale particolari”. Però l’anarchico Cospito può ricorrere in Cassazione contro il 41 bis e alla Consulta per farsi riconoscere le attenuanti... “Sì, in Italia ci sono gli strumenti previsti dallo stato di diritto - per quanto pieno di limiti, carenze e difetti - ma questo non cambia realtà cose. Un sovversivo, un rivoluzionario può legittimamente chiedere il rispetto delle garanzie e dei diritti anche se ideologicamente non si riconosce in quel sistema. Questo è un punto che eventualmente riguarda la coerenza di un anarchico, non noi che siamo felici trovarci in uno Stato di diritto. Il garantismo prescinde completamente dal clima politico complessivo e dal curriculum criminale di ciascuno”. A proposito di clima, prendiamo in considerazione tre elementi: la riproposizione dell’ergastolo ostativo, la vicenda di Cospito, la richiesta di applicare il codice antimafia a un attivista ventenne del gruppo ambientalista Ultima Generazione. Sono conseguenze del nuovo governo o insieme al nuovo governo sono espressione del nuovo clima del Paese? “Mi sembra una forma letteraria diversa del dilemma sull’uovo e la gallina. È ovvio che un certo orientamento dell’opinione pubblica, una certa direzione presa dalla mentalità collettiva producono un certo risultato elettorale, che a sua volta si traduce in politiche pubbliche che blandiscono un certo movimento di opinione. Il fenomeno in sé non è assolutamente una novità, la cosa singolare è che questo orientamento giustizialista, questa tendenza legge & ordine prendono corpo in una società italiana che registra il crollo numerico di tutti i reati. Il 41 bis nasce nei primi anni Novanta e nel 1992 gli omicidi volontari furono circa 750. Oggi sono al di sotto dei 300. Non solo: tutti i reati, compresi quelli più suscettibili di creare allarme sociale come rapine e furti, diminuiscono significativamente. Questo dimostra che il peso del populismo nel determinare gli atteggiamenti collettivi è assai più forte dell’esperienza diretta di ciascuno di noi”. In un clima populista, quanto può incidere la cultura garantista del ministro della Giustizia Nordio? “Nordio ha iniziato malissimo, non contestando un obbrobrio giuridico e culturale come il decreto Rave, dopodiché ha indicato un disegno di riforma della giustizia che condivido largamente. Mi sorprende però che questa idea venga contraddetta da esponenti della sua stessa maggioranza e del suo stesso governo”. La sostituzione di Renoldi al vertice del Dap è un danno per i detenuti? “Renoldi ha avuto posizioni di politica penitenziaria razionali e intelligenti, si poteva sperare in una politica delle carceri che finalmente riflettesse su sé stessa e assumesse indirizzi nuovi. Purtroppo è l’ennesima speranza sfumata”. La vita di un anarchico di Letizia Paolozzi donnealtri.it, 2 gennaio 2023 “Leggo soltanto quattro righe. Prima di scomparire definitivamente nell’oblio del regime del 41 bis lasciatemi dire poche cose e poi tacerò per sempre. La magistratura della repubblica italiana ha deciso che, troppo sovversivo, non potevo più avere la possibilità di rivedere le stelle, la libertà. Seppellito definitivamente con l’ergastolo ostativo, che non ho dubbi mi darete, con l’assurda accusa di aver commesso una “strage politica”, per due attentati dimostrativi in piena notte, in luoghi deserti, che non dovevano e non potevano ferire o uccidere nessuno e che di fatto non hanno ferito e ucciso nessuno. Non soddisfatti, oltre all’ergastolo ostativo, visto che dalla galera continuavo a scrivere e collaborare alla stampa anarchica, si è deciso di tapparmi la bocca per sempre con la mordacchia medievale del 41 bis, condannandomi ad un limbo senza fine in attesa della morte. Io non ci sto e non mi arrendo, e continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro, per far conoscere al mondo questi due abomini repressivi di questo paese. Siamo in 750 in questo regime ed anche per questo mi batto. Al mio fianco i miei fratelli e sorelle anarchici e rivoluzionari. Alla censura e alle cortine fumogene dei media sono abituato, queste ultime hanno l’unico obiettivo di mostrificare qualunque oppositore radicale e rivoluzionario. Abolizione del regime del 41 bis. Abolizione dell’ergastolo ostativo. Solidarietà a tutti i prigionieri anarchici, comunisti e rivoluzionari nel mondo. Sempre per l’anarchia” ha detto Alfredo Cospito. Anarchico insurrezionalista, Cospito milita nella Fai-Fri Federazione anarchica informale - Fronte rivoluzionario internazionale che teorizza anche la violenza politica contro lo Stato, il capitale e il marxismo. Nel 2013 è stato condannato a dieci anni e otto mesi di carcere per aver ferito alle gambe un dirigente dell’Ansaldo. Detenuto nel carcere Bancali di Sassari mentre la sua compagna, Anna Beniamino, è detenuta a Roma, già condannato in via definitiva per una serie di attentati tra il 2003 e il 2016, oggi rischia l’ergastolo ostativo per “strage politica contro la sicurezza dello Stato”. Dopo sei anni passati in regime di Alta Sicurezza, il reato (aver fatto esplodere nel 2006 in orario notturno due ordigni a bassa intensità in una scuola di allievi carabinieri di Fossano in provincia di Cuneo, senza che questi causassero morti, feriti né danni gravi) è stato riformulato da attentato per finalità terroristiche (art. 280 c.p.) a strage ai danni dello Stato (art. 285 c.p.), il più grave del nostro ordinamento, che prevede la possibilità del “fine pena mai”, l’ergastolo ostativo (cioè ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale e di ottenere benefici) della cui legittimità costituzionale si continua a discutere, attendendo il pronunciamento dell’Alta Corte. Nel maggio di quest’anno, Cospito è stato sottoposto a regime di 41bis, il cosiddetto “carcere duro”, avendo intrattenuto negli anni relazioni epistolari con realtà del mondo anarchico, relazioni ritenute istigatrici dai magistrati. A dicembre, la misura è stata prolungata dal tribunale di sorveglianza di Roma per quattro anni, paragonando Cospito a un boss mafioso e le sue relazioni a quelle nella criminalità organizzata, dunque, immaginando la Fai come una rete basata su capi e gerarchie. Cospito si è ritrovato con le ore d’aria diminuite. Le trascorre “in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri, il cui perimetro è circondato da alti muri che impediscono alcuna visuale o semplicemente di estendere lo sguardo all’orizzonte, mentre la visuale del cielo è oscurata da una rete metallica”. La socialità “di una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti, sottoposti al regime da numerosissimi anni, che in realtà si riducono ad uno in considerazione del fatto che un detenuto è sottoposto ad isolamento diurno per due anni e un secondo ormai tende a non uscire più dalla cella” (Livio Pepino sul sito Volere la luna). Non poter leggere giornali o libri, vedersi vietare ogni tipo di comunicazione, essere impossibilitato a pubblicare e diffondere le proprie idee, significa negare l’umanità dell’individuo dal momento che ciò che lo rende umano sono le relazioni. Ma secondo i giudici del tribunale di sorveglianza di Roma “lo status detentivo ordinario, anche in regime di alta sicurezza, non consente di contrastare adeguatamente l’elevato rischio di comportamenti orientati all’esercizio da parte di Alfredo Cospito del suo ruolo apicale nell’ambito dell’associazione di appartenenza”. Certo, Cospito non è un pentito e non è uno stinco di santo; non ha mai negato la sua appartenenza al “movimento anarco insurrezionalista” né l’approvazione per attentati e “azioni terroristiche contro persone”. Eppure, dove sta la proporzionalità nella sua pena e la funzione rieducativa della stessa? Non sarà che anarchici e appartenenti all’area degli antagonisti (penso anche ai no-Tav) sono trattati con una particolare ferocia, quasi dovessero sottostare a un castigo esemplare? Cospito ha iniziato a ottobre lo sciopero della fame nel quale è arrivato a perdere ormai più di trenta chili. Scrive ancora Livio Pepino: “Lo sciopero della fame di detenuti potenzialmente fino alla morte (praticato assai più di quanto si dica: basti pensare a quel che accade, oggi, in Turchia e in Egitto) è una scelta esistenziale drammatica, che mostra un carcere senza speranza nel quale, come accade nel nostro Paese, si moltiplicano i suicidi (giunti, quest’anno, al numero senza precedenti di 80)”. Ieri il numero dei suicidi è diventato di 83. Il detenuto decide di mettere in gioco il suo corpo non avendo altra forma di protesta e di lotta se non questo gesto materiale e simbolico nel quale autodistruggersi. Una “indomabile ostinazione” la chiama Foucault (La vita degli uomini infami. Forme di vita e politica). Indomabile ostinazione ma Bobby Sands, morto dopo 66 giorni di digiuno, cambiò l’Irlanda. Forse, grazie a un anarchico (anche se non è uno stinco di santo), può riaprirsi la strada dell’assennatezza giuridica. La sua protesta è sostenuta da molti: Radio Radicale, Nessuno tocchi Caino, Luigi Manconi, Zero Calcare… E forse, grazie a un anarchico e alla sua scelta di lasciarsi morire di fame, sorgono più dubbi sul 41 bis e l’ergastolo ostativo. Non sarebbe giusto però che la contestazione di un’ingiustizia, ovvero l’applicazione di un regime di detenzione estrema, equivalga a rinunciare alla vita. A noi sta troppo a cuore la vita, quella di un anarchico, quella di tutti, per accettare un simile baratto Al via i nuovi reati procedibili a querela: limiti all’obbligo di avvisare le persone offese di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2023 Il magistrato deve informare le vittime solo se l’indagato è in custodia cautelare. Le restrizioni cadono se il danneggiato non agisce entro il 19 gennaio. La riforma penale contenuta nel decreto legislativo 150/2022 - entrata in vigore il 30 dicembre, con i correttivi introdotti dal decreto legge 162/2022, come modificato nel passaggio parlamentare - conferma l’aumento dei reati procedibili a querela di parte, anziché d’ufficio, ma modifica la disciplina transitoria, limitando ai casi in cui l’indagato (o imputato) è in custodia cautelare l’obbligo per i magistrati e le forze dell’ordine di avvisare le persone offese del diritto di querela. La misura cautelare perde infatti efficacia se non è presentata querela entro il 19 gennaio. Nuovo regime di procedibilità - La riforma amplia la sfera della procedibilità a querela con l’obiettivo di ridurre i carichi giudiziari lasciando che sia la vittima a decidere se lo Stato debba perseguire, o meno, l’autore del reato. Tra le nuove fattispecie procedibili a querela vi sono delitti contro il patrimonio e la persona che si verificano con frequenza: furto, truffa, frode informatica, appropriazione indebita, lesioni personali fino a 40 giorni di prognosi, lesioni stradali colpose gravi e gravissime causate da una violazione generica del Codice della strada, danneggiamento, turbativa violenta del possesso di cose mobili, minaccia, violenza privata e violazione di domicilio. Per la prima volta nel nostro ordinamento, diventano poi perseguibili a querela due contravvenzioni, cioè molestia e disturbo alle persone. La caratteristica di tutti questi reati è che la condotta del loro autore colpisce beni giuridici privati: l’avvenuto risarcimento del danno, insieme al buon esito di un percorso di giustizia riparativa - cioè un’altra misura introdotta dal decreto 150, volta a comporre anche sotto il profilo umano e sociale il conflitto - sono perciò fattori decisivi per rendere inutile la celebrazione di un processo. In questo scenario, è evidente l’opportunità dell’effettivo coinvolgimento della vittima, garantendo che sia adeguatamente informata del diritto di proporre querela. La procedibilità d’ufficio rimane quando la vittima è incapace, per età o infermità, oppure se la condotta incriminata lede anche beni dello Stato, come nel caso di furto commesso in uffici pubblici, oppure su cose destinate al pubblico servizio. Da ultimo, la nuova disciplina transitoria prevede che i reati di violenza sessuale, stalking e revenge porn, connessi ad