Se cento giorni vi sembran pochi di Livio Pepino volerelaluna.it, 29 gennaio 2023 Alfredo Cospito ha superato i cento giorni di sciopero della fame contro la propria sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis ordinamento penitenziario e, più in generale, contro tale regime e contro l’ergastolo ostativo. Le conseguenze di un digiuno così prolungato variano, com’è ovvio, da persona a persona e, fortunatamente (nonché quasi incredibilmente), non sono state per lui, fino ad oggi, irreparabili. Non per questo le sue condizioni sono tranquillizzanti. Al contrario, Cospito ha ormai perso 42 kg, è fortemente debilitato e in difficoltà a reggersi in piedi (tanto che, nei giorni scorsi, è caduto sotto la doccia, provocandosi fratture al naso), deve - secondo i medici - astenersi dal camminare (attività comportante uno sforzo troppo intenso) e si muove su una sedia a rotelle. Soprattutto, non è dato sapere fino a quando il suo fisico reggerà. Di ciò v’è finalmente una consapevolezza diffusa in settori culturali e politici eterogenei (è significativa, per esempio, l’approvazione unanime da parte del Consiglio comunale di Torino di una mozione che chiede la revoca, nei suoi confronti, del 41 bis) ma le istituzioni responsabili continuano ad essere del tutto assenti. Per questo è necessario riprendere le fila di un discorso, pur ripetutamente affrontato su queste pagine. Primo. La scelta di Cospito ha un’evidente valenza politica generale e, in questa prospettiva, ha raggiunto un primo risultato: le questioni del regime penitenziario ex art. 41 bis e dell’ergastolo ostativo sono tornate all’attenzione della politica, dopo essere state relegate ai margini del dibattito nonostante la loro centralità (dimostrata, tra l’altro, dai numeri, posto che, secondo le ultime rilevazioni, i detenuti sottoposti al 41 bis sono ben 749 e i condannati all’ergastolo ostativo addirittura 1280). Certo le strumentalizzazioni e le confusioni continuano. Ma alcune cose sono emerse con chiarezza. La legittimità del regime di cui all’art. 41 bis, con sospensione del trattamento penitenziario e applicazione di regole e divieti particolarmente penetranti, è strettamente legata al fatto che si tratti di una misura eccezionale e temporanea e che le prescrizioni e limitazioni imposte siano strettamente funzionali a impedire i contatti del detenuto con l’organizzazione criminale di appartenenza. Oggi, peraltro, non è così: il numero dei detenuti in 41 bis (molti dei quali di modesta caratura criminale), la durata (spesso senza fine) della sottoposizione a tale regime e la mancanza di correlazione tra alcune delle limitazioni imposte e l’obiettivo di impedire rapporti con l’esterno dimostrano che in sede di applicazione della misura si è creato un circuito detentivo ad hoc, un “carcere duro” (secondo un’espressione entrata nel linguaggio comune) caratterizzato da un surplus di afflittività per ragioni di vendetta sociale o per indurre chi vi è sottoposto a collaborare con gli inquirenti. Considerazioni analoghe valgono per l’ergastolo ostativo, segnato dall’assoluta impossibilità, per il condannato, di accedere a qualsivoglia beneficio per l’intera durata della pena (cioè fino alla morte): anche in questo caso l’automatismo della previsione e l’esclusione di ogni possibilità di valutazione della diversità delle situazioni da parte del giudice mostrano la costruzione di un circuito detentivo ad hoc sganciato dal sistema costituzionale il cui articolo 27 prevede che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il gesto di Cospito ha posizionato il tema in questi termini e, da oggi in poi, la politica e le istituzioni non possono non tenerne conto. Secondo. La questione generale non può, peraltro, mettere in secondo piano la vicenda specifica, al di là delle stesse richieste di Cospito. C’è un uomo che sta morendo in carcere. Quell’uomo, indipendentemente dai reati per i quali è stato condannato, è affidato non solo alla custodia ma anche alla cura dello Stato. Per questo le istituzioni non possono disinteressarsene, come se la questione non le riguardasse. Mettere mano a una revisione del sistema risultante dal regime ex art. 41 bis e dall’ergastolo ostativo richiede tempi non brevi, e Cospito non può aspettare. Ogni giorno che passa aumenta, per lui, il rischio di morte. Occorre disinnescare quel pericolo con provvedimenti adeguati: per salvare una vita e perché lo richiede la coerenza con la Costituzione (che pone al centro del progetto di convivenza la persona umana e la sua dignità). A fronte di entrambe le questioni indicate lo Stato non è un’entità astratta e inafferrabile ma si materializza in una figura precisa, con un nome e un cognome: il ministro della giustizia Carlo Nordio. È il guardasigilli, infatti, il primo titolare delle scelte politiche in tema di giustizia e l’autorità a cui compete applicare (e revocare) il regime di cui all’articolo 41 bis. Ma il ministro, solitamente salottiero e loquace, tace. Non solo, i segnali provenienti dal ministero di via Arenula sono di segno contrario e rivelano una fuga dalla doverosa assunzione di responsabilità. Da un lato, anche tramite le parole del sottosegretario Sisto, si avalla la tesi che l’eventuale revoca del regime del 41 bis compete alla magistratura e che, dunque, il ministro “ha le mani legate”; dall’altro, tramite formali diffide degli uffici dell’amministrazione penitenziaria, si tenta di impedire al medico che sta monitorando le condizioni di salute di Cospito di rilasciare informazioni sul punto a una testata giornalistica. Si tratta in entrambi i casi di posizioni prive di fondamento ed estremamente pericolose. È vero, infatti, che il potere ministeriale di revoca del regime del 41 bis non è più espressamente previsto dopo le modifiche introdotte con la legge n. 94 del 2009, ma ciò non lo ha in alcun modo intaccato, essendo “evidente che, ove muti il quadro a carico del destinatario (ad esempio per una scelta di collaborazione con la giustizia o perché muti il suo status processuale), debba intervenire revoca, senza attendere la scadenza naturale del decreto ministeriale, rientrando la facoltà di revoca nella disciplina generale degli atti amministrativi” (così, per tutti, F. Della Casa e G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, 2015). Del resto, se così non fosse, si perverrebbe all’assurdo che il detenuto in regime di art. 41 bis il quale recida i collegamenti con l’organizzazione di appartenenza (per esempio collaborando con gli inquirenti e facendone arrestare tutti i componenti) dovrebbe continuare a restare, magari per anni, in tale situazione. C’è certamente un potere concorrente di revoca in capo alla magistratura in sede di controllo sulla legittimità del decreto applicativo ma si tratta di una possibilità che interviene in seconda battuta (e che, nel caso specifico, sarebbe comunque tardiva, essendo l’udienza di riesame della Cassazione, pur anticipata, fissata il 7 marzo, e dunque fra un mese e mezzo…). Per altro verso, il tentativo di silenziare l’informazione, tenendo nascosto all’opinione pubblica l’evolversi della situazione, è tipico degli Stati autoritari, oltre che gravemente discriminatorio nei confronti di una testata ritenuta vicina alle posizioni politiche di Cospito. La conseguenza è evidente: l’apertura di un ampio confronto politico sulla realtà e le prospettive del 41 bis e dell’ergastolo ostativo e la decisione sulla revoca del regime cui è sottoposto Alfredo Cospito (anche solo interlocutoria in attesa degli sviluppi giudiziari) sono nelle mani del ministro. A cui compete dimostrare se il suo (proclamato) garantismo è reale o double face, cioè diversamente coniugato per i galantuomini e per i briganti. Cospito, il dossier sul tavolo di Nordio. “Ma per togliergli il 41 bis serve una mossa dei medici” di Liana Milella La Repubblica, 29 gennaio 2023 Il ministro segue “costantemente” il caso dell’anarchico ora in sciopero della fame. Si aspettano i dottori. Un ministro della Giustizia autorizza il 41bis, ma quello che prende il suo posto non può eliminarne gli effetti con uno spontaneo tratto di penna. Se la ministra Marta Cartabia, il 4 maggio 2022, ha firmato il carcere duro per Alfredo Cospito, adesso Carlo Nordio, che ha preso il suo posto, non può cancellarlo su due piedi. Perché dietro la prima firma, come dietro la seconda, dev’esserci il via libera obbligatorio dei magistrati. Nella fattispecie i pm antimafia di Torino e della Procura nazionale di Roma. Così dice la legge, e non ci sarebbe modo di aggirarla. E quel via libera, ancora oggi, non c’è. Anche se Cospito è in sciopero della fame da 102 giorni. Bisogna partire da qui per affrontare tecnicamente e politicamente il caso Cospito, l’anarchico condannato all’ergastolo per l’attentato del 2006 contro la scuola allievi carabinieri di Fossano, ma anche a dieci anni per la gambizzazione del dirigente Ansaldo Roberto Adinolfi. Il caso vede, anche in queste ore come ormai da settimane, una singolare contrapposizione. Da una parte i sit-in degli anarchici anche sotto via Arenula, dove ha sede il ministero della Giustizia, quasi che solo da lì possa arrivare lo svincolo dal 41bis per Cospito. Dall’altra il Guardasigilli Nordio - notoriamente un garantista che, da quando è stato nominato, non ha mai mancato di rimarcare, perfino con troppa insistenza, il suo credo in un carcere equo - con le mani legate. In apparenza inattivo. Tant’è che, pur assai loquace, Nordio ha esternato pochissimo su Cospito. Il 10 gennaio per dire che segue “con la massima attenzione” quello che succede nel carcere di Bancali a Sassari. E precisare che da lui non può giungere un atto “volontaristico” per sciogliere quel 41bis, visto che il 19 dicembre il tribunale di sorveglianza di Roma ha respinto il ricorso di Cospito. Ma Nordio è davvero così “assente” dal caso Cospito? Certo il suo atteggiamento e quello dei suoi collaboratori è riservatissimo. Ma spifferi di notizie da via Arenula fanno scoprire invece che il dossier Cospito è in bella evidenza sul suo tavolo perché Nordio è assai preoccupato. Tant’è che - giusto in questa settimana - ha tenuto una riunione del suo staff sul caso. E al direttore delle carceri, di freschissima nomina, Giovanni Russo, ha raccomandato vigilanza ad horas sulla salute del detenuto. E con i suoi giuristi Nordio si è anche interrogato sul suo potere di “interrompere” il 41bis per cause di forza maggiore, in questo caso uno sciopero della fame prolungato e pericoloso, come più volte gli ha fatto notare il Garante dei detenuti Mauro Palma che a Bancali è già stato tre volte, l’ultima sette giorni fa, per lanciare un allarme definitivo, “fuori subito Cospito da quel carcere, per prendere la via di Cagliari, altro penitenziario dove però c’è un dipartimento medico e l’attrezzatura per affrontare un dimagrimento di 40 chili”. È sufficiente parlare con Palma per comprendere che, come giurista, ritiene che in questo caso il Guardasigilli può anche stoppare il 41bis. Con un puntello giuridico che, a suo avviso, pesa, e cioè che il 12 gennaio l’avvocato di Cospito ha presentato a Nordio una nuova istanza di revoca, fondata su elementi certi, e cioè che dal carcere il suo assistito non ha inviato messaggi a gruppi anarchici inneggianti alla rivolta (e che gli è costata l’ergastolo ostativo), bensì ad associazioni che non perseguono quell’obiettivo rivoluzionario. L’esigenza di fare in fretta è innegabile, visto che il verdetto della Cassazione, pur anticipato, arriverà solo il 7 marzo. Ma un mese è troppo per le condizioni di Cospito. Quindi, come sostiene Palma, c’è un passo minimo da compiere, mandarlo subito a Cagliari. Da via Arenula, ufficialmente, rispondono che “solo i medici”, e non il ministro, possono deciderlo. E Nordio? Chi lavora con lui dice: “Sta seguendo la vicenda passo passo, chiede aggiornamenti continui, ed è visibilmente preoccupato”. Caso Cospito, il governo conferma la linea dura: “È terrorismo, non arretreremo” di Alessandro Barbera La Stampa, 29 gennaio 2023 Il Guardasigilli resta in silenzio e diserta l’audizione di domani in Commissione giustizia. Attesa per la decisione dei giudici. Il 7 marzo la Cassazione decide sul ricorso della difesa. Sulla matrice anarchica degli ultimi attentati alle sedi e al personale delle ambasciate italiane gli apparati di sicurezza non hanno dubbi. Per questo ieri mattina, mentre volava a Tripoli per discutere di gas e migranti, Giorgia Meloni ha dettato un comunicato senza sfumature: “Ho espresso preoccupazione e attenzione a questa nuova violenza nei confronti dei nostri diplomatici”. Due ore dopo una dichiarazione del sottosegretario alla Giustizia (di Fratelli d’Italia) Andrea Delmastro chiude il cerchio: “I magistrati non si intimoriscono e lo Stato non si piega. La normativa contro il terrorismo non arretra”. Delmastro non fa nomi, ma il riferimento è alle condizioni di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto nel carcere di Sassari e sottoposto al regime duro dell’articolo 41bis. Cospito, in sciopero della fame da 101 giorni, sta scontando la condanna per la gambizzazione nel 2012 di un dirigente di Ansaldo Nucleare e nel 2006 di un attentato alla scuola allievi carabinieri di Fossano. Meloni è consapevole che una parola in più su questa vicenda può infiammare gli animi. I tempi in cui si sarebbe potuta permettere di cavalcare il caso in campagna elettorale sono lontani. Le proteste di ieri in alcune piazze a favore di Cospito hanno convinto la premier a una comunicazione a dir poco cauta. “Una sola parola in più sarebbe di troppo”, ammette una fonte di governo sotto la garanzia dell’anonimato. Il più esposto alla vicenda è il ministro della Giustizia Carlo Nordio il quale, d’accordo con Meloni, si è chiuso nel riserbo più assoluto. Lo testimonia la decisione di ieri di non partecipare all’audizione prevista domani in commissione Giustizia per rispondere ad un question time sul caso Cospito. Lo staff del ministro rimanda a una nota che il 10 gennaio ha riassunto la vicenda giudiziaria dell’anarchico torinese. “La seguiamo con la massima attenzione”. Le condizioni di salute del detenuto “sono monitorate con un controllo medico giornaliero e un rafforzamento della sorveglianza”. Non solo: il comunicato sottolineava che “il regime del 41 bis è stato firmato il 4 maggio 2022 dall’allora ministra Marta Cartabia su richiesta concorde della Direzione distrettuale antimafia di Torino e della Direzione nazionale antimafia in relazione alla condanna per più reati, tra cui l’attentato per finalità di terrorismo e strage”. E ancora: “Cospito del resto ha fatto pervenire dal carcere documenti di esortazione alla prosecuzione della lotta armata, dimostrando così di essere in grado di collegarsi con l’esterno, nonostante la detenzione in regime ordinario”. In sintesi la linea del governo può essere riassunta così: non stiamo facendo nulla di diverso di