altri reati che diventano perseguibili a querela, rimangano procedibili d’ufficio. Disciplina transitoria Le novità si applicano anche ai reati commessi prima del debutto della riforma, se non coperti da giudicato, come ha ricordato il massimario della Cassazione nella relazione 68/22. Il comma 1 dell’articolo 85 del decreto 150 (non modificato dal decreto legge 162) detta la norma transitoria “generale”: se la vittima era a conoscenza del fatto prima del 30 dicembre, il termine trimestrale per la presentazione della querela decorre da tale data. Ma rispetto al testo originario del decreto 150 scompare l’obbligo generalizzato per l’autorità giudiziaria di informativa alla persona offesa del diritto di sporgere querela. La nuova disciplina transitoria circoscrive l’obbligo di avviso del diritto di querela in capo a magistratura e forze dell’ordine ai soli casi di pendenza di misura cautelare; il nuovo comma 2 dell’articolo 85 prevede che le misure personali in corso di esecuzione perdono efficacia se, entro 20 giorni dall’entrata in vigore del decreto 150, l’autorità giudiziaria che procede non acquisisce la querela. A tal fine, la stessa autorità deve effettuare ogni ricerca utile della vittima, anche avvalendosi della polizia giudiziaria; durante la pendenza del termine, rimangono sospesi i termini di custodia cautelare. Viene inoltre previsto che possano essere compiuti atti di indagine necessari ad assicurare fonti di prova, anche con le forme dell’incidente probatorio, in attesa che la vittima decida di sporgere querela: ciò indifferentemente se l’imputato è libero o sottoposto a misura cautelare. Si tratta di modifiche alle quali l’avvocatura deve prestare particolare attenzione visto che, nei fatti, onerano il professionista, quando difende la vittima, di informarla del cambio di procedibilità, per tutti i casi (la maggior parte) in cui l’imputato non è sottoposto a misura cautelare. La nuova disposizione può prestare il fianco a rilievi per le poche tutele offerte alla persona offesa senza difensore: il reato potrebbe estinguersi senza dare alla vittima la possibilità di manifestare la sua volontà punitiva, anche se, in ipotesi, non sia stata risarcita e non sia stato avviato un percorso di giustizia riparativa. Nuova class action senza confini per i consumatori degli Stati Ue di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2023 Le associazioni dei consumatori degli Stati dell’Unione europea potranno proporre class action nel nostro Paese e quelle italiane negli altri Stati Ue, sia per bloccare i comportamenti illeciti sia per ottenere un risarcimento del danno. Il Governo ha approvato in via preliminare il Dlgs che recepisce la direttiva Ue 2020/1828, sulle azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori. La scelta di non modificare l’attuale legge sulla class action (la 31/2019) ma di dar vita a una nuova procedura (“l’azione rappresentativa”) che si affianca e, in parte, si sovrappone, alle azioni collettive previste dalla legge n. 31 rischia però di creare un intrico normativo e problemi applicativi. Si moltiplicano, inoltre, gli elenchi (ciascuno con i propri requisiti) per le associazioni autorizzate a presentare le azioni di classe. Il provvedimento è ora all’esame delle commissioni parlamentari per i pareri. Dovrà poi ricevere il secondo e definitivo via libera del Consiglio dei ministri. L’entrata in vigore è prevista per il 25 giugno 2023. L’azione transfrontaliera - Richiesta dalla direttiva Ue, l’azione rappresentativa transfrontaliera potrebbe riguardare settori come l’e-commerce, l’energia o i servizi finanziari, dove gli illeciti hanno spesso dimensione sovranazionale. È caratterizzata dal fatto che lo Stato in cui viene presentata non coincide con quello dell’ente che la propone. In Italia potrà quindi essere promossa da associazioni di altri Stati presenti nell’elenco tenuto dalla Commissione Ue, mentre le organizzazioni italiane potranno fare lo stesso nei Paesi Ue. I promotori avranno quindi la possibilità di scegliere il Paese in cui avviare l’iniziativa, anche in base alla normativa di quello Stato (efficacia, velocità, ecc.). Il nuovo iter e la legge 31 - L’azione rappresentativa viene introdotta nel Codice del consumo: riguarderà quindi la tutela degli interessi collettivi dei consumatori e avrà un raggio d’azione più limitato rispetto alla class action prevista dalla legge 31/2019. La riforma approvata nel 2019 dal primo Governo Conte ha infatti allargato il campo di applicazione della class action estendendo sia la platea dei potenziali ricorrenti (non più solo consumatori, ma tutti i cittadini, le imprese e i professionisti), sia quella degli illeciti contestabili che oggi includono oltre alle responsabilità contrattuali anche tutte quelle extracontrattuali. E lo ha fatto proprio spostando la normativa dal Codice del consumo al Codice di procedura civile. “Speravamo che il recepimento della direttiva fosse l’occasione per rivedere e integrare la normativa esistente - sottolinea Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo. E invece ricompare una class action consumerista che si va ad affiancare a quella del Codice di procedura civile. Ma il problema maggiore è che nessuna delle due funziona bene perché il percorso che porta dalla sentenza di accoglimento ai risarcimenti ricorda quello fallimentare ed è di una complessità mostruosa”. Quando la tutela riguarda gli interessi collettivi dei consumatori, ci saranno quindi due binari: quello della class action disciplinata dalla legge 31/2019 e quello della nuova azione rappresentativa (che può essere promossa sia da associazioni straniere che italiane, anche in modo congiunto). L’iter procedurale è analogo perché il Dlgs approvato nelle scorse settimane rimanda al percorso stabilito dalla legge n. 31. “Nella materia contrattuale si crea una sovrapposizione che andrebbe disciplinata - osserva Confindustria - altrimenti si rischia che, per lo stesso fatto e contro la stessa impresa, vengano azionati due strumenti diversi da parte di soggetti differenti. Il Dlgs non tocca, inoltre, i punti critici della normativa esistente e cioè l’adesione dopo la sentenza di accoglimento, che rende possibili comportamenti opportunisti, e i compensi premiali per difensori e promotori. Bisogna evitare il contenzioso strumentale”. La moltiplicazione degli elenchi In Italia, le azioni potranno essere promosse dalle associazioni dei consumatori rappresentative a livello nazionale presenti nell’elenco tenuto dal ministero dello Sviluppo economico. All’interno di questo elenco nascerà però una sezione speciale dedicata ai soggetti legittimati a promuovere le azioni transfrontaliere, con requisiti di accesso differenti. In base alla legge 31 è, poi, già stato istituito un elenco delle organizzazioni abilitate a proporre le class action, tenuto in questo caso dal ministero della Giustizia e con requisiti d’accesso ancora diversi (ma il primo popolamento è avvenuto trasferendo le associazioni presenti nell’elenco del ministero dello Sviluppo economico). Il finanziamento di terzi - Anche se non lo disciplina espressamente, il Dlgs menziona il cosiddetto third party litigation funding, istituto molto dibattuto che permette a un terzo di finanziare l’azione in cambio di una remunerazione calcolata sulla base di quanto ottenuto se l’esito è favorevole. Il Dlgs lo cita due volte al fine di evitare conflitti di interesse: obbliga, infatti, le associazioni abilitate alle azioni transfrontaliere ad inserire misure preventive negli statuti e introduce fra i criteri di inammissibilità il caso in cui il soggetto finanziatore sia un concorrente dell’impresa accusata della violazione. “Questi accorgimenti- dice Carlo Santoro, partner dello studio Cleary Gottlieb - sembrano costituire un primo riconoscimento espresso, seppure indiretto, della legittimità del litigation funding. In particolare, è previsto che il ricorrente, per evitare l’inammissibilità dell’azione finanziata da un concorrente, possa rivolgersi a un altro finanziatore”. Catania. “Fiaccolata per la libertà” di fronte la Casa circondariale di Piazza Lanza blogsicilia.it, 2 gennaio 2023 Nel giorno di Capodanno a piazza Lanza si è tenuta una “fiaccolata per la libertà” per far luce sulla critica situazione nelle carceri italiane. Un centinaio di persone hanno preso parte alla mobilitazione di fronte la Casa circondariale catanese per manifestare in merito alla tragica situazione nelle carceri italiane e per accendere i riflettori sul “caso Cospito”, anarchico al 41bis in sciopero della fame da oltre settanta giorni e a rischio di vita. Fuochi d’artificio e un corteo - Simbolicamente le fiaccole hanno portare luce sulle istanze portate in piazza. Dopo diversi interventi sui vari problemi del “sistema carcere” la manifestazione ha salutato i detenuti e le detenute della casa circondariale con fuochi d’artificio e con un corteo attorno alle mura della struttura. Lanciata dal gruppo Facebook “Amici e parenti dei detenuti”, sono diverse le sigle che hanno scelto di sottoscrivere l’appello e partecipare. Il caso Cospito - La fiaccolata rivendicava, tra l’altro, il caso Cospito. Da oltre sessanta giorni Alfredo Cospito ha avviato lo sciopero della fame, e ogni giorno rischia di essere il suo ultimo giorno. Lo sciopero riguarda la scelta della magistratura di metterlo al 41bis, in quanto anarchico e ritenuto a capo di una vasta organizzazione. Intento però è strage nelle carceri che segnano un nuovo record: 82 suicidi nel 2022. “Sono dati allarmanti, che non possono essere considerati “anomalie”, ma problemi sistemici”, dicono gli organizzatori della fiaccolata. Il sistema carcere - “Il sistema carcerario risulta inutile e dannoso ai fini della società. Un problema da superare, più che una soluzione. Come farlo si può capire solo mettendone in discussione strutturalmente la forma”, aggiungono le sigle che hanno partecipato alla mobilitazione catanese e che affontano anche il tema del 41Bis. “Come recentemente espresso da diversi giuristi si tratta di una norma di natura emergenziale resa ormai stabile il cui obiettivo è, oggi più che mai, mera punizione e afflizione. Per come è concepito e attuato tale regime è vendetta di Stato, è tortura. È interruzione dello stato di diritto”. Rimini. Il Partito Radicale in visita al carcere: “Su 133 detenuti, 45 in sofferenza psichiatrica di Ivan Innocenti* riminitoday.it, 2 gennaio 2023 Il 31 dicembre 2022 si è svolta la visita alla Casa Circondariale Malatesta di Rimini nell’ambito dell’iniziativa del Partito Radicale “Natale in carcere”. Delegazione composta da Ivan Innocenti del Consiglio Generale del Partito Radicale, Da Sonia Raimondi e Annalisa Calvano della Commissione Carcere della Camera penale di Rimini e la partecipazione dei Consiglieri Comunali Serena Soldati e Giuliano Zamagni. La situazione penitenziaria riminese mostra alcune criticità gravi. L’aspetto della salute, rimarcato per altre questioni anche dalle visite semestrali dell’AUSL, vede un rilevante aumento dei casi psichiatrici. Quattro mesi fa si registravano 25 persone detenute in sofferenza psichiatrica, oggi sono 45, a conferma che il carcere produce patologia. Ad agosto un detenuto si è tolto la vita. L’area educativa vede in ruolo 1 educatore invece dei 5 previsti. Negli ultimi 2 mesi è stato affiancato da 4 figure professionali, 3 psicologi e 1 criminologo; si auspica che questa situazione diventi definitiva. È opinione che questo cambiamento sia un indispensabile mezzo di supporto all’attività del personale penitenziario e che abbia alleggerito la situazione di afflizione e disagio in carcere. Rimane la criticità che solo l’educatore di ruolo può inviare le relazioni al Magistrato di sorveglianza e la sua assenza blocca l’ufficio. L’area sanitaria ha necessità di uno psichiatra a tempo pieno, ora presente alcune ore al mese. Attualmente il presidio sanitari ha ridotto la sua presenza a 12 ore al giorno. Questo causa un aggravio di impegno del personale di polizia nelle ore notturne costretto a continua traduzione all’ospedale con relativi costi. Su questo aspetto si dovrebbe fare una valutazione dei costi complessivi, ora invece divisi tra Regione Emilia Romagna e Stato. Il dipartimento Penitenziario continua a utilizzare il dato della capienza tollerabile per misurare il sovraffollamento invece del dato della capienza regolamentare. Questo influenza anche la relazione AUSL che non rileva la realtà dell’aggravio delle presenze in carcere. La capienza regolamentare riminese è indicata in 118 persone, quella tollerabile invece è di 165. (per tollerabile si intende quella capienza oltre la quale la corte di giustizia europea dei diritti dell’uomo condanna per violazione dell’articolo 3 in tema di “trattamenti inumani e degradanti”). La pianta organica prevede 150 agenti di Polizia penitenziaria. Assegnati sono 118 ma gli effettivi che svolgono attività di sorveglianza sono solo 74, 8 per il nucleo di traduzioni, 12 assenti per malattia per periodi medi e lunghi. Questa situazione necessita di una inversione e si dimostra afflittiva sia per il personale di polizia sia per tutta la comunità penitenziaria. I detenuti presenti nel penitenziario sono 133, 77 con condanna definitiva, 56 in attesa di giudizio di cui 47 imputati. 69 sono tossicodipendenti (persone malate che necessitano di cure), 73 sono stranieri. Questi dati sommati al disagio psichiatrico mostrano come siano in prevalenza casi sanitari e di disagio sociale e ci si dovrebbe porre domande sull’opportunità e utilità del carcere per queste persone. Il lavoro è il grande assente negli istituti penitenziari. Le risorse per i lavoranti a dipendenza del carcere sono scarse, discontinue e in calo. Ciò rende difficile la pianificazione e per aumentare i beneficiari delle risorse si dividono le ore di lavoro tra più persone. Sono 36 le persone che lavorano all’interno del carcere. Un detenuto lavora per cooperative esterne, 9 detenuti semiliberi lavorano all’esterno. Per organizzazione interna, dovuta alla scarsità di personale, una sezione, la 4, nel periodo festivo risulta chiusa. Le altre risultano sovraffollate, in particolare la sezione 2 che ospita 28 persone invece delle 14 regolamentari. La sezione 1 è stata chiusa per manutenzioni di emergenza che hanno interessato una doccia. Nonostante questo intervento la sezione ora riaperta è inospitale alla detenzione e la sua chiusura dovrebbe essere già stata disposta da tempo. Sono in programma diversi interventi che risultano già finanziati. Riguardano l’ala della sezione 1 e la ex sezione 6, chiusa da tempo. Sono aree dell’edificio sovrapposte e la ristrutturazione contestuale è opportuna. Per la sezione 6 sono già disponibili 200mila euro. Sono locali attigui all’area trattamentale. Il progetto è ampliarli per avere delle superfici utilizzabili per le attività lavorative nell’ambito della legge Smuraglia che incentiva con sgravi e fondi le imprese che trasferiscono lavoro all’interno del carcere. Sarà necessaria poi una campagna informativa rivolta a imprese e categorie economiche. Per la sezione 1, è stato stanziato finalmente un milione di euro. L’iter è in progressione e sembra che a breve si dovrebbe essere in grado di procedere con chiusura definitiva per ristrutturazione. È opportuno che la nostra comunità e per tramite i propri rappresentanti istituzionali e i parlamentari della circoscrizione seguano l’iter e lo accelerino quanto più possibile per terminare questa grave violazione dei diritti umani e costituzionali della detenzione in prima sezione. Novità positive vi sono nella Magistratura di Sorveglianza, funzione strategica per un buon carcere. Finalmente Rimini ha assegnato un suo magistrato. Attualmente copre alcune funzioni vacanti in altri istituti della regione, ma è previsto che in futuro si occupi solo di Rimini che attualmente è gravato da un grande ritardo nella valutazione dei fascicoli. Dal 2012 manca un Direttore assegnato in modo definitivo ed esclusivo alla Casa Circondariale, questo ha effetti molto negativi sul funzionamento interno. Il direttore attuale che si occupa di Castelfranco Emilia risulta avere contribuito in modo positivo all’andamento dell’istituto. È comunque necessario superare questa difficoltosa lunga fase di transizione. Le questioni della ristrutturazione, del Magistrato di Sorveglianza, dell’assenza di un Direttore assegnato e della carenza di personale sono temi di responsabilità nazionale. Su questi temi sarebbe opportuno interessare i Parlamentari della circoscrizione. Le questioni sanitarie e delle sue risorse sono di responsabilità della sanità Regionale e si dovrebbero interessare i Consiglieri Regionali. L’Amministrazione Comunale oltre a sollecitare i Parlamentari e i Consiglieri regionali della circoscrizione può agire sui seguenti punti: coprire la vacanza del Garante Comunale delle persone private della libertà; rinnovare la convenzione per l’esecuzione delle pene alternative; promuovere e chiedere la costituzione dell’istituto Consiglio di Aiuto Sociale. *Consiglio generale Partito Radicale Sondrio. L’onorevole Mauro Del Barba in visita al carcere sondriotoday.it, 2 gennaio 2023 L’incontro con i detenuti è stato un modo per riportare l’attenzione sulle difficoltà con cui devono fare i conti sia dietro le sbarre sia una volta scontata la loro pena. Nella giornata di ieri l’onorevole Mauro Del Barba ha visitato il carcere di Sondrio dove, attualmente, vengono ospitati 35 detenuti. Un momento intenso in cui il politico valtellinese ha potuto riscontrare come anche nella casa circondariale del capoluogo si riscontrino i problemi e le difficoltà delle altre carceri italiane. Tra queste moltissime situazioni di persone che avrebbero le condizioni e i provvedimenti per le misure alternative, ma sono costrette a rimanere in carcere per l’emarginazione a cui la società li costringe: “Si tratta dei tanti, una percentuale che secondo molti arriva sopra il 20% - ha spiegato Del Barba -, che non trovano nessuno disposto a dargli fiducia e nemmeno ad affittargli la casa: senza dimora sono così costretti a rimanere in carcere anche quando dovrebbero essere fuori, come accade a Giulio (nome cambiato) che mi ha raccontato di essere detenuto da mesi perchè non trova un appartamento che lo possa ospitare per scontare i domiciliari”. “Nonostante tutto abbiamo potuto fare anche molte risate: anche per loro l’ultimo dell’anno è un giorno speciale, dove giocarsi una sigaretta a carte può essere meno monotono e disperante di un giorno qualunque - ha proseguito Del Barba -. Prima di uscire una passeggiata nel cortile “dell’ora d’aria” con gli agenti di custodia, gentili e premurosi, per osservare lo scorcio di cielo che quotidianamente rappresenta per i 35 detenuti a Sondrio ciò che l’esterno ha loro da offrire, tranne che per quell’unico detenuto art. 21 che un’azienda agricola ha preso come collaboratore e che, glielo leggi in faccia, ha dentro di sé il sapore del riscatto e il sorriso della vita anche per questo motivo. Un ultimo sguardo al programma delle lezioni che riprenderanno grazie al Cpa di Morbegno, il rammarico per il vuoto che il Covid ha creato attorno a queste strutture: “una volta veniva l’istruttore di atletica”, mi raccontano. E quante altre attività si potrebbero proporre a queste persone per rendere davvero la pena rieducativa, per il loro bene e nell’interesse della collettività. Poi il portone si chiude e rimane lo spazio di una foto”. L’impegno - Come detto, la visita al carcere di Sondrio è stato per l’onorevole Del Barba anche un modo per riportare l’attenzione sui problemi e le situazioni di tutti i detenuti e le strutture carcerarie italiane: ad esempio, quelli dei 700 detenuti italiani che godono del regime di semilibertà e per i quali la mezzanotte non ha rappresentato il momento a cui affidare le proprie speranze per il futuro, ma al contrario il ritorno in carcere, la fine del periodo inaugurato con il Covid in cui al regime di semilibertà si accompagnava la facoltà di dormire presso la propria abitazione sperimentando in tal modo, come dimostra l’esperienza compiuta, una progressiva responsabilizzazione e il ritorno alla normalità. Una situazione che torna ad aggravare il problema del sovraffollamento e si affianca a quello dell’alto tasso dei suicidi che non ha lasciato immune nemmeno il carcere di Sondrio. Si viene così a perdere quella che dovrebbe essere la funzione rieducativa della detenzione: “Un impegno che ci porteremo nel 2023 è quello di iniziare a invertire questa tendenza proprio dal Milleproroghe - ha concluso Del Barba. Grazie all’esperienza del collega Roberto Giachetti abbiamo già predisposto con Ivan Scalfarotto un emendamento che ripristini immediatamente la possibilità di continuare a dormire fuori per chi aveva iniziato questo percorso. Perché il tema delle carceri è una questione che riguarda la società, non i soli detenuti. È una questione di civiltà che segnala drammaticamente il progresso o il declino di un paese. Diremo a gran voce al governo che non accettiamo il declino, sicuri di essere ascoltati dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio”. Pisa. Progetto di Pet Therapy alla Casa circondariale Don Bosco Ristretti Orizzonti, 2 gennaio 2023 Nel mese di dicembre dell’anno che abbiamo appena salutato si è concluso il secondo ciclo di incontri di Educazione Assistita con gli Animali (Pet Therapy) presso la Casa Circondariale Don Bosco di Pisa. Fortemente voluto dall’amministrazione, che ha dedicato fondi interni per la realizzazione del progetto, il corso ha costituito per i partecipanti della sezione maschile e della sezione femminile un’occasione per formarsi nell’ambito della Gestione Ordinaria del cane ed Educazione Cinofila di base. Al termine del percorso è stato rilasciato un attestato di partecipazione che rappresenta il riconoscimento di un impegno speso al fine di migliorare la propria relazione con i cani e di acquisire competenze spendibili all’esterno, una volta concluso il periodo di reclusione.  L’iniziativa è stata affidata all’associazione Do Re Miao, attiva da molti anni nel campo degli Interventi Assistiti e condotta da personale altamente specializzato e riconosciuto dal Ministero della Salute e dal Centro di Referenza Nazionale per la Pet Therapy.  La finalità del progetto è stata quella di favorire l’attivazione di risorse personali nell’ambito della cura e della relazione con l’eterospecifico, puntando sulle competenze già presenti: è stato infatti rilevato che chi decide di aderire alla proposta è stato o è attualmente proprietario di cani che al momento sono presi in carico da familiari.  Il progetto si è articolato in appuntamenti settimanali di due ore, con la presenza degli operatori e dei cani dell’associazione; ogni incontro ha previsto parti teoriche e parti pratiche, ma non sono mancati momenti di libera interazione che hanno permesso alle persone ristrette di ricontattare la propria parte affettiva. L’effetto dell’entrata dei cani in Istituto si diffonde pervasivamente anche su tutto il personale presente, creando un’occasione distensiva e di scambio.  