quanto deciso dall’esecutivo precedente. Per Meloni la faccenda è delicata sotto molti aspetti. La prima: non essendo stato condannato in via definitiva e anche tenendo conto delle sue condizioni di salute (Cospito ha perso quaranta chili e pochi giorni fa si è rotto il setto nasale cadendo nella doccia) il caso non può essere risolto da un atto di grazia del presidente della Repubblica. La seconda: ci sono un’inestricabile serie di atti formali da rispettare. Il Tribunale della Libertà, sollecitato dagli avvocati di Cospito, ha chiesto il trasferimento in una struttura sanitaria per detenuti. La data cerchiata nelle agende del ministero della Giustizia è quella del 7 marzo, quando la Corte di Cassazione si riunirà per discutere il ricorso contro il regime carcerario a cui è sottoposto. Nel frattempo i giudici della Corte d’Appello di Torino hanno inviato gli atti alla Corte costituzionale, alla quale potrebbe rivolgersi anche la Cassazione. “Al momento al ministero non è arrivata nessuna richiesta di revoca del regime speciale 41bis né da parte del detenuto, né dell’autorità giudiziaria, che a fronte dell’aggravamento delle condizioni di salute può disporre una sospensione della pena o chiedere al ministro una revoca del regime speciale”, scriveva il 10 gennaio Nordio. Come a dire: se Cospito non capitola, non lo farà certo lo Stato prima di lui. Ma quanto a lungo può durare il braccio di ferro? Cospito sta morendo, la vendetta dello Stato: adesso intervenga l’Unione Europea di Massimiliano Smeriglio* Il Riformista, 29 gennaio 2023 Alfredo Cospito, detenuto nel carcere di Sassari dove sta scontando una pena non ancora determinata in via definitiva, è in sciopero della fame ormai da tre mesi. La sua protesta origina dalla decisione di sottoporlo, dall’aprile 2022, al regime del 41 bis, il carcere duro introdotto in Italia negli anni delle stragi di mafia del 1992. Cospito è stato condannato per l’attentato contro Roberto Adinolfi, ad. di Ansaldo nucleare, e all’ergastolo per strage contro la sicurezza dello Stato. La condanna si riferisce a due pacchi bomba contro la scuola Allievi Carabinieri che non hanno fatto morti, feriti, o danni gravi. Qualificato come delitto contro la pubblica incolumità nei primi due gradi di giudizio, a luglio 2022 il reato è stato modificato in delitto di strage per opera della Cassazione. Poi il rifiuto della collaborazione e l’applicazione dell’ostatività: Cospito è condannato all’ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale e di ottenere benefici. Se fino ad aprile, pur sottoposto al regime di Alta sicurezza da ormai dieci anni, al detenuto era concesso di comunicare con l’esterno, di scrivere e ricevere corrispondenza, l’applicazione del 41 bis cambia radicalmente le condizioni carcerarie. Contro tutto questo Cospito, dal 20 ottobre 2022, ha scelto di intraprendere lo sciopero della fame. Anche perché la finalità del regime speciale è quella di interrompere le relazioni tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Qualunque misura e qualunque limitazione deve tendere a questo scopo. Diversamente, e senza ragione documentata, non ha un fondamento legale. Il 41 bis significa il cielo oscurato da una rete, tutta la giornata chiusi in una cella, un’ora d’aria al giorno in cubo di cemento con mura alte, deprivazione sensoriale. Ovviamente è giusto che il detenuto sconti la pena per i reati commessi. Certezza della pena e equo processo dovrebbero essere gli obiettivi di un sistema giudiziario democratico, trasparente, credibile. La decisione del Ministero di Giustizia italiano sull’applicazione del 41 bis, avvenuta dopo 6 anni dall’ultima condanna, appare sbagliata e sproporzionata. E il dibattito in corso sul 41 bis, connesso alla cattura di Matteo Messina Denaro e alle ipotesi di trattative più o meno lecite relative all’ergastolo ostativo per alcuni mafiosi, rischia di inghiottire la vita di una persona, oltre che un bel pezzo dello Stato di diritto. Nel silenzio generalizzato di intellettuali, giornalisti, classe politica perché ci sono esistenze che rischiano di valere niente. Lo stato di salute del detenuto si è aggravato notevolmente dall’inizio dello sciopero della fame. Ad oggi Cospito ha perso 40 kg e afferma di non volersi sottoporre ad alcun trattamento medico forzato. Dovremmo essere tutti preoccupati della sua situazione di salute, anche dopo aver letto sulla stampa alcune dichiarazioni del medico che lo ha in cura. Peraltro appare grave la diffida del carcere di Bancali alla dottoressa Milia a prendere parola pubblica sul caso. Così come è da contrastare il tentativo di zittire i media, e in particolare Radio Onda d’Urto. Per questi motivi ho presentato un’interrogazione urgente alla Commissione europea, informandola dei fatti e mettendo in evidenza la situazione attuale del detenuto dal punto di vista del rispetto e della tutela dei diritti umani e della dignità della persona, considerando estremamente pericoloso il rischio a cui il detenuto si sta sottoponendo. Il Ministro Nordio ha riaperto una discussione sul garantismo e per essere credibile deve dimostrare che il garantismo non vale solo per i potenti. A lui chiedo di agire con urgenza e rimuovere immediatamente il regime di carcere duro a cui è costretto Cospito. Le sue condizioni fisiche sono già gravi. Lo Stato non può lasciare morire un uomo che si batte contro un regime carcerario ingiusto. E lo Stato, in Europa, non può ammettere vendette né rappresaglie. Sono convinto che una presa di posizione chiara di Bruxelles possa favorire una soluzione positiva a questa situazione. Facciamo in fretta perché non abbiamo più molto tempo. *Parlamentare europeo del Gruppo dell’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici In cella al 41 bis, ma è un sovversivo non un padrino di Diletta Bellotti L’Espresso, 29 gennaio 2023 Allo scoccare del novantesimo giorno di sciopero della fame un detenuto nel carcere di Sassari, l’anarchico Alfredo Cospito, aveva perso 38 chili. A maggio 2022, al suo decimo anno di carcere, Cospito è stato rinchiuso in una cella di un metro e 52 centimetri di larghezza per due metri e 52 centimetri di lunghezza, cioè uno spazio occupato quasi tutto dal letto. Cospito, sepolto, come altri 749 detenuti in Italia (2021), in un sarcofago di cemento armato, è sotto regime di 41 bis. Nel 2022, il reato di Cospito è passato da strage comune a strage politica, reato non applicato neanche per Capaci o Piazza Fontana. Il 41 bis, nella sua fondazione giuridica, ha una ratio non punitiva, ma di prevenzione: è infatti per esempio applicato indistintamente a persone condannate o in attesa di giudizio. Lo scopo dell’isolamento, o quasi isolamento, è quella di impedire che il detenuto possa comunicare con altri soggetti, sia all’interno che all’esterno del carcere, per proseguire le attività criminose. Da misura emergenziale, nel 2002, questo regime detentivo è diventato cardine del sistema a tempo indeterminato ed è stato applicato, da lì in poi, anche ai reati di terrorismo. Il 41 bis nella sua formulazione giuridica, non si identifica necessariamente con il “carcere duro”; lo scopo della norma è quello di recidere i rapporti con l’organizzazione criminale di riferimento. Il 41 bis dunque, quando applicato fuori dal suo scopo fondante, ovvero quello di tagliare i ponti con la struttura mafiosa, è un carcere che si potrebbe definire “illegittimo”, perché persegue concretamente e produce conseguenze diverse dalla norma, dalla sua finalità, dalla sua ratio. Ha un intento afflittivo e persecutorio, nega l’identità, depriva i sensi, non lascia spazio alla rieducazione a cui il carcere dovrebbe mirare. Così vi è l’assenza della natura rieducativa e umana dell’istituzione carceraria, e, ancor più che agli anarchici, il carcere duro deve far paura a chi crede e protegge uno Stato di diritto. Il carcere duro e il 41 bis sono l’epitome di un’istituzione che condanna, in ogni caso, alla marginalità sociale e all’illegalità, di fatto la istituzionalizza. È una struttura intrinsecamente criminogena e patogena, ovvero reitera, anzi rafforza, le distorsioni di una società che di fatto non sa emancipare l’individuo dalle proprie condizioni materiali. Il carcere deve redimere, deve socializzare, deve assurdamente correggere devianze che sono le devianze di Stato: la precarietà, la marginalizzazione. Chiaramente l’ambiente sovversivo, quello che spazia dalle azioni dimostrative e simboliche, alla non-violenza, all’azione diretta e quant’altro, teme il carcere duro, perché la sua applicazione richiede necessariamente, da parte di chi esercita il diritto, l’identificazione di una categoria politica criminosa, non di un fatto. È la torsione del diritto, l’apice d’offensiva dello Stato: sugli anarchici si sperimenta la tortura e la repressione, parte di una strategia che viene allargata poi a chiunque pratichi il conflitto sociale, anche in forme lievi. Non è un caso infatti, che anche strumenti come la sorveglianza speciale, derivino dal codice Rocco. Ma cosa c’entrano i boss mafiosi con chi pratica il conflitto sociale? Il dilemma. Tenendo Cospito al 41 bis gli si permette di fare il martire di Sergio Gioli La Nazione, 29 gennaio 2023 Gli attentati non giovano alla causa di Alfredo Cospito. Lui è in carcere al 41 bis, non si è mai pentito per ciò che ha fatto (che, al contrario di quello che si dice in giro, non è poco) e continua a sfidare lo Stato. Lo fa da capopopolo fanatico ma - adesso e solo adesso - in modo legittimo, semplicemente non mangiando. Per quelli fuori, che giocano a una rivoluzione che non c’è, è una specie di icona. È lui dal carcere a istigarli? Non direttamente, visto che non può. Ma indirettamente sì, nella sua ostinata ricerca del martirio. Ecco perché gli attentati non giovano alla sua causa. Perché chi - lo Stato, tutti noi - dovrebbe interrogarsi serenamente sull’opportunità dell’applicazione a un siffatto personaggio del carcere duro, è allo stesso tempo costretto a porsi il problema di non cedere alle violenze e alle minacce di una minoranza pericolosa e urlante. Insomma, di non darla vinta a chi mette le bombe. Il 41 bis fu introdotto nel 1986 per isolare i detenuti pericolosi nelle situazioni di rivolta, poi fu esteso - dopo le stragi di mafia - ai detenuti per reati di criminalità organizzata e, successivamente, di terrorismo. Prevede l’isolamento, la sorveglianza 24 ore su 24 e un solo colloquio al mese con i familiari. Serve a impedire a chi è in carcere di continuare a guidare chi sta fuori. Grazie a questo regime, ad esempio, i grandi boss di mafia sono stati neutralizzati e Cosa nostra in gran parte sgominata. Con Cospito, invece, il paradosso è evidente e il risultato opposto: tenendolo al 41 bis, gli si permette di fare il martire e di ispirare le azioni del suo sgangherato esercito di facinorosi. Ecco perché la questione è delicata. Non bisogna cedere ai violenti ma neppure farsi accecare da essi. E dunque: in punto di diritto, l’applicazione del 41 bis a Cospito è giustificata oppure no? Lo Stato democratico, che al prezzo di tante vittime ha saputo sconfiggere i terroristi come lui, ha gli strumenti e la forza per decidere, senza farsi condizionare da nessuno. Alfredo Cospito, chi è e cosa rischia l’anarchico in sciopero della fame di Claudio Bozza Corriere della Sera, 29 gennaio 2023 Pescarese, classe 1967, è considerato l’ideologo della Fai-Fri. Detenuto da oltre 10 anni, dallo scorso aprile gli è stato applicato il regime di 41bis nel carcere di Bancali. Dopo cento giorni senza toccare cibo, le sue condizioni di salute sono sempre più precarie. I gruppi dietro ai proclami e alle azioni violente a sostegno del capo estremista in sciopero della fame e in isolamento quasi totale. La matrice anarchica dei due attentati alle sedi diplomatiche italiane di Berlino e Barcellona è apparsa subito chiara. Perché la firma (incendiaria) e l’obiettivo sono gli stessi: fare pressione sullo Stato per attenuare il carcere duro all’anarchico Alfredo Cospito. Il leader della Federazione anarchica informale-Fronte rivoluzionario internazionale (Fai-Fri), frangia oltranzista e violenta ritenuta responsabile di oltre 50 attentati in tutta Europa e non solo, è in sciopero della fame da quasi tre mesi. Cospito, dopo oltre sei anni di detenzione nel carcere di Sassari, dallo scorso maggio è sottoposto al 41 bis, che prevede un isolamento quasi totale. E deve scontare in tutto 20 anni di reclusione, dovuti ad attentati dinamitardi contro i carabinieri e la gambizzazione di un manager di Ansaldo Nucleare, pena che potrebbe anche trasformarsi in ergastolo ostativo. Le condizioni di Cospito, 55 anni, si sarebbero assai aggravate a causa della sua protesta dietro le sbarre: “Sta rischiando la vita”, ripete il suo avvocato. Ma l’inasprimento del regime carcerario ha ragioni fondate. L’ex Guardasigilli Marta Cartabia decise di firmare un decreto ad hoc contro il leader anarchico, perché, secondo il tribunale di sorveglianza di Roma, grazie al normale regime carcerario poteva continuare a coordinare le attività eversive: “Le comunicazioni di Cospito con le realtà anarchiche all’esterno del circuito carcerario appaiono assidue e producono l’effetto di contribuire a identificare obiettivi strategici e a stimolare azioni dirette di attacco alle istituzioni”. Cospito, quindi, riusciva ancora a coordinare una rete anarchica fortemente operativa e radicata a livello europeo. Ma poi, nonostante l’applicazione del 41 bis, gli anarchici hanno continuato a colpire in più Paesi. Il campanello d’allarme più grave era stato l’attentato contro Susanna Schlein, prima consigliera dell’ambasciata italiana ad Atene, la cui auto fu data alle fiamme a inizio dicembre, in piena notte, mentre era in casa con i figli. Pochi giorni dopo arrivò la rivendicazione del “Carlo Giuliani Revenge Nuclei”. Ieri, 28 gennaio, era anche l’ultimo giorno di una “chiamata internazionale all’azione” lanciata nelle scorse settimane via web sui siti della galassia anarchica per ribadire solidarietà a Cospito. Una iniziativa eversiva, spiegano fonti di intelligence, durata una settimana e veicolata in lingua spagnola. In questi giorni sono state infatti rivendicate azioni meno eclatanti compiute anche tra Roma, Milano, Torino e Buenos Aires. E proprio a Barcellona, nella notte tra venerdì e sabato, il consolato italiano è stato colpito in un territorio dove la rete dei fedelissimi di Cospito è molto agguerrita, e può contare anche sul sostegno di frange sindacali di estrema sinistra. Qui, cinque soggetti in via di identificazione hanno colpito a volto coperto. Ma se il blitz spagnolo si è limitato a una vetrata infranta e una scritta pro Cospito, quello dinamitardo messo a segno a Berlino contro l’auto del primo consigliere dell’ambasciata, Luigi Estero, ha destato forte preoccupazione, con i livelli di sicurezza innalzati ai massimi livelli. Tutto mentre, nei giorni