Si ringraziano il direttore Francesco Ruello per aver creduto nella potenzialità del percorso, il personale dell’Area Educativa e gli agenti della di Polizia Penitenziaria per aver favorito in tutti i modi possibili il sereno svolgimento delle attività. Per info e approfondimenti: Dott.ssa Barbara Bellettini, 3803289556. Come è cambiata la disuguaglianza nel 2022? Spunti di ottimismo di Stefano Feltri Il Domani, 2 gennaio 2023 Il 2022 ci ha lasciato due lezioni sulla disuguaglianza: le differenze di reddito e stili di vita non sono una calamità naturale, ma una scelta politica. Si possono accentuare o ridurre, dipende come si usano le risorse pubbliche (debito incluso). La seconda lezione è che in Italia qualcosa si può fare, i poveri si possono proteggere senza che questo significhi diventare una repubblica socialista o senza far piangere i ricchi. Un anno fa, proprio alla vigilia del 2022, avevamo promesso di occuparci molto di disuguaglianza, perché è il morbo silenzioso che ha infettato le nostre democrazie e le indebolisce dall’interno. In dodici mesi abbiamo pubblicato oltre cento articoli sul tema e decine di grafici, dunque ora è il momento dei bilanci. Che anno è stato per la disuguaglianza, soprattutto in Italia? La tentazione è di cedere al pessimismo più sconfortato: c’è una destra al potere che sembra aver elevato la disuguaglianza a virtù morale e bussola nell’azione dei politica economica. Chi lavora e produce non va disturbato, dunque meno tasse con la flat tax per gli autonomi fino a 85.000 euro, via le multe arretrate, più contanti, più voucher al posto dei contratti. Chi invece è povero e non lavora deve espiare la sua colpa per essere una zavorra della società: e dunque l’accanimento sul reddito di cittadinanza, da togliere nei prossimi mesi, e i tentativi di costringere chi è ai margini ad accettare qualunque lavoro, come se il problema fosse che i poveri sono schizzinosi e non l’assenza di offerte. Il governo Meloni poi si è posto a strenua difesa della rendita in tutte le sue forme, che si tratti di concessioni balneari, immobili che pagano tasse troppo basse o imprese spaventate dalla concorrenza internazionale. Il miracolo del Pnrr non si sta realizzando: i dati sugli asili nido, tra i pochi disponibili, rivelano che 3.400 Comuni con mancanza di posti non hanno neppure partecipato ai bandi e che le regioni più virtuose come l’Emilia-Romagna si troveranno ad aumentare i posti disponibili sopra i livelli essenziali, Campania e Sicilia non arriveranno al minimo indispensabile neppure se completassero tutti i progetti possibili. L’autonomia differenziata promessa a Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna potrebbe far esplodere i divari territoriali, specie se gestita da un governo di destra. Bicchiere mezzo pieno - Eppure, per quanto sembri incredibile, il bicchiere non è soltanto mezzo vuoto ma è anche pieno a metà. L’Istat ci dice che nel 2022 l’indice di Gini che misura la disuguaglianza (0 minima, 100 per cento massima) è sceso dal 30,4% al 29%. Il rischio di povertà per le famiglie è passato dal 18,6 per cento al 16,8 per cento. Merito di interventi di welfare come una riforma dell’Irpef, l’assegno unico per i figli a carico, le indennità una tantum per le bollette elettriche, da 200 e 150 euro, l’anticipo della rivalutazione delle pensioni. Di fronte a uno dei grandi motori della disuguaglianza, cioè l’inflazione che colpisce i poveri molto più dei ricchi, l’Italia ha retto. Non certo grazie alle politiche del governo Meloni, che si è limitato a confermare per altri tre mesi gli aiuti sulle bollette. Merito del governo Draghi, soprattutto, che è riuscito a sterilizzare o quasi l’impatto dell’inflazione sui poveri e poverissimi, secondo le simulazioni dell’Ufficio parlamentare di bilancio, mentre la classe media e i ceti più elevati si sono giustamente fatti carico di una gran parte dei rincari. Che fare ora - I successi, per quanto parziali, di quest’anno sono importanti: secondo un report Ocse del 2021, gli italiani sono molto preoccupati dalla disuguaglianza ma pensano che non si possa fare nulla. Sono convinti che i soldi pubblici vadano a chi non se li merita e non ne ha bisogno, e in parte è vero ma soltanto perché da noi in troppi sono esclusi dai necessari interventi di welfare (meno del 10 per cento dei trasferimenti va al 20 per cento più povero delle famiglie, contro il 25 per cento della media Ocse). Invece la disuguaglianza si può combattere, anche in Italia, e i risultati ci sono. Ci vorrebbe una forza politica che si intestasse questa battaglia. Pd e Movimento Cinque stelle hanno fallito, toccherà al partito ambientalista che si sta preparando come prossima tappa dei movimenti di questi anni? Lo vedremo nel 2023. Diritti in Stato d’assedio di Simone Alliva L’Espresso, 2 gennaio 2023 L’anno trascorso ci ha regalato un’anteprima di quello che verrà: istanze anti-trans, diritto all’aborto ridotto e nessun dibattito su fine vita e cannabis. Era prevedibile. Dopo la vittoria di Fratelli d’Italia alle elezioni. Prevedibile, forse inevitabile. L’avanzata dei diritti civili in Italia si arresta, in attesa dei passi indietro che il governo progetta tramite disegni di legge e iniziative di governo. Protagonisti di seconda linea (e di seconda mano) ripescati dal passato si sono insediati nei ruoli chiave dello Stato: figure oblique che arrivano dal mondo del Family Day, anti-abortisti, fascisti di ritorno. Gli eletti hanno portato dentro il Parlamento alcune delle parole d’ordine dei gruppi anti-scelta, slogan che nascondono battaglie regressive e aggressive nei confronti delle persone Lgbt, delle donne, delle minoranze. La “difesa della famiglia”, cioè la negazione dei diritti alle famiglie arcobaleno. La “libertà educativa”, che non prevede un’educazione laica fondata sui principi della non-discriminazione e dell’uguaglianza. Il “gender fuori dalle scuole” cioè lo spauracchio che nasconde la battaglia contro la possibilità che a scuola si parli di omotransfobia, di discriminazione, di sesso, di sessualità, di stereotipi. La “vita nascente”, l’impossibilità delle donne di abortire. Si tratta di temi già presenti da tempo nel dibattito pubblico, che nel dibattito pubblico sono destinati a occupare sempre più spazio e sui quali la destra è già in qualche modo intervenuta nell’anno trascorso Diritto all’aborto - Si è discusso molto nel 2022 su come i presidenti di Fratelli d’Italia di diverse regioni italiane abbiano reso molto complicato l’accesso all’aborto. Le Marche, in particolare, sono state definite, in piena campagna elettorale, un “laboratorio” delle politiche di Fratelli d’Italia e lo specchio della politica nazionale sui diritti riproduttivi delle donne. L’opposizione all’aborto farmacologico e l’obiezione di coscienza tra i ginecologi (oltre il 70 per cento, più della media nazionale, che è del 64,6 per cento) ha portato le Marche ad essere tra le prime città italiane in cui più del 50 per cento delle IVG viene effettuato fuori dai confini provinciali: in cui cioè è molto alto il tasso di mobilità per mancanza di strutture sul territorio di riferimento. In Piemonte, grazie a una delibera presentata dall’assessore regionale alle Politiche sociali, Maurizio Marrone, di Fratelli d’Italia, viene istituito il “Fondo vita nascente”. per il 2022-2023, 460 mila euro di cui 400 mila serviranno per finanziare organizzazioni e associazioni che promuovono il “valore sociale della maternità” e la “tutela della vita nascente”. Concretamente, prevede di finanziare progetti per dare un sostegno economico, comunque limitato, alle donne affinché non abortiscano. Per i movimenti femministi questa misura non ha come reale obiettivo quello di rimuovere gli ostacoli materiali alla “maternità per scelta”, ma di ostacolare l’interruzione volontaria di gravidanza consentendo alle organizzazioni antiabortiste di entrare attivamente negli ospedali e nei consultori pubblici. Il Governo Meloni ha sempre specificato di voler applicare “tutta la legge 194” e non solo una parte. Eppure, la propaganda battente e certe proposte di legge, rimandano alla campagna per la sua abrogazione del 1981: sugli edifici delle più grandi città vengono riproposte immagini del sangue che cola, dei feti abortiti (“Tu eri così a 11 settimane” si legge nei manifesti Pro-Vita) dietro le quali si profila, come ovvio, l’immagine della madre assassina. Le donne tornano, come sempre nella storia, sul banco degli imputati. Nel primo giorno di legislatura sono tre le proposte di legge contro l’aborto. La prima porta la firma del senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, prevede il riconoscimento giuridico del feto attraverso la modifica dell’articolo 1 del Codice Civile, che nella nuova versione stabilirebbe che “ogni essere umano ha la capacità giuridica fin dal momento del concepimento” e non solo, come avviene ora, dalla nascita. La seconda, arrivata dal senatore della Lega Massimiliano Romeo, è invece incentrata sul garantire la presenza nei consultori di “personale medico e ostetrico anche obiettore di coscienza”. Secondo il testo i consultori - che rappresentano solo una parte di ciò che si propone di riformare - andrebbero modificati per “assicurare la tutela della vita umana fin dal suo concepimento”. Il terzo ddl, sempre depositato da Gasparri prevede di istituire la “giornata della vita nascente”, occasione che non toccherebbe direttamente la legge 194/78 ma che alimenterebbe la retorica cara alle associazioni anti-aborto. Comunità arcobaleno - Dopo il naufragio del ddl Zan, ripresentato in maniera poco convinta nel 2022 dal Partito Democratico, la lotta per i diritti delle persone Lgbt esce da una porta secondaria lasciando in cabina di comando i protagonisti di un’epoca che pareva scomparsa mentre il Paese, là fuori, reclamava giustizia e diritti: Lorenzo Fontana, ex ministro della Famiglia (rigorosamente al singolare) sino al 2019, occupa la terza carica dello Stato. Un grande ritorno per il protagonista del Congresso di Verona nel 2019, definito da Human Rights Watch: “La più influente organizzazione americana esportatrice di odio”. Eugenia Roccella, portavoce del Family Day nel 2007, conquista il ministero per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità. Nel 2017 promise l’abolizione delle unioni civili (“Per la sinistra, leggi come questa portano verso il progresso; per noi, vanno verso la fine dell’umano”). “La sinistra oggi privilegia le richieste delle associazioni Lgbt anche quando sono in netto contrasto con l’interesse delle donne” è stata la sua prima dichiarazione da ministra. E ancora: il rifiuto dell’esistenza delle famiglie arcobaleno in continuità con il suo predecessore Fontana: “Ogni bambino ha una mamma e un papà e questo non si può eliminare. Avere due papà non è una verità”. Nella società, per il tutto il 2022, fake-news, stereotipi di genere e pregiudizi si sono tradotti in una vera e propria conflittualità, fatta di discriminazioni e violenze. Un caso di omotransfobia ogni due giorni. Sono le persone trans a scontare la pena massima. Gli episodi più noti dell’anno trascorso portano il nome di Cloe Bianco, professoressa demansionata per la propria identità di genere si è data fuoco dentro un camper. Prima l’addio sul web e poi il corpo carbonizzato trovato l’11 giugno in provincia di Belluno. Camilla, sex worker, è stata uccisa il 5 giugno, con due colpi di pistola di piccolo calibro sparati nella parte sinistra della testa. Sasha, ragazzo trans si è suicidato a 15 anni. E sono proprio le istanze anti-trans a crescere nel 2022 e a colpire quella parte della comunità arcobaleno meno difesa e spesso lasciata ai margini. L’anno trascorso ha dato alla luce una nuova battaglia che punta a cancellare nelle scuole la “carriera alias”. Uno strumento che esiste dal 2003, inquadrato come un profilo burocratico, alternativo e temporaneo. Un nome scelto sostituisce, ad esempio sul libretto elettronico, il nome anagrafico, quello scritto nei documenti ufficiali e dato alla nascita in base al sesso biologico. Si tratta di una misura per rendere effettivo il diritto allo studio delle persone trans, per cui la scuola e l’università sono spesso ambienti negativi, ostili, discriminatori e violenti. Il 6 dicembre l’associazione ProVita & Famiglia annuncia di aver diffidato 150 scuole che l’hanno adottata, intimandole di annullarla e chiedendo l’intervento del Ministro dell’istruzione, Valditara. Il 13 dicembre invece sono ricevute al MIUR le associazioni CitizenGo Italia e Non Si Tocca La Famiglia, per consegnare la petizione “Stop gender nelle scuole” e presentare le proposte “per la tutela e l’educazione dei bambini e dei ragazzi dalle propagande ideologiche”. Accanto ai soliti “pericoli” (come lo “schwa”), anche la “carriera alias”. Fine vita e cannabis nelle mani del Comitato dei Patrioti - Il 15 febbraio del 2022 la Corte Costituzionale ha giudicato inammissibile il referendum sul fine vita, chiesto con una raccolta firme organizzata dall’Associazione Luca Coscioni. In tutto erano state raccolte 1,2 milioni di firme. Decisione accolta come “Sacrosanta- dalla leader di Fratelli d’Italia- c’è ancora spazio nel nostro ordinamento per difendere il valore della vita”. Eppure, la Corte sembrava aver dato una spinta al Parlamento, il testo di legge era stato approvato il 10 marzo alla Camera con giubilo da parte della maggioranza. Entusiasmo durato pochissimo, infatti arrivato nelle commissioni riunite Giustizia e Sanità di Palazzo Madama è stato messo da parte. Dissensi o polemiche non hanno portato a un accordo su come proseguire l’iter del provvedimento. Fino alla caduta del Governo. Non ci sarà spazio con Fratelli d’Italia. Un segnale lo ha dato la Presidente Meloni che il 6 dicembre ha approvato il decreto di nomina dei nuovi membri, che resteranno in carica per i prossimi quattro anni. Tra i nomi spicca quello di Giuseppe Casale, fondatore e direttore sanitario di Antea. Il medico che si rifiutò di staccare la spina dei macchinari che tennero in vita Piergiorgio Welby, co-presidente dell’associazione Coscioni affetto da distrofia muscolare che lottò per vedersi riconoscere il diritto all’eutanasia. E anche quello di Marcello Ricciuti, direttore di struttura complessa di cure palliative e hospice all’Azienda ospedaliera San Carlo di Potenza, convinto che “l’esistenza di un’opzione legale per una via rapida che porti alla morte implica una scarsa considerazione del valore della persona che sta morendo e del viaggio che sta conducendo”. A presiedere il comitato è il professor Angelo Luigi Vescovi, docente di biologia cellulare alla Bicocca di Milano, ma anche direttore scientifico della Banca cellule staminali cerebrali umane dell’ospedale milanese di Niguarda, della Casa Sollievo Sofferenza di San Giovanni Rotondo, un istituto fondato da padre Pio, e dell’Istituto genetica umana Mendel di Roma. A capo del comitato per il no alla droga legale, sorto in opposizione al referendum promosso dall’associazione Luca Coscioni ma bocciato dalla Corte costituzionale. Ripartire dall’umanesimo di Andrea Carandini Corriere della Sera, 2 gennaio 2023 L’analisi di Giuseppe De Rita evidenzia le conseguenze di una decadenza dovuta alla distruzione della scuola. Il Paese ha bisogno di una nuova classe dirigente colta per uscire da una mediocrità mortificante. Il 2022 è finito in uno sbalordimento generale. Ma sarebbe vano perdere la testa negli illimitati problemi del Globo; dobbiamo anche concentrarci, in un soprassalto di coscienza, sulla realtà del nostro Paese. A questo proposito raccolgo prima una frase di Moravia del 1975. “A Roma non c’è una società borghese…” (Autori Vari, Contro Roma, Laterza, 2018): campana che rintocca proprio in questi tempi nei quali ho perso ogni illusione sulla mia amatissima città. Raccolgo l’intervista recente di Massimo Franco a Giuseppe De Rita (“Corriere della Sera”, 31 dicembre 2022). Per De Rita l’Italia non cresce perché rimane mediocre, anche se la mediocrità non è solamente un male: se non altro perché toglie spazio ai grandi guastatori… La causa è che ci siamo consumati la classe dirigente, che pur avevamo, e che la classe media non è riuscita a diventare borghesia (Pasolini riteneva che l’Italia non sarebbe diventata mai borghese perché rimaneva piccolo-borghese). Ci vorranno cinquant’anni - scrive De Rita - per creare una neoborghesia media e alta. Mancano oggi i punti di riferimento che siano esiti sintetici di un pensiero dialogico. Abbiamo in cambio l’insopportabile frastuono di opinioni opposte agitate negli shakers televisivi (meglio i vecchi barman e i cocktails). Connetto le due riflessioni e penso. La Chiesa cattolica è sempre stata antiborghese perché i borghesi veri - non i traditori di libertà, uguaglianza, fraternità - sono stati liberali, quindi antifascisti e non clericali, come De Gasperi che resistette a Pio XII. Il Pci da una parte sosteneva una strisciante lotta ideologica di classe, eppure dall’altra - fino agli inizi degli anni Sessanta - teneva in massima considerazione l’alta cultura borghese e non vedeva emancipazione possibile dei ceti popolari se non tramite essa (Gramsci si riferiva a Croce, Marchesi salvava il latino…). Assecondavano il Pci vari socialisti e azionisti. Il liberalismo di sinistra - ma può esistere un liberalismo che non sia riformatore? - è stato ucciso dal liberalismo di destra di Malagodi, dall’inclinazione a un progressismo democratico poco liberale, dalla concentrazione (pur meritoria) del nuovo Partito radicale sui soli diritti civili e dall’avvelenamento del liberalismo di Berlusconi autoproclamatosi liberale (strizzando l’occhio allo zar). Esito di tutto ciò: a destra essere liberali equivaleva a sostenere i propri interessi ottenendo consenso con la nuova demagogia, il populismo; a sinistra essere progressisti equivaleva ad essere poco liberali e molto democratici e anche populistici, perdendo il popolo e dimenticando che non vi è democrazia al di fuori della “liberal-democrazia”, forma mista di libertà e di giustizia bilanciate nella fratellanza: una virtù della rivoluzione francese. De Rita sostiene che l’Italia non riparte perché è mancato fino ad ora uno shock dalla sufficiente forza d’urto. Ma la questione è forse più grave: l’abbassamento culturale dovuto alla distruzione della scuola fondata un secolo fa - opera di tutte le forze politiche - ha raggiunto un punto tale per cui pochi sono coloro che si accorgono del grande shock subìto nell’ultima generazione: la morte in Italia dell’alta cultura umanistica come uno dei massimi riferimenti ideali (sull’alta cultura scientifica non saprei pronunciarmi). L’alta cultura umanistica si è ritirata sempre più, prima dalle aspirazioni del popolo, poi dai desideri dei piccolo-borghesi e infine anche dallo stesso ceto medio, distratto, godereccio e senza gravitas. Sì, esistono i ricchi, sempre più tali, ma sono sempre meno capaci di signoreggiare emozioni e ragioni, natura e storia (i giovani facoltosi vanno all’estero, ma non si accorgono che in Occidente quasi ogni luogo è Paese: si veda lo sfacelo della Gran Bretagna, un tempo esemplare). Le classi dirigenti dell’ultima generazione - dopo aver facilitato tutto per raccogliere consenso, capaci di assecondare le masse, ma incapaci di trasformare i sudditi in cittadini - si sono beatamente suicidate innanzi tutto strozzando l’alta cultura, mortificando la ricerca e impedendo ai disagiati di accedervi. La mediocritas è buona se è aurea, se cioè è l’anticamera dalla quale s’intravede, nella camera, qualche pagliuzza d’oro; altrimenti è generatrice di decadenza. Ci vorrebbe una rivolta dei giovani - salvando i beni e scartando i mali del 1968 - ancora in grado di fare il seguente ragionamento: la cultura umanistica è sì inutile ma serve a formare la mente che pensa seguendo principi logici e che con essi tempera le emozioni. Invece noi pensiamo male attraverso una lingua degradata, che molti non sanno scrivere e comprendere… Il momento dell’utile deve venire, ma in un secondo momento, proprio come l’inutilità umanistica deve essere preceduta da quella dei giochi… Il problema è che la decadenza non è soltanto fuori di noi, nell’ambiente indissolubilmente connesso al paesaggio; sta innanzitutto nella mente, che ha subìto oramai notevoli e irreparabili danni cognitivi. Infatti i cervelli o si formano al momento giusto, tra le elementari e le medie, o rimangono danneggiati… Ci troviamo pertanto nella situazione paradossale di doverci tirare fuori dal pantano senza avere più abilità e strumenti per farlo. Stiamo sprofondando nell’analfabetismo di ritorno e dovremmo al tempo stesso rifondare la scuola per il prossimo secolo: 2023- 2123! Qualche lembo di buon retroterra esiste ancora da noi - non macerato dal presentismo che tutto inghiotte (i salotti dei ricchi sono o troppo pieni di cose nuove o vuoti come sale operatorie). Se i migliori maestri e professori si risvegliassero in una speranza rifondativa, se le associazioni non-profit si aprissero di più al sussidio educativo, se avessimo un embrioncino, anche non eccelso ma degno, di classe dirigente, allora sì che potremmo farcela: tra una generazione sarà tardi. Ogni strato sociale ha la sua dignità nel pluralismo della società: artigiani, contadini, operai, tecnici, piccolo-borghesi, borghesi medio-alti e aristocratici… Nessuno deve vergognarsi per le origini, a meno che ne abbia perso le virtù. Io stesso sono stato indotto da giovane a vergognarmi della mia nobiltà e soprattutto dell’alta borghesia, seppure entrambe critiche. Ciò alla neoborghesia medio-alta che speriamo rinascerà - fra cinquant’anni - non dovrà più succedere, proprio a partire dalla nostra esperienza storica. L’importante è che si possa scivolare in avanti, così come indietro, nella scala sociale in ragione del merito e non del privilegio. E soprattutto, se si presenterà da noi qualche dittatura, magari anche elettiva, quel ceto dirigente del futuro non dovrà più cedere i princìpi temendo di perdere il capitale, come purtroppo è avvenuto nel secolo scorso. Effetto dotazione, reddito di cittadinanza e giustizia contributiva di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2023 L’aver riportato il tema della povertà al centro del dibattito politico è stato certamente un merito, così come è stato un grande merito aver dato supporto economico in anni così difficili come quelli che abbiamo recentemente vissuto a milioni di persone. Una delle proposte-bandiera dell’ultima campagna elettorale è certamente quella del mantenimento, della riformulazione o dell’abolizione del reddito di cittadinanza. Forze politiche contrapposte hanno issato questa bandiera in cima alle loro piattaforme di proposte e sappiamo com’è andata a finire. Giovedì scorso è stata definitivamente approvata col voto del Senato la prima manovra economica del governo Meloni dalla quale il reddito di cittadinanza uscirà certamente depotenziato, non sappiamo ancora bene né come né di quanto, ma certamente quella bandiera dovrà definitivamente essere piantata per rispettare la promessa fatta all’elettorato di centro-destra. La povertà nella società italiana - Certamente l’introduzione del reddito di cittadinanza e ancora prima quelle del REI, il reddito di inclusione da parte del governo Renzi, hanno costituito un momento importante nella storia recente del nostro Welfare; il tema della povertà, infatti, era ormai uscito da tempo dai radar della politica economica e quasi non se ne parlava più se non in corrispondenza dell’uscita dei rapporti Istat o Caritas. Eppure, i dati diventavano anno dopo anno sempre più drammatici. Quindi l’aver riportato questo tema al centro del dibattito politico è stato certamente un merito, così come è stato un grande merito aver dato supporto economico in anni così difficili come quelli che abbiamo recentemente vissuto a milioni di persone che altrimenti avrebbero avuto certamente grandi difficoltà a uscire da una condizione di grave indigenza. Certo il reddito di cittadinanza era stato pensato come uno strumento complesso non solo di supporto al reddito ma anche di inclusione lavorativa e su questo lato, per ragioni che non possiamo analizzare qui, il provvedimento è stato quasi un totale “flop”. Una riforma, dunque, anche solo di questa parte della misura era indispensabile. Il peso della retorica elettorale - La retorica elettoralistica di quelli che più fortemente si sono opposti al reddito di cittadinanza ha assunto toni differenti, quelli di una riforma pensata contro gli innumerevoli fannulloni che, soprattutto al Sud, preferiscono stare sul divano che andare a cercarsi un lavoro, contro i cosiddetti “occupabili”. Al di là della flessione semantica del termine “occupabile” questo frame retorico nel quale la proposta della destra è stata inserita, sottovaluta un problema non da poco. Gli economisti lo chiamano endowment effect, “effetto dotazione”. L’utilità che attribuiamo ad un certo bene dovrebbe essere indipendente, così ci dice la teoria microeonomica, dal fatto di possederlo oppure no. Questo significa che ci sarà un certo