scorsi, un nutrito gruppo di intellettuali come l’ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick, il musicista Moni Ovadia, il filosofo Massimo Cacciari e don Ciotti aveva firmato un appello rivolto al ministro della Giustizia Nordio: “Chiediamo un gesto di umanità e coraggio come la revoca del 41 bis a Alfredo Cospito che è a un passo dalla morte”. Raid anarchici contro le ambasciate: “Italia assassina, liberate Cospito” di Grazia Longo La Stampa, 29 gennaio 2023 Colpite le sedi diplomatiche di Berlino e Barcellona, azioni anche a Torino e in Umbria. Cortei e tensioni a Roma e Trieste. C’è la galassia anarchica dietro agli atti vandalici che hanno preso di mira, l’altra sera, le sedi diplomatiche italiane in Spagna e Germania. E l’offensiva in solidarietà con Alfredo Cospito, da 101 giorni in sciopero della fame nel carcere di Sassari, dov’è recluso al 41 bis, ha colpito negli ultimi giorni anche in Italia, da Torino a Spoleto. Gli episodi più gravi restano comunque quelli di Barcellona e Berlino: nella prima città è stata infranta la vetrata del Consolato Generale ed è stata imbrattata una parete dell’ingresso dell’edificio. Mentre nella capitale della Germania, è stata invece incendiata l’auto con targa diplomatica di un funzionario diplomatico in servizio all’Ambasciata d’Italia. Secondo gli inquirenti e l’intelligence si tratta di azioni contro il carcere duro inflitto al pescarese di 55 anni. Il livello di allarme si alza ora a livello europeo: intensificata la collaborazione delle forze di polizia tra i vari Paesi. “Il ministro degli Esteri Antonio Tajani - si legge in una nota della Farnesina - ha immediatamente contattato l’Ambasciata a Berlino e il Consolato a Barcellona per esprimere la propria solidarietà e ha chiesto che venga fatta al più presto piena luce sulle dinamiche di questi atti criminosi”. Viene inoltre sottolineato che “il ministro ha disposto l’avvio immediato delle procedure per la verifica e il rafforzamento delle sedi diplomatiche e del personale impegnato. Le forze di polizia locali hanno effettuato i necessari rilievi scientifici ed investigativi. In ambedue i casi, fortunatamente, non si registrano danni a persone”. Sui due attentati alle sedi diplomatiche indagherà anche la procura di Roma, come ha già fatto per l’incendio dell’auto del primo consigliere dell’Ambasciata in Grecia Susanna Schlein. Il procuratore aggiunto Michele Prestipino, titolare del pool Antiterrorismo riceverà a breve un’informativa dei carabinieri del Ros e dei poliziotti della Digos che confluiranno nel fascicolo d’inchiesta. Sul caso spagnolo è chiara la firma anarchica. Infatti, sulla parete imbrattata a Barcellona sono apparse tre scritte in catalano: “Amnistia totale”, “Stato italiano assassino” e “Libertà Cospito”. Ma chi indaga è convinto che la stessa origine si nasconda dietro all’incendio, innescato con la diavolina in una ruota dell’auto del funzionario italiano alla nostra ambasciata a Berlino. Nei giorni scorsi gli addetti alla sicurezza della sede diplomatica avevano chiesto alla polizia locale di innalzare le misure di vigilanza in concomitanza con la “chiamata internazionale all’azione” promossa dagli anarchici a sostegno di Cospito. Gli investigatori italiani, in collaborazione con quelli spagnoli e tedeschi, lavoreranno sui filmati delle telecamere, sulle celle telefoniche di noti esponenti anarchici (in Spagna sono state individuate 5 persone, fermate e subito rilasciate) e provvederanno a monitorare siti web e social media. Ma non c’è soltanto il filone d’indagine straniero. Più o meno nelle stesse ore in cui si verificano le azioni dimostrative in Spagna e in Francia, veniva incendiato un ripetitore sulla collina di Torino. Sul posto campeggiava la scritta “Fuori Cospito dal 41 bis”. E a Spoleto è stato rivendicato da un gruppo anarchico il danneggiamento alla villa dell’imprenditore Giorgio Del Papa, titolare della Umbria Olii di Campello sul Clitunno, azienda nella quale, nel 2006, morirono 4 operai in seguito a un’esplosione. È stato danneggiato il citofono di casa nel tentativo di darlo alle fiamme con la diavolina e, nel giardino, è stata gettata una busta con carne avvelenata. Momenti di tensione, invece, ieri pomeriggio in centro a Trieste tra forze dell’ordine e manifestanti durante un corteo organizzato da un gruppo di anarchici per protestare contro il regime del carcere duro per Alfredo Cospito, che ha perso 40 chili e nei giorni scorsi è caduto nella doccia fratturandosi il setto nasale. Manifestazioni da parte di gruppi anarchici, ieri pomeriggio a Trastevere, a Roma, dove si sono registrate forti tensioni con le forze dell’ordine e dove un agente è rimasto ferito, mentre domani alle 15 davanti al carcere di Sassari è convocato un presidio solidale. “Gli atti vandalici? Che c’entra Cospito? Lui è al 41 bis” ha commentato il legale dell’ideologo anarchico, Flavio Rossi Albertini. Il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, ha chiesto il trasferimento con urgenza di Cospito. Il 7 marzo è attesa la discussione in Cassazione sul ricorso contro il 41 bis. Caso Cospito, allarme dell’intelligence: “Attentati nel nostro Paese”. A rischio ministeri e carceri di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 29 gennaio 2023 Gli anarchici sono il maggior pericolo terroristico per la sicurezza nazionale. Il legame con le cellule greche, spagnole e sudamericane. Se li aspettavano. E quasi certamente non saranno gli ultimi atti della campagna lanciata in nome di Alfredo Cospito. Se anche i segnali non fanno ritenere di essere prossimi al “salto di qualità”, all’escalation violenta che riporterebbe il nostro Paese in un periodo nero che pareva dimenticato, certo è che il “caso Cospito” è diventato un tema di sicurezza nazionale. Come tale le forze della Prevenzione e i nostri servizi di intelligence lo stanno affrontando, da settimane e con attenzione. Consapevoli che la partita è delicata e si gioca su due direttrici. In Italia, dove il movimento anarco-insurrezionalista, seppur sopito rispetto al passato, continua a rappresentare (statistiche alla mano) il principale pericolo di natura terroristica. In Europa e nel mondo, dove la vicenda Cospito, condannato per la gambizzazione del manager di Ansaldo Nucleare e per l’attentato alla scuola allievi carabinieri di Fossano, e recentemente sottoposto al regime del 41 bis, il carcere duro riservato ai mafiosi, sta diventando un simbolo: oltre agli attentati di queste settimane dalla Spagna alla Grecia, dal Cile alla Germania, sono decine i detenuti in sciopero della fame in solidarietà con il detenuto italiano. La Federazione anarchica informale (Fai) cui Cospito appartiene, del resto, da anni ha aderito all’idea proposta dai greci della Cospirazione delle cellule del fuoco (Ccf) di creare una rete internazionale di lotta. La chiamano Fronte rivoluzionario internazionale. Come la Fai in Italia, il Fronte si attiva per colpire obiettivi di volta in volta indicati nella galassia di blog e siti di riferimento (Inferno Urbano, per esempio). E che attingono alle tradizionali parole d’ordine, come “la dittatura dell’economia”, “il saccheggio della natura”, “la religione degli scienziati”. È in seno al Fronte che sono stati organizzati decine di cortei e, anche, le azioni recenti. L’incipit è stato il trasferimento di Cospito al carcere duro per le lettere che ha continuato a scrivere in cella a Bancali (Sassari) e inviare a chi è fuori, incitandoli a gesti di violenza e non solo verso le cose. Ecco dunque l’attacco incendiario del 3 dicembre scorso contro l’auto di Susanna Schlein, consigliera diplomatica dell’ambasciata italiana ad Atene; il furgone in uso alle guardie di un penitenziario dell’Oregon dato alle fiamme qualche settimana prima; le proteste in Cile; l’edificio del consolato italiano a Barcellona imbrattato due sere fa nelle stesse ore in cui bruciava la macchina di un funzionario dell’ambasciata italiana a Berlino. Il collegamento tra la Fai e i greci è noto sin dal 2012, quando sul volantino di rivendicazione della gambizzazione del manager Roberto Adinolfi appare il nome “nucleo Olga-Fai”, riferimento all’anarchica Olga Ikonomidou detenuta in Grecia e, in quel periodo, in sciopero della fame. Come adesso Cospito. Per conto del quale, come a restituire la “cortesia” di undici anni fa, si sono mossi anche i greci, notoriamente più facili all’uso di esplosivo rispetto agli italiani. Che ieri hanno bruciato un ripetitore sulla collina di Torino. “Fuori Cospito dal 41 bis”, recita la scritta. Quanti sono gli anarchici italiani? Non esiste un numero preciso, ma secondo gli analisti di polizia e carabinieri gli “operativi” disposti a partecipare alle campagne sono meno di un centinaio. Le “cellule” attive sono una dozzina, difficile però considerarli gruppi organizzati. Questo perché non esiste una struttura verticistica, motivo per cui sarebbe sbagliato ritenere Cospito come il capo della Fai o come colui che, alla maniera di un padrino, può dare ordini inviando pizzini dal carcere. È vero però che gli obiettivi delle campagne sono pensati e decisi sempre da un gruppo ristretto, come hanno dimostrato le indagini proprio su Cospito: l’attentato ad Adinolfi, per dire, ebbe bisogno di una “gestazione” di quasi due anni di dibattito interno. Undici anni dopo, le aree dove maggiormente si avverte la presenza della Fai sono ancora la Toscana, la Liguria, il Piemonte, Milano, con apparizioni nel Lazio e in Campania. Nelle ultime informative di Polizia sono delineate le modalità di azione dei gruppi (incendi soprattutto e talvolta attentati dinamitardi) a palazzi istituzionali e simboli: infrastrutture per le telecomunicazioni (i tralicci, appunto), le sedi di Equitalia e delle forze di Polizia, le auto del car sharing, le banche. Il caso Cospito, ora, trascina nel mirino il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il pm Santalucia: “Questi sono atti criminali. La sequenza di violenza gioca contro il detenuto” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 29 gennaio 2023 Attentati alle ambasciate e la scritta: “Liberate Cospito”, per l’anarchico che digiuna in carcere contro il 41 bis: Giuseppe Santalucia, da presidente Anm, quale riflessione le suscitano? “Gli atti criminali sono tali anche se hanno una coloritura ideologica”. E quindi? “Quale che sia la motivazione, la risposta dei magistrati deve essere quella prevista dal codice, che è unica. Sia che si creda nella Notte anarchica e si protesti per quella che si ritiene un’ingiusta detenzione, sia che si appartenga a un gruppo criminale”. Gli attentati aiutano Cospito, sollevando l’attenzione sul suo caso, o lo danneggiano? “Uno dei criteri alla base della scelta se revocare il 41 bis è la vitalità criminale del gruppo di provenienza. La produzione di violenza, gioca contro di lui. Perché i diritti del detenuto devono essere contemperati al pericolo di ordine pubblico che può creare all’esterno”. Chi protesta dice: Cospito non ha ucciso. Non deve stare a141 bis. In cosa sbaglia? Nel fatto che le bombe alla caserma avrebbero potuto causare una strage di carabinieri? “Faccio parte della VII sezione della Corte di Cassazione che valuterà il suo caso, quindi non parlo specificatamente di lui. Ma vale la regola generale. Il 41 bis non è una misura afflittiva ma serve a scongiurare i rapporti con l’esterno per evitare che da dentro il carcere si continuino a commettere reati”. Secondo Piercamillo Davigo lo Stato non può cedere al ricatto dello sciopero della fame. Cosa ne pensa? “Non la leggo così. Guardo al risultato. Se il detenuto è in pericolo di vita, anche se l’atto è volontario, occorre farsene carico. Le misure ci sono”. Quali? “Dagli strumenti penitenziari, come il trasferimento in una struttura con un centro clinico che possa rispondere all’emergenza, fino alla sospensione della detenzione, se le sue condizioni fossero incompatibili col carcere”. C’è chi teme che questo apra una via d’uscita dal 41 bis. Non è così? “Un lungo sciopero della fame non è una passeggiata. Certo i casi concreti vanno valutati con attenzione”. L’ergastolo ostativo per terroristi e mafiosi, che lascia al 41 bis chi non vuole collaborare con la giustizia, è stato riconfermato. Ma è venuto meno l’automatismo con cui veniva assegnato. Pensa che si sia aperto un problema? “Sì. La preclusione assoluta riduceva il contenzioso. La decisione comportava poca fatica. Se non collaboravi avevi il 41 bis. Oggi richiede accertamenti complessi. Un aggravio di cui il legislatore dovrebbe tenere conto aumentando le risorse: la tutela dei diritti ha sempre un costo”. La legale di Nadia Lioce: “Lei e le altre Br al 41 bis senza criterio di legge” di Giancarlo Castelli Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2023 Tra i detenuti per reati di terrorismo di matrice politica, sottoposti al 41bis non c’è soltanto l’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame da oltre 100 giorni. “Da quasi 18 anni, tra i 750 detenuti per i quali è stato adottato questo regime carcerario ci sono anche Nadia Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma”, dice l’avvocata Caterina Calia, legale dei tre brigatisti oggi ultasessantenni, nonché di Anna Beniamino, compagna di Cospito e anche lei condannata dal tribunale di Torino a 15 anni di carcere per la bomba alla stazione dei carabinieri di Fossano del 2006. Tutti e tre i brigatisti sono sottoposti a regime di 41bis che stanno scontando nelle carceri di Spoleto, di Opera e de L’Aquila. “Un regime detentivo inumano - commenta l’avvocata che proprio un paio di giorni fa si è recata a visitare Nadia Lioce nel carcere de L’Aquila - tanto più che la loro organizzazione di riferimento, le Br-Pcc non dà segni di vitalità da oltre 20 anni”. E continua: “Nel corso di quasi un ventennio infatti il regime del 41 bis è stato confermato, sia a lei che agli altri due detenuti, sulla base di motivazioni sganciate da qualsiasi presupposto di legge. Ne cito solo una: “Vanno valutate con la massima prudenza le temporanee eclissi del fenomeno brigatista che suggeriscono di non escludere la possibilità di una ripresa della lotta armata nel medio/lungo periodo, anche in considerazione di un panorama complessivo di scontri sociali, di un sempre crescente divario di condizioni di vita e di scarse occasioni di lavoro”. Nadia Lioce, conclude Calia “continua a proporre numerosi reclami verso le singole limitazioni di diritti, quali il blocco della corrispondenza, il rifiuto dell’acquisto di libri e riviste ecc. al fine di difendere, per quanto possibile in quelle condizioni, la propria integrità psicofisica”. Bambini in carcere con le madri. Perché non servono nuovi istituti di Carla Forcolin* Avvenire, 29 gennaio 2023 Per 16 anni ho fatto volontariato quotidiano accompagnando, attraverso l’associazione di cui ero presidente, “La gabbianella”, i figli delle detenute del carcere femminile della Giudecca di Venezia all’asilo nido (prima della legge 63/11) e alla scuola materna (dopo che fu deciso che i bambini dovevano rimanere con la madre fino a sei anni). Con questo credo di avere dimostrato che a quei bambini tengo davvero e tutta la mia vita lo dimostra, eppure, ogni qual volta affermo che le case famiglia “protette” non risolveranno davvero la situazione per cui alcuni piccoli crescono in carcere, mi si fa passare per una nemica delle madri detenute, una reazionaria insensibile. Io credo che la gente non voglia capire i veri problemi di questi bambini e delle loro madri. Credo che giornalisti e politici semplicemente non vogliano che pesi sulla coscienza di tutti la permanenza dei bambini negli istituti di pena. “Fuori i bambini dal carcere” è un ottimo slogan, ma ... intanto, proprio quel filone di pensiero che sembra voler risolvere il problema costruendo case-famiglia in tutta Italia, ha finito per raddoppiare il tempo di questa immorale detenzione, portandola dai tre ai sei anni e inventando gli Icam. Infatti, in teoria ci sono già oggi gli “Istituti a custodia attenuata per madri”: al posto dei nidi annessi agli istituti di pena, ma essi si sono rivelati carceri camuffate e i bambini non sono scemi. Anche nel 2011 si disse “Mai più bambini in carcere” e il risultato di quella riforma lo abbiamo sotto gli occhi. Oggi i bambini non sono più staccati dalle madri a tre anni, ma a sei, e gli si ruba tutta la prima infanzia: è un vantaggio per loro? Vivere fuori e andare a trovare la madre regolarmente, non sarebbe stato meglio? Da molti anni sostengo che gli Icam non hanno risolto l’indiretta detenzione dei bimbi, oggi se ne sono accorti tutti. Ecco allora il tentativo di coniugare la vicinanza del bambino con la madre e la sua libertà con le “case protette’: Ma anche qui, se le case famiglia sono “protette”, le madri, su cui pesa il sospetto di poter tentare la fuga, non saranno libere di uscirne e di conseguenza non lo saranno nemmeno i bambini. Altro carcere camuffato. Se invece ne possono uscire, allora la grande attenzione dello Stato deve andare non nel tenere madri e figli in un istituto (gli istituti raramente responsabilizzano i loro ospiti) ma nel preparare il loro futuro, perché nella vita si reintegrino tutti. Le madri in carcere con i figli ora sono circa una ventina: se costruiamo per loro case- famiglia protette appositamente e non vogliamo allontanarle troppo dai loro familiari, rischiamo di fare strutture per una, due di loro, rischiamo di condannarle all’isolamento, per non parlare dello spreco di pubblico denaro. Piuttosto, immagino delle cure individualizzate, nelle case che già esistono, e un accompagnamento all’autonomia, ad una vita nuova: formazione umana e professionale e poi un lavoro, una casa, la scuola per i bambini. Ogni situazione va considerata individualmente, utilizzando tutti gli strumenti che la tutela dei minori può offrire. Spesso una donna, che potrebbe accedere agli arresti domiciliari, non ha una casa dove stare: magari viveva in una roulotte o ha perso l’appartamento in affitto. In questi casi, se una casa-famiglia adeguata nel suo territorio manca, la si può anche costruire, ma è sulle cure che bisogna mettere l’accento, non sui mattoni. È più difficile, ma non per questo la cosa va ignorata. Ci vogliono soldi, nella legislatura precedente erano stati stanziati. Se i denari vengono spesi bene, ce la si può fare. Non posso dimenticare che, ai tempi in cui “le persone illuminate” volevano che i bambini uscissero dal carcere, costruendo gli Istituti a custodia attenuata (Icam), ne fu anche costruito uno a Senorbì, vicino a Cagliari, e non fu mai utilizzato. Nel frattempo, proprio nel 2010, “La gabbianella” smise di ricevere il finanziamento, che il Comune di Venezia le aveva dato fino all’anno precedente, perché l’amministrazione comunale era in difficoltà economiche. Così, per pagare gli accompagnatori, dovette fare autofinanziamento. Da una parte lo Stato buttava tanti soldi, dall’altra restava a presidio dei bambini il volontariato, abbandonato a se stesso. Certo, avremmo potuto smettere di portare i bambini al nido comunale, ma non ne avevamo cuore, ben sapendo cosa significavano quelle uscite per ciascuno di loro. Queste cose non devono succedere più. Non è affatto facile risolvere il problema di questi bambini, perché ogni bambino ha diritto alla sua mamma, finché è piccolo ma non basta essere madri per avere l’impunità rispetto a qualsiasi reato commesso. La questione esiste in tutti i Paesi del mondo ed è risolta nei modi più diversi. La risoluzione attuata costruendo le case famiglia protette non è altro che la prosecuzione dell’idea che ha fatto costruire gli Icam: teniamo i figli vicino alle madri fino a sei anni, a costo di farli crescere in luoghi in cui non hanno il padre, gli altri parenti, la libertà di uscire con i compagni, la garanzia di andare a scuola, visto che la scuola dell’infanzia non è obbligatoria, ecc. Ma i bambini, tutti, non sono oggetti di proprietà dei genitori, sono in primo luogo soggetti di diritto, come stabilisce la convenzione di New York. Per questo, sono persone libere e la loro cura riguarda chi detiene su di essi la responsabilità genitoriale, ma anche il sistema di tutela dei minori in Italia, visto che questi minori sono certamente svantaggiati. Chi deve decidere sulla loro vita, anche durante la detenzione della madre, sono entrambi i genitori, se ci sono, che vanno sostenuti in maniera adeguata. Non è la direzione del carcere, che però, visto che i bambini sono quanto di più prezioso possiedano le donne “ristrette”, fa fatica a ridimensionare il proprio ruolo. Perderebbe potere ed autorevolezza sulle madri, che ha la responsabilità di “rieducare”. Questa materia, legata ai diritti umani e alla civiltà di un Paese, va affrontata sulla base di indagini conoscitive serie e alla luce di uno dei principi cardine della Convenzione di New York: attuare il superiore interesse del minore, per permettergli una crescita che non sia pregiudizievole per il suo futuro. Qual è questo superiore interesse? Crescere in famiglia, possibilmente la sua e non stare in carcere o in strutture ad esso simili fino a sei anni. Poi, caso per caso, si deciderà. Non si cresce bene tra mura intrise di dolore. *Autrice di “Uscire dal carcere a sei anni”; Franco Angeli Editore “Divorzio fra giudici e pm”, tre proposte vanificano la tregua di Errico Novi Il Dubbio, 29 gennaio 2023 L’intesa premier-ministro sulla separazione delle carriere è inutile: esame al via il 2 febbraio. Cosa ha chiesto Giorgia Meloni a Carlo Nordio giovedì scorso? Poche cose, tutto sommato. Evitare i conflitti con le toghe. Evitare requisitorie divisive, seppur appassionate, come quella pronunciata, una settimana prima, alla Camera sulle intercettazioni. Dare precedenza alla fluidità della macchina giudiziaria e dunque alla digitalizzazione, come spiegato nella nota diffusa subito dopo il vertice. E poi una richiesta impegnativa ma (dal punto di vista della premier) comprensibile: non mettere sul tavolo ora, in una fase ancora di avviamento dell’esperienza di governo e con il nuovo Csm appena insediato, la separazione delle carriere. Occuparsene sì ma in modo da portare a casa il risultato “entro l’arco della legislatura”. Tradotto: il più tardi possibile. Nordio non ha motivo di entrare in conflitto con la presidente del Consiglio. Tanto più che, a fronte delle richieste, Meloni ha assicurato leale copertura politica al ministro dagli attacchi che comunque verranno, ad esempio non appena entrerà nel vivo la revisione dell’abuso d’ufficio e del traffico d’influenze, altri punti ammessi tra le priorità. Solo che la disponibilità dell’ex pm di Venezia a rinviare, e non di poco, la separazione delle carriere è clamorosamente neutralizzata dalle iniziative parlamentari. Cioè dalle incursioni degli alleati (e non solo degli alleati). Ora tra Palazzo Madama e Montecitorio sono in rampa di lancio quattro proposte di legge sul “divorzio” dei giudici dai pm; una di Forza Italia, una del Terzo polo firmata dal vicesegretario di Azione Enrico Costa e due della Lega, depositate da Erika Stefani e Jacopo Morrone, che per non sbagliare hanno “protocollato” un testo alla Camera e uno identico al Senato. Altro che rinvio: è un accerchiamento. E come farà Nordio a gestire la partita? Sarà costretto ad assumere le vesti del mediatore. Non può fermare il lavoro delle commissioni che si occuperanno della riforma: non le commissioni Giustizia ma quelle preposte agli Affari costituzionali. Dettaglio che fa la differenza: a Montecitorio in particolare, dove c’è un meloniano di rango, Ciro Maschio, a coordinare i lavori sulla giustizia, mentre agli Affari costituzionali dirige le operazioni l’azzurro Nazario Pagano. Che non a caso si è ben guardato dal dilatare i tempi dell’iter: ha fissato per il 2 febbraio il via all’esame delle proposte di legge sulle carriere dei magistrati. Il problema dunque esiste eccome. E in parte vanifica l’intesa Nordio- Meloni. O richiederà quanto meno che si ridefinisca un accordo a un livello politico più alto, e cioè fra la presidente del Consiglio, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Non sarà semplice. Intanto non sarà certo agevole imporre ai parlamentari un congelamento delle operazioni. Finché sull’ormai famigerato “cronoprogramma” non ci sarà un nuovo patto fra Meloni, il Capitano e il Cavaliere, la commissione di Affari costituzionali di Montecitorio potrebbe trasformarsi nell’arena del conflitto tra i deputati della maggioranza, con gli esponenti di Fratelli d’Italia che potrebbero chiedere di accantonare la riforma sulle carriere dei magistrati in attesa di tempi migliori, e i colleghi del Carroccio e di FI determinati ad andare avanti. Sarebbe il primo effettivo scontro in Parlamento nella coalizione di centrodestra. E riguarderebbe, non casualmente, la giustizia, come avvenuto in quasi tutte le legislature dell’ultimo quarto di secolo. Altro dettaglio: il possibile corto circuito sulle carriere di giudici e pm è stato abilmente predisposto dal solito spietato Costa, il vicesegretario e responsabile Giustizia del partito di Calenda che ha un talento speciale nell’individuare con chirurgica mira i punti deboli degli altri schieramenti. Ha depositato il testo sulla separazione delle carriere a inizio legislatura: anzi, la sua è stata tra le primissime proposte di legge ricevute dalla presidenza della Camera. Il suo articolato ricalca fedelmente quello sul quale nel 2017 l’Unione Camere penali raccolse 75mila firme: nella scorsa legislatura, quella riforma costituzionale d’iniziativa popolare s’inabbissò tra i vari cambi di maggioranza, e anche per il sostanziale scetticismo del Pd. In quel testo, a cui l’associazione dei penalisti tiene molto, sono previsti non solo il doppio concorso e il doppio Csm, ma anche l’attribuzione al Parlamento del potere di individuare le priorità nell’esercizio dell’azione penale, con modifica dell’articolo 112 che tuttora impone l’utopistico obbligo di perseguire ogni singolo reato. Si tratta dello snodo sul quale le contestazioni della magistratura diventerebbero più aspre. Nel testo appena depositato da FI a Montecitorio, e firmato, oltre che dal capogruppo Alessandro Cattaneo, dai deputati Tommaso Calderone, Annarita Patrarca e Pietro Pittalis, non c’è invece l’attribuzione alle Camere della facoltà di individuare una gerarchia fra i reati. Questioni tutt’altro che marginali che d’altra parte sono destinate a passare in secondo piano rispetto al dato politico: sulle carriere dei magistrati non c’è, per ora, un’intesa vera nella maggioranza, quanto meno sulla scelta dei tempi. E stavolta il ministro Nordio rischia di trovarsi a dover sciogliere un intrigo tutto politico tanto più impegnativo per chi, come lui, non è allenato ai bizantinismi. Albamonte: “Grave che la politica voglia bloccare il Trojan nelle intercettazioni” di Liana Milella La Repubblica, 29 gennaio 2023 Intervista con l’ex presidente dell’Anm: “Ormai tutti usano Whatsapp e sarebbe un disastro negare per le inchieste di corruzione l’uso del file di controllo”. La demonizzazione delle intercettazioni da parte della politica è partita di nuovo. Ed è fortissima. Lei, dottor Eugenio Albamonte, da pm a Roma, quando mette un’utenza sotto controllo già si chiede “ma posso farlo”? “Contrariamente a quello che si dice, nella nostra attività di pm le intercettazioni sono residuali e vi facciamo ricorso proprio quando non ne possiamo fare a meno...”. Guardi, a questo la politica non crederà mai... “Eppure è proprio così. Perché la natura stringente dei controlli del gip, le scadenze molto ravvicinate per le autorizzazioni a proseguire e la procedura per il loro deposito, resa molto più complessa dalla riforma Orlando, già comportano un enorme carico di lavoro”. Usa già la legge Orlando che distingue tra ascolti rilevanti e irrilevanti? “Tutte le procure d’Italia applicano le norme dal 2020 e in modo molto rigoroso dopo esserci dotati anche di apparati tecnici e ambienti ad accesso riservato per custodire gli ascolti”. Parla del famoso “armadio segreto”. Ce lo descrive? È davvero così inaccessibile? “Le dico solo che io stesso, se voglio riascoltare le telefonate di una mia indagine, vengo tracciato sia per accedere all’archivio, e cioè una grande sala server con tante postazioni computerizzate, sia per riascoltare le singole conversazioni che m’interessano”. Esclude fughe di notizie dall’armadio? “Non solo io lo escludo. Lo stesso Garante della privacy, sentito dalla commissione Bongiorno, ha detto che dal 2020 i casi di diffusione indebita sono stati pari a zero”. Per primo lei ha detto che ormai nessuno parla al telefono e tutti whazzappano. Che succede se prevale la linea, che vede fan anche a sinistra, di limitare l’uso del file di controllo Trojan a mafia e terrorismo, escludendo la corruzione? “Bisogna distinguere. Per le normali telefonate, eliminare il Trojan sarebbe un disastro, perché le persone non conversano più sulle linee tradizionali, ma lo fanno attraverso la rete. E lo stesso vale per i messaggi e per quella grande massa di documenti - foto, sms vocali, video - che sfuggirebbe del tutto a qualsiasi intercettazione tradizionale e che oggi rappresenta la parte più cospicua delle conversazioni”. Enrico Costa di Azione descrive il Trojan come un “ladro di vite” perché registra, cattura file, ne può immettere, fa video. È davvero così, ma soprattutto, se è così, tutto ciò serve per incastrare un criminale? “Innanzitutto qui si esagera con la diffidenza. Dire che attraverso il Trojan la polizia giudiziaria o il pm possano inserire artatamente contenuti nei telefonini per creare prove false è una cosa da un lato impossibile, se non nei film di 007, dall’altra gravemente ingenerosa e gratuitamente offensiva...”