prezzo al di sotto del quale non saremo disposti a vendere quel bene se lo possediamo e un certo prezzo al di sopra del quale non saremo disposti ad acquistare quello stesso bene se, invece, non lo possediamo. E quei due prezzi saranno naturalmente uguali. La mia disponibilità ad accettare una somma per vendere un certo bene o a pagarla per acquistare lo stesso bene devono essere uguali. Ma le cose non stanno in questo modo perché una volta che entriamo in possesso di un certo bene, il valore che gli attribuiamo cresce immediatamente e, per questo, saremmo disposti a liberarcene solo ad un prezzo molto più alto di quello che siamo stati disposti a pagare per acquistarlo. La paura della perdita dei beni acquisiti - I due premi Nobel Daniel Kahneman e Richard Thaler che assieme a Jack Knetsch, per primi, hanno analizzato sperimentalmente il fenomeno ne fanno risalire la causa alla nostra innata “avversione alle perdite”. Questo fenomeno è legato al fatto che, psicologicamente, la perdita di una certa somma vale in termini di benessere circa due volte e mezza la vincita della stessa somma. Siamo cioè più sensibili alle perdite che non ai guadagni. Per questo i giocatori d’azzardo anche se sono in rosso continuano a giocare, per evitare di realizzare le perdite, così come quegli investitori che si tengono in portafoglio sempre troppo a lungo titoli che continuano a vedere ridursi il loro valore. Se applicato al possesso di un certo bene, questa avversione alle perdite determina l’effetto dotazione. Il marketing sfrutta da sempre questa nostra vulnerabilità. Pensiamo alle strategie “freemium”: aziende che ci offrono i loro servizi gratuitamente, almeno all’inizio, per poi proporci di passare all’abbonamento “premium”. Dopo aver sperimentato il servizio, pur di non perderlo siamo disposti a pagare molto di più di quello che saremmo stati disposti a pagare se non avessimo inizialmente sperimentato quello stesso servizio. Il messaggio fondamentale è che avere accesso ad un servizio e vederselo togliere è molto più doloroso che non averlo mai avuto. Togliere il reddito di cittadinanza a chi ne ha goduto questi anni, senza un adeguato accompagnamento o la proposta di un’alternativa ancora migliore, sarà estremamente “doloroso”. Il problema non è la voglia di lavorare, ma la creazione di lavoro dignitoso - Come favorire questa transizione dunque? Partendo dal presupposto che, nei grandi numeri, il problema non è la voglia di lavorare. Tutti quelli che possono veramente, vogliono lavorare ed essere posti nelle condizioni di poterlo fare per guadagnare non solo un salario ma anche e soprattutto autostima e rispetto di sé. Perché “il lavoro può essere importante per il benessere individuale per ragioni che esulano dal suo ruolo di fonte di reddito”, come affermano Reshmaan Hussam e i suoi colleghi autori di un importante studio pubblicato il mese scorso sull’American Economic Review. Si tratta dunque di rendere davvero occupabili quelli che oggi lo sono solo per definizione terminologica e di facilitare la creazione di posti di lavoro degni, per salario, condizioni di sicurezza e funzione sociale. Si tratta di una questione di giustizia nella sua accezione “contributiva”. Se da una parte lo Stato pretende da ogni cittadino impegno nella produzione e nella redistribuzione di beni e servizi, dall’altra dovrebbe dare a ciascuno, nelle parole di Michael Sandel “un’opportunità per ottenere il riconoscimento e la stima sociale, che va di pari passo con la produzione di ciò di cui gli altri necessitano e apprezzano”. Ma la prima cosa da fare, in assoluto, è quella di mandare in cantina questa retorica punitiva figlia di un malissimo inteso concetto di meritocrazia. Un concetto così male inteso che alla prova dei fatti rischia di trasformarsi in nient’altro che una legittimazione morale dei molti privilegi esistenti e delle crescenti disuguaglianza. Questo certamente non sarebbe un cattivo augurio per questo nuovo anno che oggi cominciamo insieme. Nel 2022 i corpi sono tornati a scrivere l’agenda politica globale di Marco Damilano Il Domani, 2 gennaio 2023 I corpi fanno la rivoluzione in Iran. I corpi hanno cambiato le sorti della guerra in Ucraina. I corpi dei migranti. I corpi sono la pietra di inciampo del mondo chiuso e recintato dei partiti sovranisti e nazionalisti. Ma la loro assenza condanna la politica all’irrilevanza. “Quel che vediamo all’opera quando i corpi si radunano nelle strade, nelle piazze o in altri spazi pubblici, è l’esercizio del diritto di apparizione, una richiesta incarnata di vite più vivibili... nonostante siano spesso animate da propositi politici diversi, nelle dimostrazioni di massa che si svolgono per le strade e nelle piazze i corpi si riuniscono, si muovono e parlano insieme, rivendicano un certo spazio in quanto pubblico”. Così scriveva Judith Butler in L’alleanza dei corpi (Nottetempo, 2017) indagando la comparsa sulla scena, il “diritto di apparizione” nel campo politico, nella lotta per la democrazia, del corpo, dei corpi. Dimenticati nel biennio del Covid, distanziati nei lockdown, resi virtuali nei collegamenti da remoto, isolati nelle case e nascosti nelle strade, nell’anno che si chiude i corpi sono tornati a unirsi, a mescolarsi, a riscrivere l’agenda della politica mondiale. Nel 2022 sono stati i corpi a far tremare il regime islamico di Teheran 43 anni dopo le manifestazioni che buttarono giù l’ultimo Scià. Una rivoluzione di donne e giovani partita dal gesto di Mahsa Amini, la ragazza curda morta il 16 settembre dopo le percosse ricevute dalla polizia morale per il rifiuto di indossare correttamente l’hijab. In sua memoria il gesto di tagliarsi una ciocca di capelli, reinventato con poesia da Marilena Nardi per la copertina di fine anno di questo numero di Politica, è diventato il simbolo della resistenza in Iran, così come un bacio e lo slogna “Vita donna libertà”. In occidente è stato subito stereotipato dallo star system che replica il gesto e lo banalizza, in Iran è un capovolgimento rispetto all’avvento della teocrazia islamica, l’imposizione di una regola, non una scelta, che, ha scritto Azar Nafisi, annulla la realtà e il corpo: “Mi sentivo evanescente, artificiale, una sensazione di irrealtà: come se tutto il mio corpo di dissolvesse”. È la chiave di un sistema totalitario in cui, afferma ancora la grande scrittrice iraniana, “dominano l’uniformità e l’aderenza alle convenzioni”. È quello che abbiamo visto, o cercato di vedere, nel cuore dell’Europa dal 24 febbraio in poi, nell’Ucraina invasa, l’evento spartiacque del nostro tempo, che equivale a una caduta del muro di Berlino al contrario. Le categorie base dell’esistenza, rimosse nell’èra della globalizzazione e del digitale nell’eterno presente, lo spazio e il tempo. Lo spazio, con i confini: da oltrepassare o da difendere, la lunga guerra di posizione. E il tempo: è il tempo lungo, il millenarismo russo, che Vladimir Putin ha utilizzato in modo abusivo per giustificare l’invasione. E con queste categorie sono tornati il sangue, il suolo, i popoli fratelli. Di nuovo, i corpi. Sono i corpi degli ucraini, il corpo fisico dell’Ucraina, ad aver cambiato il corso della storia, ad aver bloccato l’”operazione speciale” di Putin che immaginava una guerra lampo e un’accoglienza trionfale nelle zone russofone all’inizio del conflitto. I corpi nei rifugi durante i bombardamenti, i corpi seviziati, abbandonati nelle strade di Bucha, i corpi al gelo e al buio di questo inverno, di questa notte dell’Europa. I corpi che resistono alla ricostruzione totalitaria che capovolge la storia. I corpi riempiono la geopolitica, mettono in affanno le diplomazie internazionali. Riscrivere i confini a tavolino, dopo una guerra, è impossibile se non si comprendono i popoli. È stato uno sbaglio colossale negli ultimi trent’anni pensare che le radici e i simboli potessero essere espulsi dalla comprensione del presente, consegnati come si è detto all’idea novecentesca della storia. I corpi fanno la rivoluzione in Iran. I corpi hanno cambiato le sorti della guerra in Ucraina. I corpi sono la pietra di inciampo del mondo chiuso e recintato ipotizzato dai partiti sovranisti e nazionalisti. È un errore culturale e politico immaginare di fermare i corpi. I corpi in movimento nel Mediterraneo o nei Balcani sono i protagonisti del drammatico 2022, con i loro oggetti che parlano, da Lampedusa alla piazza della Libertà di Trieste alla scogliera di Ventimiglia, come racconta Elena Testi nel reportage che segue dalle tante frontiere italiane, nell’anno che ha visto gli sbarchi tornare a salire sopra i centomila migranti arrivati e circa 1500 morti o dispersi in mare. Il governo della destra di Giorgia Meloni che aveva appena giurato ha provato subito a riscrivere la storia e i confini del mare, stilando la propria dichiarazione di guerra domestica contro il nemico, rappresentato dalle navi delle Ong che soccorrono e salvano i naufragi in mare, sono circa il dieci per cento del totale, ma la propaganda governativa li fa apparire come la totalità, il pull factor risuonato anche nelle aule parlamentari dalla voce del nuovo ministro dell’Interno, a sostenere che tutti i migranti che partono dalle coste libiche e tunisine sarebbero mossi dal miraggio di essere raccolti da una nave di una Ong. Ma su questo punto, e sull’odioso neologismo dello sbarco selettivo, per cui dalle navi era stato consentito scendere solo a donne, bambini e fragili, salvo poi accorgersi che dopo settimane in mare e indicibili condizioni di partenza tutti i migranti sono fragili, il governo di Giorgia Meloni ha trovato il suo unico vero ostacolo e la polemica aperta con la Francia di Emmanuel Macron. Sono i corpi dei migranti ad aver costretto la destra italiana alla retromarcia. La vittoria elettorale della destra in Italia e la prima donna a Palazzo Chigi è il terzo grande fatto del 2022, insieme alla guerra in Ucraina e alla rivoluzione in Iran. Il voto del 25 settembre è stato preceduto dalla caduta del governo di Mario Draghi in una settimana di luglio, in realtà largamente anticipato dal voto di inizio gennaio per la presidenza della Repubblica. Il premier Draghi, arrivato all’appuntamento istituzionale come dominus della politica italiana e europea, non è mai davvero entrato in corsa, in un sistema politico composto di partiti inesistenti e di leadership vacillanti, ma unito nello sbarrare la strada del Quirinale all’ex banchiere centrale, come ha raccontato Lucia Annunziata nella ricostruzione di quelle giornate (L’Inquilino, Feltrinelli). Il governo Draghi si è fermato lì, il resto appartiene al rito cannibale con cui la politica italiana usa divorare i premier e sé stessa. Alla caduta di Draghi è seguita una paradossale campagna elettorale, con Giorgia Meloni messa in condizione semplicemente di aspettare la data del voto per certificare una vittoria già avvenuta per abbandono del campo da parte dell’avversario. L’anno si chiude con il Pd che crolla nei sondaggi, alla vigilia di un congresso straordinario perché in discussione non c’è solo la segreteria ma la natura del partito, la sua tenuta come ossatura, infrastruttura e non soltanto guida del centrosinistra negli ultimi venti anni, alle prese con la questione morale rilanciata dalla corruzione nel Parlamento europeo, il Qatargate, che in realtà è una gigantesca questione politica, svela l’assenza e il vuoto della politica. La natura per chi fa politica è qualcosa di impalpabile, è una radice, è una risorsa e insieme è una condanna. L’assenza di natura, di una visione, di una lettura della realtà, può nel breve periodo rendere più agili i cambi di fronte e di pelle, come racconta Marco Follini nel ritratto di Giuseppe Conte. Ma per durare serve altro. La voragine spalancata dalla crisi del principale partito della sinistra italiana non inghiotte soltanto la politica, è più profonda, coinvolge la presenza sociale, il ritrarsi della rappresentanza laddove ce ne sarebbe più bisogno, tra le famiglie in difficoltà, i morti sul lavoro, i ragazzi che si arrendono e mollano la