. I “poteri” del Trojan hanno fatto arrestare un criminale che non fosse un mafioso o un terrorista? “Se ci riferiamo all’uso del Trojan come intercettazione ambientale sicuramente è stato indispensabile in tutti i casi in cui le persone che vogliono sottrarsi alle indagini s’incontrano per strada, sul treno, in un bar, evitando quei luoghi, come una casa o un’auto privata, in cui ci potrebbe essere una microspia. Tanto più sono gravi i reati e pericolosi gli indagati, tanto più spesso riscontriamo che si ricorre a questi espedienti”. È costituzionale, o si presterebbe a un ricorso alla Consulta, che sia la politica a decidere i confini nell’uso di uno strumento investigativo? “Incostituzionale non lo è, ma è chiaro che se la politica decidesse di impedire l’uso del Trojan in un’indagine di corruzione si assumerebbe una responsabilità grave di fronte agli elettori e all’opinione pubblica”. Campania. Nelle carceri 7 suicidi in meno di 2 mesi: carenza di infermieri e medici edizionecaserta.net, 29 gennaio 2023 Sette suicidi tra dicembre 2022 e gennaio 2023; 189 infermieri in tutta la Campania e solo 108 medici: sono i numeri resi noti da Antonio De Palma, presidente nazionale del Nursing Up, sindacato infermieri italiani, in merito alla situazione delle carceri. “Siamo in Campania, seconda regione per numero di popolazione carceraria, dopo la Lombardia: si contano oggi 6471 tra uomini e donne, un dato decisamente in sovrannumero rispetto agli spazi e soprattutto agli strumenti disponibili, per non parlare del forte clima di disagio psicologico che sta sfociando, sul territorio, nella più grave delle piaghe, ovvero i suicidi. Ne registriamo sette, solo tra dicembre 2022 e gennaio 2023: ai livelli di questa situazione, davvero allarmante, ci sarebbe solo la Puglia”, sottolinea. “Ci sono 189 infermieri e appena 108 medici - spiega - questi sono i dati che ci giungono, indirettamente, da alcune aziende sanitarie, addirittura gli infermieri sarebbero anche numericamente diminuiti rispetto agli anni precedenti. Resta infatti inesorabilmente vuota la casella delle assunzioni, i concorsi, se ci sono, vanno deserti”. “Negli ospedali i posti letto da destinare alla popolazione carceraria devono decisamente aumentare, in Campania ce ne sono solo 36 per una popolazione di quasi 6500 detenuti. E non si fanno ricoveri in altri ospedali perché non ritenuti idonei alla sicurezza - aggiunge. A Poggioreale, una delle carceri più grandi d’Europa gli agenti della Polizia penitenziaria sono appena 800, il rapporto è di un poliziotto ogni 90 reclusi. In pratica ci sono interi padiglioni in cui la sorveglianza è diventata complicata. Gli infermieri sono addirittura solo 40. Si tratta di una proporzione che farebbe impallidire chiunque”. “A Bellizzi Irpino ci sono 6 infermieri per 511 pazienti, spesso nessuno nei turni di notte”, spiega ancora De Palma che affronta anche il tema dei suicidi: “64 tentativi di suicidio sventati solo nel 2022, 7 nell’ultimo anno (gennaio 2022-gennaio 2023), compreso un triste episodio avvenuto pochi giorni fa, sono sfociati drammaticamente in decessi”. “Una situazione triste, desolante, che va denunciata a gran voce, e che penalizza sia gli infermieri, ma soprattutto i detenuti a cui non vengono difatti garantite tutte le condizioni per una corretta tutela della propria salute”, conclude. Milano. Magistrati in pensione richiamati a scrivere sentenze: la proposta per sveltire la giustizia di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 29 gennaio 2023 La strategia di coinvolgere professionisti (anche avvocati, professori e notai) per far fronte alle carenze di personale. Il presidente della corte d’Appello Ondei all’inaugurazione dell’anno giudiziario: “Ogni altra ipotesi non ha prospettive di risultato”. “Nel frattempo l’unica soluzione concreta e di qualità è quella di reclutare eccezionalmente e temporaneamente magistrati, avvocati, notai e professori universitari in quiescenza che possano trattare le cause meno complesse e scrivere le sentenze da subito: ogni altra ipotesi di soluzione non ha alcuna seria e sufficiente prospettiva di risultato”. Professionisti in pensione richiamati per far fronte alla carenza cronica di personale: è la rotta obbligata tracciata dal presidente della Corte di Appello di Milano Giuseppe Ondei, nel suo discorso di apertura dell’anno giudiziario. Un discorso che molto ha puntato, tra le altre cose, sulla mancanza di forze nei Palazzi di giustizia: “Così non si può andare avanti. Ogni anno la situazione peggiora, vi sono sempre meno magistrati negli Uffici. C’è il serio pericolo che l’anno prossimo anche il virtuoso distretto di Milano possa iniziare a presentare dati negativi”, continua Ondei. “Il ministero come la nottola di Minerva si è alzato in volo solo al crepuscolo quando ormai il “gelo demografico” ha attanagliato la magistratura. Per porre rimedio a tale situazione serviranno almeno tre anni”. E nel frattempo servono i “richiami” di chi è a riposo. I numeri dicono questo: al 30 giugno del 2022 le scoperture andavano dal 6,6% del Tribunale di Lecco al 24,33% del Tribunale di Pavia. In Corte di Appello, a fronte di una carenza di 22 unità, di nuove ne sono arrivate soltanto 7. Anche il personale amministrativo, nell’intero distretto, segna una “scopertura” del 31,4% mentre a livello nazionale è del 25. Questo è uno dei motivi per cui, secondo Ondei, senza un intervento serio le riforme sulla giustizia rischiano di fare la fine della “polvere al vento”. Ma questi numeri come incidono sul lavoro delle aule giudiziarie? Il presidente della Corte di Appello di che che il distretto “ancora una volta complessivamente si è mostrato virtuoso”. Sul settore civile, nel quale, come stimato dalla Banca d’Italia, le inefficienze della giustizia “costano” la perdita dell’1% del Pil, “vi è una riduzione costante annuale delle pendenze” in appello. E il temo che serve per definire mediamente un fascicolo (il “disposition time”) è di 276 giorni contro i 578 a livello nazionale. In primo grado, l’arretrato (cioè i fascicoli pendenti da più di tre anni) è al 26% nel solo distretto di Varese e “largamente al di sotto della media nazionale” del 23% negli altri tribunali. Milano. A San Vittore donna incinta di due gemelli senza copertura ginecologica di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 29 gennaio 2023 Una donna incinta di due gemelli è ristretta presso il carcere di San Vittore. La detenuta, in attesa di giudizio, ha ricevuto un’ordinanza ex art. 285 presso l’Icam, ma la struttura a custodia attenuata non prevede una copertura sanitaria h24, e quindi si è proceduto alla collocazione presso la Casa circondariale milanese, dove, tuttavia, non è presente un ginecologo (a fronte di oltre 90 detenute ristrette). Questo caso si somma ai molti casi registrati nel 2022 (compresa la vicenda della detenuta che aveva perso il bambino in corso di detenzione che Antigone aveva denunciato nei mesi scorsi). Il numero è stato così elevato anche perché con circolare n° 10998 del 30 maggio scorso la Procura di Milano ha deciso di modificare il proprio precedente indirizzo del 2016 volto ad evitare l’ingresso in carcere alle donne incinte o con prole di età inferiore ad un anno, soggetti che in caso di esecuzione penale normativamente non possono permanervi ex art. 146 c.p. (differimento obbligatorio della pena). Oggi le forze dell’ordine sono obbligate, in presenza di un ordine di esecuzione, ad accompagnare queste persone in carcere in attesa che il magistrato di sorveglianza prenda atto delle condizioni che ne impediscono la permanenza. “Milano rappresenta un’anomalia in Italia, e continua a prevedere l’invio in carcere per donne in gravidanza, mettendo a rischio la loro salute e quella del bambino, proprio perché le strutture non sono adeguate per questo tipo di presa in carico”. A dirlo è Valeria Verdolini, presidente della sede lombarda di Antigone. “Auspichiamo quanto prima - prosegue la Verdolini - la revoca della circolare e il ripristino della sospensiva in vigore dal 2016, e tutte le forme di cautela e protezione in qualunque fase della detenzione”. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Firenze. Emergenza a Sollicciano: “È infestato di cimici, detenuti con i morsi” La Nazione, 29 gennaio 2023 Il carcere di Sollicciano è infestato dalle cimici. E i detenuti “hanno mostrato tracce di morsicatura e puntura” sui loro corpi. È un passaggio choc della lunga e articolata relazione del presidente della Corte d’Appello di Firenze, Alessandro Nencini. Il massimo giudice del distretto si è soffermato molto sulle condizioni dei penitenziari; e nell’istituto fiorentino, il più grande della regione, riscontra una “perdurante gravissima situazione ‘strutturale’ vieppiù aggravatasi nell’ultimo anno a causa del peggioramento della situazione igienico-ambientale”. “Le condizioni igieniche dei reparti visitati lasciano effettivamente molto a desiderare e pur consapevole dell’endemicità del fenomeno, che ha molteplici cause non ultima la conformazione strutturale ed edilizia del carcere che necessiterebbe di un vasto programma di ristrutturazione complessiva, si rende necessario operare interventi di risanamento radicali. Tale condizione - constata ancora Nencini - rende la detenzione nel carcere particolarmente gravosa se non, in casi sempre più frequenti, contraria ai principi di umanità della pena per i condannati e dell’esecuzione delle misure cautelari per gli imputati (particolarmente colpiti nel caso specifico). Si tratta del più grande istituto della Toscana, che presenta gravissimi problemi dal punto di vista edilizio e di mantenimento di adeguate condizioni climatiche al suo interno, con problemi di vivibilità che si ripropongono annualmente (calura estiva accentuata, perdite d’acqua, infiltrazioni, topi, cimici, umidità, sporcizia)”. In questo contesto, sono maturati 34 episodi di tentato suicidio, 413 gesti di autolesionismo (in calo rispetto ai 728 della stagione precedente), 147 aggressioni, 229 manifestazioni di protesta compreso lo sciopero della fame, 290 danneggiamenti. C’è anche qualcosa di buono: nella sezione femminile un asilo nido, sfruttato da una mamma detenuta che ha con sé suo figlio, e il ‘Consiglio dei detenuti’, un organo consultivo istituito nel 2018, “formato da 34 reclusi democraticamente eletti che dialoga costantemente con la direzione”. “È comunque una realtà positiva, come anche alcune significative iniziative di carattere ‘culturale’ e ‘convegnistico’ all’interno del ‘Giardino degli incontri’”, sottolinea il presidente della Corte d’Appello. Bergamo. La forza della parola entra in carcere: “Creiamo comunità per ascoltare” di Sabrina Penteriani L’Eco di Bergamo, 29 gennaio 2023 Candelaria Romero e l’opera di volontariato nella biblioteca della sezione femminile. Racconti e poesie possono creare legami, aprire nuovi mondi, seguire i sentieri del cuore fino a raggiungere e illuminare luoghi profondi, altrimenti chiusi e nascosti. Ecco perché la lettura condivisa diventa preziosa anche in un luogo aspro, complesso e insolito come il carcere. Perfino lì, nella sezione femminile della Casa circondariale di Bergamo, negli ultimi mesi è nato un “Circolo delle narratrici”. È un piccolo gruppo di donne che si incontrano e raccontano storie a voce alta, offrendo agli altri l’opera senza tempo di scrittori e artisti ma allo stesso tempo qualcosa di sé. Questo progetto è promosso dal Sistema bibliotecario urbano del Comune di Bergamo e dall’associazione Il Cerchio di Gesso, con il sostegno della Fondazione Comunità bergamasca in occasione della Capitale del volontariato 2022. Punta sul grande potere di cura, trasformazione e libertà delle parole, con la capacità di far emergere la parte migliore che ognuno possiede. Napoli. “Il colloquio”, il teatro oltre il muro del carcere di Poggioreale di Olga Chieffi cronachesalerno.it, 29 gennaio 2023 Domani sera, alle ore 20, sul palcoscenico del teatro Ghirelli, secondo appuntamento con la VII stagione Mutaverso, nell’ambito di Ablativo, declinazioni espressive di Vincenzo Albano. La scelta del direttore artistico, è caduta su “Il colloquio”, uno spettacolo vincitore del Premio Scenario Periferie 2019 e di diversi altri temi, scritto da Eduardo Di Pietro, che ne è anche il regista, interpretato da Renato Bisogni, Alessandro Errico e Marco Montecatino. “Il Colloquio” prende ispirazione dal sistema di ammissione ai colloqui periodici con i detenuti presso il carcere di Poggioreale, Napoli. L’ispirazione è nata da un documentario in cui si accendevano i riflettori su questa fila interminabile di donne a cominciare dall’alba per conquistare senza alcuna sicurezza, il colloquio di un’ora. La pièce vede tre donne, tra tanti altri in coda, cosiddetti “I condannati di fuori”, attendono stancamente l’inizio degli incontri con i detenuti. Portano oggetti da recapitare all’interno, una di loro è incinta: in maniera differente desiderano l’accesso al luogo che per ognuna custodisce un legame. La detenzione rappresenta un evento fortemente traumatico per gli individui che ne vengono coinvolti. Il carcere è un momento di vertigine. Tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, i sentimenti, le abitudini, che prima rappresentavano la vita, schizzano all’improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo. Al detenuto non è dato di decidere con chi coltivare rapporti, e gli affetti rimangono drammaticamente fuori da ogni possibilità di scelta. La solitudine, la lontananza, e quindi l’impossibilità di avere continui e regolari contatti con i propri cari sono spesso l’origine di un crollo psicofisico, di cui risente tutta la famiglia, con la conseguenza di un’inevitabile frantumazione del rapporto emotivo-sentimentale. L’individuo è costretto ad abbandonare il suo lavoro, la sua abitazione, gli affetti, ovvero tutti quegli elementi che costituivano il suo progetto di vita, per questo il carcere può rappresentare per il soggetto detenuto, una seria “minaccia per gli scopi di vita dell’individuo, per il suo sistema difensivo, per la sua autostima ed il suo senso di sicurezza”, una minaccia che nel tempo si concretizza in una progressiva disorganizzazione della sua personalità. La perdita di identità è poi condizionata dalla continua influenza della cultura carceraria, cioè di quella subcultura che si sviluppa tra gli appartenenti alla comunità carceraria, al di fuori dalle regole penitenziarie, che porta a poco a poco ogni individuo a divenire un membro caratteristico della comunità penale distruggendo la sua personalità in modo da rendere impossibile un successivo adattamento ad ogni altra comunità. Questo progressivo processo di adattamento alla subcultura carceraria è stato definito da Donald Clemmer “processo di prigionizzazione”. La vita quotidiana della città non si è ancora risvegliata e dalla sospensione onirica della situazione, dagli scontri e dagli avvicinamenti reciproci, emerge la visione brutale di una realtà ribaltata. La galera, un luogo alieno, in larga parte ignoto ed oscuro, si rivela un riferimento quasi naturale, oggetto intermittente di desiderio e, paradossalmente, sede di libertà surrogata. In qualche modo la reclusione viene condivisa all’esterno dai condannati e per le tre donne, che se ne fanno carico, coincide con la stessa esistenza: i ruoli maschili, in una società come quella del Sud, che vede ancora le due figure ben definite, con i propri compiti, senza alcuna possibilità di osmosi, si sovrappongono alle vite di ciascuna, ripercuotendosi fisicamente sul corpo, sui comportamenti, sulle attività, sulla psiche. Nella loro realtà, la detenzione è una fatalità vicina - come la morte, - che deturpa l’animo di chi resta. Grande polarizzazione lo scontro tra i detenuti e le famiglie di essi e la Polizia penitenziaria, ovvero l’Istituzione, con cui non sanno rapportarsi e si è sempre sull’orlo della denigrazione e della rissa. Nel corso delle ricerche il collettivo Lunazione, si sono fatti conquistare da queste vite dimezzate, ancorate all’abisso, disposte lungo una linea di confine spaziale e sociale, costantemente protese verso l’altrove: un aldilà doloroso e ingombrante da un lato e, per contro, una vita altra, sognata, necessaria, negata. La mancanza, in entrambe le direzioni, è sembrata intollerabile al collettivo. La giustizia riparativa è la Cassazione delle anime dannate e le restituisce alla vita di Luca Doninelli Il Giornale, 29 gennaio 2023 Il bisogno assoluto di cambiare il punto di vista su sé stessi. Tutti noi viviamo, istante dopo istante, portandoci dentro la nostra storia, con i passi che ci hanno condotti fino all’istante presente. La storia è quella, i passi sono quelli. Noi, però, siamo anche i narratori di questa storia: la trasformiamo (per noi stessi o per gli altri) in un racconto, e raccontandola la modifichiamo, inevitabilmente, dando più importanza a qualcosa, meno a qualcos’altro, accentuando qualcosa e omettendo qualcos’altro. In una vita diciamo così normale, questo racconto, questa modificazione, dovrebbe avvenire senza sosta, come una continua scoperta di noi stessi. Qualche volta, però, un evento traumatico, un’azione violenta, subita o anche compiuta da noi, ha l’effetto di bloccare il nostro racconto, che di colpo diventerà indifferente al modo in cui la nostra storia va avanti, e noi ci trasformiamo nella ripetizione di noi stessi. Succede nel caso di un crimine, quando l’azione violenta compiuta si trasforma nella definizione che il suo autore dà di sé stesso: io sono un criminale. In questa triste realtà sta la ragione per cui la stragrande maggioranza di coloro che finiscono in carcere, una volta scontata la pena ricadono nelle stesse male azioni: diventano, cioè, recidivi. Ma, se le cose stessero solo così, la giustizia - bene supremo - si ridurrebbe a un banale strumento con il quale si separano dal corpo della società le persone più nocive senza però riuscire a restituirle utilmente alla società. Questo significherebbe il fallimento. Ecco perché, da diversi anni, il tema della “giustizia riparativa” è diventato centrale in Italia. Il termine spiega bene il contenuto: la giustizia non può soltanto sorvegliare e punire (secondo il celebre titolo di Michel Foucault), deve anche cercare di riparare qualche danno. E se non può restituire la vita a chi è morto, può però aiutare a modificare quei racconti che si sono bloccati, e come un bravo meccanico rimetterli in moto. Riparare i racconti è uno dei compiti di chi si occupa di giustizia riparativa. Un esempio straordinario di questo lavoro ci viene offerto da un libro sconvolgente (lo consiglio solo ai lettori forti, a chi non cerca soltanto lo svago) dal titolo “Io volevo ucciderla”, di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali (Raffaello Cortina, pagg. 430, euro 29). Il libro è occupato per la massima parte dalla registrazione della straziante conversazione tra i due criminologi e una detenuta del carcere di San Vittore a Milano, Stefania Albertani, rea della morte della sorella. La condizione di partenza del dialogo appare quasi insostenibile, data la particolare efferatezza del delitto (preferisco non spoilerare a beneficio di chi vorrà leggere questo grande libro): come può una persona ricominciare a pensare a sé stessa come a un essere umano, come tutti, dopo aver compiuto un’azione simile? “Nun so’ stata io!” grida disperata, al termine del Pasticciaccio di Gadda, una donna inchiodata dall’evidenza dei fatti, e in quel grido noi scorgiamo una disperata verità che la povera anima, schiacciata da un atto spaventoso, ripete davanti al nulla. Il carcere cancella spesso anche quell’ultima verità, e l’autore del crimine si accomoda, si siede dentro la propria azione, senza più la voglia di liberarsene, di staccarla da sé. Ecco, questa è la montagna, l’Everest che il criminologo deve cercare di superare per poter cominciare il suo dialogo vero e proprio e dare un senso all’azione buona di chi opera per la giustizia. Questo lavoro di mediazione è durissimo: si tratta di lavorare senza sosta, per ore, settimane, mesi, su un racconto che si presenta sempre uguale, nel tentativo di aiutare una persona a modificarlo, a guardare a sé stessa in modo più umano: “Lei non è soltanto l’omicidio che ha commesso” dice Ceretti alla Albertani “non è solo quello. Certamente è anche quello (...). Ma quel gesto rimane pur sempre il fotogramma di un film, un fotogramma che pesa come un macigno (...) è un film noir in cui accade un omicidio, e se la ricordano tutti quella scena. Ma noi, di quel film stiamo cercando di scoprire quello che c’è prima e quello che c’è dopo quella scena. E le chiediamo di puntare su questa fragile scommessa”. Stefania Albertani, millimetro dopo millimetro, accetta la fragile scommessa, e piano piano qualcosa d’importante accade sotto i nostri occhi. Qualcosa di meraviglioso, che compensa il lettore dello strazio che Ceretti e Natali (e la Albertani) non risparmiano né a sé stessi né al lettore. Ma questo libro non è soltanto il documento di un’azione di mediazione, perché la giustizia riparativa che mette in atto è qualcosa che riguarda ciascuno di noi e il nostro modo di raccontare e raccontarci. Ossia, tutte le 24 ore della nostra giornata (anche dormendo il nostro racconto va avanti). Hemingway diceva che niente è più difficile di una “prosa onesta” sugli esseri umani. Ma raccontarci con onestà diventa addirittura impossibile nella solitudine. Abbiamo bisogno di mediatori, sempre: di qualcuno, cioè, che ci aiuti a modificare il punto di vista su noi stessi: non per dimenticare (ci mancherebbe) quello che abbiamo fatto, ma per imparare - ed è una dura lezione - che noi siamo più grandi delle nostre azioni. La giustizia non può non darsi anche questo compito. Claudia e Irene, diventate amiche grazie al perdono: chi sbaglia deve avere una chance di Francesca Barra L’Espresso, 29 gennaio 2023 La moglie della vittima e la madre dell’omicida. Nel dolore, si uniscono e fondano l’associazione Amicainoabele per connettere le famiglie di chi ha subito un reato e quelle dei detenuti. Claudia è in tribunale e davanti a lei c’è Matteo, il ragazzo di diciannove anni che, la notte del 25 aprile del 2011, ha aggredito al posto di blocco due carabinieri riducendo in coma suo marito Antonio. È arrabbiata, si sente come una candela che si sta esaurendo e in quell’aula urla al giovane di guardarla negli occhi, di rendere conto del dolore procurato. Come tutti vorrebbe solo che fosse punito, che ricevesse una pena esemplare. Matteo si gira e i loro sguardi si incrociano: sta piangendo. Anche Irene, sua mamma, è disperata. Fino a quel giorno aveva vissuto la sua maternità fra alti e bassi, affrontando i cambiamenti fisiologici di suo figlio più evidenti e altri non percepiti. Viene catapultata in una realtà a cui nessuno, nemmeno l’istinto materno prepara: suo figlio ha quasi ucciso un uomo. Nella pratica diventa una sorta di assistente legale, un ponte fra tribunali, comunità e carcere. Un luogo, quest’ultimo, che aveva visto soltanto in televisione. È anche la madre di un’altra figlia adolescente, a cui deve preservare il diritto alla felicità in un contesto sociale che difficilmente si mostra indulgente. Capisce di dover fare di più e così, malgrado i dolori siano imparagonabili, scrive a Claudia. Non cerca il suo perdono, ma chiederglielo, anche senza risposta, è un dovere che sente nel profondo. Claudia sta gestendo l’inferno, la depressione, la sofferenza di suo figlio e l’elaborazione di un lutto, mentre suo marito fisicamente è ancora presente, attaccato ai macchinari, ma in realtà non può più sentirla. Quella lettera riaccende una luce, ammorbidisce la rabbia e le due donne si avvicinano perché si riconoscono attraverso il dolore. Il perdono si ottiene con la verità, la conoscenza e la responsabilità. Antonio muore dopo tredici mesi di coma e Matteo riceve una condanna per omicidio, prima all’ergastolo e poi ridotta a vent’anni di reclusione. C’è chi esulta: giustizia è fatta. Tutti pensano, infatti, che è in quel momento che si ottiene la giustizia. Quando il mostro è in cella ed è possibile dimenticarsi di lui, buttando la chiave. Tutti lo pensano, tranne le due donne ormai avvitate l’una all’altra. Claudia prova un male fisico e uno nell’anima, dettato dalla certezza che nessuno le avrebbe riportato indietro suo marito. “È davvero così che si spegneranno le nostre vite da oggi, senza rimettere in circolo l’amore e con una condanna che di fatto ti dimostra che uno vale uno?”. Una seconda possibilità è una speranza che non andrebbe mai tolta a nessuno, nemmeno in carcere, luogo che non deve ammazzare, ma riabilitare. Ed è quello che fa Claudia quando perdona Matteo iniziando con lui un percorso di riconciliazione. Le due madri, ormai amiche, hanno creato un’associazione dal nome Amicainoabele per connettere le famiglie delle vittime e quelle dei detenuti. Matteo sta scontando la sua pena, si è laureato e ha compiuto un lungo percorso che l’ha reso diverso. Lavora per aiutare i minori detenuti a recuperare le loro esistenze, con don Claudio, fondatore dell’associazione Kayrós. Un’opportunità attraverso le arti in modo che un ragazzo migliori la versione di sé stesso. Ha anche costituito una casa discografica a sostegno di giovani artisti: Attitude Recordz. Il passato non si cancella, ma ogni vita ha un valore. Il consumarsi inascoltato dell’ultima generazione di Walter Veltroni Corriere della Sera, 29 gennaio 2023 Per gli adolescenti di oggi il futuro non è passato, semplicemente non esiste. Si sentono l’ultima generazione e non capiscono il disinteresse del mondo a proposito del proprio ultimo destino. “Il futuro è già passato” diceva Vittorio Gassman in “C’eravamo tanto amati”. Mi ha fatto pensare a quella frase il nome del movimento di ragazzi che conduce con gesti che oltre ad essere sbrigativamente condannati si prestano ad essere compresi, come il lancio di liquidi lavabili contro opere d’arte protette per richiamare l’attenzione del mondo sulla tragedia ambientale in corso. Quel gruppo di ragazzi si chiama “Ultima generazione”. Quel nome, più che i gesti comunque nonviolenti, meriterebbe di essere capito. La sensazione che i nostri ragazzi hanno è proprio questa. Per Gassman e la generazione della Resistenza il futuro “già passato” era il consumarsi, fino al tradimento, dei sogni di un mondo migliore, era il “volevamo cambiare il mondo e il mondo ha cambiato noi”. Per gli adolescenti di oggi il futuro non è passato, semplicemente non esiste. Si sentono l’ultima generazione e non capiscono il disinteresse del mondo a proposito del proprio ultimo destino. Possibile che gli adulti non capiscano il dolore che sale dai comportamenti, dalle parole, dai silenzi, dalle porte chiuse dei ragazzi del nostro tempo? Su questo giornale, nei primi giorni del lockdown, richiamammo l’attenzione, allora giustamente concentrata a scongiurare il destino di morte degli anziani, sulle conseguenze che un lungo periodo di isolamento avrebbe avuto sui ragazzi. La privazione di ogni forma di socializzazione, il rinculare nella dimensione familiare e domestica proprio nel tempo biologico del vitale distacco da essa, la rinuncia obbligata al rapporto con gli altri, alle feste, ai baci, alle partite di calcio, ai cinema e alle feste di compleanno… la scuola ridotta a un’esperienza individuale, privata della dimensione di incontro, scambio, relazione. Come si poteva pensare che tutto questo non avesse conseguenze sulla vita di ragazzi ai quali sono stati sottratti quei momenti irripetibili della vita che, tutti lo sappiamo, sono racchiusi in quel fazzoletto di anni della vita di ciascuno? Da mesi assistiamo all’esplodere delle conseguenze stoltamente non previste e non prevenute di questa inedita condizione nella storia dei giovani. Si ripetono quotidianamente fatti di cronaca che ogni giorno riempiono giornali e televisioni. Ormai al centro di molti dei casi di violenza, anche efferata, sono ragazzi di quindici anni o anche più piccoli. Violenze individuali o di gruppi, atti brutali come il cercare di gettare un proprio coetaneo sotto un treno o spaccare a colpi di pietra la testa a un ragazzo del Bangladesh per rapinarlo, nei pallini di pistole sparati contro una professoressa… Sono i dati ad inchiodare alla realtà: dal Covid in poi gli omicidi compiuti da minorenni sono aumentati del 35,3%, le percosse del 50, le rapine del 75,3, le rapine per strada del 91,2. E poi gli incidenti stradali che mietono vittime adolescenti e il consumo di alcol e droghe che gli esperti dicono essere in aumento specie tra i giovanissimi. Serve altro? Sì, servirebbe un minimo ascolto della voce dei medici degli ospedali, degli psicologi, degli insegnanti, dei genitori che raccontano delle mutazioni di carattere e di comportamento di molti ragazzi, della tendenza a isolarsi e a vivere con grande fragilità tutto quello che li circonda. L’Hikikomori, la pratica della separazione dal rumore del mondo, è entrata nelle stanze di molti, troppi adolescenti. Non è solo il Covid la causa di questo mal di vivere. C’è il senso di una cupezza che tutto avvolge e rende precario. La situazione economica dei genitori e quindi propria, il tramonto dei sogni collettivi, politici o religiosi, che forniscono senso, la sensazione che il mondo dei dinosauri non si accorga della catastrofe naturale in atto e che guardi lo scioglimento dei ghiacciai o le temperature più alte della storia con la stessa attenzione che rivolge al gossip. Davvero non si può far nulla? Non si può ripensare al ruolo e alla funzione della scuola, anche come luogo fisico di socializzazione, non si può supportare genitori e insegnati smarriti con il necessario aiuto psicologico, non si può moltiplicare ogni forma di incentivo alla vita culturale, sportiva, associativa? In ogni caso, perché le migliori menti del nostro paese, magari