scuola, i servizi sanitari debilitati, i territori e le periferie disabitate. E riguarda il venir meno dei luoghi del dibattito, materiali e immateriali, fisici e virtuali, i luoghi culturali, artistici, editoriali in cui si esprime una forza, una presenza, una capacità di incidere. Di tutto questo resta un passato pesante, che dà modo agli addetti alla cultura, come li chiamava Franco Battiato, oggi espressione della destra famelica di spazi, di presentarsi come i liquidatori di una egemonia che non c’è più da tempo. Senza questi luoghi, i luoghi della presenza sociale e i luoghi in cui si elabora un pensiero, restano le scorciatoie. Le icone effimere che riempiono vuoti. La ricostruzione di una presenza passa da questi luoghi, di pensiero, di aggregazione. Non saranno mai più i vecchi partiti. Ma serviranno spazi in cui ritrovare il diritto all’apparizione, in cui i movimenti si fanno istituzione, in cui i corpi diventano popolo, popoli, i popoli che fanno la storia. Corrompo, patteggio e ricomincio: così le grandi aziende pagano per sfuggire alla giustizia di Paolo Biondani e Leo Sisti L’Espresso, 2 gennaio 2023 Versano risarcimenti record per evitare i processi. Ma per decine di multinazionali sono diventati costi aziendali, come mostrano i casi di recidiva. L’inchiesta de L’Espresso e del consorzio Icij su vent’anni di maxi-patteggiamenti in Europa e Usa, da Jp Morgan a Novartis, dall’Eni a Deutsche Bank. La multinazionale svizzera Novartis produce farmaci fondamentali per le cure contro il cancro e molti altri preziosi medicinali e dispositivi sanitari, che ne fanno una delle aziende più redditizie del mondo. La banca americana Jp Morgan è una delle più ricche del pianeta, con un patrimonio di oltre 2.600 miliardi di dollari. L’Eni, controllata dallo Stato italiano, è una delle sette maggiori compagnie petrolifere a livello globale e nei primi nove mesi del 2022, con l’impennata dei prezzi del gas, ha quintuplicato gli utili. Anche la tedesca Deutsche Bank è tornata a registrare profitti miliardari per il nono trimestre consecutivo, dopo anni di crisi e perdite. Novartis, Jp Morgan, Eni e Deutsche Bank hanno in comune un’altra peculiarità, oltre al potere economico e ai profitti record. Sono state tutte coinvolte in casi di corruzione internazionale o in altri scandali finanziari. Negli ultimi dodici anni, ognuna di queste società ha dovuto affrontare delicati procedimenti giudiziari, chiusi con patteggiamenti che hanno comportato il pagamento di somme molto consistenti, con l’impegno scritto di non commettere mai più altri reati. Eppure, nonostante questi accordi legali, sono finite di nuovo sotto accusa e hanno patteggiato ancora una volta, in particolare negli Stati Uniti. Dal 2010 ad oggi, Jp Morgan ha scelto di pagare e risarcire le autorità per cinque volte, Novartis e Deutsche Bank in quattro casi, l’Eni in tre. Il patteggiamento è uno strumento legale per chiudere i processi penali, con un accordo tra accusa e difesa, che è nato negli Stati Uniti e negli ultimi decenni si è diffuso in tutto il mondo. Oggi questo modello di giustizia contrattata riguarda molti dei più importanti procedimenti che coinvolgono grandi aziende, anche in Italia. La possibilità di evitare i processi attraverso i patteggiamenti è stata spesso criticata da giuristi, accademici, magistrati e politici di molte nazioni, ma è ormai diventata una tendenza globale. Questo articolo è il frutto di un’inchiesta giornalistica internazionale che, per la prima volta, quantifica il numero e il valore dei patteggiamenti approvati negli ultimi vent’anni in trenta nazioni diverse, dall’America all’Europa, ed evidenzia i casi più gravi di recidiva aziendale: giganti dell’economia che, dopo aver pagato forti sanzioni per accuse pesanti, tornano a commettere illeciti. E patteggiano di nuovo, per una o più volte, anche nel giro di pochi anni. I documenti raccolti dalI’International consortium of investigative journalists (Icij), di cui fa parte L’Espresso in esclusiva per l’Italia, confermano la rilevanza e la diffusione globale dei patteggiamenti. In questi vent’anni, almeno 265 grandi aziende hanno evitato i processi, nelle trenta nazioni considerate, versando alle autorità un totale di oltre 34 miliardi e 900 milioni di dollari, tra multe e rimborsi di vario tipo. Il valore di questi accordi giudiziari è in costante aumento. Nel 2000, il prezzo più alto pagato da una singola società per evitare un processo era stato di 844 mila dollari, nel 2020 è salito a due miliardi e mezzo. I dati rilanciano anche l’allarme sui casi di recidiva: 34 multinazionali, 21 delle quali inserite nella classifica delle 500 società più grandi del mondo, hanno patteggiato per almeno due volte. Dopo aver pagato sanzioni per sfuggire ad accuse di corruzione, frode o evasione fiscale, hanno violato di nuovo la legge, spesso pochi anni dopo. E hanno potuto patteggiare ancora. “La proliferazione globale dei patteggiamenti aziendali sul modello americano è allarmante”, ha dichiarato al consorzio Icij il giurista Peter Reilly, professore di diritto alla Texas A&M University: “Patteggiare è come pagare una multa per eccesso di velocità: si versa una somma e poi si riparte. Lo Stato di diritto ne risulta compromesso, la giustizia è minacciata, la democrazia viene indebolita”. Peter Solmssen, un avvocato che ha contribuito a scrivere le linee guida internazionali per i patteggiamenti, spiega che “l’applicazione della legge “vecchio stile” non funziona più”. Una questione critica è che le sentenze normali sono pubbliche e vanno motivate, mentre le trattative sui patteggiamenti si svolgono a porte chiuse e in molti casi restano segrete. Uno dei magistrati più famosi degli Stati Uniti, Lewis Kaplan, per anni giudice a New York, ha confessato di essere preoccupato dalla diffusione dei patteggiamenti, avvertendo che gli stessi tribunali americani hanno un’autorità limitata per contestarli: “In pratica sono obbligato a ingoiare la pillola, che mi piaccia o no”. Il fenomeno della globalizzazione dei patteggiamenti ha avuto un punto di svolta nel 2008. Quell’anno le autorità della Germania e degli Stati Uniti accusano la Siemens, il gigante tedesco dell’elettronica, ingegneria e impianti energetici, di aver utilizzato fondi neri e società di comodo per pagare tangenti enormi, per un totale di 1 miliardo e 400 milioni di dollari, per aggiudicarsi contratti in tutto il mondo. Per chiudere i processi, la casa madre Siemens e le sue filiali in Bangladesh, Argentina e Venezuela hanno versato 800 milioni di dollari agli Stati Uniti e altri 813 milioni alla Germania. Il gruppo ha inoltre accettato di pagare 421 milioni di dollari ad altri quattro Paesi danneggiati dalla corruzione, Italia, Svizzera, Nigeria e Grecia, e 100 milioni alla Banca Mondiale. Con quegli accordi legali, la Siemens si è impegnata a non violare più la legge, in nessun Paese del mondo. Questa inchiesta giornalistica nasce dal caso Ericsson. Pochi anni fa, la multinazionale svedese delle telecomunicazioni era stata incriminata dalle autorità americane per aver pagato tangenti in almeno sei nazioni. L’inchiesta ha spinto la Ericsson a negoziare un costoso patteggiamento: nel 2019 ha versato un miliardo di dollari per chiudere il procedimento americano, impegnandosi a denunciare tutte le sue corruzioni nel mondo. Nel febbraio 2022, però, il consorzio Icij ha pubblicato, assieme a L’Espresso, una serie di documenti aziendali, fino ad allora rimasti segreti. Le carte mostrano che nel 2019, proprio mentre patteggiava, il gruppo Ericsson aveva in corso un’indagine interna su tangenti per decine di milioni pagate in Iraq, che risultavano versate anche a tesorieri e perfino a combattenti dello Stato Islamico. Pochi giorni dopo quell’articolo, le autorità americane hanno accusato la multinazionale svedese di aver violato l’accordo di patteggiamento, precisando che si trattava della seconda infrazione accertata in meno di sei mesi. Il problema della recidiva riguarda molte altre aziende di livello mondiale. Nel dicembre 2022, ad esempio, la multinazionale svizzera Abb ha patteggiato, per evitare una serie di processi con l’accusa di aver pagato tangenti per costruire una centrale elettrica in Sudafrica. Quell’accordo giudiziario da 327 milioni di dollari, concluso con le autorità statunitensi, svizzere e sudafricane, fa della società di Zurigo la prima azienda straniera accusata per tre volte di aver violato le norme americane contro la corruzione internazionale. Norme severe, approvate negli anni ‘70 sull’onda dello storico scandalo Lockheed, che coinvolse anche l’Italia. Nel gennaio 2021, un altro colosso aeronautico americano, la Boeing, ha stabilito l’attuale record mondiale dei patteggiamenti. Al centro delle indagini, due incidenti aerei che hanno coinvolto i modelli 737 Max, nel 2018 e 2019, con un bilancio di 346 vittime. Come mai sono precipitati in picchiata? Gli investigatori federali americani hanno concluso che la Boeing aveva tenuto nascosti gravi difetti di progettazione. Per evitare il processo, la multinazionale americana ha risarcito 2,5 miliardi di dollari. Le famiglie delle vittime hanno ricevuto 500 milioni, ma hanno contestato l’accordo, chiedendo che sia annullato e i manager della Boeing vengano processati. A infiammare le critiche è anche la potenza economica di molte società che fanno parte di una sorta di club dei recividi: è il caso di Jp Morgan, che negli ultimi otto anni ha patteggiato per quattro volte, negli Stati Uniti, per quattro diversi scandali finanziari. L’ultimo accordo è del 2020: il colosso finanziario ha ammesso di aver manipolato i mercati dei futures, come già aveva fatto cinque anni prima. In totale, Jp Morgan ha pagato più di 3 miliardi e 400 milioni di dollari per evitare i processi. A conti fatti, però, quella cifra corrisponde a meno di un cinquantesimo dei profitti realizzati dalla banca americana nello stesso periodo. Tra le società europee, la medaglia d’oro dei recidivi spetta alla Deutsche Bank. La banca tedesca è stata incriminata dalle autorità americane per aver ingannato i risparmiatori offrendo prodotti finanziari ad alto rischio, poi annientati dalla crisi del 2007-2008. Quindi si è vista accusare di aver aiutato migliaia di ricchi clienti a evadere le tasse fino al 2010. Poi di aver manipolato i tassi d’interesse fino al 2015. In tempi recenti, la Deutsche Bank ha deciso di pagare 150 milioni di dollari, per sfuggire all’accusa di non aver monitorato i rapporti finanziari di Jeffrey Epstein, il miliardario condannato per abusi sessuali, poi morto suicida. E nel 2021 la banca tedesca ha versato altri 130 milioni di dollari, questa volta per evitare un processo con l’accusa di non aver denunciato un giro di tangenti per vincere contratti in Arabia Saudita. Le autorità americane hanno accusato pubblicamente anche una società italiana di aver violato ripetutamente le norme anticorruzione: “L’Eni è recidiva”, ha scritto la Sec, la commissione americana di controllo delle società quotate in Borsa, in un comunicato del 2020. Quell’anno il colosso italiano dell’energia, senza ammettere di aver commesso illeciti, ha versato 24 milioni e mezzo di dollari agli Stati Uniti, per chiudere un procedimento su presunte tangenti pagate in Algeria. Con questo accordo, l’Eni si è impegnata a non violare le norme contro la corruzione internazionale, le stesse che aveva promesso di non trasgredire dieci anni prima. Quando aveva siglato il suo primo patteggiamento americano. Il caso riguardava un maxi-impianto di estrazione di gas a Bonny Island, in Nigeria, aggiudicato a una cordata di tre società occidentali, tra cui la Snamprogetti del gruppo Eni. Accusata con le altre multinazionali di aver corrotto ministri e generali africani con oltre un miliardo, la società italiana ha chiuso il caso, nel 2010, versando 365 milioni di dollari alle autorità americane. Proprio quel precedente ha spinto la Sec a parlare di recidiva, nel 2020, quando il gruppo Eni ha concordato il secondo risarcimento, questa volta per gli affari in Algeria