sollecitate da governo e parlamento, non cercano soluzioni? I ragazzi si sentono l’ “ultima generazione”. Facciamo in modo che non abbiano ragione. Migranti, lo stallo della Geo Barents di Niccolò Zancan La Stampa, 29 gennaio 2023 La nave con 237 persone a La Spezia ma i tre salvataggi in mare violano il decreto del governo. I soccorritori: “Sarebbero morti tutti”. Scende una bambina dalla nave. Arriva dal Mali. Ha un sorriso talmente irresistibile e uno stupore così meravigliato, che da terra scoppia un applauso. “Benvenuta”, dice un uomo della Croce Rossa con le lacrime negli occhi. Alle 15.03 del 28 gennaio, dopo tre salvataggi davanti alle coste della Libia e 1400 chilometri di navigazione punitiva, la nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere ha attraccato al porto di La Spezia portando in salvo 237 persone, di cui 87 minorenni e anche una bambina di 11 mesi. Su quella bambina, tirata fuori dalle onde al terzo salvataggio consecutivo, si combatterà adesso la battaglia decisiva fra il governo italiano e le Ong. Perché secondo il decreto legge firmato dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni, proprio quella bambina non doveva essere tratta in salvo. Nessuna nave delle Ong può fare salvataggi multipli. Questo dice il decreto: non può cambiare rotta. Immediatamente dopo il primo soccorso, ha l’obbligo di puntare verso il porto assegnato. Le Geo Barents non lo ha fatto. “Dopo aver concluso la prima operazione di salvataggio alle cinque di pomeriggio del 24 gennaio, stavamo puntando verso nord, in direzione del porto di La Spezia, così come ci era stato ordinato. Ma alle 3.40 del mattino del 25 gennaio, mentre ancora navigavamo nelle acque fra la Libia e le coste della Sicilia, abbiamo ricevuto un’altra richiesta di soccorso. Quindi abbiamo invertito la rotta. Di nuovo a sud”. Il capo missione Juan Matias Gil sa perfettamente che proprio questo tipo di virata è proibita dalle nuove norme sui salvataggi. Non si può fare. Ma è convinto, assieme a tutto l’equipaggio, che ci sia una disposizione internazionale di valore superiore: la legge del mare. Quella che impegna i naviganti, anche moralmente, a non lasciare nessuno in condizioni di pericolo. “Alle 6.51 del 25 gennaio abbiamo affiancato un’altra imbarcazione in grave difficoltà in mezzo al mare in corrispondenza della città libica di Zuara e siamo intervenuti, poi alle 11.51 di quello stesso giorno siamo arrivati sul punto del terzo soccorso. A bordo di un gommone carico all’inverosimile c’era la bambina che piangeva, la bambina di 11 mesi abbracciata alla mamma di 17 anni”. Adesso cosa succederà? Questa è la domanda: il governo multerà l’equipaggio di Geo Barents? Porrà questa nave dei soccorsi sotto sequestro? Ieri era difficile capirlo. Mancavano le risposte. Perché nessuno si era mai ritrovato prima in una situazione del genere. I giornalisti erano tenuti a debita distanza, su una terrazza da cui si vedeva il traffico delle merci. Il porto e le cave imbiancate di Carrara. I container. E la Geo Barents, finalmente, attraccata a Calata Artom. Lì c’erano le tende per i primi controlli medici: casi di scabbia, ustioni, un’intossicazione, una gamba frattura, molto sfinimento. “Hanno occhi che fanno capire tutta la sofferenza attraversata”, diceva un soccorritore. La prefetta di La Spezia, Maria Luisa Inversini, chiamata dal nuovo decreto a prendere le decisioni sul caso, non si è sottratta alle domande: “È una situazione nuova. Ci vuole tempo. Gli accertamenti tecnici non sono ancora incominciati, saranno molto complessi. Finché non c’è un verbale io non ho alcun elemento di valutazione”. A chi tocca accertare? “Non alla prefettura. Magari alla polizia o alle autorità portuali. Non lo so. Non basta che l’equipaggio abbia dichiarato di aver fatto tre soccorsi, servono riscontri ufficiali prima di una decisione nel merito”. Lei cosa pensa che sarebbe giusto fare in questo caso? “Io sono una funzionaria dello Stato e applico le leggi dello Stato, ma aggiungo che per nove anni mi sono occupata di protezione internazionale e posso assicurare che sarà garantito il massimo rispetto dei diritti di tutti”. Così dopo Salerno, dopo Ravenna e dopo Ancona, il porto scelto dal governo è stato quest’altro, anch’esso molto lontano, di La Spezia. Il primo amministrato da una giunta di centrodestra. Il sindaco si chiama Pierluigi Peracchini: “Ho chiesto aiuto al ministro dell’Interno Piantedosi, e l’aiuto è arrivato immediatamente. Questa città si mostrerà all’altezza della solidarietà umana che serve. Sul fermo amministrativo della nave tocca alla procura decidere, non a noi. Noi abbiamo cercato di organizzare al meglio l’accoglienza”. Dopo le visite mediche, le 237 persone arrivate a La Spezia hanno passato la notte nella vecchia sede della agenzia delle dogane. Brande azzurre, cibo, acqua calda. Al piano di sopra i minori e le famiglie, anche quella bambina partita dal Mali. Ma per quasi tutti i migranti è già stata trovata una sistemazione altrove - ecco l’aiuto del ministro Piantedosi - in diverse regioni del Nord. Quando ormai era notte, Riccardo Gatti, il responsabile dei soccorsi della Geo Barents, ripensava a quello che aveva appena vissuto in mare: “La bambina piangeva. Erano in cento su quel vecchio gommone. Erano ustionati dalla benzina e intossicati. Stava arrivando il maltempo. Il pericolo era concreto e imminente. Sarebbero morti tutti. Cosa avremmo dovuto fare?”. Al governo italiano l’onere di questa risposta. L’America scende in piazza per Tyre Nichols di Luca Celada Il Manifesto, 29 gennaio 2023 Il video del pestaggio mortale di Tyre Nichols a Memphis documenta quella che è sostanzialmente l’aggressione di un branco. Fermato a 100 metri da casa per una presunta infrazione stradale il giovane viene immediatamente aggredito dagli agenti che imprecando lo tirano giù di forza dall’auto. Le botte iniziano da subito, poi scariche di taser. Terrorizzato Nichols tenta di fuggire. Viene nuovamente raggiunto poco lontano dove inizia un terrificante pestaggio da parte dei cinque agenti che a turno usano manganelli, calci e pugni per ridurre il ragazzo ventinovenne in fin di vita. Passeranno poi quasi 20 minuti prima che gli vengano somministrate le prime cure; il decesso sopraggiungerà tre giorni dopo. I giovani poliziotti che si sono accaniti sul giovane dall’esile fisico sono Demetrius Haley, Desmond Mills Jr., Emmitt Martin III, Justin Smith e Tadarrius Bean, ognuno oltre 90kg di peso, due di loro ex giocatori di football americano. Tutti sono stati licenziati ed incriminati per le loro azioni. Licenziati anche due sceriffi e due addetti al pronto intervento, per omissione di soccorso. Le ultime parole proferite da Nichols sul selciato a pochi passi da casa, dove lo attendeva il figlio di quattro anni, sono state “mamma”. “Potete capire come mi possa sentire adesso”, ha dichiarato la donna dopo aver visionato il video del figlio massacrato. “Lui mi chiamava e io non ho potuto fare niente per aiutarlo”. Malgrado il timore per possibili disordini, le manifestazioni di protesta tenute in molte città americane dopo la pubblicazione del video sono state pacifiche. Vi sono stati comizi e veglie in memoria della vittima a Washington, New York, Los Angeles e Portland. A Memphis la protesta ha chiuso per qualche ora un ponte autostradale sul Mississippi. La nazione intanto è stata rimessa di fronte a una storica piaga. A Los Angeles Lora Dene King si è asciugata le lacrime guardando le immagini provenienti da Memphis. Suo padre, Rodney King, fu protagonista di un altro filmato in cui veniva selvaggiamente picchiato da un gruppo di agenti della polizia di La nel 1991. Quel documento inaugurò l’era dellaripresa video delle violenze di polizia che da lì in poi vide un numero sempre maggiore di episodi catturati su video da testimoni, ed ora sempre più spesso dalle telecamere che gli agenti sono tenuti ad indossare sulla divisa. Un archivio sempre più vasto di soprusi che dopo le uccisioni di Trayvon Martin, Eric Garner e Mike Brown e molti altri dopo il 2014 contribuì alla nascita di Black Lives Matter. Ma dieci anni dopo, a 32 anni dal caso Rodney King, tre anni dopo le vaste proteste per la morte di George Floyd, prosegue il macabro stillicidio di vittime - prevalentemente di colore - cadute sotto i colpi di poliziotti violenti. Dieci giorni fa si è aggiunto al novero il parente di una fondatrice del movimento Blm, Keenan Anderson, cugino di Patrice Cullors. Ha ricordato ieri Alexandra Ocasio Cortez: “L’anno scorso i morti per polizia sono stati 1.176, dobbiamo porre fine a questo circolo vizioso”. La lista infinita di vittime racconta una disfunzione tutta americana per cui il paese -come per il parallelo paradosso delle stragi da arma da fuoco - non sembra in grado di trovare una soluzione. Nel caso delle pistole, pesa la venerazione delle armi da fuoco come simulacri costituzionali di un “divino diritto americano” al porto d’armi. La cultura di polizia è invece legata ad una concezione punitiva dell’ordine pubblico utilizzato come strumento controllo sociale. Entrambe le problematiche hanno radici storiche nella disuguaglianza e congenita violenza insita nella società. Ed ogni cambiamento viene regolarmente contrastato da una forte componente conservatrice. La riforma proposta dopo il caso Floyd per rimuovere l’immunità di fatto degli agenti è stata approvata dalla Camera ma si è arenata in Senato. Biden ha rinnovato l’appello ad adottarla ma il Gop è compatto nell’opposizione ed ha anzi strumentalmente alimentato la psicosi del defund the police come ennesimo finto complotto per compattare la base conservatrice contro “sinistra e stato profondo”. Rimangono così invariate le cause profonde del problema: un’ordine pubblico fondato sulla militarizzazione degli agenti ed un addestramento che istilla sospetto, ostilità e una mentalità da forze di occupazione, soprattutto nei confronti delle comunità emarginate. Usa, cortei per il pestaggio a morte di un afroamericano: “A Memphis, agenti neri e razzisti” di Paolo Mastrolilli La Repubblica, 29 gennaio 2023 Biden: riformiamo la polizia. I 5 poliziotti agenti dalle telecamere sono stati già puniti: licenziati e incriminati per omicidio. Le proteste ci sono state, da New York a Los Angeles, ma per la maggior parte pacifiche, tranne qualche arresto. I cinque poliziotti responsabili della morte di Tyre Nichols sono stati subito licenziati, e poi incriminati per omicidio, in attesa ora del processo. L’America ha condannato e il presidente Biden ha definito la tragedia di Memphis “oltraggiosa”, promettendo di rimettere mano alla riforma delle forze dell’ordine, senza però abolirle o privarle dei soldi di cui hanno bisogno per esistere. È possibile, allora, che la morte di un ragazzo nero di 29 anni preso a pugni e calci diventi il nuovo paradigma per risolvere l’emergenza razziale, e quella delle violenze insensate delle varie polizie negli Usa? Magari sì, perché il progresso in questo Paese è sempre passato attraverso prove dolorose e sanguinose, dalla Guerra Civile agli omicidi di leader come Martin Luther King. A patto però di tenere presente che proprio il razzismo potrebbe essere alla base della reazione diversa da quelle seguita al soffocamento di George Floyd a Minneapolis, e di non dimenticare che in Stati come la Florida il governatore DeSantis ha appena abolito i corsi scolastici per l’approfondimento della storia degli afroamericani, perché è meglio non imbarazzare i giovani studenti bianchi ricordando che i loro avi avevano costruito il Paese sulle spalle degli schiavi trascinati qui in catene dall’Africa. Tyre era un ragazzo di 29 anni, che viveva a Memphis e lavorava alla FedEx. Il 7 gennaio stava tornando a casa dalla madre in auto, quando gli agenti dell’unità Scorpion lo avevano fermato per una violazione del codice della strada. Lo avevano massacrato di botte e il 10 gennaio era morto in ospedale. Venerdì sera la polizia ha pubblicato quattro video di oltre un’ora, ripresi dalle telecamere di sicurezza nella strada e da quelle indossate dagli agenti. L’America li ha guardati, attonita. I cinque poliziotti responsabili dell’assalto, Tadarrius Bean, Demetrius Haley, Justin Smith, Desmond Mills ed Emmitt Martin, hanno sostenuto che Tyre aveva cercato di rubare le loro pistole, ma di questo nelle immagini non c’è traccia. Invece si vedono loro che lo trascinano fuori dall’auto. Lui non resiste: “Ok, sono a terra”. Ma gli agenti continuato a strattonarlo: “Non ho fatto nulla”. Ma un poliziotto urla: “Tase him! Tase him!”, colpitelo con le scosse della pistola elettrica. Tyre ripete: “Sono a terra. Ragazzi, state facendo troppa roba ora. Io sto solo cercando di andare a casa”. Gli spruzzano un liquido urticante e lui cerca di scappare. Lo riprendono e inizia il pestaggio. Un polizotto urla: “Adesso ti bastono a morte”. E lo fa. Altri lo prendono a calci e pugni, mentre Tyre urla e chiede aiuto alla mamma. Finché sviene, le mani legate dietro la schiena. Il video è difficile da guardare e ieri sera ha scatenato cortei in tutto il paese, a partire dal blocco del ponte sull’autostrada I-55 di Memphis. La famiglia di Nichols aveva chiesto di protestare in maniera pacifica, ed è stata accontentata. Ma perché? Benjamin Crump, avvocato dei diritti civili, ha commentato: “Mai vista una giustizia così veloce. È il paradigma per il futuro, che i poliziotti siano neri o bianchi”. Messaggio sott’inteso: forse stavolta la giustizia è stata così veloce solo perché i colpevoli erano afroamericani, come la vittima. Se fossero stati bianchi magari erano ancora liberi, e i manifestanti avrebbero messo la città a ferro e fuoco. E poi sarà vero che stavolta la razza non c’entra perché i protagonisti erano tutti neri? Il professore Shaun Harper della University of Southern California ha scritto che non è così, perché il pregiudizio contro gli afroamericani è così radicato nelle forze dell’ordine, che viene fatto proprio anche dagli agenti neri. Ma vista la storia recente, non dovremo aspettare molto per capire se qualcosa cambia sul serio. Palestina. Dopo il crollo di Fatah e Hamas campo libero per “l’Intifada dei bambini” di Francesca Borri La Repubblica, 29 gennaio 2023 I giovani palestinesi seguono più i social che i leader storici. Così si rischia lo scontro totale. L’ultimo che ha sparato - ieri mattina, ferendo due israeliani, un padre e un figlio - aveva 13 anni. E quando leggerete queste righe forse sarà già il penultimo. Un tempo avrebbe girato un video con la kefiah in testa e la bandiera alle spalle. E avrebbe lasciato un messaggio al mondo. Invece ha lasciato un biglietto alla madre: e andando a scuola, è andato ad attaccare gli israeliani. Con 234 morti, il 2022 è stato l’anno più brutale dalla Seconda Intifada. E il 2023 è iniziato peggio. Con oltre un morto al giorno. Ma in realtà, quella che sta diventando la Terza Intifada non è cominciata così. Il primo dei morti è morto di leucemia. Saleem Nawati era di Gaza, e aveva 16 anni quando il 26 dicembre 2021 è arrivato a Nablus per la chemioterapia, per cui Gaza non ha strutture. Ma gli è stato negato il ricovero. A Nablus, e poi, via via, in tutti gli altri ospedali. Mentre Hamas, che controlla Gaza, e Fatah, che controlla la Cisgiordania, battibeccavano su chi dovesse pagare il conto, gli sono passati davanti tre pazienti con amici altolocati nell’Autorità palestinese. È morto il 9 gennaio a Ramallah. Nel ministero della Sanità. Vicino al cantiere del Khaled al-Hassan, il nuovo centro tumori. Fermo per mancanza di fondi. O, più esattamente, per assenza di fondi: i primi 10 milioni di dollari stanziati sono spariti. Poco dopo, a Nablus, Ibrahim al-Nabulsi ha fondato i Lions’ Den. La Fossa dei Leoni. Chiamando i suoi coetanei alla rivolta. Aveva 16 anni. È stato incenerito da un drone il 9 agosto. E ora i ragazzi di Nablus, M16 a tracolla, ti dicono: “Ma non è morto. Ibrahim sono io”. Mentre tutta l’attenzione è per l’Ucraina, in Medio Oriente sono franati gli Accordi di Oslo, siglati da Rabin e Arafat nel 1993: con l’impegno a un’intesa definitiva entro cinque anni. I palestinesi sono tornati alle armi. A Nablus, a Jenin. A Gerusalemme. E questa volta, indipendentemente da Fatah e Hamas. Perché le ultime elezioni sono state nel 2006. Il mandato di Mahmoud Abbas, il presidente, è scaduto nel 2009. Ed è quella che ormai molti bollano come: la doppia occupazione. E se a Ramallah non si vota mai, di là dal Muro si vota sempre: in Israele si è votato cinque volte in quattro anni. Benjamin Netanyahu è di nuovo primo ministro, ma ora la sua maggioranza dipende dai coloni, che dagli Accordi di Oslo sono tre volte di più, e dagli ultra-ortodossi, che hanno un tasso di crescita che è il doppio di quello nazionale, e sono già il 13 per cento della popolazione. Il neo ministro alla Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, fu esonerato dalla leva perché ritenuto troppo radicale. Troppo pericoloso. Le manifestazioni oggi non sono più nella Cisgiordania. Sono a Tel Aviv. Al momento, tutto è possibile. L’escalation cercata dagli estremisti, ma anche l’opposto. Perché in concreto escalation significa la dissoluzione dell’Autorità palestinese. E cosa accadrebbe allora? La Cisgiordania ha 3 milioni di abitanti, Gaza 2 milioni: si avrebbero 5 milioni di palestinesi allo sbando. Gli israeliani sono 9 milioni: ma 2 milioni sono arabi israeliani. Si rischierebbe l’uno contro uno. Strada a strada. Perché poi il dato che più conta è un altro: l’età media dei palestinesi è 21 anni. Il 38% ha meno di 15 anni: questa è l’Intifada dei bambini. Quali che siano gli obiettivi di chi è al potere, le analisi e le strategie, sul terreno ormai è un’altra storia. I coloni sono un po’ uno Stato nello Stato. E infatti, dopo l’attacco alla sinagoga, Netanyahu ha subito raccomandato agli israeliani di non farsi giustizia da soli. Mentre i palestinesi non seguono più Fatah o Hamas, o la Jihad Islamica, seguono Instagram. Seguono TikTok. I padri gli ricordano la Seconda Intifada, e lo squilibrio di forze, gli ricordano che i proiettili a stento graffiano i blindati: un M16 è cerbottana davanti agli F-35. Spari, e vieni sparato. Vieni ucciso. Tutto qui. Ma i figli passano le sere al cimitero, tra le tombe degli amici, e ti dicono solo: tanto, questa non è vita. Su Telegram, i Lions’ Den avevano 230mila follower, poi l’account è stato bloccato: più di Fatah e Hamas insieme. Non che Fatah e Hamas siano fuori dai giochi, ovviamente - da dove arrivano le armi? Ma stanno dietro le quinte. Perché Mahmoud Abbas ha 87 anni: prima o poi verrà meno. Prima o poi, sarà la resa dei conti. E a ottobre Hamas, che durante la Primavera araba si è schierata con la Turchia, si è riconciliata con Assad: e cioè si è riallineata all’Iran. Il principale alleato della Russia in Medio Oriente. Sono gli effetti dell’Ucraina. Degli spazi di manovra aperti da Putin nel tentativo di creare un nuovo ordine internazionale. Un nuovo disordine internazionale. Perché poi, per ora, l’unica certezza è che chiunque, all’improvviso, può decidere che ne ha abbastanza. E fare fuoco. In cerca non della pace, ma di un like su Facebook. Kenya. Dadaab, la città-prigione dei profughi somali di Francesca Mannocchi La Stampa, 29 gennaio 2023 Baracche per chilometri nel deserto, oggi il campo è il terzo insediamento del Paese. Così la temporanea emergenza del campo profughi è diventata una crisi permanente. “In trent’anni sono nati figli e nipoti, senza cibo né acqua. Qui tutto resta immobile”. C’è una parola che risuona spesso tra le strade di una delle zone più aride del Kenya, suona così: buufis. L’ha coniata chi vive qui per esprimere un dolore, il desiderio pressante di essere altrove, in un futuro impossibile che metta il presente nell’ombra. Il senso di questa parola si vede meglio dall’alto, volando da Nairobi con un aereo delle Nazioni Unite verso il confine con la Somalia. Dopo centinaia e centinaia di chilometri di deserto, in una zona secca lontana dalle città, dai corsi d’acqua, lontana dall’oceano, cominciano a comparire tende e baracche che si estendono a perdita d’occhio per cinquanta chilometri quadrati finché e tra loro, man mano che l’aereo si avvicina a terra, si vedono le ombre che li abitano, trecentomila persone, per lo più somale, scappate qui in cerca di rifugio. Il posto del buufis, della nostalgia di un futuro impossibile, è Dadaab, uno dei campi profughi più grandi del mondo, costruito nel 1991 per i somali in fuga dalla guerra civile seguita alla destituzione del presidente Mohamed Siad Barrè e diventato simbolo dei destini soffocati, delle crisi prevedibili e mai previste, della distrazione occidentale. I luoghi come Dadaab nascono, sulla carta, per fornire una “protezione in strutture temporanee e garantire assistenza immediata alle persone costrette a fuggire a causa di guerre, persecuzioni o violenze”, recita così, almeno, la definizione che le Nazioni Unite danno ai campi profughi. Poi capita che le emergenze si trasformino in crisi croniche e di solito, a quel punto, capita che il mondo si distragga, e la temporanea emergenza del campo profughi diventi una crisi permanente, e le persone che avrebbero dovuto essere aiutate a ricostruire le proprie vite diventino dipendenti dagli aiuti umanitari. Così oggi Dadaab, il campo nato per tamponare la fuga dei somali in guerra, è il campo delle tre generazioni: dei padri, dei figli e dei figli dei figli. “Il campo è l’unica casa che conosciamo” - Jama Muhammad Osman ha 54 anni, quando è scappato dalla Somalia ne aveva 22. Era il 1991, era iniziata la guerra civile. Jama Muhammad era sposato, aveva un figlio e una bottega. Ha abbandonato il lavoro e la casa, ha camminato per giorni con sua moglie e il figlio e ha trovato posto in una delle tende di Dadaab, abbastanza lontano per sentirsi al sicuro, abbastanza vicino per tornare indietro il prima possibile. Ha pensato, come tutti quelli che scappano, che prima o poi sarebbe tornato a casa. Sono passati gli anni, Jama Mohammed a casa non è mai tornato, ha avuto altri quattro figli nati nel campo profughi, che a loro volta hanno avuto figli nati nel campo profughi. Il ricordo peggiore che ha risale a una notte “a metà della permanenza”, quindi quindici anni fa. Una delle figlie più piccole piangeva per la fame, lui non aveva niente e, nell’impotenza, l’unica cosa che poteva fare era rimanere sveglio accanto a lei che piangeva fino all’arrivo della luce del giorno. Quel ricordo, rimasto vivido nella sua memoria è il segno del tempo che passa a Dadaab, il marchio comune di ogni generazione: la fame. Negli anni la tenda di stracci e rami in cui viveva è diventata una baracca di lamiera ondulata, Jama Muhammed ha imparato a chiamarla casa, per i suoi figli e nipoti, invece, la baracca di lamiera è la sola casa mai conosciuta. Jama Muhammad dice che i suoi figli nati in esilio non sanno niente della Somalia ma che per lui è persino peggio, perché se tornasse lì, oggi, sarebbe straniero a casa sua. Però resta straniero anche a Dadaab, la terra che lo ha accolto ma poi lo ha confinato a una vita che dipende dagli aiuti umanitari e dalla speranza che le razioni non vengano tagliate come è successo a metà degli anni duemila, quando non c’era da mangiare per tutti e di notte i bambini piangevano per la fame. Il Kenya ospita più di mezzo milione di rifugiati e richiedenti asilo nei campi profughi di Dadaab e Kakuma da oltre tre decenni, numeri che rendono quella kenyota la più grande popolazione di rifugiati in Africa dopo l’Etiopia. Uno sforzo significativo che nasconde un altro volto: l’approccio del governo di Nairobi è stato dal principio quello del confinamento, spostare i profughi in una zona semi arida, lontana dai centri urbani, un po’ per evitare scontri con la popolazione locale, un po’ per disincentivarli a restare. A questo principio rispondono le regole che vietano a chi vive a Dadaab di entrare e uscire liberamente dal campo, e di costruire un edificio permanente. Il principio è: se non li lasciamo costruire, prima o poi se ne andranno. Invece i principi si sono scontrati con la realtà che porta il titolo di guerra, terrorismo, siccità e fame, così sono passati trent’anni, le case non sono di mattoni e cemento, non ci sono le fogne né l’acqua, ma le tende hanno lasciato posto alle baracche permanenti e Dadaab è diventata una città, per estensione, la terza del Kenya dopo Nairobi e Mombasa. La comunità somala ha costruito le proprie moschee, le botteghe, le scuole, a Daadab si nasce, e si cresce, si celebrano matrimoni e si seppelliscono i morti, i blocchi di baracche hanno un nome come fossero quartieri, in una grande illusione collettiva che la vita possa essere uguale a quella fuori dal campo, che possa essere una vita normale. Invece non lo è. Se sei nato qui e qui hai sempre vissuto non hai un prima né un dopo, non sei né dentro né fuori, la tua identità, come la tua vita è sospesa. Chiudere o migliorare? Il dilemma umanitario - Nel 2015, dopo l’attacco terroristico nella vicina città di Garissa, quando al Shabaab uccise 150 persone, per lo più studenti universitari - il governo del Kenya ha minacciato di chiudere il campo, sostenendo che fosse una base di reclutamento e pianificazione di attentati. Minaccia ribadita nel 2019, e poi ancora la scorsa estate. Nel 2015 è partito un programma di rimpatrio volontario, cioè sussidi economici in cambio del ritorno in Somalia, nonostante le critiche delle organizzazioni umanitarie e delle corti internazionali. Secondo il diritto internazionale, infatti, i candidati al rimpatrio devono avere accesso a informazioni “oggettive, pertinenti e neutre” sul rientro. Consapevoli o meno più di 85.000 rifugiati somali hanno provato a tornare a casa nel 2015, ma da mesi stanno tornando indietro, perché la guerra è ancora lì, ha solo preso un’altra forma. È la paura di al Shabaab che si unisce a tre anni di piogge insufficienti, è la siccità che uccide le piante, poi gli animali e poi gli anziani e quando cominciano a morire i bambini le madri si rimettono in cammino. Fartun Ahmed Mohammed ha 21 anni e sei figli, il primo avuto quando ne aveva tredici. Nata e cresciuta in una famiglia di pastori era arrivata a Dadaab per la prima volta da ragazzina, è cresciuta nel campo e nel campo si è sposata poi ha provato far ritorno in Somalia coi rimpatri “volontari”. È di nuovo a Dadaab da quattro mesi con tutti i figli perché, dice, al Shabaab combatte contro l’esercito ma la povera gente non sa più chi sono gli uomini di al Shabaab e chi sia l’esercito. Così il campo continua ad allargarsi. Duecento, trecento persone al giorno, dice chi vive qui. Arrivano troppo in fretta per avere i numeri esatti, soprattutto perché il Kenya ha vietato la registrazione di nuovi rifugiati, ma senza registrazione non si ha accesso a servizi e assistenza di base, cioè agli aiuti alimentari. Così la gente aumenta e le organizzazioni umanitarie non sanno se portare cibo per 300 mila o 400 mila o mezzo milione di persone, il risultato è che il campo si espande ma arriva la stessa quantità di cibo, una torta divisa in fette sempre più piccole. Solo tra agosto e novembre 2022 il centro nutrizionale di IRC, International Rescue Committee, ha registrato un aumento del 147% nei casi di malnutrizione acuta grave. Da lontano la crisi del Corno d’Africa che sembrava svanita era solo diventata cronica, anche questa è un’illusione collettiva a cui è seguita una diminuzione preoccupante dei finanziamenti. Una formula che tradotta nelle immagini che restituisce il campo di Dadaab significa una latrina per 100, 150 persone, rubinetti da cui non esce acqua potabile e quando pure esce, dopo ore di coda sotto al sole a 39, 40 gradi, va razionata. Si possono portare via solo quattro, cinque litri al mattino e quattro, cinque litri la sera. Troppo poco per tutto, perciò si beve acqua sporca, da ottobre i casi di colera registrati nella regione sono stati quasi 500, molti dei quali bambini che vivono in una latrina a cielo aperto. Le crisi prevedibili e mai previste - Dadaab è una lezione non imparata. Racconta di previsioni che è già possibile fare, statistiche che già esistono e che dovrebbero portare la comunità internazionale a muoversi prima che sia troppo tardi. Secondo i dati del World Economic Forum entro il 2050 il cambiamento climatico potrebbe costringere più di 200 milioni di persone a migrare all’interno dei propri Paesi, spingendo fino a 130 milioni di persone in una condizione di povertà e polverizzando decenni di sviluppo. Dadaab racconta anche l’illusione tutta europea della migrazione africana che muove verso Nord, verso l’Europa. La verità, dati alla mano, è che la maggior parte dei movimenti migratori avviene all’interno del continente africano e che i dati dimostrano che sempre meno rifugiati riescono a tornare a casa dall’esilio. Le previsioni 2023 già mettono la Somalia al primo posto dei Paesi maggiormente a rischio di peggioramento delle crisi umanitarie, vuol dire che i Paesi donatori sanno da tempo che gli effetti delle crisi climatiche, della minaccia del radicalismo, della fame e della scarsità d’acqua peggioreranno. Eppure le risposte continuano a essere inadeguate e figlie di una vocazione all’azione che sa rispondere solo all’emergenza ma non pianificare interventi che durino nel tempo. Per questo quello a Dadaab è un viaggio che torna sempre al punto di partenza, in cui non sembra mai esserci via d’uscita e dopo trent’anni, dove finisce la lamiera ondulata, segno della presenza di chi abita questo luogo da decenni, iniziano di nuovo le tende fatte di rami e di stracci figlie delle vite in movimento degli sfollati che continuano ad arrivare e ancora continueranno, seguiti dall’eco della parola che dice impossibilità di scegliere il proprio destino, l’eco della parola buufis.