di un’altra società controllata, la Saipem. In Italia, per le stesse accuse, tutti i manager della Saipem sono stati assolti in appello, per cui l’Eni non ha dovuto risarcire nulla. Nel 2021, però, l’azienda statale ha siglato un patteggiamento con la Procura di Milano, che l’accusava di aver pagato tangenti nella Repubblica del Congo. Con la sentenza finale, l’accusa di corruzione è stata derubricata in un reato meno grave, “concussione per induzione”. A quel punto l’Eni ha accettato di pagare una multa di 826 mila euro e di farsi confiscare altri 11 milioni come “profitti illeciti”. I giornalisti del Consorzio hanno inviato domande dettagliate a tutte le società menzionate in questo articolo, compresa l’Eni, che ha risposto con una nota scritta. Il gruppo italiano ha potuto così chiarire che il caso del 2010 in Nigeria riguardava “un’ex controllata”, la Snamprogetti, una società che oggi non esiste più. Ha sottolineato che “l’Eni non ha mai fatto alcuna ammissione di corruzioni in Algeria” e che i processi italiani per le stesse accuse si sono conclusi con assoluzioni piene. Mentre in Congo “l’Eni ha patteggiato solo per un’accusa minore, non di corruzione”, versando “un importo relativo e nominale”. I casi più preoccupanti di recidiva, secondo i dati raccolti con questa inchiesta, riguardano i colossi sanitari: ben dieci tra i maggiori produttori mondiali di farmaci e dispositivi medici (dalle protesi alle valvole cardiache) hanno patteggiato almeno due volte. La Novartis è ormai al quarto patteggiamento per corruzione. Nel 2010 aveva pagato oltre 422 milioni di dollari alle autorità americane per due accuse collegate: commercio di farmaci non regolari; tangenti a medici e operatori sanitari per prescriverli ai pazienti. Nel 2015 il colosso svizzero ha versato altri 390 milioni “per aver continuato, nonostante le sanzioni precedenti, a finanziare convegni e conferenze che erano solo strumenti per pagare mazzette”. Poi ha siglato un ulteriore accordo, impegnandosi a bandire le tangenti e sottoporsi a “controlli d’integrità”. Nel 2020 però ha patteggiato ancora una volta, pagando 591 milioni di dollari, per annullare l’ennesima accusa di aver corrotto medici per vendere più farmaci. Anche con l’ultimo accordo, i manager della Novartis si sono impegnati a dare un taglio netto con i metodi del passato. Questa inchiesta è frutto del lavoro collettivo dei giornalisti de L’Espresso, del consorzio Icij e di altre testate internazionali, in particolare Sydney P. Freedberg, Karrie Kehoe, Agustin Armendariz, Nicole Sadek, Brenda Medina, Maggie Michael, Spencer Woodman, Ben Hallman, Dean Starkman, Richard H.P. Sia, Emilia Díaz-Struck, Lars Bové, Guilherme Amado, Zach Dubinsky, John Hansen, Anne Michel, Adrien Sénécat, Frederik Obermaier, Bastian Obermayer, Marvin Milatz, Friederike Röhreke, Ruben Schaar, Karlijn Kuijpers, Fredrik Laurin, Christian Brönnimann, Jiyoon Kim, James Oliver. Iran. Nargess Eskandari-Gruenberg: “Aiutiamo le iraniane e la rivoluzione” di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 2 gennaio 2023 Nata a Teheran, incarcerata dal regime degli ayatollah, scappata in Germania. È vice sindaca a Francoforte. E lancia un appello forte all’Ue. Un giorno, quando aveva 17 anni, Nargess Eskandari-Gruenberg tornò a casa e si ritrovò circondata da venti guardiani della rivoluzione. Le dissero di mettersi il velo e la trascinarono via. Nargess era scesa in piazza nel 1979 per la rivoluzione contro lo scià. Ma all’inizio degli anni 80 aveva cominciato a manifestare anche contro il regime di Khomeini, irriducibile nel desiderio di vivere in un Paese libero. Fu arrestata e sbattuta nel famigerato carcere di Evin. Nargess era incinta. La rinchiusero con altre cinque donne in una cella di sei metri quadri. Fu interrogata e torturata per un anno e mezzo. Neanche il fatto che aspettasse un bambino le risparmiò le sevizie. Tipicamente alle donne venivano frustati i piedi, molte venivano violentate. “Spezzare lo spirito, privarci di ogni umanità: era questo lo scopo del regime”, ci racconta. Nel 1983 Nargess partorì in carcere. Due anni dopo riuscì a scappare con la figlia dall’Iran. Oggi Nargess Eskandari-Gruenberg milita nelle file dei Verdi ed è vice sindaca di Francoforte (e fino a marzo provvisoriamente prima cittadina, dopo che l’ex sindaco Peter Feldmann si è dimesso, travolto da uno scandalo). Sua figlia, Maryam Zaree, è un’attrice e regista di successo in Germania. In quest’intervista a Repubblica, Nargess rivolge un appello forte all’Europa. Cosa può fare l’Europa per la rivoluzione in Iran? “La prima cosa, molto importante, è che l’Unione europea accetti che questo movimento non è una rivolta, ma una rivoluzione. Significa aver capito che l’Iran non si può riformare e che non si può avere un dialogo con questo regime. Il secondo punto importante è che si interrompano tutte le relazioni politiche ed economiche”. Lei chiede di seppellire anche i negoziati sul nucleare iraniano? “Certo. Persino le sanzioni implicano ancora il riconoscimento del regime. Ma vorrei anche che il mondo trovasse la forza di chiedere l’immediato rilascio dei 18 mila prigionieri che vengono torturati, seviziati e violentati ogni giorno nelle carceri iraniane. I più giovani hanno 14 o 15 anni”. Pensa sia diventata una rivoluzione anche per le speranze tradite degli ultimi due decenni che potessero esistere dei governi riformisti come quello di Khatami? “Esatto, è la grande differenza rispetto ai movimenti degli ultimi decenni, alle proteste del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad o al 2019, quando le piazze si ribellarono contro la guida suprema Al Khamenei. Questa volta è una rivoluzione perché è chiarissimo che l’Iran non è riformabile, che le piccole promesse fatte negli ultimi decenni si sono rivelate sempre delle pie illusioni. L’Iran è una teocrazia, è un regime ideologico che opprime, viola i diritti e l’autodeterminazione delle donne”. Lei si sarebbe mai aspettata che una rivoluzione così fosse avviata dalle donne? “Sì, è fantastico. Me lo aspettavo. Io stessa sono stata una giovane donna che si ribellò contro gli ayatollah. Noi donne siamo sempre molto forti nella storia. Il nostro ruolo è stato importante. Cento anni fa le donne scesero in piazza per il diritto di voto. Altrimenti io e lei mai avremmo avuto quel diritto. Le donne hanno spesso fatto più storia, sanno fare la storia. Le dico di più. Io penso che le iraniane stiano scrivendo la storia di tutte le donne. Sono certa che se la rivoluzione avrà successo in Iran, avrà un effetto domino sulle donne in Afghanistan, in Arabia Saudita, in Siria e nelle aree del mondo dove le donne sono oppresse ed escluse dalla vita pubblica”. A 17 anni lei fu rinchiusa nelle carceri di Erin, luogo di torture orribili. Cosa prova ora che tanti iraniani vengono di nuovo massacrati nelle prigioni, picchiati nelle piazze, impiccati? “È difficile. D’un lato sono triste, mi ritornano in mente tanti ricordi. Ero molto giovane quando sono stata imprigionata. E non può immaginare quanto fosse brutale il regime già all’epoca. Noi giovani combattevamo per la libertà. E quella libertà, quei desideri ci sono stati rubati. Adesso mi devasta vedere di nuovo persone giovanissime giustiziate in piazza. Sto male, mi sento il cuore oppresso. Mi sveglio ogni notte con una rabbia feroce. D’altra parte mi rende molto orgogliosa il fatto che milioni di persone stiano facendo questa incredibile rivoluzione. Sono fiduciosa. Io ci credo che un giorno ci potrà essere un Iran democratico e libero, un Iran in cui ci siano gli stessi diritti per le donne e si possa vivere in pace”. Lei ha partorito sua figlia in carcere. “Sì. E già in prigione mi ero giurata che se ne fossi mai uscita viva non avrei mai permesso a mia figlia di crescere in quel regime. Ero una delle studentesse più brave, per me era molto chiaro che avrei continuato a studiare. E che avrei fatto studiare mia figlia, lontano dalle catene dei mullah. Questo pensiero mi ha consentito di sopravvivere fino alla scarcerazione, mi ha dato una grande forza. Una volta liberata, i miei genitori volevano che mia figlia rimanesse con loro, mi dissero che sarebbe stato pericoloso per me scappare da sola. Ma per me era chiaro che non sarei andata da nessuna parte senza mia figlia. E volevo che mia figlia imparasse a crescere in un mondo democratico, che imparasse a essere una donna forte e sicura di sé”. Come si può aiutare la rivoluzione? “Qui in Germania ci sono manifestazioni di solidarietà forti. Non bisogna mollare. Anche la cosiddetta “sponsorizzazione” è importante: scegliersi un prigioniero, adottarlo a distanza, chiedere ai consolati di essere informati sulla loro condizione. Mantenere un faro acceso sui 18 mila carcerati, fare in modo che non spariscano, che non vengano giustiziati nel silenzio, nell’oblio. Sosteniamoli, con tutte le forze”. Iran. Muore dopo torture, aveva studiato a Bologna. Zaki: vittima della libertà d’espressione rainews.it, 2 gennaio 2023 Due anni fa era rientrato in Iran, il suo Paese, e ora è morto dopo esser stato torturato. Era stato fermato durante le proteste, poi era stato sottoposto a terribili torture ed è morto dopo 20 giorni di coma Aveva studiato a Bologna, poi due anni fa era rientrato in Iran, il suo Paese e ora è morto dopo esser stato torturato. È la drammatica notizia che arriva da Riccardo Noury, il portavoce di Amnesty attraverso le pagine di Domani. ”Mehdi Zare Ashkzari aveva studiato Farmacia a Bologna. Due anni fa era tornato in Iran, dove ora è morto, dopo venti giorni di coma a seguito di torture”, spiega Noury. La denuncia è arrivata a Noury da un’attivista iraniana, notizia che ora ha lasciato sgomenti gli ambienti universitari italiani: nel 2015 Mehdi Zare Ashkzari era passato dalle aule bolognesi e aveva anche lavorato in una pizzeria della città emiliana. Poi, racconta il quotidiano, è tornato in Iran, dalla madre. Ma nei mesi della repressione e delle esecuzioni sommarie, qui è stato torturato “tanto, al punto che dopo venti giorni di coma è morto”, ha appreso Noury dall’Iran. Secondo le prime testimonianze raccolte, il ragazzo sarebbe stato fermato e preso durante le proteste, poi torturato e, infine, rilasciato per evitare che si sentisse male mentre era in carcere. Poche ore dopo il rilascio è entrato in coma, fino a morire venti giorni dopo. Anche Patrick Zaki, lo studente bolognese che è uscito dalle carceri egiziane, in un tweet ha espresso dolore per la notizia. “Oggi l’Università di Bologna ha ricevuto una notizia orribile. Mehdi Zare Ashkzari, che aveva studiato farmacia due anni fa all’Unibo, è appena morto dopo essere stato in coma per 20 giorni. Dopo aver partecipato alla manifestazione iraniana”, scrive Zaki. Messico. Assalto a una prigione: 14 morti e 24 detenuti evasi La Repubblica, 2 gennaio 2023 Almeno 14 persone sono state uccise, tra cui 10 guardie, e 24 detenuti sono fuggiti durante un attacco armato di un commando in una prigione nella città settentrionale messicana di Città Juarez, al confine con gli Stati Uniti. Lo hanno riferito le autorità locali. “È stata accertata la morte di 14 persone, tra cui 10 agenti di sicurezza e di custodia e quattro detenuti, oltre a 13 feriti e almeno 24 detenuti evasi”, ha dichiarato l’ufficio del procuratore dello Stato di Chihuahua in un comunicato. L’attacco è avvenuto nelle prime ore della giornata, quando uomini armati sono arrivati alla prigione a bordo di veicoli blindati e hanno aperto il fuoco contro le guardie mentre i familiari aspettavano di entrare nella struttura per la visita di Capodanno. Secondo le prime indagini, l’assalto armato aveva lo scopo di facilitare la fuga di un gruppo di prigionieri. Dopo l’attacco, la polizia di Stato, con l’aiuto dell’esercito, ha effettuato quattro arresti, ha aggiunto l’ufficio del procuratore, senza specificare se si trattasse di prigionieri evasi o degli aggressori. La prigione ospita i membri delle ali armate dei cartelli di Sinaloa e Juarez, che si contendono il controllo della città da oltre 15 anni.